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PAPA FRANCESCO – La Santa Messa – 8. Liturgia della Parola: I. Dialogo tra Dio e il suo popolo (31.1.2018)

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PAPA FRANCESCO – La Santa Messa – 8. Liturgia della Parola: I. Dialogo tra Dio e il suo popolo

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 31 gennaio 2018

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuiamo oggi le catechesi sulla Santa Messa. Dopo esserci soffermati sui riti d’introduzione, consideriamo ora la Liturgia della Parola, che è una parte costitutiva perché ci raduniamo proprio per ascoltare quello che Dio ha fatto e intende ancora fare per noi. E’ un’esperienza che avviene “in diretta” e non per sentito dire, perché «quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura, Dio stesso parla al suo popolo e Cristo, presente nella parola, annunzia il Vangelo» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 29; cfr Cost. Sacrosanctum Concilium, 7; 33). E quante volte, mentre viene letta la Parola di Dio, si commenta: “Guarda quello…, guarda quella…, guarda il cappello che ha portato quella: è ridicolo…”. E si cominciano a fare dei commenti. Non è vero? Si devono fare dei commenti mentre si legge la Parola di Dio? [rispondono: “No!”]. No, perché se tu fai delle chiacchiere con la gente non ascolti la Parola di Dio. Quando si legge la Parola di Dio nella Bibbia – la prima Lettura, la seconda, il Salmo responsoriale e il Vangelo – dobbiamo ascoltare, aprire il cuore, perché è Dio stesso che ci parla e non pensare ad altre cose o parlare di altre cose. Capito?… Vi spiegherò che cosa succede in questa Liturgia della Parola.
Le pagine della Bibbia cessano di essere uno scritto per diventare parola viva, pronunciata da Dio. È Dio che, tramite la persona che legge, ci parla e interpella noi che ascoltiamo con fede. Lo Spirito «che ha parlato per mezzo dei profeti» (Credo) e ha ispirato gli autori sacri, fa sì che «la parola di Dio operi davvero nei cuori ciò che fa risuonare negli orecchi» (Lezionario, Introd., 9). Ma per ascoltare la Parola di Dio bisogna avere anche il cuore aperto per ricevere le parole nel cuore. Dio parla e noi gli porgiamo ascolto, per poi mettere in pratica quanto abbiamo ascoltato. È molto importante ascoltare. Alcune volte forse non capiamo bene perché ci sono alcune letture un po’ difficili. Ma Dio ci parla lo stesso in un altro modo. [Bisogna stare] in silenzio e ascoltare la Parola di Dio. Non dimenticatevi di questo. Alla Messa, quando incominciano le letture, ascoltiamo la Parola di Dio.
Abbiamo bisogno di ascoltarlo! E’ infatti una questione di vita, come ben ricorda l’incisiva espressione che «non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). La vita che ci dà la Parola di Dio. In questo senso, parliamo della Liturgia della Parola come della “mensa” che il Signore imbandisce per alimentare la nostra vita spirituale. E’ una mensa abbondante quella della liturgia, che attinge largamente ai tesori della Bibbia (cfr SC, 51), sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, perché in essi è annunciato dalla Chiesa l’unico e identico mistero di Cristo (cfr Lezionario, Introd., 5). Pensiamo alla ricchezza delle letture bibliche offerte dai tre cicli domenicali che, alla luce dei Vangeli Sinottici, ci accompagnano nel corso dell’anno liturgico: una grande ricchezza. Desidero qui ricordare anche l’importanza del Salmo responsoriale, la cui funzione è di favorire la meditazione di quanto ascoltato nella lettura che lo precede. E’ bene che il Salmo sia valorizzato con il canto, almeno nel ritornello (cfr OGMR, 61; Lezionario, Introd., 19-22).
La proclamazione liturgica delle medesime letture, con i canti desunti dalla Sacra Scrittura, esprime e favorisce la comunione ecclesiale, accompagnando il cammino di tutti e di ciascuno. Si capisce pertanto perché alcune scelte soggettive, come l’omissione di letture o la loro sostituzione con testi non biblici, siano proibite. Ho sentito che qualcuno, se c’è una notizia, legge il giornale, perché è la notizia del giorno. No! La Parola di Dio è la Parola di Dio! Il giornale lo possiamo leggere dopo. Ma lì si legge la Parola di Dio. È il Signore che ci parla. Sostituire quella Parola con altre cose impoverisce e compromette il dialogo tra Dio e il suo popolo in preghiera. Al contrario, [si richiede] la dignità dell’ambone e l’uso del Lezionario, la disponibilità di buoni lettori e salmisti. Ma bisogna cercare dei buoni lettori!, quelli che sappiano leggere, non quelli che leggono [storpiando le parole] e non si capisce nulla. E’ così. Buoni lettori. Si devono preparare e fare la prova prima della Messa per leggere bene. E questo crea un clima di silenzio ricettivo[1].
Sappiamo che la parola del Signore è un aiuto indispensabile per non smarrirci, come ben riconosce il Salmista che, rivolto al Signore, confessa: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119,105). Come potremmo affrontare il nostro pellegrinaggio terreno, con le sue fatiche e le sue prove, senza essere regolarmente nutriti e illuminati dalla Parola di Dio che risuona nella liturgia?
Certo non basta udire con gli orecchi, senza accogliere nel cuore il seme della divina Parola, permettendole di portare frutto. Ricordiamoci della parabola del seminatore e dei diversi risultati a seconda dei diversi tipi di terreno (cfr Mc 4,14-20). L’azione dello Spirito, che rende efficace la risposta, ha bisogno di cuori che si lascino lavorare e coltivare, in modo che quanto ascoltato a Messa passi nella vita quotidiana, secondo l’ammonimento dell’apostolo Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi» (Gc 1,22). La Parola di Dio fa un cammino dentro di noi. La ascoltiamo con le orecchie e passa al cuore; non rimane nelle orecchie, deve andare al cuore; e dal cuore passa alle mani, alle opere buone. Questo è il percorso che fa la Parola di Dio: dalle orecchie al cuore e alle mani. Impariamo queste cose. Grazie!

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO CATECHESI |on 31 janvier, 2018 |Pas de commentaires »

«IO CERCO IL TUO VOLTO, O SIGNORE» (Sl. 26, 8) – Sant’ Anselmo *

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«IO CERCO IL TUO VOLTO, O SIGNORE» (Sl. 26, 8) – Sant’ Anselmo *

Nato nel 1033 ad Aosta, Anselmo sognava fin dall’infanzia di raggiungere Dio e ancor giovane si dedicò allo studio e alla preghiera. Dopo essersi lasciato un po’ sedurre dalle attrattive del mondo, giunse in Normandia e, a 27 anni, si fece monaco nell’abbazia di Bec, di cui poi divenne abate. Nel 1093 dovette lasciare il monastero per divenire arcivescovo di Canterbury, dove, a causa delle investiture laiche, ebbe a lottare con il re d’Inghilterra. Esiliato per ben due volte, ebbe la gioia di finire i suoi giorni nella propria diocesi nel 1109, essendosi infine ristabilita la pace.
S. Anselmo ci ha lasciato un’opera letteraria in cui si nota una continua preoccupazione teologica. La sua celebre massima: «Fides quaerens intellectum» è divenuta quella di tutta la scolastica, ma in lui la riflessione teologica si radica costantemente in un’esperienza di Dio profonda e intensamente personale.

