Archive pour novembre, 2017

Sant’Andrea Apostolo e martire

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SANT’ANDREA APOSTOLO – 30 NOVEMBRE

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SANT’ANDREA APOSTOLO – 30 NOVEMBRE

Bethsaida di Galilea – Patrasso (Grecia), ca. 60 dopo Cristo

All’apostolo Andrea spetta il titolo di “Primo chiamato”. Ed è commovente il fatto che, nel Vangelo, sia perfino annotata l’ora («le quattro del pomeriggio») del suo primo incontro e primo appuntamento con Gesù. Fu poi Andrea a comunicare al fratello Pietro la scoperta del Messia e a condurlo in fretta da Lui. La sua presenza è sottolineata in modo particolare nell’episodio della moltiplicazione dei pani. Sappiamo inoltre che, proprio ad Andrea, si rivolsero dei greci che volevano conoscere Gesù, ed egli li condusse al Divino Maestro. Su di lui non abbiamo altre notizie certe, anche se, nei secoli successivi, vennero divulgati degli Atti che lo riguardano, ma che hanno scarsa attendibilità. Secondo gli antichi scrittori cristiani, l’apostolo Andrea avrebbe evangelizzato l’Asia minore e le regioni lungo il mar Nero, giungendo fino al Volga. È perciò onorato come patrono in Romania, Ucraina e Russia.
Commovente è la “passione” – anch’essa tardiva – che racconta la morte dell’apostolo, che sarebbe avvenuta a Patrasso, in Acaia: condannato al supplizio della croce, egli stesso avrebbe chiesto d’essere appeso a una croce particolare fatta ad X (croce che da allora porta il suo nome) e che evoca, nella sua stessa forma, l’iniziale greca del nome di Cristo. La Legenda aurea riferisce che Andrea andò incontro alla sua croce con questa splendida invocazione sulle labbra: «Salve Croce, santificata dal corpo di Gesù e impreziosita dalle gemme del suo sangue… Vengo a te pieno di sicurezza e di gioia, affinché tu riceva il discepolo di Colui che su di te è morto. Croce buona, a lungo desiderata, che le membra del Signore hanno rivestito di tanta bellezza! Da sempre io ti ho amata e ho desiderato di abbracciarti… Accoglimi e portami dal mio Maestro».

Patronato: Pescatori
Etimologia: Andrea = virile, gagliardo, dal greco
Emblema: Croce decussata, Rete da pescatore

Martirologio Romano: Festa di sant’Andrea, Apostolo: nato a Betsaida, fratello di Simon Pietro e pescatore insieme a lui, fu il primo tra i discepoli di Giovanni Battista ad essere chiamato dal Signore Gesù presso il Giordano, lo seguì e condusse da lui anche suo fratello. Dopo la Pentecoste si dice abbia predicato il Vangelo nella regione dell’Acaia in Grecia e subíto la crocifissione a Patrasso. La Chiesa di Costantinopoli lo venera come suo insigne patrono.
“Vocazione di Pietro e Andrea”, Duccio di Buoninsegna (1308-1311)
Tra gli apostoli è il primo che incontriamo nei Vangeli: il pescatore Andrea, nato a Bethsaida di Galilea, fratello di Simon Pietro. Il Vangelo di Giovanni (cap. 1) ce lo mostra con un amico mentre segue la predicazione del Battista; il quale, vedendo passare Gesù da lui battezzato il giorno prima, esclama: “Ecco l’agnello di Dio!”. Parole che immediatamente spingono Andrea e il suo amico verso Gesù: lo raggiungono, gli parlano e Andrea corre poi a informare il fratello: “Abbiamo trovato il Messia!”. Poco dopo, ecco pure Simone davanti a Gesù; il quale “fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni: ti chiamerai Cefa””. Questa è la presentazione. Poi viene la chiamata. I due fratelli sono tornati al loro lavoro di pescatori sul “mare di Galilea”: ma lasciano tutto di colpo quando arriva Gesù e dice: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini” (Matteo 4,18-20).
Troviamo poi Andrea nel gruppetto – con Pietro, Giacomo e Giovanni – che sul monte degli Ulivi, “in disparte”, interroga Gesù sui segni degli ultimi tempi: e la risposta è nota come il “discorso escatologico” del Signore, che insegna come ci si deve preparare alla venuta del Figlio dell’Uomo “con grande potenza e gloria” (Marco 13). Infine, il nome di Andrea compare nel primo capitolo degli Atti con quelli degli altri apostoli diretti a Gerusalemme dopo l’Ascensione.
E poi la Scrittura non dice altro di lui, mentre ne parlano alcuni testi apocrifi, ossia non canonici. Uno di questi, del II secolo, pubblicato nel 1740 da L.A. Muratori, afferma che Andrea ha incoraggiato Giovanni a scrivere il suo Vangelo. E un testo copto contiene questa benedizione di Gesù ad Andrea: “Tu sarai una colonna di luce nel mio regno, in Gerusalemme, la mia città prediletta. Amen”. Lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. E qui subisce il martirio per crocifissione: appeso con funi a testa in giù, secondo una tradizione, a una croce in forma di X; quella detta poi “croce di Sant’Andrea”. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre.
Nel 357 i suoi resti vengono portati a Costantinopoli; ma il capo, tranne un frammento, resta a Patrasso. Nel 1206, durante l’occupazione di Costantinopoli (quarta crociata) il legato pontificio cardinale Capuano, di Amalfi, trasferisce quelle reliquie in Italia. E nel 1208 gli amalfitani le accolgono solennemente nella cripta del loro Duomo. Quando nel 1460 i Turchi invadono la Grecia, il capo dell’Apostolo viene portato da Patrasso a Roma, dove sarà custodito in San Pietro per cinque secoli. Ossia fino a quando il papa Paolo VI, nel 1964, farà restituire la reliquia alla Chiesa di Patrasso.

