Archive pour octobre, 2017

San Paolo Apostolo

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CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA

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CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA

Ripensare la democrazia oggi

sintesi delle relazioni di Giovanni Antonio Cerutti e Giannino Piana
Verbania Pallanza, 15 marzo 2003
(Giannino Piana)

La riflessione più che sul rapporto tra cristianesimo e democrazia verterà sul rapporto tra democrazia e etica, terreno comune per credenti e non credenti. L’apporto del cristianesimo alla vita sociopolitica trova una sua corretta mediazione nella prospettiva etica.
La democrazia ha oggi più che mai bisogno di essere riempita di contenuti valoriali, di tener conto di alcune istanze fondamentali da tutti perseguite, per non ridursi a puro contenitore, a democrazia formale e procedurale.
La democrazia, oggi pienamente affermata in occidente, rischia di essere minacciata dall’interno, per una serie di processi che creano difficoltà all’esercizio storico della democrazia.
Innanzitutto la difficoltà a governare (la democrazia è governo) la crescente complessità sociale (forte differenziazione degli interessi in seno alla società, pluralismo di appartenenze), a creare momenti di unificazione.
Inoltre di fronte al fenomeno della estrema tecnicizzazione della conduzione della vita sociale, la democrazia, che è partecipazione dal basso alle decisioni, diventa impraticabile (le decisioni demandate ai superspecializzati). Così pure indebolisce la democrazia il fatto che in occidente il potere dominante è sempre meno il potere politico e sempre più quello economico e quello dell’informazione.
Infine la democrazia ha come presupposto l’esistenza di un ethos comune, di valori condivisi sempre più difficili da trovare.
È stato problematico il rapporto tra etica e democrazia sin dagli inizi. La democrazia non nasce dal riconoscimento di valori comuni ma da spinte di tipo individualistico. La democrazia ad esempio nasce dal riconoscimento dei diritti individuali, nasce dal consenso, non da un ethos comune. La democrazia è pura procedura, i valori vanno semmai aggiunti in seguito (Kelsen). Non è la ricerca del bene comune a fondare la democrazia, ma la ricerca del consenso.
Nonostante questo i conti con l’etica vanno fatti. Un sistema democratico non può funzionare senza un ethos comune (Locke). Anche Bobbio, sostenitore di una concezione procedurale della democrazia, sostiene che alla base della democrazia devono esserci alcuni valori (uguaglianza, non violenza, partecipazione, giustizia…).
Nello sviluppo della vita democratica senza l’affermazione e il rispetto di alcuni valori fondamentali validi per tutti si cade nella democrazia dei due terzi, per cui col principio di maggioranza si può passar sopra ad alcuni diritti fondamentali.
A questo livello si pone il contributo dei credenti, non per dare regole nuove o imporre valori propri, ma per ripensare alcuni valori di fondo, come la solidarietà e la giustizia, in stretto rapporto con le istanze fondamentali della democrazia.
(Giovanni Cerutti)
Innanzitutto qual è lo stato del dibattito sulla democrazia oggi?
I sistemi democratici in occidente si sono generati per apertura dei sistemi liberali (si parla di liberaldemocazia). I sistemi politici si aprono per inclusività o per liberalizzazione (scatola di Dahl). Il sistema britannico, ad esempio, nasce prima liberalizzando il sistema politico e poi includendo in un secondo tempo, con il suffragio universale, le masse. Invece la democrazia tedesca, con Bismarck, prima integra le masse con un sistema avanzato di protezione sociale, mentre solo dopo il secondo conflitto mondiale vi sarà l’apertura in senso liberale (esercizio delle libertà per tutti).
La democrazia nasce storicamente come apertura dei sistemi liberali, come inclusione del maggior numero di persone in sistemi liberali.
Dopo la seconda guerra mondiale vengono scritte o ripensate molte costituzioni occidentali, in cui i diritti sociali sono pensati come precondizioni dei diritti civili e politici dell’età liberale classica, cercando così di risolvere la tensione tra democrazia sostanziale e democrazia formale.
La democrazia è « l’insieme di regole fondamentali che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive (vincolanti per tutti) e con quali procedure » (Bobbio). È la concezione della democrazia come procedura, che però presuppone il riferimento ad alcuni valori quali la non violenza (eliminazione della violenza dal conflitto politico), la giustizia (eliminazione tendenziale delle disparità derivanti dallo status sociale). Inoltre implica l’indicazione di ciò che non può essere deciso (ad esempio eliminare la democrazia).
La democrazia è esercizio della decisione politica, da estendere a tutti, non invece decisione da parte di qualcuno di ciò che è bene per tutti.
Il problema è come consentire in un sistema liberale la maggior inclusione possibile. Ciò che conta è partecipare alla decisione. Difficoltà col suffragio universale: le disuguaglianze sociali condizionano l’esercizio dei diritti.
Oggi la definizione vincente di democrazia è quella di Schumpeter, secondo cui la gestione del potere è riservata alle élites, alla classe politica, ma in competizione tra loro e scelte dal volto popolare. Certo il suffragio universale presuppone una serie di precondizioni, quali i diritti sociali, la libertà di stampa e di informazione. Inoltre il termine competizione sta ad indicare che l’esercizio del potere è a termine. L’enfasi posta sul momento elettorale non sta ad indicare una delega in bianco, ma lo strumento di controllo dell’eletto. L’ideale della partecipazione diffusa a tutti i livelli è fortemente compromesso dalla crescente complessità sociale.
Oggi si avverte un stato di disagio nel dibattito sullo stato della democrazia. Ma dalla politica possiamo aspettarci solo quello che può dare. Le istanze, ad esempio, dei movimenti degli anni ottanta (questione giovanile, questione di genere, questione ecologica) non possono essere elaborate dal sistema politico, ma esigono altri spazi di partecipazione. La classe politica non riesce a ridurre a domanda politica e a decisione le istanze dei movimenti e i movimenti disprezzano la politica. Invece lo spazio della politica, benché insufficiente, non è da disprezzare e abbattere.
problemi emergenti

