La tenerezza di Dio

https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1999/documents/hf_jp-ii_aud_20011999.html
GIOVANNI PAOLO II – LA “PATERNITÀ” DI DIO NELL’ANTICO TESTAMENTO
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 20 gennaio 1999
1. Il popolo di Israele – come abbiamo già accennato nella scorsa catechesi – ha sperimentato Dio come padre. Al pari di tutti gli altri popoli, ha intuito in lui i sentimenti paterni attinti all’esperienza abituale di un padre terreno. Soprattutto ha colto in Dio un atteggiamento particolarmente paterno, partendo dalla conoscenza diretta della sua speciale azione salvifica (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 238).
Dal primo punto di vista, quello dell’esperienza umana universale, Israele ha riconosciuto la paternità divina a partire dallo stupore dinanzi alla creazione e al rinnovarsi della vita. Il miracolo di un bimbo che si forma nel grembo materno non è spiegabile senza l’intervento di Dio, come ricorda il salmista: « Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre . . . » (Sal 139 [138], 13). Israele ha potuto vedere in Dio un padre anche in analogia con alcuni personaggi che detenevano una funzione pubblica, specialmente religiosa, ed erano ritenuti padri: così i sacerdoti (cfr Gdc 17, 10; 18, 19; Gn 45, 8) o i profeti (cfr 2 Re 2, 12). Ben si comprende inoltre come il rispetto che la società israelitica richiedeva per il padre e i genitori inducesse a vedere in Dio un padre esigente. In effetti la legislazione mosaica è molto severa nei confronti dei figli che non rispettano i genitori, fino a prevedere la pena di morte per chi percuote o anche solo maledice il padre o la madre (Es 21, 15.17).
2. Ma al di là di questa rappresentazione suggerita dall’esperienza umana, in Israele matura un’immagine più specifica della divina paternità a partire dagli interventi salvifici di Dio. Salvandolo dalla schiavitù egiziana, Dio chiama Israele ad entrare in un rapporto di alleanza con lui e perfino a ritenersi il suo primogenito. Dio dimostra così di essergli padre in maniera singolare, come emerge dalle parole che rivolge a Mosè: “Allora tu dirai al faraone: dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito” (Es 4, 22). Nell’ora della disperazione, questo popolo-figlio potrà permettersi d’invocare con il medesimo titolo di privilegio il Padre celeste, perché rinnovi ancora il prodigio dell’esodo: “Abbi pietà, Signore, del popolo chiamato con il tuo nome, di Israele che hai trattato come un primogenito” (Sir 36, 11). In forza di questa situazione, Israele è tenuto ad osservare una legge che lo contraddistingue dagli altri popoli, ai quali deve testimoniare la paternità divina di cui gode in modo speciale. Lo sottolinea il Deuteronomio nel contesto degli impegni derivanti dall’alleanza: “Voi siete figli per il Signore Dio vostro . . . Tu sei infatti un popolo consacrato al Signore tuo Dio e il Signore ti ha scelto, perché tu fossi il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra” (Dt 14, ls.).
Non osservando la legge di Dio, Israele opera in contrasto con la sua condizione filiale, procurandosi i rimproveri del Padre celeste: “La Roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato!” (Dt 32, 18). Questa condizione filiale coinvolge tutti i membri del popolo d’Israele, ma viene applicata in modo singolare al discendente e successore di Davide secondo il celebre oracolo di Natan in cui Dio dice: “Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio” (2 Sam 7,14; 1 Cron 17,13). Appoggiata su questo oracolo, la tradizione messianica afferma una filiazione divina del Messia. Al re messianico Dio dichiara: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (Sal 2, 7; cfr 110 [109], 3).
3. La paternità divina nei confronti d’Israele è caratterizzata da un amore intenso, costante e compassionevole. Nonostante le infedeltà del popolo, e le conseguenti minacce di castigo, Dio si rivela incapace di rinunciare al suo amore. E lo esprime in termini di profonda tenerezza, anche quando è costretto a lamentare l’incorrispondenza dei suoi figli: “Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore: ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare . . . Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? . . . Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11, 3s.8; cfr Ger 31, 20).
Persino il rimprovero diviene espressione di un amore di predilezione, come spiega il libro dei Proverbi: « Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signore e non aver a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto » (Pr 3, 11-12).
4. Una paternità così divina e nello stesso tempo così « umana » nei modi con cui si esprime, riassume in sé anche le caratteristiche che solitamente si attribuiscono all’amore materno. Anche se rare, le immagini dell’Antico Testamento in cui Dio si paragona ad una madre sono estremamente significative. Si legge ad esempio nel libro di Isaia: « Sion ha detto: ‘Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai » (Is 49, 14-15). E ancora: « Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò » (Is 66, 13).
L’atteggiamento divino verso Israele si manifesta così anche con tratti materni, che ne esprimono la tenerezza e la condiscendenza (cfr CCC, 239). Questo amore, che Dio effonde con tanta ricchezza sul suo popolo, fa esultare il vecchio Tobi e gli fa proclamare: “Lodatelo, figli d’Israele, davanti alle genti: Egli vi ha disperso in mezzo ad esse per proclamare la sua grandezza. Esaltatelo davanti ad ogni vivente; è Lui il Signore, il nostro Dio, lui il nostro Padre, il Dio per tutti i secoli” (Tb 13, 3-4).
http://www.naiot.it/LaParolaFile/AAVV/il_valore_del_perdono.htm
Una riflessione sul valore del perdono
FINO A SETTANTA VOLTE SETTE
Molte delle nostre relazioni (in famiglia, sul lavoro, nella chiesa) soffrono momenti di tensione e conoscono anche il dramma della loro rottura, a causa della nostra incapacità a perdonare. Questo è particolarmente grave per noi cristiani, perché sappiamo bene che la relazione che Dio ha stabilito con noi si basa proprio sul perdono. Non essere disposti a perdonare o ad accettare il perdono significa aver perso di vista il fatto che “Dio ci ha perdonati in Cristo”. Ma, oltre che a perdonare gli altri, Dio ci ricorda anche l’importanza di perdonare noi stessi: chi non riesce a perdonare sé stesso cade nella depressione e finisce con il distruggere la sua vita.
Introduzione
Ad un consulente matrimoniale fu chiesto quale fosse l’argomento più utilizzato per aiutare una coppia in crisi o sull’orlo del divorzio.
La risposta mi ha piacevolmente sorpreso:
”Parlo con loro sul significato del perdono. Molte coppie si accorgono di non aver compreso cosa realmente sia. Altre pur comprendendone il senso ammettono di non averlo mai praticato. Alcuni dicono di aver perdonato e poi scoprono che non è veramente così. Altri affermano di non avere nulla da farsi perdonare, ma non ho mai conosciuto nessuno che, in un rapporto di coppia, non avesse qualcosa da farsi perdonare. Poi ci sono gli irriducibili, da loro sento frasi del tipo – non lo perdonerò mai dopo tutto quello che mi ha fatto!- oppure – chiedergli perdono? Non l’avrà mai questa soddisfazione.- Di solito è questo tipo di persone che decidono successivamente di divorziare.”
Tutti riconosciamo l’importanza del perdono e la sua necessità in determinati momenti della vita. Il perdono costruisce i ponti più lunghi del mondo, esso è capace di unire sponde lontane, di superare voragini profonde, di mettere in comunicazione persone e luoghi fino allora isolati.