Coraggio, debole uomo, lascia per un po’ le tue occupazioni, sottraiti un poco al tumulto dei tuoi pensieri. Allontana ora le opprimenti preoccupazioni, respingi le cure laboriose. Renditi libero un poco per Dio e riposa in lui. Entra nella camera della tua anima, lascia tutto ciò che non è Dio e che non può aiutarti a trovarlo. Chiudi la porta (Mt. 6, 6) e cercalo.
Ed ora parla, anima mia, e con tutta te stessa di’ al Signore: Cerco il tuo volto, o Signore, cerco ansiosamente il tuo volto (Sl. 26, 8).
Ora tu, o Signore mio Dio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti. Signore, se non sei qui, se sei lontano, dove ti cercherò? Se poi tu sei presente ovunque, perché non ti vedo? Tu certo dimori in una luce inaccessibile: ma questa luce inaccessibile dov’è e come potrò raggiungerla? Chi mi condurrà e mi introdurrà in essa perché io possa vederti? E poi, attraverso quali segni, sotto quale aspetto ti cercherò? Non ti ho visto mai, Signore mio Dio, né conosco il tuo Volto. Che farà, o Altissimo Signore, che farà questo tuo esiliato che è lontano da te? Che farà il tuo servo, tormentato dal ‘desiderio di te e respinto tanto lontano dal tuo volto? Egli desidera ardentemente di vederti, ma il tuo volto è troppo lontano da lui; vuole avvicinarsi a te, ma inaccessibile è la tua dimora. Brama trovarti e non sa dove tu sei. Aspira a cercarti e non conosce il tuo volto. Signore, tu sei il mio Dio e il mio Signore, ma non ti ho visto mai. Tu mi hai creato e rinnovato e ogni bene che posseggo mi è stato dato da te, ma io ancora non ti conosco. Sono stato fatto proprio per vederti e non ho ancora realizzato ciò per cui sono stato fatto. Miserabile sorte dell’uomo che ha perduto ciò per cui è stato creato!…
E tu, Signore, fino a quando? (Sl. 6, 4) Fino a quando, o Signore, ti ‘dimenticherai di noi? Fino a quando nasconderai il tuo volto? Quando volgerai a noi il tuo sguardo e ci ascolterai? (Cfr. Sl. 12) Quando illuminerai i nostri occhi e ci mostrerai il tuo volto? Guarda, o Signore, esaudisci, illumina, mostra a noi te stesso. Ridona a noi il bene della tua presenza: senza di essa siamo così infelici! Abbi pietà dei faticosi sforzi che compiamo nel cammino verso di te: noi infatti non possiamo nulla senza di te. Tu che ci inviti, aiutaci.
Ti scongiuro, o Signore, che non abbia a disperarmi sospirando a te, ma che respiri nella speranza… Mi sia concesso di intravedere la tua luce almeno da lontano, almeno dal fondo della mia miseria. Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco, perché non ti posso cercare se tu non mi insegni, né trovare se tu non ti mostri. Possa cercarti con il mio desiderio e desiderarti nella ricerca. Ti possa trovare amandoti e, trovandoti, ti possa amare.

* Proslogion, 1; Librairie Philosophique J. Vrin – Parigi 1954 – pp. 6-10.

 

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I nomi di Dio nell’Antico Testamento

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Publié dans:immagini sacre |on 29 janvier, 2018 |Pas de commentaires »

I LUOGHI BIBLICI FONDAMENTALI: IL DESERTO E GESÙ

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I LUOGHI BIBLICI FONDAMENTALI: IL DESERTO E GESÙ

Martino Signoretto

«Dal deserto le cose si vedono meglio,
con proporzioni più eterne»
(Carlo Carretto)

Israele si è formato come popolo di Dio nel e attraverso il deserto. Con ciò si può affermare che il deserto fa parte dell’imprinting di questo popolo[1]. I profeti non mancano di richiamare il tempo e lo spazio del deserto, per fare memoria dell’origine di una identità[2], dentro la quale è custodita una certa immagine di Dio. Il deserto fa parte anche dell’iniziazione di Gesù e comporta anche per lui un imprinting, essendo situato subito dopo il battesimo, prima della sua uscita alla vita pubblica.
A differenza del Sinai e del Neghev, Gesù frequenta un deserto diverso, più piccolo, il deserto di Giuda. A differenza dei quarant’anni del popolo, Gesù vi trascorre quaranta giorni. Cambia il nome, la collocazione geografica e il tempo, ma l’esperienza è sempre quella del deserto.
Il deserto è pure luogo di connessione tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra l’ultimo dei profeti, Giovanni il Battista, e Gesù, colui che inaugura il nuovo regno. Giovanni vive nel deserto di Giudea (Mt 3,1) e interpreta quella «voce che grida nel deserto», di cui parla Is 40,3. Isaia e il Battista non fanno riferimento al medesimo deserto, ma questo non fa problema per coloro che ascoltano il compimento dell’oracolo isaiano. Anzi, nei sinottici solo in Mt 3,1 si esplicita il nome del deserto, in tutte le altre citazioni sia Giovanni sia Gesù frequentano semplicemente «il deserto», riportato con l’articolo (Mt 4,1; Lc 3,2), senza nominare di quale deserto si tratti. All’autore interessa questo luogo per il suo significato.
Non manca il deserto anche nella predicazione di Gesù. Il breve inciso di Mt 24, 23-26, lascia pensare come vi erano aspettative messianiche che immaginavano che la salvezza sarebbe apparsa nel deserto. Il quarto evangelista, pur non riportando come nei sinottici l’episodio iniziale di Gesù nel deserto[3], accenna al tema in alcuni discorsi di Gesù: il serpente di bronzo in Gv 3,14; la manna in Gv 6,31.49. Il riferimento all’«acqua viva» nell’incontro con la samaritana in Gv 4 e Gv 7,38 può avere come sfondo l’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia di Es 17.