L’idea della società come macchina con qualcuno che prende le decisioni per governarla è fortemente messa in crisi da due macrofenomeni: la globalizzazione e l’avvento della società postmoderna.
La globalizzazione fa sì che fuori della società non vi sia più nulla, tutto è interno alla società. Nella modernità le contraddizioni non risolvibili all’interno venivano scaricate all’esterno. L’apertura dei sistemi liberali nei paesi europei è avvenuta scaricando sulle popolazioni coloniali i costi del processo. Non solo, non è neppure più possibile pensare ad una società nuova a venire, perché tutto è all’interno di questa società. Oggi tutte le contraddizioni devono essere risolte all’interno del sistema politico.
Siamo poi passati da un mondo con appartenenze sociali molto forti e che svolgevano un importante ruolo prepolitico (le domande rivolte al sistema politico erano pretrattate e rese più omogenee) ad un mondo delle multiappartenenze con la presenza di richieste frammentate, molteplici, anche contrastanti, rivolte al sistema politico.
Inoltre le multiappartenenze pluralizzano i significati. Non ci sono più significati condivisi nello stare in società ma ciascuno elabora i propri significati, moltiplicando le richieste rivolte al sistema politico. Viene così sbriciolata l’idea stessa di società coesa e il funzionamento del sistema va in panne.
La conseguenza è che si resta insieme solo come espressione di una scelta condivisa e negoziata (prima era quasi un dato naturale il legame sociale).
Ai sistemi politici, secolarizzati, non si chiede più la società perfetta. Il sistema politico è il punto di convergenza sempre mutevole e precario delle molteplici richieste che provengono dalla società frantumata in multiappartenenze.
Inoltre, data la moltiplicazione delle appartenenze, ciò che passa attraverso la politica è solo una piccola parte della ricchezza della società.
La risposta del sistema politico al fermento sociale degli anni settanta è stata quella di occupare tutti gli spazi della società per governarli. Quei fenomeni invece richiedevano degli spazi pubblici, ma non politici, per esprimersi. Bisogna aprire spazi di partecipazione pubblica che non siano brutalmente ricondotti alla logica di governo politico di una società.
Il sistema politico ha il compito di prendere decisioni collettive vincolanti per tutti, mentre se prende decisioni che non gli competono chiude spazi di partecipazione. Deve esserci la consapevolezza che la ricchezza sociale non può essere totalmente rappresentata dalla politica e deve avere i propri spazi per farsi sentire.
L’attuale apatia verso la democrazia deriva dal fatto anzitutto di non rendere esplicito quali siano i limiti della politica, quali decisioni la politica sia in grado di prendere. In secondo luogo non si tiene conto che tutte le altre decisioni escluse dalla politica devono avere spazi per continuare a vivere.
Ad esempio, delle istanze espresse dal movimento contro il nucleare in Europa il sistema politico si è limitato alla decisione di chiudere le centrali nucleari (poteva fare solo quello). Ma tutte le altre istanze (sul senso del vivere, sul futuro del pianeta…) sono state oscurate, non hanno avuto spazi pubblici per esprimersi, per alimentare il dibattito. Osservazioni simili potrebbero essere fatte sul movimento per la pace (il sistema politico può decidere se fare la guerra o meno, ma tutte le altre istanze del movimento come possono esprimersi, in quali spazi?)
La sfida della democrazia è far sì che le decisioni del sistema politico non cancellino le continue domande che il mondo sociale e culturale gli fa. Ed inoltre, data la fragilità della realtà sociale, c’è bisogno di spazi pubblici aperti perché il dibattito possa continuare a porre le sue sfide al sistema politico. Invece oggi o si entra nel sistema politico o si è ridotti al silenzio.