PREGHIERA DI SANT’ANDREA APOSTOLO
(Racconto del VI secolo “Passione di Andrea”, ricordato da Papa benedetto XVI nella catechesi su S. Andrea Apostolo)
Salve, o Croce,
inaugurata per mezzo del corpo di Cristo
e divenuta adorna delle sue membra,
come fossero perle preziose.
Prima che il Signore salisse su di te,
tu incutevi un timore terreno.
Ora invece, dotata di un amore celeste,
sei ricevuta come un dono.
I credenti sanno, a tuo riguardo,
quanta gioia tu possiedi,
quanti regali tu tieni preparati.
Sicuro dunque e pieno di gioia io vengo a te,
perché anche tu mi riceva esultante
come discepolo di colui che fu sospeso a te.
O Croce beata,
che ricevesti la maestà e la bellezza
delle membra del Signore!
Prendimi e portami lontano dagli uomini
e rendimi al mio Maestro,
affinché per mezzo tuo
mi riceva chi per te mi ha redento.
Salve, o Croce;
sì, salve davvero!

 

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antico fonte battesimale, Aosta

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Publié dans:immagini sacre |on 28 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

MEDITAZIONE SULL’AVVENTO: VIENE IL NOSTRO DIO

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MEDITAZIONE SULL’AVVENTO: VIENE IL NOSTRO DIO

Nel cuore della nostra fede c’è un’attesa. Questa non è data da un’assenza, ma da una venuta. Gesù Risorto non è mai assente dalla sua Chiesa. È vero che i segni della sua presenza non sono sempre immediatamente riconoscibili, poiché dopo la sua Pasqua, come dice Sant’Ambrogio: «non con gli occhi della carne, ma con quelli dello Spirito si vede Gesù».
Tuttavia Gesù è sempre presente, però la Sua è la presenza di un Veniente, che rimane altro rispetto ai nostri tentativi di catturarlo e di ricondurlo dentro i confini delle nostre attese e dei nostri bisogni. Il suo venire ci converte sempre a un andare verso di Lui, in un esodo da noi stessi che ci consegna alla novità e allo stupore.
Uno stupore a cui è chiamata tutta l’umanità, perché l’invito di Dio è rivolto a tutti i popoli. Infatti, proprio all’inizio dell’Avvento la liturgia ci ricorda il nostro dovere di annunciare a tutti i popoli la venuta del Signore: «Date l’annunzio ai popoli: Ecco, Dio, il nostro Salvatore, viene» (Vespri, Antifona 1ª).

Come sentinella nella notte
La Chiesa è travolta da questo compito immane: annunciare a tutti che Dio viene, anzi che Lui è il perenne veniente. Questo è il rivelarsi della sua azione dinamica verso di noi, ma anche dice qualcosa di Suo, di intimo a Dio stesso. Dio è colui che è nel suo incessante avvicinarsi. Il sopraggiungere improvviso, come un lampo, non è solo una caratteristica di Dio ma è il suo stesso esserci nella storia dell’uomo. Dio è l’improvviso ma è anche l’inatteso, per questo sorprende come un ladro o come uno sposo. È sposo per chi l’attende come l’amico dello sposo che gioisce alla sua venuta, per chi desidera il suo giorno, per chi brama che i giorni del nostro trascorrere terreno siano tutti suoi, ripieni della gioia nuziale, dei flauti della festa, del fervore del banchetto. Ma è ladro per chi vuole trattenere qualcosa per sé, per chi ha timore di perdere la sua vita, per chi costruisce sulla sabbia del mondo e non sulla roccia di Lui che è la Parola che non muta.

Inizi sempre nuovi
Giustamente il libro dell’Apocalisse si conclude con l’invocazione dello Spirito e della sposa che dicono insieme «Vieni» e ascoltano la promessa del Signore che dice: «Sì, verrò presto!» (Ap 22,17-21). Perché Colui che era e che è rimane sempre colui che viene.
Sempre l’Apocalisse ricorda, in sintonia con altri testi neo testamentari, che il Signore viene come un ladro (cf 3,3; 16,15). Questa metafora inconsueta, oltre ad evocare l’imprevedibile della venuta del Signore, ci invita a lasciarci «rubare» qualcosa da colui che viene. Egli deve strapparci a noi stessi, alla certezza dei nostri possessi, perché la relazione con il Signore diviene autentica soltanto se, come dice San Gregorio di Nissa ci fa passare attraverso «inizi sempre nuovi, che non hanno fine».