1. Il deserto e il suo ecosistema
Due sono i grandi deserti in Israele/Palestina: a sud da Bersabea a Eilat si diparte il deserto del Negev, mentre dalla sponda ovest del Mar Morto fino al confine con la Samaria, si estende il deserto di Giuda. Si differenziano solo in ampiezza. Sono fondamentalmente rocciosi, alternano monti e colline con gli wadi, insenature torrenziali a volte alimentate da qualche rara sorgente che crea piccole oasi, ma sopratutto strade naturali, ideali anche per la pastorizia[4]. Questo comporta di trovare sempre delle piante, che crescono anche in luoghi improbabili. In alcuni casi segnalano dove l’acqua si accumula in vasche sotterranee dopo le rare ma potenti piogge invernali. Come dice Dt 11,11, la terra di Israele «beve l’acqua dalla pioggia che viene dal cielo» (cf. Sal 104,13).
Forse non riusciremmo a immaginare abbastanza come questa differenza con i grandi imperi di Egitto e Mesopotamia, alimentati dall’acqua tutto l’anno, sia alla base di una certa spiritualità biblica, una spiritualità dell’affidamento, fidarsi di colui «che fa piovere» (Mt 5,45). Il rapporto con madre terra pone sempre le prime regole della fede.
Quello del Neghev e della Giudea sono deserti popolati da animali. Ci sono animali diurni, fondamentalmente erbivori, e animali notturni, spesso predatori, cantati e contemplati con una certa precisione nel Salmo 104 (confronta Sal 104,11.17-18 e Sal 104,20-23).
L’insieme di questi fattori produce un ecosistema complesso, proprio perché l’acqua non manca del tutto. La vita in questi deserti «trionfa» sulla morte, ma in modo preferibilmente nascosto e umile.
Queste sono alcune delle indicazioni per comprendere come anche l’esperienza di questo deserto abbia influito sulla rappresentazione che Israele aveva della propria fede[5].

2. Il deserto del re Davide
Gli episodi più salienti legati al deserto sono quelli del popolo di Israele narrati in Esodo e Numeri. Anche il re Davide ha fatto l’esperienza del deserto. Il re prima di essere proclamato tale ha dovuto conoscere l’esperienza dell’«esilio» nel deserto, inseguito dal re Saul (cf. 1Sam 23,14). Una volta proclamato re di tutto Israele, non poté sfuggire a un ulteriore «esilio» nel deserto. Dopo alcuni anni di regno, uno dei suoi figli, Assalonne, usurpò il suo trono. Davide fu costretto ad andarsene, lasciando Gerusalemme per inoltrarsi nel deserto. 1Sam 15,23.30 riporta questo momento difficile:
Tutti piangevano ad alta voce, mentre tutto il popolo sfilava. Il re stava in piedi nella valle del Cedron, mentre tutto il popolo passava davanti a lui, diretto verso il deserto. […] Davide saliva l’erta degli Ulivi; saliva piangendo, a capo coperto, e procedeva scalzo. Tutto il popolo che era con lui si coprì il capo e salì piangendo continuamente (1Sam 15,23.30).
Chi è stato a Gerusalemme conosce il Cedron che separa la città dal Monte degli Ulivi, rivolto a oriente in direzione del deserto. Leggendo il testo di Samuele si può immaginare la scena: il re Davide che piange mentre lascia Gerusalemme e «ritorna» al deserto. Dopo mille anni circa, Gesù provenendo dalla strada del deserto, da Gerico, scendendo dal Monte del gli Ulivi, piangerà sulla città santa (Lc 19,41-44).
Questi e altri episodi contribuiscono ad arricchire di significati il Monte degli Ulivi, a motivo della sua collocazione geografica e biblica. Questo monte, infatti, costituisce un punto di passaggio necessario, tra il deserto e la città. La geografia del monte ha alimentato lungo i secoli una visione teologica: è il monte dei pianti[6]; un confine naturale tra la città e il deserto, ma anche il luogo escatologico di passaggio tra cielo e terra, sul quale il messia poserà i suoi piedi secondo Zac 14,4[7]; luogo significativo anche per le sue tombe; un monte molto caro a Gesù.

3. Il deserto: «luogo di passaggio» e «luogo della prova»
Il deserto è considerato un luogo di prova e tentazione (in greco la parola è la medesima, peirasmos). Così è stato per il popolo di Israele (Dt 8,1-5), così è stato per Gesù (Mt 4,1-11 e Lc 1-13). Mentre il primo ha ceduto, incrementando gli interventi di Dio per perdonarlo ed educarlo, il secondo ha superato le prove, uscendone «vincitore». Leggendo Mstteo e Luca, le prove sono tre: a) trasformare le pietre in pane; b) gettarsi dal precipizio, assicurati dagli angeli, e così dare spettacolo; c) prostrarsi a Satana per avere gloria e potere. Tali prove sono legate agli appetiti fondamentali della vita, riassumibili in tre verbi: avere (a); valere (b); potere (c). Da un punto di vista giudaico sembrano pure legate ai tre elementi presenti nella preghiera dello Shemà Israel di Dt 6,4-9: «Con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze», come anche ai tre riti di pietà, l’elemosina, il digiuno e la preghiera[8]. Secondo la prospettiva giudaica, allora, alle tre prove corrispondono tre atteggiamenti e comportamenti opposti. Gesù nel deserto, con il suo digiuno e la sua preghiera, ha dunque amato Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze.
La tradizione ha voluto fissare un luogo per poter ricordare questo episodio. Si tratta della «Laura di Duka» presso il Monte della Quarantena, il monte che sovrasta la città di Gerico, a ricordo dei quaranta giorni di Gesù nel deserto[9]. Attualmente si vede il monastero ortodosso del 1895, ma la tradizione è antica, legata alla figura di San Caritone.
I quaranta giorni o i quarant’anni di deserto sono «luogo e momento di passaggio». Si tratta di uno spazio e un tempo per crescere, imparare dai propri errori nel caso di Israele, o verificare la bontà del «profeta», di quanto sia veramente un inviato di Dio, nel caso di Gesù.
Le tentazioni del deserto sono lì a dire una situazione permanente, un’esposizione alle prove della vita che il Figlio di Dio affronterà fino alla croce. Luca accenna in modo più esplicito questo aspetto (cf. Lc 4,13 con 19,35-37). Di fatto tutta la vita di Gesù è esposta alla tentazione, è una prova. Ad esempio, in Gv 6,15 Gesù evita che lo proclamino re. Non esiste una prova definitiva, in quanto tutta una vita è messa alla prova[10].