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Jesus Pantocrator

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Publié dans:immagini sacre |on 11 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 36. L’ATTESA VIGILANTE

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PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 36. L’ATTESA VIGILANTE

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 11 ottobre 2017

Cari fratelle e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei soffermarmi su quella dimensione della speranza che è l’attesa vigilante. Il tema della vigilanza è uno dei fili conduttori del Nuovo Testamento. Gesù predica ai suoi discepoli: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito» (Lc 12,35-36). In questo tempo che segue la risurrezione di Gesù, in cui si alternano in continuazione momenti sereni e altri angosciosi, i cristiani non si adagiano mai. Il Vangelo raccomanda di essere come dei servi che non vanno mai a dormire, finché il loro padrone non è rientrato. Questo mondo esige la nostra responsabilità, e noi ce la assumiamo tutta e con amore. Gesù vuole che la nostra esistenza sia laboriosa, che non abbassiamo mai la guardia, per accogliere con gratitudine e stupore ogni nuovo giorno donatoci da Dio. Ogni mattina è una pagina bianca che il cristiano comincia a scrivere con le opere di bene. Noi siamo già stati salvati dalla redenzione di Gesù, però ora attendiamo la piena manifestazione della sua signoria: quando finalmente Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15,28). Nulla è più certo, nella fede dei cristiani, di questo “appuntamento”, questo appuntamento con il Signore, quando Lui verrà. E quando questo giorno arriverà, noi cristiani vogliamo essere come quei servi che hanno passato la notte con i fianchi cinti e le lampade accese: bisogna essere pronti per la salvezza che arriva, pronti all’incontro. Avete pensato, voi, come sarà quell’incontro con Gesù, quando Lui verrà? Ma, sarà un abbraccio, una gioia enorme, una grande gioia! Dobbiamo vivere in attesa di questo incontro!
Il cristiano non è fatto per la noia; semmai per la pazienza. Sa che anche nella monotonia di certi giorni sempre uguali è nascosto un mistero di grazia. Ci sono persone che con la perseveranza del loro amore diventano come pozzi che irrigano il deserto. Nulla avviene invano, e nessuna situazione in cui un cristiano si trova immerso è completamente refrattaria all’amore. Nessuna notte è così lunga da far dimenticare la gioia dell’aurora. E quanto più oscura è la notte, tanto più vicina è l’aurora. Se rimaniamo uniti a Gesù, il freddo dei momenti difficili non ci paralizza; e se anche il mondo intero predicasse contro la speranza, se dicesse che il futuro porterà solo nubi oscure, il cristiano sa che in quello stesso futuro c’è il ritorno di Cristo. Quando questo succederà, nessuno lo sa ma il pensiero che al termine della nostra storia c’è Gesù Misericordioso, basta per avere fiducia e non maledire la vita. Tutto verrà salvato. Tutto. Soffriremo, ci saranno momenti che suscitano rabbia e indignazione, ma la dolce e potente memoria di Cristo scaccerà la tentazione di pensare che questa vita è sbagliata.
Dopo aver conosciuto Gesù, noi non possiamo far altro che scrutare la storia con fiducia e speranza. Gesù è come una casa, e noi ci siamo dentro, e dalle finestre di questa casa noi guardiamo il mondo. Perciò non ci richiudiamo in noi stessi, non rimpiangiamo con malinconia un passato che si presume dorato, ma guardiamo sempre avanti, a un futuro che non è solo opera delle nostre mani, ma che anzitutto è una preoccupazione costante della provvidenza di Dio. Tutto ciò che è opaco un giorno diventerà luce.
E pensiamo che Dio non smentisce sé stesso. Mai. Dio non delude mai. La sua volontà nei nostri confronti non è nebulosa, ma è un progetto di salvezza ben delineato: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4). Per cui non ci abbandoniamo al fluire degli eventi con pessimismo, come se la storia fosse un treno di cui si è perso il controllo. La rassegnazione non è una virtù cristiana. Come non è da cristiani alzare le spalle o piegare la testa davanti a un destino che ci sembra ineluttabile.
Chi reca speranza al mondo non è mai una persona remissiva. Gesù ci raccomanda di attenderlo senza stare con le mani in mano: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli» (Lc 12,37). Non c’è costruttore di pace che alla fine dei conti non abbia compromesso la sua pace personale, assumendo i problemi degli altri. La persona remissiva, non è un costruttore di pace ma è un pigro, uno che vuole stare comodo. Mentre il cristiano è costruttore di pace quando rischia, quando ha il coraggio di rischiare per portare il bene, il bene che Gesù ci ha donato, ci ha dato come un tesoro.
In ogni giorno della nostra vita, ripetiamo quell’invocazione che i primi discepoli, nella loro lingua aramaica, esprimevano con le parole Marana tha, e che ritroviamo nell’ultimo versetto della Bibbia: «Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20). È il ritornello di ogni esistenza cristiana: nel nostro mondo non abbiamo bisogno di altro se non di una carezza del Cristo. Che grazia se, nella preghiera, nei giorni difficili di questa vita, sentiamo la sua voce che risponde e ci rassicura: «Ecco, io vengo presto» (Ap 22,7)!