Il perdono può cambiare la geografia della nostra vita.
Tuttavia, al momento opportuno, dimostriamo di non averne ben capito il significato. Anche perché forse la parola perdono è andata in disuso, è diventata arcaica, poco usata nel nostro linguaggio. Si preferisce sostituirla con “scusa”, “mi dispiace”, “non volevo”, “non lo fatto a posta” e così via. Così facendo si rischia non solo di sostituire una parola con un’altra, ma anche di perderne il significato originale.
Proviamo a dare una definizione di perdono.
Perdono è l’atto del perdonare (questa e le altre definizioni sono tratte dal Dizionario Treccani della Lingua Italiana).
Questo non ci dice molto, però ci avverte che il perdono riguarda un’azione, significa fare qualcosa. La domanda da farsi è allora: “Che cosa è perdonare?”.
Se consultate uno o più vocabolari vi accorgerete che molteplici sono i significati e le definizioni che si attribuiscono al verbo perdonare (una parola contenitore).
• Non considerare il male ricevuto;
• rinunciare a qualsiasi rivalsa;
• reprimere e vincere il sentimento di rancore o d’ira verso chi ci ha danneggiato;
• annullare ogni risentimento verso l’autore del danno o dell’offesa;
• rinunciare alla punizione che si potrebbe dare per la colpa.
Considerando queste definizioni mi sono detto che, se il perdono significa tutte queste cose, allora è difficile realizzarlo pienamente e realmente.
Difatti esso non è un atto formale che si gioca sull’uso di frasi fatte, ma sostanziale, dove c’è qualcuno disposto a chiedere perdono senza accampare scuse e dove c’è qualcun altro pronto a concederlo senza condizioni.
Perdonare non è far finta di niente, al contrario vuol dire essere consapevoli dello sbaglio e non lasciare che questo rovini i rapporti con il nostro fratello o sorella, vicino, collega, amico ecc.
La Bibbia è il libro del perdono
Quando parliamo di perdono non possiamo non riferirci alla Bibbia. Per alcuni questo è il libro del peccato e dei giudizi di Dio. Spesso è descritto come la maggiore fonte di tabù che sia mai stata concepita. Eppure qualunque parte di questo libro considerate esso vi porta in un’unica direzione e ad una sola conclusione: lo scopo di Dio è quello di perdonare (Gv 3:16).
L’Evangelo, la buona notizia che ha permesso al cristianesimo di esplodere nell’Impero Romano nonostante la morte del suo fondatore, è stato l’annuncio del perdono di Dio (la grazia), in un mondo governato dall’odio e dalla legge del più forte.
Oggi come allora le persone hanno bisogno del vero perdono, anche chi non crede ne comprende l’importanza al fine di rendere le relazioni umane stabili e durature.
La Bibbia ci dice che il bisogno di perdono affligge gli uomini a causa della loro natura peccaminosa, che tende al male, a ferire, spesso in modo inconsapevole. Ciò provoca un malessere di fondo che molti hanno cercato di esprimere e di spiegare. Dice Paolo: ”…il male che non voglio, quello faccio…misero me…” (Ro 17:16) Ecco perché Dio ha rivelato la legge del perdono (leggi Romani 3:21-24).
Questa legge è superiore a quella dei comandamenti, perché è impossibile, a causa del peccato, obbedire a tutti i comandamenti, perciò quello che era impossibile realizzare attraverso l’applicazione delle regole e stato realizzato con il perdono.
E se Dio ha avuto bisogno del perdono dei peccati per ritornare a parlare al cuore dell’uomo, tanto più ne abbiamo bisogno noi nelle nostre relazioni umane.
Perciò dobbiamo ammettere che spesso le nostre azioni feriscono e rovinano il rapporto con le persone a noi più care (moglie, marito, figli, parenti, amici, colleghi ecc.) che diciamo d’amare e rispettare.
Solo il perdono può ristabilire relazioni ormai compromesse, esso ci permette di ripartire, di eliminare ostacoli fino ad allora insormontabili, di creare un nuovo rapporto, proprio come Dio fa con noi: “… rimetti a noi i nostri debiti come…”
Differenza tra misericordia e perdono
Siamo capaci di perdonare?
Qual è la prima cosa che pensiamo quando subiamo un grave torto?
Che facciamo quando subiamo un torto sempre dalla stessa persona?
Abbiamo già detto che il perdono non è un gesto istintivo, ma è spesso la soluzione estrema che non sempre si realizza. La Bibbia ci informa che c’è una condizione mentale che precede il perdono, essa è chiamata misericordia.
Leggevo l’intervista fatta ad un noto industriale sequestrato e poi liberato dopo un lungo periodo di prigionia, qualche anno fa, dopo aver pagato un ingente riscatto. Egli affermava di perdonare i suoi rapitori e aggiungeva che per lui era una necessità, per poter dimenticare le sofferenze e le violenze di quei giorni, per ritornare ad avere una pace interiore, senza farsi consumare dall’odio.
Si tratta di vero perdono?
Quando Gesù era sulla croce disse: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”(Lu 23:33); così dicendo Gesù intendeva perdonare a tutti gli effetti i suoi carnefici ?
Attenzione!! Non confondiamo l’essere misericordiosi con il perdonare. La misericordia è unilaterale e non richiede la partecipazione dell’altro. La misericordia ci libera dal rancore, dall’ira e dall’odio per il torto subito, ma il perdono è un’altra cosa.
La misericordia precede sempre il perdono. Si tratta di un atteggiamento del nostro pensiero, un sentimento che ci spinge a perdonare anche se le circostanze ci spingono a fare il contrario.
Spesso nella Bibbia troviamo misericordia e perdono usati come sinonimi perché, in realtà, dall’uno discende l’altro, ma è fondamentale coglierne la distinzione.
Da chi impariamo ad essere misericordiosi?
• “Io sono un Dio misericordioso” (Es 22:27).
• “Il Signore è pieno di compassione e di misericordia” (Gm 5:11).
• “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lu 6:36).
Il Dio della Bibbia ci insegna cosa vuol dire essere misericordiosi.
Non significa perdonare sempre e in ogni caso.
Non significa tollerare il peccato.
Non significa non giudicare o non far rispettare le regole.
Significa essere pronti a sospendere il giudizio, il giusto castigo, se vi è un segno di pentimento e di ravvedimento. Dire che Dio è misericordioso e perciò perdonerà tutti significa non aver capito il senso di questa qualità di Dio, che dovrebbe essere anche la nostra.
Andate su un qualsiasi vocabolario e leggete la definizione di misericordia:
“Sentimento di pietà e di comprensione che spinge al perdono”.
La misericordia ci spinge verso il perdono, ci predispone, ci prepara, ci fa comprendere ed amare colui che perdoneremo, ci libera dall’odio e dal rancore.
Quando la Bibbia ci dice di amare i nostri nemici o di volgere l’altra guancia, non vuol dire che dobbiamo perdonare sempre e in ogni caso (siamo forse migliori di Dio?), ma che dobbiamo usare misericordia, non rispondere al male con altro male, essere pronti a incontrare il nostro nemico se c’è in lui uno spiraglio di pentimento per quello che ci ha fatto o un desiderio di riconciliarsi con noi: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”. Guardate coloro che vi fanno del male come Gesù guardò dalla croce i suoi carnefici. Se impariamo a guardare così allora si realizzerà il vero perdono.