4. Il deserto: «luogo di ospitalità»
La versione di Marco di Gesù nel deserto è concisa, perché non riporta le tre prove:
E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano (Mc 1,12-13).
Il termine «deserto» compare due volte con l’articolo. L’evangelista annta che Gesù «stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano». Anche Matteo accenna agli angeli, alla conclusione delle tre tentazioni (Mt 4,11), ma in Marco è più esplicito il riferimento a una tradizione apocrifa che precedeva l’epoca neotestamentaria. Secondo tale tradizione Adamo e Eva vivevano in pace con gli animali, anche quelli diventati feroci, ed erano serviti dagli angeli[11] e Adamo entrò a prendere parte dell’Eden dopo quaranta giorni[12].
Il deserto è luogo e tempo di passaggio, ma Marco sembra sottolineare anche il fatto che si tratti di un luogo di vita, di compimento escatologico, dove Gesù, nuovo Adamo, compie le promesse messianiche di Isaia a riguardo del rapporto con la natura (Is 35,1-2) e gli animali (Is 11,6-8)[13].
L’Antico Testamento parla di un deserto fiorito, partendo dall’esperienza concreta tutt’oggi sperimentabile di vedere i deserti di Israele trionfare di verde e di fiori a seguito delle rare piogge torrenziali. Tale prodigio non manca di suggerire un richiamo al giardino terrestre (Is 51,3), soprattutto per un profeta come Isaia che ha nutrito di questa esperienza molti dei suoi oracoli di speranza:
Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio (Is 35,1-2).
Il deserto non è richiamato per esprimere un nuovo esodo, quanto un giardino, un nuovo Eden. Isaia nei suoi oracoli include la terra arida: fa entrare nell’idea di terra promessa un deserto fiorito, ospitale, vivibile, gioioso e bello, pensato come dono. Nel rapporto tra deserto ed giardino (Eden), l’evangelista Marco sembra più di altri lasciare intendere una prospettiva futura, anticipa con un segno messianico a cosa si è destinati, a cosa puntare, dove si è diretti, senza bisogno di spostarsi. Is 11,6-8 profetizza come anche animali feroci partecipino di questa pace:
Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso (Is 11,6-8).
A ciò possiamo aggiungere anche Is 43,20 e 65,25. L’immagine diventa suggestiva di un ritorno alla dimensione primordiale, ma anche di un desiderio di pace dove non si versi più sangue (Gen 9,1-6), dove il rapporto con la natura non comporti più paura, minaccia, fatica per la sopravvivenza. Nella tradizione apocrifa, dopo la caduta si afferma esplicitamente che Adamo ed Eva erano condannati anche ad avere gli animali come nemici[14]. L’espressione «stava/era con le fiere», con l’imperfetto del verbo essere in senso continuativo, diventa l’eco di tutto mondo nuovo di relazioni guarite, rinnovate, salvate: un mondo di pace totale.
A distanza di secoli il deserto di Giuda ha ospitato centinaia di monaci. Come afferma Pia Compagnoni «il deserto di Giuda è fiorito, infatti, poiché si è popolato di migliaia di creature assetate di Dio»[15]. Caritone, Eutimio, Teodosio e Saba sono solo alcuni dei principali monaci anacoreti che dal IV al VI secolo hanno scelto di stare presso gli wadi del deserto, fondare laure, accogliere pellegrini, dedicarsi all’ascesi e alla preghiera, condividere le loro esperienze, accogliere e accompagnarli nella vita spirituale.

5. Dalla «terra promessa» alla «promessa della terra»
Questo passaggio comporta anche una rivisitazione geografica del significato della «terra promessa» (Eb 11,9), in funzione di una visione escatologica. La terra promessa non è da immaginare un luogo esclusivo ed escludente, se, da un punto di vista geografico, è profetizzata una meta dove trovano spazio anche luoghi inospitali come i deserti. Nella «promessa della terra» emerge la possibilità di ospitalità anche là dove non sembra possibile, perché si annunci una terra nuova, ospitale, cristologicamente orientata. Nella sola «terra promessa» il rischio è che i confini marchino in modo deleterio chi occupa lo spazio della salvezza e chi no[16].
L’immagine geografica favorisce l’interpretazione biblica che ha come sfondo l’Antico Testamento. Gesù è anche un «nuovo Giosuè», che completa il percorso del popolo presso le steppe di Moab, in attesa di entrare nella terra[17]. Il fiume Giordano fa da confine tra il tempo del Pentateuco, che è tempo e spazio di «attesa della terra», e i libri storici, tempo e spazio in cui si «vive sulla terra», perché si compie del tutto la promessa di Abramo (Gen 12,1-4).
Come Giosuè, anche Gesù sale dal Giordano, entra nella terra, sceglie la «Galilea delle Genti» (Is 8,22) e inizia il suo ministero con queste parole: «il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15; Lc 4,43).
Il popolo aveva più volte conquistato e poi persa la terra. Il regno divenne un sogno. Il popolo era segnato da questa tensione, tra deserto e città, tra desertificazione e abitazione. Gesù allora interrompe questo ciclo terribile, da cui non si esce, proprio perché non è più necessario uscire definitivamente dal deserto: il deserto può fiorire.

6. Gesù e i suoi deserti
Gesù lascia l’aerea desertica della Giudea, ma il deserto stesso «viaggia» con Gesù per le strade di Galilea. L’episodio iniziale è paradigmatico anche per la sua valenza geografica. Il deserto, infatti, caratterizzerà l’operato di Gesù anche altrove.
Gesù inizia la sua vita pubblica, si fa vivo presso i villaggi di Galilea, in particolare si stabilisce a Cafarnao (Mt 4,13 e 9,1). Questa immersione nella vita pubblica non impedisce a Gesù di appartarsi, di scegliersi degli «eremi» ed è proprio il termine eremos «deserto», utilizzato con la parola topos «luogo», che ritorna spesso per segnalare il momento in cui Gesù si ritira (Mt 14,13; Mc 1,35.45; 6,31; Lc 4,42; 5,16).
Se c’è una discontinuità geografica, di fatto incontriamo una forma di continuità terminologica dietro cui leggere un legame tra l’esperienza di Gesù nel deserto di Giuda e le scelte successive di ritirarsi in «luoghi deserti». Nel suo stile itinerante, Gesù ama isolarsi a tempo opportuno, ama non farsi trovare immediatamente. Nel versetto finale del primo capitolo di Marco sembra di sentire l’eco di qualcosa che capitava al Battista quando era nel deserto:
Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti (eremois topois); e venivano a lui da ogni parte (Mc 1,45).
È curioso pensare che Girolamo chiama solitudo[18] una sommità situata proprio nella zona di Tabgha, la zona delle sette sorgenti, la più frequentata da Gesù e ricca di riferimenti neotestamentari, nell’area di Cafarnao. È sulle montagne di questo lato del lago che Gesù amava ritirarsi (Mc 1,35; 6,46).
Anche Egeria descrive la medesima zona a nord ovest del lago e parla di «un monte alto sul quale il Signore spiegò ai discepoli le beatitudini e che è chiamato Eremus»[19]. L’altura davanti alla chiesa del Primato presso Tabga presenta una piccola grotta a pochi metri dai resti bizantini, abbandonati, memoria del luogo della proclamazione delle beatitudini, attualmente spostato sulla cima del monte, certamente più suggestivo per i turisti. Tale grotta, per quanto abbia solo qualche legame con la tradizione[20], è utile per comprendere la geografia del lago, per immaginare come Gesù si sceglieva gli eremoi topoi «luoghi deserti/solitari» (Mc 1,45), veri e propri osservatori sul mondo, appartati ma non isolati da una realtà che lo circondava e lo interrogava.
Dalle alture di Tabgha si contempla il lago: si vedevano alcuni porti, non ultimo quello di Cafarnao, sulla destra sono visibili Tiberiade e Magdala (Tarichea), i Corni di Hattin dove giungeva Wadi Hamam/Arbel, quindi una strada importante proveniente da Nazaret; di fronte, a Est, vi era la sponda pagana, dove si colloca l’episodio di Gerasa (Kursi) e primeggia la città di Sushita (Hyppos), collocata sul monte, città della Decapoli.
Il deserto dunque accompagna tutta la vita di Gesù. Egli sceglieva di ritirarsi, apprezzando una geografia della terra che permetteva di godere di spazi di solitudine fuori dai villaggi. Era quello un tempo e uno spazio privilegiato per consultarsi con il Padre celeste, uno spazio e un tempo in relazione con i villaggi e le strade, quindi con la gente.
Vi è un gioco di parole che amano fare i rabbini tra i termini ebraici dabar, «parola», e midbar, «deserto». Etimologicamente il termine affonda le sue origini nell’ugaritico, ma viene interpretato anche come nome composto mi + dabar, dove il mi- privativo permette di interpretare midbar con il significato di «assenza di parola». In effetti nel deserto la parola è assente, vige il silenzio, diventando un luogo ideale per educare alla ricerca del senso ultimo di ogni cosa, per comprendere cioè che «non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4). Il popolo, allora, ha veramente bisogno di essere condotto nel deserto, così Gesù ve lo porta e lo sfama: è la condivisione dei pani che troviamo in Mc 6,31-44 (cf. Mt 14,13-23). L’espressione eremos topos, «luogo deserto/solitario» si ripete per tre volte (vv. 31, 32 e 35). In Mc 6,40 la folla è suddivisa per cinquanta e cento richiamando Es 18,21.25.
Gesù nutre della sua manna il popolo, Gesù è parola che sazia la fame e la sete del deserto. Il deserto educa il cammino, la sete e la fame, cioè al rapporto tra sete e fede, tra desiderio e fede, tra la ricerca del senso e la possibilità di trovarlo proprio là dove sembra assente. Gesù ci guarisce dalla paura del deserto ma anche dalla ricerca di un deserto per soli scopi ascetici, per una fuga dal mondo. Abitandolo, anticipa proprio nel luogo più inospitale, la definitiva ospitalità che nei cieli ci attende.