Il volto orientale
Benedetto XVI ci ha ricordato che l’Avvento richiama i credenti a prendere coscienza di questa verità e ad agire in conseguenza. Questo «vieni!» risuona come un appello salutare nel ripetersi dei giorni, delle settimane, dei mesi: Svegliati! Ricordati che Dio viene! Non ieri, non domani, ma oggi, adesso! L’unico vero Dio, «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», non è un Dio che se ne sta in cielo, disinteressato a noi e alla nostra storia, ma è il-Dio-che-viene. È un Padre che mai smette di pensare a noi e, nel rispetto estremo della nostra libertà, desidera incontrarci e visitarci; vuole venire, dimorare in mezzo a noi, restare con noi. Il suo «venire» è spinto dalla volontà di liberarci dal male e dalla morte, da tutto ciò che impedisce la nostra vera felicità.
Dio ci offre la sua stessa gioia eterna, poiché Lui è la novità assoluta sottratta alla corruzione del tempo. Così, Dio viene portando con Sé il giorno nuovo, rapito alla dissoluzione del sepolcro della storia, perché Dio è l’eterno inizio, è la perenne alba nel suo giorno senza tramonto. Con grande intuito, un teologo contemporaneo, J. B. Metz ha detto che il nostro Dio ha sempre un «volto albeggiante». Il suo sguardo ha il colore e la profondità dell’aurora. È come un sole che sorge sulla nostra vita. Vir Oriens nomen eius, canta un’antifona del Tempo di Avvento, riprendendo un’espressione del profeta Zaccaria (cf Zc 6,12). Oriente è il nome di Dio. L’Avvento è un tempo privilegiato nel quale tornare a orientare la nostra vita, nel senso originario dell’espressione che esorta a volgerci verso oriente, che è il luogo di Dio. L’uomo che perde la sua relazione con l’oriente si smarrisce. Nelle prime pagine della Genesi viene ricordato il peccato di Babele (11,19), che nasce anche da questo disorientamento radicale, «Emigrarono da oriente», dice il testo e la conclusione è la costruzione di una torre, simbolo di un uomo che progetta la propria città, il proprio futuro, senza attendere e accogliere quella promessa di Dio che sorge sempre in modo nuovo sulla vita. All’uomo di Babele Dio risponde con la chiamata di Abramo, che è colui che si fida della promessa di Dio e, anziché progettare una città, lascia la propria terra per andare verso quella terra non ancora conosciuta che Dio promette di indicargli (Gen 12,1-4). L’uomo è oggi malato di questa pretesa di essere l’unico artefice della propria vita, e, volgendosi verso occidente, guarda soltanto a ciò che le sue mani possono inventare e produrre, fino alla manipolazione genetica della vita.

Le tre venute di Cristo
I Padri della Chiesa osservano che il «venire» di Dio – continuo e, per così dire, connaturale al suo stesso essere – si concentra nelle due principali venute di Cristo, quella della sua Incarnazione e quella del suo ritorno glorioso alla fine della storia (cf Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 15,1).
Il tempo di Avvento vive di questa polarità. Nei primi giorni l’accento cade sull’attesa dell’ultima venuta del Signore, come dimostrano i testi delle prime celebrazioni dell’Avvento. Avvicinandosi poi il Natale, prevarrà invece la memoria dell’avvenimento di Betlemme, per riconoscere in esso la «pienezza del tempo».
Tra queste due venute «manifeste» se ne può individuare una terza, che San Bernardo chiama «intermedia» e «occulta», la quale avviene nell’anima dei credenti e getta come un «ponte» tra la prima e l’ultima.
In questo Avvento di mezzo (medius Adventus), o «tempo della visitazione», noi celebriamo la memoria dell’Incarnazione e attendendo la venuta nel compimento, facciamo del tempo della nostra attesa anche l’occasione in cui scopriamo con meraviglia che il nostro Dio desidera essere atteso.
Non solo esige la nostra vigilanza, ma fa della nostra attesa l’oggetto del suo desiderio. Ogni uomo gioisce nel sapersi atteso da qualcuno. Questo è vero anche per il Signore Gesù (…) Dio cerca e desidera qualcuno che lo accolga a lo lasci dimorare nella sua vita. La sua venuta suscita la nostra vigilanza, e la nostra attesa manifesta la gioia di Dio nell’incontrarci.
Egli ci invita alla vigilanza, perché chi ama cerca sempre qualcuno che lo attenda.

Lorenzo Villar

corner prayer

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Publié dans:immagini sacre |on 27 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – LA PREGHIERA ATTRAVERSA TUTTA LA VITA DI GESÙ (2011)

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BENEDETTO XVI – LA PREGHIERA ATTRAVERSA TUTTA LA VITA DI GESÙ (2011)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 30 novembre 2011