“Al Signore, che è il nostro Dio appartengono la misericordia e il perdono…” (Da 9:9).
Perciò non confondiamo le due cose, perché ciò potrebbe creare in noi l’idea che il misericordioso è uno che perdona sempre, che passa sulle cose sbagliate facendo finta di niente, un debole, che non sa far rispettare le regole.
Cosa accadrebbe se un genitore facesse capire al proprio figlio che qualunque cosa farà sarà sempre perdonato, senza subire il giusto castigo? Semplice, avremo un figlio che fa quello che vuole, giusto o sbagliato che sia e terrà in scarsa o nessuna considerazione il parere dei suoi genitori.
Un genitore misericordioso sarà pronto a perdonare il proprio figlio, ma non prima di averlo educato al rispetto delle regole attraverso la disciplina. Pur castigando a malincuore il proprio figlio egli non rinuncia ad amarlo, perché il fine ultimo della misericordia è far comprendere la gravità del peccato. Non è una questione di severità o di avere una educazione rigida.
Gesù accusava i farisei di trascurare le cose “…gravi della legge: il giudizio, la misericordia e la fede” (Mt 23:23) e in Osea 12:7 leggiamo: “…pratica la misericordia e la giustizia”.
Cos’è che rende possibili la giustizia e il perdono, cose in contraddizione fra loro? La misericordia.
Essa si nutre di verità e di giustizia, ma sa vedere all’orizzonte il perdono. Non è forse ciò che Dio ci mostra nella Sua Parola? “Poiché il Signore non ripudia in perpetuo; ma, se affligge, ha altresì compassione, secondo la moltitudine delle Sue benignità; giacché non è volentieri ch’Egli umilia ed affligge i figlioli degli uomini” (La 3:31-33).
Il vero perdono
Abbiamo compreso due aspetti importanti del perdono. Primo non è qualcosa di consueto che facciamo volentieri, secondo bisogna essere misericordiosi, cioè preparati, predisposti a perdonare.
Le Scritture ci dicono con semplicità e chiarezza quando si realizza il perdono:
“Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” 1Gv 1:9).
Secondo voi è più facile perdonare o essere perdonato? È più facile dimenticare, non considerare il torto subito, o riconoscersi colpevole e dire: Sono io che ho sbagliato!”. Entrambe sono situazioni nelle quali non vorremmo mai venirci a trovare. Entrambe richiedono umiltà e onestà.
Alcuni aspetti pratici possono chiarire meglio il senso di quanto si è detto.
• Se devi chiedere perdono.
Sappi che il vero perdono nasce da una confessione, dal riconoscimento della propria colpa, da un ravvedimento, un pentimento, dal desiderio di non voler più ripetere quello sbaglio. Il vero perdono si realizza quando sentiamo nel nostro cuore il bisogno di riconquistare la stima e l’affetto perduto a causa del nostro sbaglio. Per fare questo la Bibbia ci dice che dobbiamo confessare, non c’è un’altra possibilità. Spesso ci capita di partire decisi verso l’altro per chiedergli perdono, ma ci portiamo dietro bagagli carichi di giustificazioni. Senza rendercene conto forniamo a noi stessi una bella scusa per il nostro comportamento. Non “inganniamo noi stessi” con scuse più o meno valide, perché questo ci priverà di quella che è spesso l’unica soluzione possibile a sbagli ed errori non più rimediabili. Ricordiamoci che il Signore stesso ha condizionato il perdono dei peccati a un “se” e non sta a noi scegliere delle strade alternative per sperimentare il vero perdono.
• Se devi perdonare.
Se ti trovi dalla parte di chi ha subito il torto ricordati che non sei tu a decidere il tipo di confessione che farà chi ti ha danneggiato. Non sta a te giudicare se il pentimento è vero o falso. Spesso ci capita di pensare che le parole che l’altro ha usato per chiedere perdono sono insufficienti: “Avrebbe dovuto almeno dire che…”. Altre volte non ci basta la confessione, vogliamo vedere la persona umiliata: “Ti perdono però non pensare di cavartela così”.
Spesso, e questo accade frequentemente tra persone che vivono insieme, il torto che subiamo è sempre lo stesso e quella persona che ce lo fa torna ripetutamente da noi a chiederci perdono. Ci sembra quasi di essere presi in giro, ma ricordiamo allora quello che Gesù ci dice: “Badate a voi stessi! Se tuo fratello pecca, riprendilo e se si ravvede, perdonalo. Se ha peccato contro di te sette volte al giorno e sette volte ritorna da te e ti dice: – Mi pento – Perdonalo” (Lu 17:3-4).
Quando c’è un segno, una parola che ci indica pentimento non dobbiamo esitare, non perdiamo l’occasione, perdoniamo! Gesù disse al suo discepolo di perdonare anche “sette volte nello stesso giorno” e, se questo poteva essere un limite, troviamo Gesù che dice allo stesso discepolo “… fino a settanta volte sette” (Mt 18:21-22).
Proviamo a riflettere sulla parabola del figlio prodigo (Lu 15:11-32) e rispondiamo a queste domande:
In che cosa peccò il figlio prodigo?
Come si manifesta il suo pentimento?
In quali comportamenti vediamo la misericordia del padre?
Quando e come si realizza il perdono?
Perché il fratello maggiore non ebbe la stessa reazione del padre?
Il perdono non ha limiti. Quando c’è il pentimento e la confessione del peccato, Dio perdona sempre.
E noi? Abbiamo ancora qualche dubbio in merito?
Forse sì…
Perdonatevi gli uni gli altri
Le parole tendono spesso a semplificare, e dobbiamo ammettere che ci sono situazioni nelle quali e difficile stabilire chi ha commesso il torto e chi l’ha subito. In certe situazioni intricate ed equivoche sembra che tutti abbiano una buona dose di ragione e di torto nello stesso tempo. Questo si verifica a tutti i livelli: sul lavoro, per strada, fra amici, nella chiesa, anche e non raramente tra marito e moglie.
Provate a tirare un elastico dalle estremità. Esso pian piano si tenderà fino al suo punto di rottura e poi si spezzerà. I rapporti umani sono qualcosa di simile. A volte ci sentiamo molto vicini all’altro, altre volte errori e circostanze della vita ci allontanano, cosi la vita di relazione diventa come un elastico che si tende e si allenta. In certi momenti la tensione può salire fino a raggiunge un punto di rottura e “l’elastico” del nostro rapporto si spezza. Ma quando si spezza un elastico ha senso stabilire chi ha tirato di più? Tanto chi è rimasto fermo sulla sua posizione, mantenendo l’elastico, che colui che lo ha tirato dall’altro lato, hanno contribuito a far aumentare la tensione fino al punto di rottura. Entrambi sono responsabili, anche se ognuno ha avuto un comportamento diverso.
Quando una relazione si spezza è difficile, a meno di evidenti ed indiscutibili torti (es. adulterio, violenza fisica, furto, menzogna ecc.), stabilire chi perdona e chi deve essere perdonato.
Allora pensate alle parole della Bibbia:
“Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! Siate invece benevoli misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo” (Ef 4:31-32).
Non si dice qui di fare finta di niente; difatti per confessare gli uni gli altri occorre che ognuno valuti i propri comportamenti per cercare ciò che può aver ferito l’altro. Si crea cosi uno scambio di colpe e la relazione riparte anche se in un modo doloroso, ma se siamo pronti, se la misericordia di Dio ci ha preparati allora non sarà difficile perdonarci a vicenda, riabbracciarci, condividere nuovamente la stima e l’affetto che ci univano.