NOTE SUL SITO (sono molte)

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Marco, 1, 21-28

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Publié dans:immagini sacre |on 26 janvier, 2018 |Pas de commentaires »

28 GENNAIO 2018 – 4A DOMENICA / TEMPO ORDINARIO – B | LETTURE – OMELIE

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28 GENNAIO 2018 – 4A DOMENICA / TEMPO ORDINARIO – B | LETTURE – OMELIE

Per cominciare
Gesù è il profeta che il popolo di Israele attendeva sin dai tempi di Mosè. Dall’inizio della vita pubblica, la sua parola colpisce chi lo ascolta: Gesù parla con autorità e trasmette insegnamenti nuovi. Lo fa attraverso le parole, ma anche con la sua vita e i miracoli.

La Parola di Dio
Deuteronomio 18,15-20. Mosè preannuncia per Israele un grande profeta, simile a lui. Egli parlerà a nome di Dio, che metterà sulla sua bocca le sue parole. In realtà Gesù è più grande di Mosè.
1 Corinzi 7,32-35. Continua la lettera di Paolo ai Corinzi. A quella città moderna ed evoluta Paolo propone come valore non solo il matrimonio, ma anche la verginità per il regno dei cieli.
Marco 1,21-28. Ancora un brano dal primo capitolo del vangelo di Marco. Gesù parla nella sinagoga di Cafarnao e la gente prova per lui grande ammirazione. Gesù prende la parola come un semplice ebreo, ma lo fa con autorità e a titolo personale, non come i maestri della legge. E conferma ciò che dice con i miraco

Riflettere…
o L’episodio si svolge a Cafarnao, presso il lago di Tiberiade (il lago dei miracoli di Gesù). Gesù è di passaggio, ma si sente di casa. Cafarnao è un po’ la sua città. È con i suoi discepoli.
o È sabato e Gesù entra nella sinagoga. Non ha titoli particolari per predicare, non è un sacerdote, né uno scriba. È un laico, un uomo adulto. Può parlare solo a questo titolo, ma lo fa con autorità.
o Non sappiamo che cosa dica, ma la gente è stupita e meravigliata (neanche Luca che cita lo stesso episodio al cap. 4, lo dice). « Nessuno ha mai parlato come quest’uomo », dirà qualcuno più tardi. « Beata chi ti fu madre », esclama una donna sentendolo parlare.
o Siamo ancora agli inizi del vangelo di Marco. I primi otto capitoli di questo vangelo (cioè metà) sono un susseguirsi di interrogativi su Gesù: quest’uomo sorprende, stupisce e suscita domande su quello che fa e per quello che è.
o Nella sinagoga di Cafarnao Gesù li sorprende anche di più perché conferma le sue parole con un miracolo straordinario, liberando un uomo dallo spirito impuro.
o La gente si domanda: « Chi è quest’uomo che parla con autorità, che guarisce i malati, che comanda agli spiriti maligni, che perdona i peccati, che è in grado di calmare le onde burrascose del lago… che annuncia una nuova dottrina, che chiama dei discepoli…? ». È un crescendo di domande che troveranno una prima risposta nella professione di fede di Pietro: « Tu sei il Cristo! » e poi nelle ultime righe del vangelo, per bocca del centurione romano: « Davvero costui era il Figlio di Dio! ».
o Era sabato: un’indicazione temporale di grande importanza. Il sabato è il giorno in cui la liturgia e la spiritualità ebraica celebrano la conclusione della creazione: è il giorno del « riposo » di Dio. Il gesto di liberazione dal male operato da Gesù va visto nella prospettiva di una nuova creazione, di un mondo nuovo ? il regno di Dio ? segnato non più dalle tendenze di morte, ma da un’armonia ritrovata tra le persone e il Creatore.