Cari fratelli e sorelle,

nelle ultime catechesi abbiamo riflettuto su alcuni esempi di preghiera nell’Antico Testamento, oggi vorrei iniziare a guardare a Gesù, alla sua preghiera, che attraversa tutta la sua vita, come un canale segreto che irriga l’esistenza, le relazioni, i gesti e che lo guida, con progressiva fermezza, al dono totale di sé, secondo il progetto di amore di Dio Padre. Gesù è il maestro anche delle nostre preghiere, anzi Egli è il sostegno attivo e fraterno di ogni nostro rivolgerci al Padre. Davvero, come sintetizza un titolo del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, «la preghiera è pienamente rivelata ed attuata in Gesù» (541-547). A Lui vogliamo guardare nelle prossime catechesi.
Un momento particolarmente significativo di questo suo cammino è la preghiera che segue il battesimo a cui si sottopone nel fiume Giordano. L’Evangelista Luca annota che Gesù, dopo aver ricevuto, insieme a tutto il popolo, il battesimo per mano di Giovanni il Battista, entra in una preghiera personalissima e prolungata: «Mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo» (Lc 3,21-22). Proprio questo «stare in preghiera», in dialogo con il Padre illumina l’azione che ha compiuto insieme a tanti del suo popolo, accorsi alla riva del Giordano. Pregando, Egli dona a questo suo gesto, del battesimo, un tratto esclusivo e personale.
Il Battista aveva rivolto un forte appello a vivere veramente come «figli di Abramo», convertendosi al bene e compiendo frutti degni di tale cambiamento (cfr Lc 3,7-9). E un gran numero di Israeliti si era mosso, come ricorda l’Evangelista Marco, che scrive: «Accorrevano… [a Giovanni] tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati» (Mc 1,5). Il Battista portava qualcosa di realmente nuovo: sottoporsi al battesimo doveva segnare una svolta determinante, lasciare una condotta legata al peccato ed iniziare una vita nuova. Anche Gesù accoglie questo invito, entra nella grigia moltitudine dei peccatori che attendono sulla riva del Giordano. Ma, come ai primi cristiani, anche in noi sorge la domanda: perché Gesù si sottopone volontariamente a questo battesimo di penitenza e di conversione? Non ha da confessare peccati, non aveva peccati, quindi anche non aveva bisogno di convertirsi. Perché allora questo gesto? L’Evangelista Matteo riporta lo stupore del Battista che afferma: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?» (Mt 3,14) e la risposta di Gesù: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia» (v. 15). Il senso della parola «giustizia» nel mondo biblico è accettare pienamente la volontà di Dio. Gesù mostra la sua vicinanza a quella parte del suo popolo che, seguendo il Battista, riconosce insufficiente il semplice considerarsi figli di Abramo, ma vuole compiere la volontà di Dio, vuole impegnarsi perché il proprio comportamento sia una risposta fedele all’alleanza offerta da Dio in Abramo. Discendendo allora nel fiume Giordano, Gesù, senza peccato, rende visibile la sua solidarietà con coloro che riconoscono i propri peccati, scelgono di pentirsi e di cambiare vita; fa comprendere che essere parte del popolo di Dio vuol dire entrare in un’ottica di novità di vita, di vita secondo Dio.
In questo gesto Gesù anticipa la croce, dà inizio alla sua attività prendendo il posto dei peccatori, assumendo sulle sue spalle il peso della colpa dell’intera umanità, adempiendo la volontà del Padre. Raccogliendosi in preghiera, Gesù mostra l’intimo legame con il Padre che è nei Cieli, sperimenta la sua paternità, coglie la bellezza esigente del suo amore, e nel colloquio con il Padre riceve la conferma della sua missione. Nelle parole che risuonano dal Cielo (cfr Lc 3,22) vi è il rimando anticipato al mistero pasquale, alla croce e alla risurrezione. La voce divina lo definisce «Il Figlio mio, l’amato», richiamando Isacco, l’amatissimo figlio che il padre Abramo era disposto a sacrificare, secondo il comando di Dio (cfr Gen 22,1-14). Gesù non è solo il Figlio di Davide discendente messianico regale, o il Servo di cui Dio si compiace, ma è anche il Figlio unigenito, l’amato, simile a Isacco, che Dio Padre dona per la salvezza del mondo. Nel momento in cui, attraverso la preghiera, Gesù vive in profondità la propria figliolanza e l’esperienza della paternità di Dio (cfr Lc 3,22b), discende lo Spirito Santo (cfr Lc 3,22a), che lo guida nella sua missione e che Egli effonderà dopo essere stato innalzato sulla croce (cfr Gv 1,32-34; 7,37-39), perché illumini l’opera della Chiesa. Nella preghiera, Gesù vive un ininterrotto contatto con il Padre per realizzare fino in fondo il progetto di amore per gli uomini.
Sullo sfondo di questa straordinaria preghiera sta l’intera esistenza di Gesù vissuta in una famiglia profondamente legata alla tradizione religiosa del popolo di Israele. Lo mostrano i riferimenti che troviamo nei Vangeli: la sua circoncisione (cfr Lc 2,21) e la sua presentazione al tempio (cfr Lc 2,22-24), come pure l’educazione e la formazione a Nazaret, nella santa casa (cfr Lc 2,39-40 e 2,51-52). Si tratta di «circa trent’anni» (Lc 3,23), un tempo lungo di vita nascosta e feriale, anche se con esperienze di partecipazione a momenti di espressione religiosa comunitaria, come i pellegrinaggi a Gerusalemme (cfr Lc 2,41). Narrandoci l’episodio di Gesù dodicenne nel tempio, seduto in mezzo ai maestri (cfr Lc 2,42-52), l’evangelista Luca lascia intravedere come Gesù, che prega dopo il battesimo al Giordano, ha una lunga abitudine di orazione intima con Dio Padre, radicata nelle tradizioni, nello stile della sua famiglia, nelle esperienze decisive in essa vissute. La risposta del dodicenne a Maria e Giuseppe indica già quella filiazione divina, che la voce celeste manifesta dopo il battesimo: «Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Uscito dalle acque del Giordano, Gesù non inaugura la sua preghiera, ma continua il suo rapporto costante, abituale con il Padre; ed è in questa unione intima con Lui che compie il passaggio dalla vita nascosta di Nazaret al suo ministero pubblico.
L’insegnamento di Gesù sulla preghiera viene certo dal suo modo di pregare acquisito in famiglia, ma ha la sua origine profonda ed essenziale nel suo essere il Figlio di Dio, nel suo rapporto unico con Dio Padre. Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica risponde alla domanda: Da chi Gesù ha imparato a pregare?, così: «Gesù, secondo il suo cuore di uomo, ha imparato a pregare da sua Madre e dalla tradizione ebraica. Ma la sua preghiera sgorga da una sorgente più segreta, poiché è il Figlio eterno di Dio che, nella sua santa umanità, rivolge a suo Padre la preghiera filiale perfetta» (541).
Nella narrazione evangelica, le ambientazioni della preghiera di Gesù si collocano sempre all’incrocio tra l’inserimento nella tradizione del suo popolo e la novità di una relazione personale unica con Dio. «Il luogo deserto» (cfr Mc 1,35; Lc 5,16) in cui spesso si ritira, «il monte» dove sale a pregare (cfr Lc 6,12; 9,28), «la notte» che gli permette la solitudine (cfr Mc 1,35; 6,46-47; Lc 6,12) richiamano momenti del cammino della rivelazione di Dio nell’Antico Testamento, indicando la continuità del suo progetto salvifico. Ma al tempo stesso, segnano momenti di particolare importanza per Gesù, che consapevolmente si inserisce in questo piano, fedele pienamente alla volontà del Padre.
Anche nella nostra preghiera noi dobbiamo imparare, sempre di più, ad entrare in questa storia di salvezza di cui Gesù è il vertice, rinnovare davanti a Dio la nostra decisione personale di aprirci alla sua volontà, chiedere a Lui la forza di conformare la nostra volontà alla sua, in tutta la nostra vita, in obbedienza al suo progetto di amore per di noi.
La preghiera di Gesù tocca tutte le fasi del suo ministero e tutte le sue giornate. Le fatiche non la bloccano. I Vangeli, anzi, lasciano trasparire una consuetudine di Gesù a trascorrere in preghiera parte della notte. L’Evangelista Marco racconta una di queste notti, dopo la pesante giornata della moltiplicazione dei pani e scrive: «E subito costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, a Betsàida, finché non avesse congedato la folla. Quando li ebbe congedati, andò sul monte a pregare. Venuta la sera, la barca era in mezzo al mare ed egli, da solo, a terra» (Mc 6,45-47). Quando le decisioni si fanno urgenti e complesse, la sua preghiera diventa più prolungata e intensa. Nell’imminenza della scelta dei Dodici Apostoli, ad esempio, Luca sottolinea la durata notturna della preghiera preparatoria di Gesù: «In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli» (Lc 6,12-13).
Guardando alla preghiera di Gesù, deve sorgere in noi una domanda: come prego io? come preghiamo noi? Quale tempo dedico al rapporto con Dio? Si fa oggi una sufficiente educazione e formazione alla preghiera? E chi può esserne maestro? Nell’Esortazione apostolica Verbum Domini ho parlato dell’importanza della lettura orante della Sacra Scrittura. Raccogliendo quanto emerso nell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi, ho posto un accento particolare sulla forma specifica della lectio divina. Ascoltare, meditare, tacere davanti al Signore che parla è un’arte, che si impara praticandola con costanza. Certamente la preghiera è un dono, che chiede, tuttavia, di essere accolto; è opera di Dio, ma esige impegno e continuità da parte nostra; soprattutto, la continuità e la costanza sono importanti. Proprio l’esperienza esemplare di Gesù mostra che la sua preghiera, animata dalla paternità di Dio e dalla comunione dello Spirito, si è approfondita in un prolungato e fedele esercizio, fino al Giardino degli Ulivi e alla Croce. Oggi i cristiani sono chiamati a essere testimoni di preghiera, proprio perché il nostro mondo è spesso chiuso all’orizzonte divino e alla speranza che porta l’incontro con Dio. Nell’amicizia profonda con Gesù e vivendo in Lui e con Lui la relazione filiale con il Padre, attraverso la nostra preghiera fedele e costante, possiamo aprire finestre verso il Cielo di Dio. Anzi, nel percorrere la via della preghiera, senza riguardo umano, possiamo aiutare altri a percorrerla: anche per la preghiera cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini.
Cari fratelli e sorelle, educhiamoci ad un rapporto con Dio intenso, ad una preghiera che non sia saltuaria, ma costante, piena di fiducia, capace di illuminare la nostra vita, come ci insegna Gesù. E chiediamo a Lui di poter comunicare alle persone che ci stanno vicino, a coloro che incontriamo sulla nostra strada, la gioia dell’incontro con il Signore, luce per la nostra l’esistenza. Grazie.