Ricordo nitidamente in un Campo biblico del sud Italia, una decina di anni fa, un fratello relatore proveniente dall’estero, che nel bel mezzo di un’avvincente incontro, di cui conservo ancora gli appunti, si mise a criticare giustamente le parole di un canto, con il risultato di umiliare pesantemente, davanti a tutti, chi ce lo aveva proposto. Un campione quanto alla conoscenza biblica, un dilettante quanto alla misericordia.
Per quanto valide possono essere le nostre ragioni non vuol dire che sia altrettanto valido il modo con cui le sosteniamo e le portiamo avanti. Conosco persone che hanno sacrificato sull’altare delle loro ragioni, spesso discutibili, grandi amicizie, importanti relazioni familiari, l’amore e la stima di fratelli e sorelle nella fede.
Alcuni fratelli e alcune sorelle dimenticano che la Bibbia non è una spada a doppio taglio, ma è come una spada a doppio taglio, attraverso cui esaminare noi stessi e i nostri comportamenti, non certo da usare come strumento di offesa.
Pertanto se la Parola ci esorta a perdonarci vicendevolmente vuol dire che di solito la ragione o il torto non sono tutte da una parte. Quindi se si rompe un rapporto o una relazione va in crisi non sprecate troppe energie nel sottolineare le colpe dell’altro o nel cercare chi vi dia ragione, ma esaminate i vostri comportamenti e certamente vi accorgerete di aver mancato in qualcosa. Seguiamo l’esortazione di Giacomo: “Confessate dunque i vostri peccati gli uni gli altri…” (Gm 5:16).
Recentemente, in occasione dell’ultima influenza ho visitato una coppia molto originale. Lui novantasette anni, lei centouno anni. La coppia più anziana d’Italia, credo. In quell’occasione tra le altre cose chiesi al marito scherzosamente come avevano fatto a restare insieme per così tanti anni. Lui con una serietà e un garbo di altri tempi mi ha risposto: “Ci siamo sempre amati e ci siamo sempre perdonati.”
Qualunque relazione ha vita breve, se è basata su un generico amore o rispetto per l’altro e trascura la pratica della misericordia e del perdono, così come il Signore c’insegna.
Il perdono di sé
Il bisogno di perdono non interessa solo le relazioni umane, ma anche la persona singola. Vi è mai capitato di sentire o di dire a voi stessi: “Ho fatto un errore imperdonabile”. Oppure: “Non riesco ad accettare di aver fatto quella scelta sbagliata”. O anche: “La mia vita è una serie di sbagli”. E ancora: “Se potessi tornare indietro!”.
Le persone sincere con sé stesse, che sanno guardare la loro vita per quello che è, spesso sono incapaci di perdonare sé stesse. Il perdono di sé è condizione necessaria per realizzare il perdono con chi ci è vicino. “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”
Non ci è difficile ammettere che non siamo portati istintivamente al bene, al contrario, fin dai primi mesi di vita l’essere umano ha bisogno di imparare a rispettare, per il suo bene, delle regole e delle norme di comportamento; ciò che noi definiamo generalmente “educazione”.
Quando si dice che l’uomo è per sua natura un essere morale non vuol dire che è sempre capace di comportamenti morali, l’esperienza di tutti i giorni lo conferma. Questa profonda contraddizione tra ciò che l’uomo pensa e ciò che fa è la sorgente d’ogni senso di colpa, di quel malessere di fondo che conduce tante anime alla disperazione e alla depressione.
L’apostolo Paolo nel descrivere questa condizione conclude dicendo: “…misero me chi mi trarrà da questo corpo di morte?”.
L’uomo è incapace di accettare e di perdonare sé stesso, prima o poi si scontrerà con questa realtà. Ci sono esperienze della vita che fanno sì che ciò accada prima, altre che rimandano questo momento alla vecchiaia, quando ci guardiamo indietro.
Mi è capitato di recente di parlare con un alcolizzato che mi diceva: “Non capisco come ho potuto ridurmi in queste condizioni”. Nel corso della nostra vita ci sorprendiamo a commettere errori che non pensavamo possibili. Avete mai parlato con un genitore che ha un figlio tossicodipendente? La domanda che si fa è sempre quella: “Dove ho sbagliato?”.
l dubbio di aver sbagliato cose importanti, quali l’educazione dei figli, è un peso, una colpa spesso insopportabile, che non riusciamo a perdonarci.
Un mio caro amico perse il padre improvvisamente per un incidente stradale, a distanza di qualche anno mi confessò che non riusciva a perdonarsi di essere stato sempre critico con suo padre, non un gesto d’affetto, mai un abbraccio, mai una passeggiata insieme.
Ci sono persone che tradiscono gli affetti più cari, che tradiscono i propri ideali, che rinnegano i principi per cui hanno lottato e non riescono a perdonarselo. Altre persone avrebbero voluto offrire ai propri cari una vita più agiata, benessere e sicurezza economica, una bella casa e tutte le comodità, ma sono disoccupati o stentano a pagarsi l’affitto e si sentono responsabili del loro stato.
Dopo cinque anni di fidanzamento la tua ragazza ha preferito un altro e senti di non avere fatto abbastanza per la persona che amavi: “Dove ho sbagliato?”. Quante volte c’è capitato di sentire mogli o mariti dire: “Ho sposato la persona sbagliata e non riesco a farmene una ragione”. È successa una disgrazia a tuo figlio e ti convinci che avresti potuto evitarlo e sei schiacciato dal peso del rimorso.
La Bibbia ci dà alcuni esempi emblematici di persone incapaci di perdonare sé stesse. Giuda Iscariota, il discepolo di Gesù, non perdonò a sé stesso di aver “tradito il sangue innocente”, questa consapevolezza lo portò al suicidio. Pietro fece la stessa esperienza quando rinnegò per ben tre volte Gesù; è detto che “pianse amaramente”.
Giona fuggì dalla volontà di Dio e quando si accorse che Dio stesso gli sbarrava la strada chiese di essere buttato in mare. Saul il primo re d’Israele dopo aver peccato ripetutamente, volle lo stesso andare in battaglia pur sapendo che vi avrebbe trovato la morte.
Nessuno di loro, almeno inizialmente, pur pentendosi della scelta fatta trovò il coraggio di chiedere perdono. Le conseguenze per Giuda e Saul furono terribili.
Solo due di questi personaggi cambiarono il corso della loro vita. Essi sono Giona e Pietro. Perché?
Entrambi ricevettero il perdono di Dio nella loro vita. Se questo perdono lo avesse cercato anche Giuda, non si sarebbe impiccato e così anche Saul non sarebbe partito col figlio per una missione suicida.
Giuda aveva vissuto con Gesù, aveva conosciuto la sua misericordia e il suo amore, ma al momento del tradimento, anche se pentito, considerò quell’errore imperdonabile.
Così fece Saul. Egli aveva conosciuto la fedeltà di Dio, il modo come Dio l’aveva scelto, eppure dopo aver peccato ed essersi pentito non chiese perdono a Dio, ma pensò di eliminare i suoi sensi di colpa eliminando sé stesso.
