http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/un_mondo_di_grazia1.htm
4. DAVID, L’UOMO DEI SALMI
Si narra del Baal Shem Tov, l’iniziatore del movimento chassidico nella Polonia del XVIII secolo, che fosse soprannominato der Telim jid, in jiddish: « l’ebreo dei salmi ». Questo perché la spiritualità chassidica da lui iniziata, e la sua stessa formazione personale, erano incentrate sui Salmi più che sulla Torà. In altre parole, il suo messaggio era che si può essere dei buoni ebrei anche se non si è degli esperti in tutte le minuzie legali della Torà, ma non si può essere dei buoni ebrei se non si pregano i salmi.
Vi sono, del resto, vari punti di contatto tra Torà e Salterio: per esempio, nei salmi storici, in quelli creazionali, in quelli pasquali. Vi sono addirittura dei salmi, come il Sal 1, la seconda metà del Sal 19 e tutto il lunghissimo Sal 119, che non sono altro che elogi della Torà, e raccomandazioni in favore del suo studio, della sua pratica come sorgenti di vita. Infine, lo stesso Salterio è diviso in cinque libri, a imitazione della Torà, e questo è un fatto che, volendo approfondire l’argomento, insegnerebbe molte cose.
In sostanza, si può considerare il Salterio anche sotto questo punto di vista: come una Torà in miniatura, come un « microcosmo della Torà ». È dubbio che David, re d’Israele, sia stato un grande osservante della Torà mosaica – nonostante che varie testimonianze rabbiniche lo ritraggano nella veste insolita di studioso -, eppure egli è senza alcun dubbio l »‘uomo dei salmi ». Vale a dire: non un uomo esemplare sotto il profilo della sua condotta, non un uomo integro e irreprensibile in tutto, ma un uomo di preghiera, anzi il prototipo dell’orante.
Dei centocinquanta salmi canonici, la maggior parte sono attribuiti a lui, vuoi esplicitamente vuoi implicitamente (solo ventinove salmi sono espressamente attribuiti ad altri personaggi). Ma sono soprattutto alcuni titoli che contestualizzano il salmo in un particolare frangente dell’avventura davidica, facendo ne come lo specchio della sua anima in varie circostanze da lui vissute. Così, ad esempio, i Sal 3, 7, 18,34, e soprattutto quelli della seconda raccolta davidica (le « preghiere di David, figlio di Jesse »), in particolare quelli che vanno dal Sal 51 al Sal 63.
Con una sola eccezione gioiosa (il Te Deum regale del Sal 18, « quando il Signore lo liberò dalla mano di tutti i suoi nemici »), le circostanze della vita di David a cui alludono queste soprascritte sono tutte straordinariamente penose, e infatti introducono dei salmi che sono di lamento o di supplica. Tali circostanze sono quelle vissute da David nel suo vagabondaggio per il deserto, o nel suo asilo presso i filistei, prima di diventare re.
Il midrash fa molto caso a queste soprascritte, e il primo insegnamento che ne deduce è molto semplice: « Salmo di David, quand’era nel deserto di Giuda » (Sal 63,1). « Non sta scritto: Salmo di David quand’ era re ». Vale a dire che la vera preghiera nasce dall’umiliazione, e non dall’ esaltazione. A questo proposito si cita un passo di Isaia (26,16) che, tradotto alla lettera, recita forse così: « La tribolazione è preghiera per noi » (nr. 21).
Un luogo, in modo del tutto particolare, diventa la cifra della preghiera di David in questo periodo: è la caverna dove si è rifugiato per sfuggire a Saul (« Quando fuggì da Saul nella caverna »: Sal 57,1; « Di David, quand’era nella caverna »: Sal 142,1). Questa caverna, una specie di anticipazione delle grotte monastiche del deserto di Giuda, è il luogo più tipico della preghiera di David. Come sappiamo dal racconto di
1Sam 24, la caverna scelta da David come rifugio diviene proprio il luogo dell’incontro con Saul, che vi è entrato casualmente. Secondo il dettato biblico, chi si mette in pericolo di vita questa volta è proprio l’inseguitore, che viene a trovarsi, senza saperlo, alla mercé dell’inseguito. Ma per il midrash (non senza una profonda intelligenza dello stesso racconto biblico, là dove dice che David « si sentì battere il cuore »), questo incontro col nemico nella caverna è la situazione più difficile, la prova più grande in cui si sia trovato lo stesso David, e non Saul.