 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, preghiera (sulla) |on 27 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

Cristo Re

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Publié dans:immagini sacre |on 24 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

26 NOVEMBRE 2017 | 34A DOMENICA: CRISTO RE – T. ORDINARIO – A | OMELIA

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26 NOVEMBRE 2017 | 34A DOMENICA: CRISTO RE – T. ORDINARIO – A | OMELIA

Gesù Cristo re dell’universo

Per cominciare
L’anno liturgico si conclude con la festa di Gesù Cristo, re dell’universo. Gesù viene presentato dalla liturgia come il buon pastore e il risorto, che spalanca la vita eterna anche a noi. Ma Gesù è anche il giudice che salva o condanna con la legge dell’amore.

La parola di Dio
Ezechiele 34,11-12.15-17. Il profeta Ezechiele denuncia la cattiva condotta delle guide di Israele e presenta Iahvè come il buon pastore, che viene descritto come Gesù presenta se stesso nelle pagine del vangelo.
1 Corinzi 15,20-26a.28. Ai dubbiosi abitanti di Corinto, Paolo ricorda che Gesù risorto è il nuovo Adamo, e con la sua risurrezione trascina con sé anche noi. Gesù ha vinto la morte e consegna l’umanità a Dio Padre.
Matteo 25,31-46. Gesù descrive il suo ritorno alla fine dei tempi e il giudizio a cui sottoporrà l’umanità. Tutti saranno giudicati dall’amore: Gesù considera come fatto a sé qualunque gesto di amore verso un altro.