Pentimento e perdono
Pensando a questi personaggi abbiamo imparato un’altra differenza che non dovrebbe mai sfuggirci, quella tra il pentimento ed il perdono. Il pentimento è un sentimento di colpa, la frustrazione e la tristezza per lo sbaglio fatto, che si accompagna al desiderio di non voler più sbagliare. Attenzione! Se sei pentito per ciò che hai fatto, non vuol dire che automaticamente ti senti perdonato.
Pentimento e perdono sono cose ben diverse. Giuda, pentitosi del suo tradimento riportò i sicli d’argento ai sacerdoti e riconobbe di aver tradito “il sangue innocente”, ma ciò non gli servì a sopire i suoi sensi di colpa. Ci sono persone che si crogiolano nei pentimenti, sospirando, vivendo di malinconie e tristezze e ciò costituisce un alibi paralizzante. Il pentimento è una sorta di scomoda anticamera del perdono, guai se rimanessimo in quel luogo per troppo tempo.
Vi sarà capitato di dover andare dal dentista per un mal di denti. Non succede quasi mai di trovare la sala d’aspetto vuota e il dentista pronto a curarci. Perciò ci tocca aspettare qualche minuto, all’inizio siamo tranquilli perché sappiamo che di lì a poco avremo il sollievo dal mal di denti. Così inganniamo l’attesa, sfogliamo una rivista o conversiamo con un’altra persona nella nostra situazione, abbiamo anche l’impressione di stare meglio e intanto prosegue l’attesa. Dopo mezz’ora che aspettiamo però la conversazione si fa noiosa e le riviste non ci attirano più, il dolore diventa sempre più protagonista e non vediamo l’ora di uscire da quella sala d’attesa per entrare nello studio del dentista ed essere curati.
Ci sono persone che inconsapevolmente rimangono nella sala d’attesa, esse conoscono bene i loro errori e sono sinceramente pentite, ma preferiscono chiacchierare o sfogliare vecchi ricordi conditi di malinconia ed autocommiserazione. La Bibbia ci dice che dobbiamo lasciare la sala d’attesa del pentimento per entrare in quella del perdono. Altrimenti ci accorgeremo ben presto che quella situazione d’attesa è assurda oltre che insopportabile, perché il nostro senso di colpa è ancora lì e c’eravamo accontentati di metterlo a tacere per un po’. Se hai commesso uno sbaglio e non te lo sei perdonato, il pentimento, per nobile ed apprezzabile che sia ti porterà ad una schiavitù insopportabile.
Quando pensiamo di aver fatto qualcosa d’inaccettabile ed imperdonabile possiamo arrivare a gesti estremi ed irrazionali.
Pensate ad esempio a quella ragazza (se ne sentono tanti oggi di esempi del genere!), che getta nell’immondizia la figlia che ha appena dato alla luce. Ella pensa in questo modo di nascondere la sua colpa agli occhi dei genitori e dei suoi conoscenti, pensa che, se nessuno saprà, allora i suoi problemi saranno risolti. Ben presto però diventa consapevole di ciò che ha fatto a sé stessa e alla sua bambina e comincia a soffrire di disturbi fisici e psichici, non mangia più, si isola da tutti, prende psicofarmaci per dormire il più possibile. Ricorre per alcuni anni a cure psicologiche, ma nessuno scorge il suo bisogno di sentirsi perdonata. Nella sua mente c’è una culla vuota e una ninna nanna per una bimba che non c’è più. Il suo pentimento non seguito dal perdono la porta ad essere schiava della colpa.
“Chi commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8:34). Forse non abbiamo riflettuto abbastanza sul valore psicologico di questo principio.
Un toccante esempio nei Vangeli
Un giorno, mentre Gesù era a tavola da un notabile di quel tempo, accadde qualcosa che stupì ed imbarazzò tutti.
Una donna entrò timidamente e furtivamente nella sala da pranzo, si avvicino a Gesù, aprì una bottiglietta di olio profumato e iniziò a cospargerne i suoi piedi; si emozionò e cominciò a piangere e le lacrime cadevano sui piedi di Gesù, tanto che dovette usare i suoi capelli per asciugarli.
Chi era quella donna?
È scritto che tutti sapevano chi era: era una prostituta.
Cosa era andata a fare li? Proprio dall’uomo più giusto che la storia ricordi, lei rifiuto della società?
Chiediamoci: cosa cercava questa donna col suo pesante carico di sensi di colpa e pentimenti?
Ce lo dice Gesù:
“Vedi questa donna? – dice Gesù al padrone di casa – io sono entrato in casa tua, e tu non mi hai dato dell’acqua per i piedi; ma ella mi ha rigato i piedi di lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato alcun bacio; ma ella, da che sono entrato non ha smesso di baciarmi i piedi. Tu non mi hai unto il capo d’olio; ma ella mi ha unto i piedi di profumo. Perciò, io ti dico le sono rimessi i suoi molti peccati, perché ha molto amato; ma a colui cui poco è stato rimesso, poco ama.”
Poi rivolgendosi alla donna Gesù le dice: “I tuoi peccati sono perdonati.” E ancora “La tua fede ti ha salvata; vattene in pace.” (vale sicuramente la pena di leggere tutto il testo integrale nell’evangelo di Luca 7:36-50).
Cosa sarebbe stato del pentimento di quella donna se non avesse incontrato Gesù?
Gesù, questa Persona straordinaria, non solo ci ha fatto comprendere l’importanza del perdono, ma è pronto a donarcelo, proprio come fece per quella donna. Il pentimento è una strada che dobbiamo percorrere fino in fondo, con la fiducia, che essa ci porterà ad incontrare “il Perdono”.
Qualunque siano i vostri errori o i sensi di colpa non rimanetene schiavi, che siate o non siate credenti. Gesù, l’Agnello di Dio, pagò un prezzo altissimo per rendere possibile il perdono di voi stessi.
Riuscite ad aver fede in questo?
Saverio Bisceglia
Tratto da «IL CRISTIANO»Luglio 2003
18 FEBBRAIO 2018 – 1A DOMENICA DI QUARESIMA – B | LETTURE – OMELIE
Per cominciare
Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo » è il messaggio di questa prima domenica di quaresima. Un messaggio che ci è stato consegnato già mercoledì scorso, quando il sacerdote ha posto sul nostro capo la cenere della penitenza, come segno visibile della nostra volontà di prendere sul serio questo periodo forte dell’anno liturgico.
La Parola di Dio
Genesi 9,8-15. Ci viene raccontata la fine del diluvio. Iahvè conferma l’alleanza con Noè e con l’umanità. Noè è come un nuovo Adamo: Dio gli promette che non distruggerà più l’umanità e pone nel cielo suggestiva l’ »icona » dell’arcobaleno.
1ª Pietro 3,18-22. Pietro ricorda che il battesimo è come un diluvio di purificazione e ci trasmette la salvezza di Cristo risorto. Come cristiani siamo scampati anche noi al diluvio. Ci presenta poi la glorificazione di Gesù, che ora siede alla destra di Dio, nella pienezza della sua sovranità.
Marco 1,12-15. Il vangelo presenta le tentazioni di Gesù, i quaranta giorni vissuti nella penitenza, prima di iniziare la vita pubblica. È la sua quaresima. Poi rinnovato e deciso inizia la sua predicazione.