Publié dans:PAPA FRANCESCO CATECHESI |on 11 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

Gerusalemme, città vecchia

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Publié dans:immagini sacre |on 9 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

LA RIVELAZIONE DI DIO NON COINCIDE CON LA SCRITTURA, MA È PIÙ AMPIA (DA J. RATZINGER)

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LA RIVELAZIONE DI DIO NON COINCIDE CON LA SCRITTURA, MA È PIÙ AMPIA (DA J. RATZINGER)

da J. Ratzinger, Un tentativo circa il problema del concetto di tradizione, in K. Rahner – J. Ratzinger,

Rivelazione e Tradizione, Morcelliana, Brescia, 2006, pp. 36-37

Il fatto che esista la «Tradizione» si fonda innanzitutto sulla non-identità delle due realtà, «Rivelazione» e «Scrittura». Rivelazione infatti indica il complesso di parole e gesta di Dio per l’uomo, cioè una realtà di cui la Scrittura ci informa ma che non è semplicemente la Scrittura stessa.
La rivelazione perciò supera la Scrittura nella stessa misura in cui la realtà trascende la notizia che ce la fa conoscere. Si potrebbe anche dire: la Scrittura è il principio materiale della rivelazione (forse l’unico, forse uno accanto ad altri – è una questione che per il momento può essere lasciata aperta), ma non è la rivelazione stessa.
Di questo i riformatori erano perfettamente consci; fu soltanto nella successiva controversia tra teologia cattolica postridentina e ortodossia protestante che ciò andò in gran parte perduto. Nel nostro secolo furono dei teologi evangelici, come Barth e Brunner, a riscoprire questo fatto, che per la teologia patristica e medioevale costituiva una cosa perfettamente ovvia.
Quanto s’è detto può risultare chiaro se lo consideriamo anche da un altro punto di vista: si potrebbe possedere la Scrittura anche senza avere la rivelazione. La rivelazione infatti diventa realtà soltanto e sempre là dove c’è fede. Il non-credente rimane dietro il velo, di cui parla Paolo nel cap. 3 della 2 Cor. Egli può leggere la Scrittura e conoscere ciò che contiene, può perfino comprendere concettualmente ciò ch’essa intende dire e la coerenza delle sue affermazioni, tuttavia egli non è divenuto partecipe della rivelazione.
C’è piena rivelazione soltanto là dove, oltre alle affermazioni materiali che la testimoniano, è divenuta operante nella forma della fede anche la sua intima realtà. Di conseguenza appartiene, fino a un certo punto, alla rivelazione anche il soggetto ricevente, senza del quale essa non esiste.
Non si può mettere in tasca la rivelazione, come si può portare con sé un libro. Essa è una realtà vivente, che esige l’accoglienza di un uomo vivo come luogo della sua presenza.