Riflettere
Il vangelo ci presenta il Figlio dell’uomo nell’atto supremo e conclusivo del giudizio finale. Di questo giudizio si precisa bene chi è il giudice e qual è la materia dell’esame finale.
Il giudice è Gesù, il Figlio dell’uomo, colui che è stato tradito, abbandonato, deriso, messo a morte. Gesù ha scelto per sé la strada dell’annientamento, ma ora, nel giudizio finale abbiamo un rovesciamento di posizioni: colui che è stato rifiutato e respinto ora diventa pietra di paragone, criterio ultimo e definitivo per stabilire chi è dalla parte di Dio e chi no.
La materia di esame è ben conosciuta. La separazione definitiva avverrà non in base ai titoli nobiliari e onorifici, l’aver fatto parte di un’associazione, di un partito, di una congregazione religiosa. L’esame è dato sul « comandamento nuovo » dell’amore. « Da questo vi riconosceranno che siete miei discepoli » (Gv 13,34-35), anche e soprattutto in quel momento supremo….
Quante volte ci costruiamo un’immagine di Dio, un Dio che ci inventiamo noi… Gesù ci indica che incontriamo Dio nel nostro fratello, che incontriamo Dio ogni giorno sulla nostra strada, nella nostra famiglia. Dio indossa i panni feriali accanto a noi nella persona magari banale e umile di chi ci sta accanto.
Questo è il criterio dell’incarnazione scelto da Dio. Negli anni della vita pubblica hanno visto Dio nella persona di Gesù; nel tempo della chiesa incontriamo Gesù nei fratelli.
Il Signore ci dia occhi umili per riconoscerlo. Il giudizio sarà così un incontro piacevole e desiderato.

Attualizzare
Se volessimo cercare delle radici lontane alla festa di Cristo Re, ci potremmo forse rifare ai bellissimi e grandiosi mosaici del Cristo pantocratore delle basiliche romane e bizantine dei primi secoli della chiesa.
In realtà questa è una celebrazione tutto sommato recente. Fu istituita nell’anno santo 1925 dal papa Pio XI, in piena epoca fascista. Papa Achille Ratti sottolineava, più o meno esplicitamente, che i regni di questo mondo restano tutti ridimensionati di fronte alla regalità di Cristo.
Lo spirito del tempo era quello, e la chiesa rispondeva così alle nuove dittature che sorgevano in Europa e nel mondo.
La regalità di Gesù va però letta prima di tutto alla luce del vangelo, quando Gesù per la prima volta dice di essere re. Egli non lo afferma nel fulgore dei suoi momenti migliori, quando chi lo segue per l’entusiasmo dei miracoli vuole proclamarlo re, e nemmeno nel pieno della sua predicazione, quando la gente dimentica di mangiare per ascoltarlo. Lo afferma invece mentre è in catene davanti a Pilato. È lì che per la prima volta Gesù ammette di essere re: « Tu lo dici, io sono re », dice a Pilato, che – come ha commentato qualcuno – vedendolo sfinito – lo fa sedere al suo scanno. « Io sono re », dice Gesù, ma tutta la scena della passione di Cristo sarà una parodia di questa regalità… Come potremmo dimenticare? Una corona di spine, il mantello purpureo, i soldati che s’inginocchiano davanti a lui e lo deridono: « Salve, re dei Giudei! ». E infine la scritta sulla croce: « Gesù Nazareno Re dei Giudei ».
Gesù non nega la sua regalità nemmeno nel momento supremo e accetta la preghiera di uno dei malfattori, quello che, messo in croce come lui, ha uno squarcio di fede: « Gesù, ricordati di me, quando sarai nel tuo regno! » (Lc 23,42).
Il vangelo parla esplicitamente della regalità di Cristo, ma, come afferma Lutero, sub contrario: è una regalità capovolta rispetto ai criteri del mondo. E noi, che in quanto cristiani siamo sacerdoti, profeti e re come Gesù, siamo chiamati a imitarlo in questa regalità. Perché è con questo Gesù che saremo confrontati alla fine della vita.
Gesù non volle farsi re. « I re della terra comandano i loro popoli, ma io sono in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27). « Se qualcuno vuol essere il primo si faccia l’ultimo… » (Mc 9,35).
Se Gesù avesse scelto per sé il potere terreno e si fosse dato a guerre e alleanze, avrebbe potuto forse costruire qualcosa di significativo per il suo tempo, per una nazione in particolare. Ma la sua missione non sarebbe stata universale, fondata sui valori della pace e dell’amore, le sole cose che se praticate sono in grado di cambiare il volto dell’umanità e destinate a stamparsi nell’eternità.
Gesù manda in crisi il modo di governare dei potenti e dei politici che dominano le nazioni. Gesù, che si è abbassato e ha rifiutato per sé onori e privilegi, chiede a chi governa di avere un senso di misura realistico del proprio potere e di metterlo a servizio del popolo.
Gesù dovrebbe mandare in crisi anche chi ha un ministero e un ruolo di potere nella chiesa, che va esercitato in modo evangelico e come lo ha vissuto lui. « Dobbiamo dire che la vera derisione è vedere uomini di chiesa, persone religiose, che accettano e prendono sul serio onori mondani » (Alessandro Pronzato).
Gesù è re, un re che ama senza misura e accoglie tutti, condividendo fino in fondo la condizione degli ultimi. Un re che ha avuto fame e sete, si è fatto straniero e rifiutato, che ha assunto la condizione di servo e si è umiliato, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (cf Fil 2,6s).