Riflettere…
o Gesù si sottopone alla prova del deserto immediatamente dopo il suo battesimo, che lo ha proclamato Figlio di Dio e lo ha « intronizzato » ufficialmente agli occhi dei presenti come messia.
o Gesù è spinto dallo stesso Spirito che si è posato su di lui nel momento del battesimo, e inizia con quaranta giorni di penitenza e di duro deserto la sua vita pubblica. È anche il suo modo di vivere la propria identità messianica, il voler evitare sin dall’inizio ogni trionfalismo.
o Gesù, secondo il racconto di Marco, nel deserto viene tentato da Satana e vive in armonia con gli animali selvatici. È chiara nell’intenzione di chi scrive fare riferimento ad Adamo, il primo uomo uscito dalle mani di Dio. Gesù è l’Adamo definitivo, dopo che Dio ha riproposto inutilmente la sua alleanza con l’umanità attraverso Noè, Abramo e Mosè. Nella prima lettura si ricorda quella di Noè. Gesù riprende il progetto iniziale di Dio e dà alla storia la svolta che si attendeva il Creatore.
o Marco non presenta in dettaglio le tentazioni di Gesù, come fanno Matteo (4,1-11) e Luca (4,1-13). Gesù non viene nemmeno presentato come un « superuomo », ma come qualcuno da imitare nella normalità apparente di chi rifiuta di sottomettersi alle lusinghe del male.
o Il sottoporsi alla tentazione, sottolinea anche l’umanità di Gesù. Come scrive Paolo ai Filippesi: « Pur essendo nella condizione di Dio, Cristo non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini… » (2,6-8).
o Gesù lascia il deserto quando Giovanni Battista viene imprigionato, ma si mette sulla stessa scia, entrando senza paura nella mischia, nonostante i rischi legati alla sua missione, soprattutto da parte dei potenti del tempo.
o Un dottore della legge farà questo elogio di Gesù: « Maestro, sappiamo che tu sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno » (Mt 22,16-17). Questa schiettezza e libertà di parola Gesù la manifesterà anche nei confronti delle autorità e degli avversari, senza alcun complesso. Quando gli dicono che Erode ha intenzione di farlo uccidere, sembra raccogliere la sfida ed esclama: « Andate a dire a quella volpe… » (Lc 13,31). Erode non gli fa paura.
o Gesù evita la grande città e proclama la venuta del regno di Dio nella Galilea. Gesù conosce la sua gente sin da ragazzo. È stato anche lui una volta uno di questi artigiani che si avvicinano per ascoltarlo, e conosce molto bene le condizioni di vita di questa gente. Per questo le sue parole partono dalla vita e giungono al cuore. « Nelle sue parole c’è l’odore del sudore della vita » (Endo Shusaku).
o Gesù predica il regno di Dio. Che è qualcosa da costruire, un tempo di fraternità nuova, una società di pace e di diritti riconosciuti. Qualcosa dunque da annunciare, tenendo presenti i progetti di Dio sull’umanità.
o Gesù dirà del regno di Dio: « A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra » (Mc 4,30-32). Il regno di Dio è come un seme che un uomo getta sul terreno, « che germoglia e cresce, come, egli stesso non lo sa » (Mc 4,26-29).
o Il regno di Dio appartiene a un futuro ancora e sempre da costruire, ma che ci coinvolge nel presente. Infatti dipende dalla nostra volontà di conversione.
o L’impegno di conversione non va visto però soltanto negli aspetti faticosi e pesanti: non così lo presenta Gesù. Il regno di Dio che viene a noi, se è accolto come un dono inaspettato, diventa la « buona notizia » che ti cambia la vita e ti riempie di gioia.
o Gesù non è prima di tutto come lo ha dipinto Giovanni il Battista, un rigido riformatore, un fustigatore dei costumi, ma sin dall’inizio predica progetti pieni di novità, di gioia inattesa e di speranza.
Attualizzare
* Le letture invitano alla conversione, ad approfittare del « tempo compiuto » quaresimale per riscoprire la salvezza giunta a noi attraverso il battesimo e realizzare una vita cristiana più convinta e piena.
aIl diluvio è stato il grande battesimo dell’umanità, un battesimo di purificazione radicale. La conversione è la risposta personale ai doni di Dio, la risposta dell’uomo al desiderio di Dio di entrare in dialogo con l’umanità.
* La quaresima è tempo di deserto, di riflessione su di sé e sulla vita, tempo di silenzio. Un tempo abbastanza lungo per un cammino di conversione personale serio. La prima conversione a cui siamo chiamati è probabilmente quella di prendere sul serio questa quaresima.
* Dalla prova dei quaranta giorni del diluvio nasce con Noè la nuova umanità, un’alleanza nuova con Dio. Anche noi potremo uscire da questa quaresima diversi. Viviamo in tempi messianici, lo sposo è già venuto: è il momento che aspettavamo, è il momento giusto per noi.
* Gesù, prima di farsi travolgere dalla vita pubblica, ha vissuto quaranta giorni di prove e privazioni nel deserto. Quaranta giorni pieni di simboli: da quelli di Noè, ai giorni di Elia verso il monte di Dio, a quelli di Giona (« Quaranta giorni e Ninive sarà distrutta »). Il numero quaranta fa riferimento anche ai quaranta giorni di Mosè sul Tabor per ricevere i dettati della Legge, e anche ai quarant’anni di marcia nel deserto degli ebrei verso la terra promessa.
* Tutti siamo chiamati alla conversione. Probabilmente gli ebrei al tempo di Gesù hanno colto con stupore e sorpresa l’invito di Gesù alla conversione. Secondo le loro convinzioni secolari, erano i pagani che avrebbero dovuto convertirsi, non la stirpe eletta, il popolo dell’alleanza.
* Soprattutto i capi religiosi hanno colto tutta la rottura che veniva a rappresentare l’invito di Gesù. Eppure loro più di altri avevano bisogno di cambiare il cuore. Loro più di altri faranno fatica a farsi piccoli per il regno, a entrare seriamente in un atteggiamento di disponibilità. Gesù stesso ha trovato meno difficoltà a « convertire » i peccatori pubblici e incalliti, che a indirizzare i « giusti » del suo tempo verso una mentalità più evangelica.
* Sarà forse anche il nostro caso, di noi che ci troviamo a messa e ci riteniamo tutto sommato cristiani praticanti e migliori di altri, ma che a volte facciamo perfino fatica a dare a Dio il momento della messa della domenica, giorno della risurrezione del Signore.
* A molti le parola quaresima richiama momenti di penitenza e di riti speciali. In realtà si tratta soprattutto di cambiare l’orientamento di fondo della nostra vita, modificare il nostro modo di riflettere sulle cose. È ciò che esprime la parola metànoia (« conversione »), che in greco significa « cambiare la mente », il proprio punto di vista, cambiare il cuore. Oppure la parola ebraica shûb, un verbo molto usato nella Bibbia, che significa « volgersi, tornare, ritornare », tipico di chi ha sbagliato strada, e deve fare un’inversione a « u » per ritrovare il proprio sentiero.
aCambiare cuore, ritrovare il sentiero, ma come manifestare poi la vita ritrovata? Tradizionalmente tre sono gli orientamenti che i cristiani assumono nel tempo della quaresima per raggiungere e manifestare la propria volontà di conversione: il deserto (penitenza, digiuno, silenzio), la preghiera, la carità.
* Deserto. Papa Luciani (il papa dei 33 giorni) ricordava un facchino di Milano che dormiva tranquillo non distante dai binari, nonostante il gran rumore dei treni, e del via vai continuo di gente. Diceva papa Luciani: « C’è bisogno ogni tanto di riposare, di rifarsi per tornare al proprio lavoro, che è monotono, stressante e faticoso ».