 

Matteo 21, 33-43

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Publié dans:immagini sacre |on 6 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

08 OTTOBRE 2017 | 27A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

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08 OTTOBRE 2017 | 27A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

Per cominciare
Attraverso una nuova parabola, Gesù ci ripropone l’infedeltà del popolo ebraico all’alleanza. Gli ebrei, dice Gesù, non riconoscono i doni di Dio, hanno rifiutato la testimonianza dei profeti e sono disposti a uccidere il messia. Per questo il regno di Dio verrà affidato ad altri.

La parola di Dio
Isaia 5,1-7. Isaia canta l’amore di Dio per il suo popolo, simboleggiato nella cura che un buon agricoltore ha per la sua vigna. Ma la vite invece produce uva selvatica e il padrone decide di sbarazzarsene.
Filippesi 4,6-9. Siamo all’ultimo capitolo della lettera agli abitanti di Filippi. Paolo li esorta a una vita virtuosa, a mantenere una condotta ispirata al vangelo, secondo l’esempio che hanno ricevuto da lui.
Matteo 21,33-43. Ancora una parabola sull’infedeltà del popolo ebraico, segnata da un’ostilità crescente impressionante nei confronti del messia. Gesù legge la storia della salvezza e denuncia la persecuzione dei profeti e il rifiuto fino alla violenza e alla morte dell’inviato di Dio.

Riflettere
Siamo in autunno, tempo di vendemmia. La liturgia ci pone delle riflessioni a partire da una parabola che ha per ambiente una vigna.
La vigna è una pianta che ha avuto un posto importante in ogni tempo e tra molti popoli. La chiesa in certi periodi ha addirittura scomunicato chi per vendetta « tagliava » le viti a un nemico.
Nella bibbia la vigna appare un pianta particolarmente preziosa e gli ebrei la caricarono di simboli paradigmatici. La videro come proprietà di Dio e se ne servirono per indicare il rapporto che essi avevano con il Dio dell’alleanza e con la loro storia.
Ricordiamo il salmo 79 (il salmo responsoriale) in cui il popolo di Israele si sente rappresentato proprio da una vigna: « Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna. Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato… « .
Isaia, nel brano che ci viene proposto in questa domenica, usa espressioni tenerissime, tipiche del canto amoroso, per indicare la grande cura che Dio ha avuto per la vigna, ma poi conclude con il proposito di distruggerla a causa della infedeltà del suo popolo.
La parabola di Gesù è anch’essa un’allegoria della storia del popolo di Israele. Gesù ricorda l’amore di Dio per la sua vigna, la fiducia che ha avuto nei viticultori a cui l’ha affidata, l’arroganza con cui essi l’hanno gestita, il trattamento che hanno riservato ai suoi servi, i profeti (Gesù sembra riferirsi in modo esplicito a Geremia, Isaia ed Ezechiele, ma probabilmente anche al Battista). Incredibilmente, quando viene inviato il figlio del padrone, viene ucciso per potersi impadronire definitivamente della vigna.
È sorprendente la pazienza del proprietario nei confronti dei vignaioli. Tollera tutto, a lungo e fino in fondo. Praticamente a ogni sua decisione segue il fallimento. Ma si tratta di una parabola, di un’allegoria. È sicuramente simbolo dell’amore gratuito e incondizionato che Iahvè ha avuto per il suo popolo, nonostante si sia manifestato duro e insensibile in tanti momenti della sua storia.
A differenza di Isaia però Gesù non dice che la vigna verrà distrutta, ma che verrà affidata ad altri. Sarà così appunto del regno di Dio, che, non accolto dagli ebrei, sarà affidato ai nuovi convertiti, alla chiesa. È questo il modo di operare di Dio, che è fedele anzitutto a se stesso e ai suoi progetti. Dio chiama e invita a lavorare nel suo regno, ma se uno non accoglie i suoi inviti, chiama altri.
Questa conclusione Gesù la fa tirare però dagli stessi suoi interlocutori. Al termine della parabola domanda: « Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini? », ed essi rispondono, condannando se stessi: « Quei malvagi li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini ».
Il messaggio di Gesù è chiaro. Il padrone della vigna è Dio, creatore del mondo e degli uomini, a cui affida il compito di custodirla. Ma gli uomini non riconoscono la sua sovranità, e si comportano nei confronti del mondo come dei padroni assoluti. Dio non si adira, ma manda pazientemente i suoi profeti. I contadini però non cambiano il loro comportamento, anzi diventano violenti nei loro confronti. Quando Dio manda tra loro il Figlio Gesù, lo eliminano condannandolo alla morte di croce.
Gesù però conclude assicurando il riscatto del figlio che viene cacciato dalla vigna e ucciso. « La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo », dice, citando il salmo 118. L’espressione apparentemente un po’ oscura è stata ripresa più volte anche dagli apostoli (At 4,11; 1Pt 2,7; Rm 9,33; 1Pt 2,6.8.). Gesù intende parlare di sé e della sua vittoriosa risurrezione. Se si vuole, si può notare un curioso gioco di parole tra ‘eben (pietra) e ben (figlio). Dio toglierà la vigna, il regno di Dio, al popolo che non lo ha accolto e lo darà ad altri.