Attualizzare
* All’inizio della sua attività pubblica, subito dopo aver ricevuto il battesimo di Giovanni, Gesù si ritira per 40 giorni nel deserto, dove viene tentato e dove supera le tentazioni più comuni dell’uomo di ogni tempo: ricchezza, potere, fama. Poi chiama i primi quattro apostoli e dà inizio alla prima piccola comunità che si mette al suo seguito.
* Con gli apostoli si reca poi a Cafarnao ed entra nella sinagoga. Il vangelo dice che la gente è colpita dal modo di insegnare e di parlare di Gesù. Come dicevamo, non conosciamo le parole che ha pronunciato, ma non è tanto il contenuto che colpisce, quanto il suo modo di insegnare, così diverso da quello degli scribi e dei farisei. Gesù parla a titolo personale, con l’autorità stessa di Dio, che trova radici nella sua persona e sarà sempre accompagnata dai miracoli e dalla testimonianza della sua vita.
* Sarà così sempre. Gesù parlerà servendosi di un’autorità non delegata. « Io vi dico », dirà, dando alle sue parole un’autorità pari a quella di Dio.
aDel resto Gesù conosce molto bene le condizioni di vita della sua gente, di quelli che vanno ad ascoltarlo e lo seguono. Le sue parole partono dalla vita e giungono al cuore. Sono messaggi accessibili, facili da capire.
* Gesù non è solo un oratore brillante: interpreta la legge (la torah) in modo innovativo e provocatorio. Le sue parole sono piene di bontà e di comprensione nei confronti di gente che si aspetta finalmente una parola di speranza.
* La gente che ascolta Gesù è meravigliata del suo insegnamento. Giovane maestro di Nazaret, rivela soprattutto un nuovo volto di Dio. Non parla tanto dei castighi, di un Dio che può fare paura. Le sue sono parole di salvezza, di misericordia, di perdono incondizionato, anche per chi si trova lontano da Dio e vive in una situazione di peccato.
* Le parole di Gesù sono rafforzate da un gesto di liberazione. Nella sinagoga, non si sa come, perché gli immondi non venivano ammessi al culto, vi è un uomo posseduto da uno spirito impuro. Gesù intesse con lui un dialogo incalzante e per più versi drammatico. Il testo di Marco ha la freschezza di un racconto, di un testo teatrale.
aDa una parte quell’ammalato rivela l’identità di Gesù (« Io so chi tu sei: il santo di Dio »), dall’altra gli chiede di stare lontano da lui, di non rovinarlo. Anche in altre occasioni chi è impossessato dal demonio reagisce con isteria e paura di fronte a Gesù.
* A quel tempo non era facile distinguere tra « possessione diabolica » e una grave malattia (epilessia, parkinson). Forse nemmeno oggi. Ma allora era più facile trovare persone schiacciate dalla paura dei demoni e da gravi malattie inguaribili.
* Gesù restituisce a quell’uomo la piena dignità e lo libera. È un giorno di sabato, ma Gesù anche in questo modo insegna « con autorità ». Perché lui è signore anche del sabato.
aIn forza del miracolo, cresce l’interesse attorno a Gesù. La gente comincia a porsi domande: « Che è mai questo? », dice. È presa dallo sorpresa, dallo stupore. Comincia a domandarsi « chi » è Gesù. Questa non è ancora la fede, ma è la prima condizione per farla nascere.
* La liberazione dell’impuro porta con sé dei significati simbolici che ci riguardano da vicino. Ricordavamo domenica scorsa che Gesù all’inizio della vita pubblica invita il suo popolo alla conversione, cioè a darsi a un processo di liberazione personale. Perché il peccato non è mai qualcosa di piacevole e di costruttivo, ma di proibito. Il peccato è invece sempre una forma di schiavitù da cui ci si deve riscattare.
* Di fronte alla nostra esigenza di conversione, la tentazione è di dire anche noi a Gesù, come l’ »impossessato » di Cafarnao: « Sei venuto a rovinarci? ». Quasi per prenderne le distanze da lui, per paura che compia anche in noi il miracolo di renderci nuovi.
* Ci coinvolge poi anche l’identità profetica di Gesù, la sua autorità nelle parole e nella sua azione. È lui il nostro maestro, di fronte ai tanti condizionamenti che ci rendono schiavi e che ogni giorno ci raggiungono. In un tempo di grande pluralismo, di tanti che si propongono come facili maestri, ci si deve ancorare a chi dice « parole di vita eterna », che danno un senso pieno alla nostra vita.
* Nello stesso tempo anche noi, in forza del battesimo e della sequela a cui Gesù ci ha chiamati, dobbiamo diventare profeti e maestri alternativi nell’ambiente in cui viviamo. E imparare a riconoscere i profeti che vivono nel nostro tempo.
* « Diventare testimoni: molto meno per convincere che per essere segno. Infatti, si è detto che essere testimoni non è fare propaganda, né conoscere uno choc e neppure fare qualcosa di misterioso: E vivere in modo tale che la propria vita sia inspiegabile, se Dio non esiste » (card. Suhard).
Fascino di Gesù
« Se Cristo non ci affascina, non ci afferra, vuol dire che siamo cristiani semplicemente per motivi anagrafici, « perché siamo stati battezzati ». A me è piaciuto molto quanto ha detto Benedetto XVI: « Dobbiamo parlare di Cristo non per fare proselitismo », ma perché abbiamo trovato Colui che cercavamo. Perché il nostro cuore ha trovato l’Amato. Perché la gioia che abbiamo nel cuore, che portiamo nel cuore, la vogliamo condividere con gli altri » (Pascual Chavez).

J.A. Frias y Escalante, Conversione di San Paolo

Juan Antonio Frias y Escalante, Conversione di S. Paolo

Publié dans:immagini sacre |on 25 janvier, 2018 |Pas de commentaires »

San Paolo in prigione

paolo imm en e paolo - Copia (1)

Publié dans:immagini sacre |on 24 janvier, 2018 |Pas de commentaires »

1 CORINZI 12,31-13,13 – COMMENTO BIBLICO

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1 CORINZI 12,31-13,13 – COMMENTO BIBLICO

Fratelli, 31 aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte.13,1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
2 E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.
3 E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità niente mi giova.
4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, tutte spera, tutto sopporta.
8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
11 Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.
13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!

COMMENTO
1 Corinzi 12,31-13,13

L’inno all’amore
Nella sezione riguardante i carismi (cc. 12-14) Paolo afferma anzitutto la necessità di una loro pluralità pur nell’unità e complementarietà dei loro compiti (12,1-30); alla luce di questo principio egli dà poi le direttive concrete che devono regolar il loro uso (14,1-40). Ma prima di passare a questa seconda fase della sua trattazione, egli indica, nel testo qui proposto dalla liturgia, qual è il criterio fondamentale in base al quale si può e si deve verificare l’autenticità dei carismi.
Il brano inizia con una esortazione: «Aspirate (zêloute) ai carismi più grandi (meizona) Ebbene vi mostrerò la via (hodon) più sublime (kath’hyperbolên, per eccellenza)» (12,31). Il collegamento di questa frase con quanto segue non è chiaro. L’espressione «i carismi più grandi» infatti potrebbe riferirsi all’amore, che l’apostolo sta presentare come la via per eccellenza, cioè il culmine di tutti i carismi. Esso infatti, anche se non è propriamente un carisma, rappresenta il loro fondamento e la loro ragione d’essere. In questo caso il discorso procede logicamente nel c. 13 che contiene appunto l’inno all’amore. Ma è possibile anche che i «carismi più grandi» siano quelli elencati per primi nel v. 28 e in modo speciale la profezia, che viene appunto raccomandata a partire da 14,1. In questo caso il discorso continuerebbe logicamente nel c. 14, mentre il c. 13 rappresenterebbe una digressione, nella quale Paolo presenta l’amore come la «via più sublime», cioè come la caratteristica essenziale e insostituibile di ogni carisma autentico. Secondo un’ipotesi abbastanza diffusa questo testo sarebbe una composizione preesistente che Paolo ha inserito qui perché si adattava al contesto. Ma i riferimenti che esso contiene ai carismi enumerati nel capitolo precedente sono così espliciti da far concludere che sia stato composto in funzione del tema che sta svolgendo.
Il brano è detto solo impropriamente «inno». Esso si avvicina piuttosto al modello ellenistico dell’«encomio», che consiste nell’elogio del valore supremo o della virtù più grande, o piuttosto ad alcune pagine della letteratura biblica sapienziale in cui la sapienza viene esaltata o esalta se stessa (cfr. Pr 8,4-36; Sir 24,3-21; Sap 7,22-30). L’inno all’amore si divide senza difficoltà in tre parti: amore e carismi (vv. 1-3); le caratteristiche del vero amore (vv. 4-7); la superiorità dell’amore (vv. 8-13).