Gesù si immedesima in ogni uomo
« Vuoi onorare il corpo di Cristo? Ebbene, non tollerare che egli sia ignudo; dopo averlo ornato qui in chiesa con stoffe di seta, non permettere che fuori egli muoia di freddo… Colui che ha detto: « Questo è il mio corpo »… ha detto anche: « Mi avete visto soffrire la fame e non mi avete dato da mangiare »… Quale vantaggio può avere Cristo se la sua mensa è coperta di vasi d’oro, mentre egli stesso muore di fame nella persona dei poveri?.. » (Giovanni Crisostomo).

Visitare i carcerati
La mamma di un sacerdote al figlio che è andato a trovarla: « Luigi, credo di aver messo in pratica tante opere di misericordia nella mia vita. Ma non ho mai visitato i carcerati e non vorrei sentirmi rimproverata per questo, quando incontrerò Gesù nel giorno del Giudizio. Tu conosci don Cesare, il cappellano delle carceri: digli che mi faccia visitare un carcerato! ». Don Luigi sorride e ne parla con don Cesare. Viene fissata la data del colloquio e la mamma si prepara. Mette dentro una cesta le calze che ha fatto lei stessa a maglia e un po’ di dolcetti preparati con le sue mani, e parte soddisfatta. Adesso si sente tranquilla.

La seconda prima Comunione
Madre Teresa quando parlava ai ragazzi della prima Comunione diceva anche: « Cari ragazzi, quel giorno fate anche la vostra seconda prima Comunione, andando a trovare una persona in difficoltà e portando il vostro incoraggiamento: non c’è differenza tra quel Gesù che avete ricevuto nell’eucaristia, e quel Gesù che rallegrate con la vostra visita… ».

Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

San Clemente I Papa

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BENEDETTO XVI – SAN CLEMENTE ROMANO (23 novembre)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070307.html

BENEDETTO XVI – SAN CLEMENTE ROMANO (23 novembre)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 7 marzo 2007