* Quanto al digiuno, non proprio popolare nel nostro tempo, a meno che non si tratti di diete per dimagrire o per salvarsi da una malattia, il documento dei vescovi italiani « Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza » (1994) afferma che appartengono da sempre alla vita della chiesa, e rispondono al bisogno del cristiano di conversione. Ma rientrano anche in quelle forme di comportamento religioso che sono soggette alla mutazione dei tempi. Le attuali trasformazioni sociali e culturali rendono problematici, se non addirittura anacronistici e superati, usi e abitudini fino a ieri da tutti accettati. Diventa allora necessario ripensarli.
* La proposta tradizionale è di privarsi o di moderarsi non solo del cibo, ma anche di tutto ciò che può essere di qualche ostacolo alla vita spirituale, alla meditazione, alla preghiera e alla disponibilità al servizio del prossimo.
* Il nostro tempo è caratterizzato dallo spreco, da una corsa sfrenata verso spese voluttuarie, e, insieme, da diffuse e gravi forme di povertà, o addirittura di miseria. In questo contesto, ogni persona è sollecitata ad assumere uno stile di vita improntato a una maggiore sobrietà e talvolta anche ad austerità, che inducano a gesti generosi.
* Quanto alla Preghiera, essa funziona e ci cambia il cuore, e arriva lontano, anche dove noi non ci aspetteremmo. André Frossard, autore del libro Dio esiste, io l’ho incontrato, racconta come avvenne la sua conversione. Alle cinque del pomeriggio entra in una chiesa, stanco di aspettare un amico che ritardava. Entra in chiesa, dove c’erano delle suore che pregavano davanti a Gesù eucaristico esposto. « Forse quelle sorelle parlavano di me al Signore, senza conoscermi », scrisse.
* Infine la Carità. Madre Teresa entra in una capanna buia e sporca. Chiede all’ammalato: « Posso pulirla? ». « Io sto bene così », risponde quell’uomo. In un angolo vede una grossa lampada abbandonata, piena di polvere. « Non l’accendete mai questa lampada? ». « E per chi? Sono anni che nessuno viene a trovarmi ». « E se venissimo noi, accendereste la lampada? ». Egli non disse no e le suore andarono. Tre anni dopo le suore dicono a Madre Teresa: « Quell’uomo ci ha detto che da quel giorno la lampada è sempre stata accesa
Il senso del digiuno
« Ecco come tu dovrai praticare il digiuno: durante il giorno di digiuno tu mangerai solo pane e acqua; poi calcolerai quanto avresti speso per il tuo cibo durante quel giorno e tu offrirai questo denaro a una vedova, a un orfano o a un povero; così tu ti priverai di qualche cosa affinché il tuo sacrificio serva a qualcuno per saziarsi. Egli pregherà per te il Signore. Se tu digiunerai in questo modo, il tuo sacrificio sarà gradito a Dio » (il Pastore d’Erma).
« Noi vi prescriviamo il digiuno, ricordandovi non solo la necessità dell’astinenza, ma anche le opere di misericordia. In questo modo, ciò che voi avrete risparmiato sulle spese ordinarie si trasforma in alimento per i poveri » (san Leone Magno).
Fonte autorizzata in: Umberto DE VANNA
http://web.quipo.it/proposta/txt/cantico.html
IL CANTICO DEI CANTICI (stralcio, commento)
(Pedron Lino)
Introduzione
«Il Cantico dei cantici è il gioiello della Bibbia» (E. Osty). «Non c’è nulla di più bello del Cantico dei cantici» (R. Musil). Cantico dei cantici significa «cantico per eccellenza», «cantico sublime». «Non c’è libro biblico che abbia esercitato sull’anima cristiana un effetto di seduzione comparabile a quello del Cantico» (A. Robert). Attorno a questi 117 versetti si sono accaniti esegeti e teologi, scrittori e interpreti, lettori rigorosi e fantasiosi.
«L’amore è forte come la morte» (8,6). Queste tre parole ebraiche (‘azzah kammavet’ ahabah) sono state considerate come la sigla poetica, simbolica e spirituale del poemetto, un libro sigillato dall’amore, dedicato alla coppia, a lei e a lui che appaiono sulla scena della vita e del mondo ogni giorno. Il Cantico è prima di tutto un «manuale della Rivelazione sull’amore, sull’affetto e sulla sessualità» (G. Krinetski) e quindi la «Magna Charta dell’umanità» (K. Barth). C’è al suo interno, a prima vista, una religiosità quasi «laica», segno di una profonda incarnazione della parola di Dio, tant’è vero che il nome di Dio è in pratica assente dalle pagine dell’opera, se si esclude la «fiamma di Iah» o meglio «fiamma divina» di 8,6. Al centro c’è l’amore umano, giovanile e primaverile, che rimane tale anche nella tenerezza della coppia fedele e innamorata. Per ricorrere a un’intuizione di Simone Weil, è il «percepire l’essere amato con tutta la propria superficie sensibile, come un nuotatore il mare. Vivere all’interno di un universo che sia lui… Ecco perché la castità è indispensabile all’amore. E l’infedeltà lo contamina. Dal momento in cui vi è bisogno, desiderio, anche reciproco, esiste oltraggio». È per questo che il Cantico liquida le ipocrisie e vive con intensità la corporeità, perché essa non è «desiderata», ma amata, è frutto non del senso, ma dell’amore.
Il poema accoglie con passione lo splendore dell’eros, della natura, della tenerezza, degli aromi, dei suoni, dei colori, dell’intimità anche fisica, ma sempre come segno di una relazione interpersonale. Il motto emblematico è «il mio amato è mio e io sono sua» (2,16) o quello parallelo «io sono del mio amato e il mio amato è mio» (6,3). Come si dice nella Genesi (1,31), la sessualità bipolare è «molto buona», cioè adatta all’uomo e creata da Dio. Ma lo è in quanto intrisa di eros, cioè di senso della bellezza, dell’armonia, del sentimento. Lo è soprattutto in quanto è animata dall’amore, sorgente della comunione piena che illumina e trasfigura sessualità, desiderio, eros, passione. Solo in questo senso si può ripetere con Lutero che il Cantico proclama implicitamente che «il corpo viene da Dio…; il desiderio per la donna è un bel dono divino».
In questo senso l’orizzonte spirituale del Cantico è più ampio del tema matrimoniale. «Il tema dell’opera è l’amore, non il matrimonio, un amore descritto come una tensione costante verso l’unità e la totalità» (D. Lys). Al Cantico non interessa neppure quel dato così rilevante dell’Antico Testamento che è la fecondità, segno esplicito della benedizione divina (Gen 1,28; ecc.). È l’amore in quanto tale, nella sua assolutezza, purezza e totalità, il cuore del Cantico ed è così che esso può inglobare anche rimandi all’infinito di Dio. Come tenteremo di dimostrare in tutto il nostro commento, non ha molto senso procedere per alternative, opposizioni o sostituzioni: amore umano o amore divino? Uomo o Dio? Eros o agàpe? Nell’unico, perfetto amore umano balena l’amore unico e infinito. «Bisogna rinunziare a opporre erotismo ad allegoria, senso naturale a senso mistico. Si tratta dell’eterna realtà, divina e umana, dell’Amore» (R.J. Tournay).