Amore e carismi (13,1-3).
L’apostolo mostra anzitutto in tre frasi condizionali l’inutilità di una pratica dei carismi disgiunta dall’amore. Egli allude solo ad alcuni dei carismi elencati precedentemente, senza seguire un ordine preciso, ma citando anzitutto proprio la glossolalia, che prima era stata posta al termine dell’elenco (cfr. 12,10.28). Così facendo vuole indicare che è la prima a rischiare di essere un vano esercizio, privo di amore. Egli afferma: «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna» (v. 1). Il parlare in lingue è considerato qui nella sua massima realizzazione, quella cioè che permette all’individuo di esprimersi non solo in lingue parlate dagli uomini, ma anche in altre dotate di carattere superiore, in quanto parlate addirittura dagli angeli. Eppure tale esercizio di glossolalia non sarebbe paragonabile ad altro che a un fracasso senza melodia, se non fosse ispirato dall’amore (agapê). Questo termine è apparso già due volte nella lettera (4,21; 8,1), mentre altre due volte è stato usato il verbo agapaô (2,9; 8,3): l’amore designa nell’AT il motivo profondo per cui Dio ha scelto Israele donandogli l’alleanza (Dt 7,7-8), e di riflesso la lealtà del popolo nei confronti di Dio (Dt 6,5) e del prossimo (Lv 19,18).
Paolo passa poi a esaminare altri due carismi, quello della profezia e quello della fede: «E se avessi il dono della profezia, e conoscessi tutti i misteri e tutta la conoscenza, se possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla» (v. 2). La profezia era stata nominata prima al sesto posto (12,8-10) e poi al secondo (12,28); nel c. 14 verrà raccomandata come il carisma più importante rispetto alla glossolalia (cfr. 14,1-4). Si tratta di un carisma che comporta per chi lo esercita il rischio di lasciarsi prendere dalla vanità. La prerogativa di «conoscere tutti i misteri» coincide con il dono chiamato «linguaggio della sapienza» (12,8; cfr. 2,7-10); la «conoscenza» (gnôsis) implica la capacità di applicare il messaggio cristiano alla prassi (12,8; cfr. 8,1); la fede, citata anch’essa precedentemente (cfr. 12,9), non è la virtù in base alla quale il peccatore viene giustificato, ma un’adesione straordinariamente convinta e convincente al dato rivelato, capace, per iperbole, di trasportare persino le montagna. Anche colui che è capace di esercitare questi importanti carismi nella loro massima potenzialità, se non ha l’amore, non vale nulla.
Infine Paolo prende in considerazione due gesti che possono essere ricollegati al carisma di assistenza (cfr. 12,28): «E se distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova» (v. 3). La distribuzione dei propri beni è fatta senza dubbio a favore dei poveri e dei bisognosi (cfr. At 4,36). La stessa cosa si può dire del dono del proprio corpo: esso infatti non indica probabilmente il martirio, ma piuttosto la pratica, descritta da Clemente Romano, di vendersi come schiavi allo scopo di venire incontro, con il ricavato, alle necessità dei poveri: in questo caso l’espressione «per essere bruciato» potrebbe indicare il marchio impresso a fuoco sul corpo di colui che si è venduto come schiavo.
In molti antichi manoscritti però si legge, al posto di «per essere bruciato», l’espressione «per trarne gloria»: se questa fosse la lezione originale, Paolo sottolineerebbe che anche il massimo dei servizi resi ai più poveri potrebbe essere ispirato dall’orgoglio, e allora non avrebbe alcuna utilità. E in realtà è proprio l’orgoglio che, subentrando al posto dell’amore, può far compiere opere che possono rassomigliare all’esercizio in sommo grado dei carismi. Esse però non hanno nessun valore ai fini della salvezza.

Prerogative dell’amore (13,4-7).
Nella seconda parte Paolo spiega quali sono le caratteristiche del vero amore, o meglio di colui che veramente lo pratica. L’amore presenta anzitutto due caratteristiche positive: «La carità è paziente (makrothymei), è benigna (chrêsteuetai) la carità» (v. 4a). La pazienza fa sì che uno sappia sopportare le ingiustizie senza lasciarsi prendere dall’ira e dallo scoraggiamento; la benignità, spesso associata alla pazienza, indica invece la bontà e la delicatezza di animo e di tratto. L’amore si distingue dunque principalmente per il rifiuto della violenza, anche verbale, propria di chi è preoccupato anzitutto dei suoi diritti.
Segue poi una lista di atteggiamenti negativi che l’amore porta spontaneamente ad evitare: «Non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia (d’orgoglio), non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità» (vv. 4b-6). L’invidiare (zeloô, essere zelante), che è tipico anche dei corinzi, (cfr. 3,3) porta la persona ad impegnarsi attivamente, ma allo scopo di soppiantare l’altro, aprendo così la strada al fanatismo, caratteristico per esempio del movimento degli «zeloti». Il «vantarsi» (perpereuomai) indica l’esaltazione orgogliosa di sé, che coincide con il «gonfiarsi» (physioumai), di cui hanno dato prova più volte anche i corinzi (cfr. 4,6.18-19; 5,2; 8,1). La «mancanza di rispetto» (aschêmoneô; cfr. 7,35-36; 14,40), indica l’assenza di decoro e di controllo di sé.
Il «cercare il proprio interesse (ta heautês, le cose proprie)» coincide con l’egoismo personale o di gruppo, mentre l’«adirarsi» (paroxynomai) indica un atteggiamento violento ed emotivo che porta facilmente a decisioni avventate, come quello che ha portato Paolo stesso a separarsi da Barnaba (cfr. At 15,39); il «tenere conto del male (ricevuto)» non è altro che lo spirito di vendetta. In sintesi il vero amore porta la persona ad evitare di mettersi al primo posto, scavalcando o sopprimendo gli altri. Infine l’amore non gode dell’ingiustizia (adikia), che invece i corinzi commettevano proprio nei confronti dei loro fratelli (6,7-8), ma si rallegra della «verità» (alêtheia): questo termine non indica (qui come in 5,8) dottrine astratte, ma il bene morale in tutti i suoi risvolti. Colui che è ispirato dall’amore non può venire a compromessi con il male, neppure quando questo sembra un mezzo utile per ottenere qualsiasi tipo di bene.
Concludono la lista quattro affermazioni positive: la carità «tutto scusa (stegei), tutto crede (pisteuei), tutto spera (elpizei), tutto sopporta (hypomenei)» (v. 7). Con questi verbi l’apostolo non vuole indicare l’ingenua mancanza di senso critico nel valutare le azioni altrui, ma piuttosto la capacità di perdonare, di credere negli altri, di dare loro fiducia e di sopportare qualunque sofferenza per il sopravvento del bene. È possibile che già in questo versetto l’apostolo faccia riferimento alla fede e alla speranza, che insieme alla carità formano le tre virtù teologali (cfr. v. 13); comunque è certo che egli pensa ai rapporti tra persone. Ma è chiaro che, anche quando hanno come termine Dio, queste tre virtù non cessano mai di radicarsi nei rapporti interpersonali.