Ma il David in fuga per i nascondigli del deserto non va soltanto considerato un uomo braccato da un suo persecutore, egli è un uomo in fuga anche da se stesso. Nel Sal 7, David prega così: « Signore mio Dio se ho fatto questo, se c’è iniquità nelle mie mani, se ho ripagato il mio amico con il male. .. il nemico insegua la mia vita e la raggiunga ». Quindi egli sa che, se c’è un nemico fuori, è perché ce n’è uno anche dentro: se vi è un inseguitore all’esterno, è perché Dio gli dà il diritto di inseguirlo a motivo dei suoi peccati. Eppure il vero « errore di David » non è tanto la parola impulsiva che si è lasciato sfuggire contro Saul (« il Signore stesso lo percuoterà »), ma – sembra dire il midrash – è quello di non accorgersi che il Signore ha già neutralizzato il suo inseguitore, cioè gli ha già perdonato i suoi peccati (nr. 4).
David è stato, dunque, un uomo dei salmi, un uomo in preghiera, ancora prima, anzi soprattutto prima di sedere sul suo trono a Gerusalemme. Sono stati proprio i suoi scacchi, le sue sventure, che gli hanno insegnato a pregare, cioè a riporre in Dio la sua fiducia anche nelle circostanze apparentemente senza esito, come la caverna sbarrata dal nemico. Gli hanno insegnato a ringraziare sempre. « ‘Di David, salmo. Grazia e giustizia voglio cantare, a te Signore voglio inneggiare’ (Sal 101,1). Così disse David al Santo – benedetto sia -: Se tu mi fai grazia, ‘voglio cantare’; e se agisci verso di me con giustizia, ‘voglio cantare’. In un modo o nell’altro, ‘a te Signore voglio inneggiare’ » (nr. 34).
Un uomo come David, capace di ringraziare Dio in ogni circostanza della sua vita, sia gioiosa sia penosa, per il bene come per il male, è un uomo al quale il Signore fa molti doni. Diventa un uomo semplice, disarmato come una colomba (nr. 43), sempre in grado di stupirsi, di meravigliarsi per i doni di Dio, doni che egli sa eccedere qualunque merito personale. Tutto per lui è iniziato da questo stupore infantile: la sua stessa unzione regale quand’ era nient’ altro che un giovane pastore. « Egli pascolava il gregge di suo padre, e in un batter d’occhio venne fatto re. Tutti dicevano: Fino a un momento fa pascolava il gregge, e tutt’a un tratto è diventato re? Egli rispondeva loro: Voi vi stupite di me? Anch’io mi stupisco di me stesso ancor più di voi! Ma lo Spirito santo intervenne dicendo: ‘Dal Signore è venuto questo ed è uno stupore ai nostri occhi’ » (nr. 42).
Non si potrà, probabilmente, definire David uno zaddiq, un uomo « giusto » secondo il metro della Torà. Ma egli è certamente un grande chasid, un uomo « benevolo » e « grazioso », ciò che forse è ancora di più, perché la misura della « grazia » e della « misericordia » supera sempre, in Dio, quella della semplice giustizia, se questa è intesa come osservanza diligente dei precetti. Dio stesso, nel suo agire, va sempre al di là della « linea della giustizia »: agisce sempre per eccesso, per abundantiam cordis.
Nel Sal 86,2 David afferma: « Custodisci la mia vita, perché sono un chasid ». Il midrash si chiede: « Come può David chiamare se stesso chasid? ». Che cosa lo autorizza ad attribuirsi un titolo che spetta a Dio? E risponde: « Chiunque ascolta una maledizione su di sé e tace, benché abbia tutta la possibilità di controbattere, diviene partecipe degli attributi del Santo – benedetto sia -, il quale ascolta le bestemmie che gli rivolgono i pagani, eppure tace. Anche David si è sentito maledire, eppure ha taciuto. Per questo ha potuto dire: ‘Custodisci la mia vita, perché sono un chasid’ » (nr. 29). Nulla vieterebbe a uno zaddiq, a un uomo « giusto », di controbattere alle offese o agli oltraggi, dal momento che questi sono ingiustificati: sarebbe perfettamente nel suo diritto, ed egli lo sentirebbe, con tutta probabilità, come un suo dovere. Ma David non fa così: egli sa bene di essere peccatore, di meritare molti rimproveri, e questo gli fa accettare anche gli insulti ingiustificati. Così facendo, però – benché forse non lo sappia – egli è più simile a Dio di uno zaddiq.