Attualizzare
Di fronte a questa parabola la prima domanda che ci si deve fare è certamente quella di chiederci se accettiamo Dio come creatore e se riconosciamo la sua sovranità sul mondo.
« Nel Novecento, la negazione di Dio è diventata, per così dire, la nuova religione, propagandata da una straordinaria persuasione ideologica. Non solo vivere come se Dio non ci fosse, non solo organizzare il mondo senza Dio e contro Dio, ma costruire già qui nella vigna che è già diventata nostra, il nostro paradiso » (mons. Gianni Ambrosio).
Oggi non è più così. Più che lotta aperta nei confronti di Dio, trionfa l’indifferenza, la superficialità, il vivere la propria fede come un fatto privato e un po’ di rispetto umano. « Trovandomi a discutere con degli amici, non so come siamo andati a parlare di Dio e qualcuno diceva « chissà se poi esiste ». Nessuno ha dato delle vere risposte. Mi ha fatto rabbia che, nemmeno io che ci credo fermamente, sono stato capace di portare delle prove convincenti » (Stefano).
La nostra intelligenza dovrebbe portarci a Dio e farci dire che tutto è dono di Dio. Ma noi attribuiamo facilmente ogni cosa a noi stessi, ci consideriamo padroni assoluti di ciò che siamo e di ciò che abbiamo. Non comprendiamo che siamo semplicemente dei mezzadri che devono lavorare una vigna che è di un altro. Siamo realisti: prima di noi il mondo c’era già e dopo di noi il mondo ci sarà ancora. Non siamo noi i signori del mondo, anche se Dio ci associa nei suoi progetti e ci chiama a creare un mondo come lui l’ha sognato per la nostra felicità.
Eppure c’è chi mette intelligenza e scienza (anche questi doni di Dio) proprio « contro Dio », quasi come una sfida, così come hanno fatto quelli della torre di Babele, che forti delle loro potenzialità, le hanno usare per sfidare Dio.
Anche i profeti di ogni tempo subiscono la stessa sorte di quelli della parabola. In ogni angolo della terra la chiesa ancora oggi piange i suoi martiri, i suoi testimoni più coraggiosi.
Come ci collochiamo allora di fronte a questo Dio paziente e amoroso senza misura? Egli oggi ci affida il regno e ci chiede di costruirlo, di cambiare addirittura il volto del mondo, renderlo più abitabile.
Gesù afferma che il regno di Dio sarà tolto agli ebrei e sarà dato ad altri « che gli consegneranno i frutti a suo tempo ». Ricordiamo che sia l’Occidente che l’Oriente sono nelle mani di Dio. E che l’Europa non può vantare privilegi, ma può solo ringraziare per i doni ricevuti in questi duemila anni di espansione del cristianesimo. Molte delle comunità che erano fiorenti nei primi secoli della chiesa nell’Africa mediterranea o nell’Asia Minore, oggi sono state praticamente cancellate e di loro rimane solo il ricordo. La fede, pur tra tante difficoltà, si sta diffondendo oggi prevalentemente in alcuni paesi africani, in Asia, in America Latina. Saranno queste le chiese del futuro, destinate a soppiantare l’Europa?
Infine un’ultima provocazione: se Cristo tornasse oggi tra noi, nelle nostre città, nella nostra chiesa, che cosa farebbe, che cosa direbbe? E come reagirebbero di fronte a lui i potenti, la gente comune, i credenti?
È nota la « Leggenda del grande inquisitore » di Fëdor Dostoevskij. L’ateo Ivan racconta al credente Alioscia la leggenda secondo cui Gesù nel 16° secolo volle tornare sulla terra, a Siviglia, negli anni dell’inquisizione spagnola. La gente lo segue, si accalca attorno a lui. Gesù fa miracoli. Poi le guardie lo portano in prigione, davanti al cardinale inquisitore, che stenta a riconoscerlo. Poi lo fissa in silenzio per qualche minuto ed esclama: « Sei tu? Sei tu?… ». E dopo una lunga e polemica argomentazione – Gesù non dice una parola -, gli apre la porta e lo manda via, dicendo: « Va’ e non tornare più, non tornare mai più ». Sarebbe finito sul rogo. Il racconto è paradossale, ma fa riflettere.
Certo, questa è una provocazione. Ma la domanda su come ci collochiamo di fronte a Gesù e su come la vigna del Signore viene gestita a suo nome sono legittime e non oziose. Toccano da vicino tutti.