L’amore dura per sempre (13,8-13).
Nell’ultima parte dell’inno Paolo mostra che l’amore, l’unico capace di dare senso ai carismi, è anche una realtà che li trascende nel tempo. Il pensiero di Paolo è qui orientato alla venuta finale del regno di Dio, che considera imminente (cfr. 15,51). Egli afferma: «La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà» (v. 8). Alla fine non solo un carisma secondario come la glossolalia, ma anche gli altri più importanti, come la profezia e la conoscenza, scompariranno; l’amore invece non verrà mai meno. Paolo esplicita questo pensiero aggiungendo: «La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà» (vv. 9-10). I carismi infatti sono realtà che appartengono a questo mondo ancora imperfetto e con esso scompariranno quando inizierà il nuovo mondo che avrà come caratteristica fondamentale la perfezione.
A conferma di ciò Paolo porta un esempio: «Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che era da bambino» (v. 11). Quando diventa adulto, un uomo abbandona i modi e i comportamenti che sono tipici della fanciullezza. Allo stesso modo anche l’umanità, quando entrerà nella pienezza del regno, si libererà da situazioni e comportamenti che appartengono a un tempo precedente e hanno carattere soltanto provvisorio e preparatorio.
La stessa riflessione viene poi riproposta in due frasi parallele, mediante il ricorso a un’altra immagine: «Ora noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (v. 12). In questa fase terrena, in cui hanno tanta parte i carismi, vediamo (blepomen), cioè abbiamo un’esperienza (di Dio) piuttosto «confusa» (en ainigmati), analoga alla visione che si ha quando si guarda in uno specchio: questo paragone si comprende ricordando che gli specchi greci avevano un carattere rudimentale; è possibile però che qui si faccia allusione al costume di usare uno specchio per conoscere il futuro (specchio magico), con risultati tutt’altro che attendibili. Un giorno invece vedremo (Dio) «faccia a faccia»: questa espressione proviene da Es 33,11, dove indica il rapporto diretto che Dio aveva con Mosè, a differenza di quello che avevano con lui tutti gli altri profeti. A una conoscenza imperfetta (di Dio) subentrerà un giorno una conoscenza perfetta, simile a quella che Dio stesso ha di noi (cfr. 8,3; Gal 4,9).
L’inno all’amore si conclude con queste parole: «Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!» (v. 13). In questa frase la formula iniziale «Ora dunque» (nyni de) può avere valore conclusivo o temporale. Nel primo caso tutta la frase si ricollegherebbe direttamente al v. 8 e vorrebbe dire che l’amore, in contrasto con i carismi, rimarrà anche nel mondo futuro, unitamente alle altre due virtù teologali, di cui è la più importante. Questa spiegazione però si oppone al fatto che Paolo stesso afferma la caducità della fede (cfr. 2Cor 5,7) e della speranza (cfr. Rm 8,24-25). È dunque meglio interpretare «Ora dunque» in senso temporale e ricollegare tutta la frase al v. 12: attualmente oltre ai carismi, restano la fede, la speranza e l’amore, ma l’amore è la virtù più grande perché, diversamente dalle altre due, resterà per sempre.
Paolo dunque vuole affermare che l’amore è l’unica realtà che non verrà meno neppure quando questo mondo scomparirà e ad esso subentrerà il nuovo mondo promesso da Dio. Esso dunque anticipa già in questo mondo la perfezione propria della salvezza finale. Tutte le altre realtà umane sono in se stesse imperfette e caduche, e ricevono una dimensione di eternità solo se sono ispirate dall’amore.

Linee interpretative
Con l’inno all’amore Paolo mette in luce il vero significato dei carismi, in quanto doni che devono servire all’edificazione della comunità e di conseguenza vanno esercitati da ciascuno in piena solidarietà con quelli degli altri, senza permettere che uno prevarichi sugli altri. Per eliminare gli abusi egli non cede alla tentazione di porre limiti alla partecipazione attiva di tutti i membri della comunità, magari accentuando il controllo da parte di coloro che vi svolgono ruoli direttivi. Neppure la glossolalia viene squalificata o esclusa. L’apostolo si limita a proporre l’amore come criterio ultimo per una corretta valutazione e utilizzo dei carismi e ad esigere che tutto avvenga con ordine e rispetto delle persone. Egli vuole evitare che si spenga lo Spirito (cfr. 1Ts 5,19), cosa che purtroppo si è verificata lungo i secoli, quando i cristiani sono stati costretti a partecipare a liturgie celebrate in una lingua sconosciuta e ad assumere in esse un comportamento quasi del tutto passivo.
L’amore di cui si parla in questo brano non è un atteggiamento di tipo assistenzialistico, in forza del quale uno si impegna ad aiutare l’altro, senza però mai coinvolgersi nella sua vita. Al contrario esso porta ciascuno a sentirsi parte dell’altro e ad anteporre il bene di tutti al proprio bene personale, inteso in senso egoistico. Questo tipo di amore trova il suo massimo sviluppo nella comunità che, come un tempo il popolo di Israele, rappresenta un tutto omogeneo, le cui parti si armonizzano tra loro in forza della fede comune. Di qui l’amore si espande in cerchi concentrici, raggiungendo tutti coloro che si trovano nel bisogno. Perciò questo brano rappresenta un importante momento di sintesi non solo dei principi che devono ispirare l’uso dei carismi, ma anche di tutto il contenuto della lettera, di cui rappresenta il centro.

 

Publié dans:COMMENTI BIBLICI, LETTERE PAOLINE |on 24 janvier, 2018 |Pas de commentaires »

San Paolo Apostolo

immpens e it - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 23 janvier, 2018 |Pas de commentaires »
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