Cari fratelli e sorelle,
abbiamo meditato nei mesi scorsi sulle figure dei singoli Apostoli e sui primi testimoni della fede cristiana, che gli scritti neo-testamentari menzionano. Adesso dedichiamo la nostra attenzione ai santi Padri dei primi secoli cristiani. E così possiamo vedere come comincia il cammino della Chiesa nella storia.
San Clemente, Vescovo di Roma negli ultimi anni del primo secolo, è il terzo successore di Pietro, dopo Lino e Anacleto. Riguardo alla sua vita, la testimonianza più importante è quella di sant’Ireneo, Vescovo di Lione fino al 202. Egli attesta che Clemente «aveva visto gli Apostoli», «si era incontrato con loro», e «aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione, e davanti agli occhi la loro tradizione» (Contro le eresie 3,3,3). Testimonianze tardive, fra il quarto e il sesto secolo, attribuiscono a Clemente il titolo di martire.
L’autorità e il prestigio di questo Vescovo di Roma erano tali, che a lui furono attribuiti diversi scritti, ma l’unica sua opera sicura è la Lettera ai Corinti. Eusebio di Cesarea, il grande «archivista» delle origini cristiane, la presenta in questi termini: «E’ tramandata una lettera di Clemente riconosciuta autentica, grande e mirabile. Fu scritta da lui, da parte della Chiesa di Roma, alla Chiesa di Corinto … Sappiamo che da molto tempo, e ancora ai nostri giorni, essa è letta pubblicamente durante la riunione dei fedeli» (Storia Eccl. 3,16). A questa lettera era attribuito un carattere quasi canonico. All’inizio di questo testo – scritto in greco – Clemente si rammarica che «le improvvise avversità, capitate una dopo l’altra» (1,1), gli abbiano impedito un intervento più tempestivo. Queste «avversità» sono da identificarsi con la persecuzione di Domiziano: perciò la data di composizione della lettera deve risalire a un tempo immediatamente successivo alla morte dell’imperatore e alla fine della persecuzione, vale a dire subito dopo il 96.
L’intervento di Clemente era sollecitato dai gravi problemi in cui versava la Chiesa di Corinto: i presbiteri della comunità, infatti, erano stati deposti da alcuni giovani contestatori. La penosa vicenda è ricordata, ancora una volta, da sant’Ireneo, che scrive: «Sotto Clemente, essendo sorto un contrasto non piccolo tra i fratelli di Corinto, la Chiesa di Roma inviò ai Corinti una lettera importantissima per riconciliarli nella pace, rinnovare la loro fede e annunciare la tradizione, che da poco tempo essa aveva ricevuto dagli Apostoli» (Contro le eresie 3,3,3). Potremmo quindi dire che questa lettera costituisce un primo esercizio del Primato romano dopo la morte di san Pietro. La lettera di Clemente riprende temi cari a san Paolo, che aveva scritto due grandi lettere ai Corinti, e in particolare la dialettica teologica, perennemente attuale, tra indicativo della salvezza e imperativo dell’impegno morale. Prima di tutto c’è il lieto annuncio della grazia che salva. Il Signore ci previene e ci dona il perdono, ci dona il suo amore, la grazia di essere cristiani, suoi fratelli e sorelle. E’ un annuncio che riempie di gioia la nostra vita e dà sicurezza al nostro agire: il Signore ci previene sempre con la sua bontà, e la bontà del Signore è sempre più grande di tutti i nostri peccati. Occorre però che ci impegniamo in maniera coerente con il dono ricevuto e rispondiamo all’annuncio della salvezza con un cammino generoso e coraggioso di conversione. Rispetto al modello paolino, la novità è che Clemente fa seguire alla parte dottrinale e alla parte pratica, che erano costitutive di tutte le lettere paoline, una «grande preghiera», che praticamente conclude la lettera.
L’occasione immediata della lettera schiude al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento sull’identità della Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati degli abusi, osserva Clemente, il motivo va ricercato nell’affievolimento della carità e di altre virtù cristiane indispensabili. Per questo egli richiama i fedeli all’umiltà e all’amore fraterno, due virtù veramente costitutive dell’essere nella Chiesa: «Siamo una porzione santa», ammonisce, «compiamo dunque tutto quello che la santità esige» (30,1). In particolare, il Vescovo di Roma ricorda che il Signore stesso «ha stabilito dove e da chi vuole che i servizi liturgici siano compiuti, affinché ogni cosa, fatta santamente e con il suo beneplacito, riesca bene accetta alla sua volontà … Al sommo sacerdote infatti sono state affidate funzioni liturgiche a lui proprie, ai sacerdoti è stato preordinato il posto loro proprio, ai leviti spettano dei servizi propri. L’uomo laico è legato agli ordinamenti laici» (40,1-5: si noti che qui, in questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella letteratura cristiana, compare il termine greco laikós, che significa «membro del laós», cioè «del popolo di Dio»).
In questo modo, riferendosi alla liturgia dell’antico Israele, Clemente svela il suo ideale di Chiesa. Essa è radunata dall’«unico Spirito di grazia effuso su di noi», che spira nelle diverse membra del Corpo di Cristo, nel quale tutti, uniti senza alcuna separazione, sono «membra gli uni degli altri» (46,6-7). La netta distinzione tra il «laico» e la gerarchia non significa per nulla una contrapposizione, ma soltanto questa connessione organica di un corpo, di un organismo, con le diverse funzioni. La Chiesa infatti non è luogo di confusione e di anarchia, dove uno può fare quello che vuole in ogni momento: ciascuno in questo organismo, con una struttura articolata, esercita il suo ministero secondo la vocazione ricevuta. Riguardo ai capi delle comunità, Clemente esplicita chiaramente la dottrina della successione apostolica. Le norme che la regolano derivano in ultima analisi da Dio stesso. Il Padre ha inviato Gesù Cristo, il quale a sua volta ha mandato gli Apostoli. Essi poi hanno mandato i primi capi delle comunità, e hanno stabilito che ad essi succedessero altri uomini degni. Tutto dunque procede «ordinatamente dalla volontà di Dio» (42). Con queste parole, con queste frasi, san Clemente sottolinea che la Chiesa ha una struttura sacramentale e non una struttura politica. L’agire di Dio che viene incontro a noi nella liturgia precede le nostre decisioni e le nostre idee. La Chiesa è soprattutto dono di Dio e non creatura nostra, e perciò questa struttura sacramentale non garantisce solo il comune ordinamento, ma anche questa precedenza del dono di Dio, del quale abbiamo tutti bisogno.
Al termine, la «grande preghiera» conferisce un respiro cosmico alle argomentazioni precedenti. Clemente loda e ringrazia Dio per la sua meravigliosa provvidenza d’amore, che ha creato il mondo e continua a salvarlo e a santificarlo. Particolare rilievo assume l’invocazione per i governanti. Dopo i testi del Nuovo Testamento, essa rappresenta la più antica preghiera per le istituzioni politiche. Così, all’indomani della persecuzione, i cristiani, ben sapendo che sarebbero continuate le persecuzioni, non cessano di pregare per quelle stesse autorità che li avevano condannati ingiustamente. Il motivo è anzitutto di ordine cristologico: bisogna pregare per i persecutori, come fece Gesù sulla croce. Ma questa preghiera contiene anche un insegnamento che guida, lungo i secoli, l’atteggiamento dei cristiani dinanzi alla politica e allo Stato. Pregando per le autorità, Clemente riconosce la legittimità delle istituzioni politiche nell’ordine stabilito da Dio; nello stesso tempo, egli manifesta la preoccupazione che le autorità siano docili a Dio e «esercitino il potere, che Dio ha dato loro, nella pace e nella mansuetudine con pietà» (61,2). Cesare non è tutto. Emerge un’altra sovranità, la cui origine ed essenza non sono di questo mondo, ma «di lassù»: è quella della Verità, che vanta anche nei confronti dello Stato il diritto di essere ascoltata.
Così la lettera di Clemente affronta numerosi temi di perenne attualità. Essa è tanto più significativa, in quanto rappresenta, fin dal primo secolo, la sollecitudine della Chiesa di Roma, che presiede nella carità a tutte le altre Chiese. Con lo stesso Spirito facciamo nostre le invocazioni della «grande preghiera», là dove il Vescovo di Roma si fa voce del mondo intero: «Sì, o Signore, fa’ risplendere su di noi il tuo volto nel bene della pace; proteggici con la tua mano potente … Noi ti rendiamo grazie, attraverso il Sommo Sacerdote e guida delle anime nostre, Gesù Cristo, per mezzo del quale a te la gloria e la lode, adesso, e di generazione in generazione, e nei secoli dei secoli. Amen» (60-61).

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