L’amore del Cantico è fieramente umano, ma ha in sé una scintilla divina, è il paradigma per la conoscenza del «Dio che è amore» (1Gv 4,8.16). L’amore del Cantico è squisitamente «simbolico», nel senso genuino del termine perché unisce, mette insieme (sun–ballein) amore e Amore, umanità e divinità. Si tratta di due dimensioni intrecciate tra loro, «inseparabili eppure distinte, come la natura umana e divina del Cristo» (D. Bonhoeffer).
La lettura esclusivamente erotica e, paradossalmente, anche quella spiritualistica è dunque diabolica (dia–ballein), cioè disgiuntiva di due elementi inseparabili. «L’amore umano nel Cantico si apre ad essere il simbolo più eloquente e degno per parlare di Dio, senza per questo stingere in un angelismo disincarnato. Non cessa di essere pienamente umano, ma assume una valenza mistica, tale da renderlo la migliore tavolozza per affrescare l’amore di Dio» (G. Borgonovo). Il punto di partenza del Cantico è terrestre e umano, ma è aperto all’epifania del teologico e del mistico. Nell’amore umano autentico c’è Dio. Per questo esso diviene il simbolo reale, anche se talora appannato (cfr. i cap. 3 e 5), dell’amore totale e infinito di Dio. L’amore umano si eclissa quando subentra l’odio fisico della violenza, l’odio erotico del sadismo, del dominio e della pornografia, l’odio interiore della volontà malvagia, cancellazione della triplice scala del corpo, dell’eros e dell’agàpe.
La Bibbia registra spesso il trionfo dell’anti–Amore che è anti–Dio e anti–Cristo, ma ci insegna che l’ultima parola tocca all’amore che, dopo l’eclisse dell’odio, ritornerà a sfolgorare. Lo dicono molto bene due testi rabbinici tra loro in contrappunto: «Quando Adamo peccò, Dio salì al primo cielo, allontanandosi dalla terra e dagli uomini. Quando peccò Caino, salì al secondo cielo. Con la generazione di Enoc salì al terzo, con quella del diluvio al quarto, con la generazione di Babele al quinto, con la schiavitù d’Egitto salì al sesto cielo e al settimo cielo, l’ultimo e il più lontano dalla terra» (Genesi Rabbah 19,13). «Dio, però, ritornò sulla terra il giorno in cui fu donato il Cantico a Israele» (Zohar Terumah, 143–144a). C’è, però, anche un’altra eclisse meno grave, costituzionale quasi con la finitudine della creatura umana, ed è quella dell’assenza temporanea, del silenzio della parola, e del dialogo tra i due, fulgidamente tratteggiata in 3,1–5 e 5,2 – 6,3, due straordinari «notturni». L’amore non cancella del tutto il timore. E il rischio dell’estraneità è sempre in agguato. Ma, anche in questo caso, nell’amore genuino l’ultima parola resta sempre quella della vittoria dell’amore sulla morte e sul silenzio. Fondamentalmente, è, dunque, il dialogo, la comunione da ricostituire o ritessere. «Quando un uomo e una donna si amano, ma non dichiarano il loro amore, non sono ancora innamorati. Il loro stesso silenzio significa che il loro amore non è ancora arrivato alla dedizione e al dono di sé. È l’amore che uno liberamente e senza riserve rivela all’altro che costituisce la situazione radicalmente nuova dell’essere innamorati» (B. Lonergan).
Entriamo, dunque, in questo meraviglioso mondo disegnato dalle 1250 parole del Cantico. Ci farà da guida Lei, la protagonista femminile, la cui presenza è decisamente superiore a quella del suo amato, l’uomo. Il Cantico è curiosamente un testo «femminile», sorprendente in un orizzonte com’era quello orientale, contrassegnato da un maschismo ben sedimentato. Il nostro percorso proseguirà quasi per cerchi concentrici, in una specie di progressivo avvicinamento al centro dell’opera.
La fortuna goduta dal Cantico nel giudaismo è quasi paragonabile a quella della torah, e il successo nel cristianesimo è comparabile quasi a quello riscosso dai vangeli. Basti pensare che nelle università medievali il «magister» apriva la sua «lectio prima» proprio col commento al Cantico. Anche noi continueremo questa tradizione.
«Toccheremo le più alte vette della mistica, pur restando sul letto lussureggiante dove si consuma il più intenso degli abbracci. Tutto avverrà con delicatezza, lasciando intatta la carne, profumati i corpi. Si attraverserà il mare della sensualità conservando candida la veste… Ma per questo bisogna avere i sensi lavati e limpida la mente. È allora che potrai entrare in questo santuario, nel vero ‘Santo dei santi’ del mondo» (D.M. Turoldo).
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/24743.html
DIO AL CENTRO DELLA MIA VITA. OMELIA PER LE CENERI (22-02-2012)
Monaci Benedettini Silvestrini
Comincia oggi il cammino di Quaresima. Un tempo favorevole, propizio che dura quaranta giorni. La sua mèta è la Pasqua: un memoriale che rinnova la grazia della passione e della morte del Signore. E’ un tempo di penitenza, che vuole dire conversione e combattimento contro lo spirito del male. E’ anche un tempo che invita a ritornare al Signore con tutto il cuore, con digiuni e preghiere. Ecco, il tempo della salvezza, ovvero della riconciliazione con Dio, è giunto. Il Vangelo odierno ci indica quale deve essere il nostro atteggiamento e insiste sulla rettitudine interiore, dandoci anche il mezzo per crescere in questa purificazione di intenzioni: l’intimità con il Padre. Il Vangelo è davvero bellissimo e dovremmo leggerlo spesso perché ci dice anche qual’era l’orientamento stesso del Signore Gesù, che « non faceva niente per essere ammirato dagli uomini ma viveva nell’intimità del Padre suo. L’evangelista Matteo ci presenta tre esempi: dell’elemosina, della preghiera, del digiuno e mette in evidenzia in tutti e tre una tentazione comune, direi normale. Quando facciamo qualcosa di bene, subito nasce in noi il desiderio di essere stimati per questa buona azione, di essere ammirati: di avere cioè la ricompensa, una ricompensa falsa però perché è la gloria umana, la nostra soddisfazione, il nostro piacere. E questo ci rinchiude in noi stessi, mentre contemporaneamente ci porta fuori di noi, perché viviamo proiettati verso quello che gli altri pensano di noi, lodano ammìrano in noi. Il Signore ci chiede di fare il bene perché è Bene e perché Dio è Dio e ci dà anche il modo per vivere così: vivere in rapporto col Padre. Per fare il bene noi abbiamo bisogno di vivere nell’amore di qualcuno. Se viviamo nell’amore del Padre, nel segreto, con il Padre, il bene lo faremo in modo perfetto. Il nostro atteggiamento in questa Quaresima sia dunque di vivere nel segreto, dove solo il Padre ci vede, ci ama, ci aspetta. Certo, le cose esteriori sono importanti ma dobbiamo sempre sceglierle e vivere alla presenza di Dio. Se possiamo fare poco, facciamo nella preghiera, nella mortificazione, nella carità fraterna quel poco che possiamo fare, umilmente, sinceramente davanti a Dio; così saremo degni della ricompensa che il Signore Gesù ci ha promesso da parte del Padre suo e Padre nostro.
Nota bene!
Il Mercoledì delle Ceneri (come anche il Venerdì santo) è un giorno penitenziale in cui vige l’obbligo di digiuno e di astinenza dalle carni.