Del resto, per chi è la Torà? Forse è per gli angeli? Forse è per coloro che sono senza difetto, senza peccato? No, insegna il midrash sul Sal 8 (nr. 5), uno dei più affascinanti dell’intera raccolta. Al contrario, il fatto che gli angeli siano esseri perfetti, creature senza macchia, è precisamente un loro handicap, non un loro vantaggio. Che cosa manca agli angeli? Manca l’esperienza del peccato (almeno di quel genere di peccati, tutti umani, di cui si occupa la Torà), ed è proprio questa loro « mancanza » che li rende inabili a ricevere la legge, fatta per correggere i peccatori e per riparare i guasti causati dal peccato. Con una parabola squisitamente umoristica, gli angeli desiderosi di ricevere la Torà (e di rifiutarla agli uomini) sono paragonati a un apprendista nell’ arte della tessitura al quale però manca un dito, quando in questo mestiere è essenziale possedere l’uso di tutte le dita. Vale la pena fermarsi ancora un istante a valutare l’arditezza di questa operazione ermeneutica, perché il Sal 8,6 afferma che è l’uomo ad essere stato creato « poco mancante » rispetto agli elohim o angeli. Il midrash rovescia completamente la prospettiva: sono gli angeli ad avere « di meno », e questo « di meno », ciò che loro non hanno, è la debolezza degli uomini.
Quindi si deve forse ridisegnare anche la figura dello zaddiq. Non è detto che egli debba essere un uomo senza peccati, senza difetti. Il Sal 11,5 dice che « il Signore prova il giusto ». Perché dovrebbe metterlo alla prova, se egli fosse già perfettamente giusto? Ma egli lo prova – secondo il midrash – perché lo sa capace di resistere alle prove (gli empi non sono provati per misericordia, perché non sarebbero capaci di reggere lo sforzo: nr. 6). « Giustizia », in questo contesto, non è sinonimo di perfezione morale, ma è piuttosto una capacità di resistenza nelle prove. Il giusto è un uomo provato, « giustificato » attraverso molte prove, molte sofferenze. E in questo senso, certamente anche David è stato un uomo giusto (cf. Sal 132, 1).
D’altra parte, quali altre connotazioni caratterizzano un giusto? Dal trattato Avot noi sappiamo che il « mondo » – vale a dire la vita degli uomini nel mondo – si regge sopra tre colonne, che sono lo studio (e la pratica) della Torà, la preghiera e le opere di misericordia (vedi il detto di Shim’on, detto appunto il « giusto », in PA 1,2). Nel midrash sul Sal 136, a proposito del versetto: « Distende la terra sulle acque », c’è tutta una discussione cosmologica per sapere su che cosa è fondata la terra, e la conclusione è la seguente: « La terra sta su una colonna sola, e questa colonna è il giusto, come è detto: ‘Il giusto è il fondamento del mondo’ (Pr 10,25) » (nr. 46). Quindi neppure tre, ma una colonna sola. Perché, in fondo, parlare di tre colonne è ancora, in un certo senso, un’astrazione. Da nessuna parte si trova lo « studio » o la « preghiera » o le « opere di misericordia »: esistono solamente degli uomini o delle donne che studiano, pregano, usano misericordia verso il prossimo. E il giusto è quell’uomo, quella donna, che meglio di altri e in maniera esemplare per tutti, unifica nella sua persona studio, preghiera e misericordia. Persone come queste sono il fondamento della convivenza tra gli uomini. Ora, David non era forse un grande studioso della Torà, ma era un profondo uomo di preghiera, e il suo Salterio è una specie di condensato esistenziale della Torà, di Torà fatta preghiera. Inoltre, l’espressione che io traduco, per mancanza di meglio, « opere di misericordia », in ebraico suona ghemilut chasadim, alla lettera qualcosa come « scambio di grazie » o « di favori » . Anche nella pratica della chesed, come si è visto, David è stato un maestro. Perciò non a torto si può dire che lui e la sua preghiera sono stati, e continuano ad essere, un « fondamento del mondo »: il fondamento inamovibile di un « mondo di grazia ».