Milioni di volte
« Se tu fossi un Dio che tiene rancore, un Dio vendicativo, un Dio solamente giusto, allora non daresti ascolto alla nostra preghiera. Perché tutto quello che gli uomini potevano farti del male anche dopo la tua morte (e più dopo la morte che in vita), gli uomini l’hanno fatto; noi tutti, quello stesso che ti parla insieme agli altri, l’abbiamo fatto. Milioni di Giuda ti hanno baciato dopo averti venduto, e non per trenta denari solo, e neppure una volta sola; legioni di Farisei e sciami di Caifa ti hanno sentenziato malfattore, degno di essere inchiodato; e milioni di volte col pensiero e la volontà ti hanno crocifisso » (Giovanni Papini, Storia di Cristo).

Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

San Francesco D’Assisi

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PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 35. MISSIONARI DI SPERANZA OGGI

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PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 35. MISSIONARI DI SPERANZA OGGI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 4 ottobre 2017

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In questa catechesi voglio parlare sul tema “Missionari di speranza oggi”. Sono contento di farlo all’inizio del mese di ottobre, che nella Chiesa è dedicato in modo particolare alla missione, e anche nella festa di San Francesco d’Assisi, che è stato un grande missionario di speranza!
In effetti, il cristiano non è un profeta di sventura. Noi non siamo profeti di sventura. L’essenza del suo annuncio è l’opposto, l’opposto della sventura: è Gesù, morto per amore e che Dio ha risuscitato al mattino di Pasqua. E questo è il nucleo della fede cristiana. Se i Vangeli si fermassero alla sepoltura di Gesù, la storia di questo profeta andrebbe ad aggiungersi alle tante biografie di personaggi eroici che hanno speso la vita per un ideale. Il Vangelo sarebbe allora un libro edificante, anche consolatorio, ma non sarebbe un annuncio di speranza.
Ma i Vangeli non si chiudono col venerdì santo, vanno oltre; ed è proprio questo frammento ulteriore a trasformare le nostre vite. I discepoli di Gesù erano abbattuti in quel sabato dopo la sua crocifissione; quella pietra rotolata sulla porta del sepolcro aveva chiuso anche i tre anni entusiasmanti vissuti da loro col Maestro di Nazareth. Sembrava che tutto fosse finito, e alcuni, delusi e impauriti, stavano già lasciando Gerusalemme.
Ma Gesù risorge! Questo fatto inaspettato rovescia e sovverte la mente e il cuore dei discepoli. Perché Gesù non risorge solo per sé stesso, come se la sua rinascita fosse una prerogativa di cui essere geloso: se ascende verso il Padre è perché vuole che la sua risurrezione sia partecipata ad ogni essere umano, e trascini in alto ogni creatura. E nel giorno di Pentecoste i discepoli sono trasformati dal soffio dello Spirito Santo. Non avranno solamente una bella notizia da portare a tutti, ma saranno loro stessi diversi da prima, come rinati a vita nuova. La risurrezione di Gesù ci trasforma con la forza dello Spirito Santo. Gesù è vivo, è vivo fra noi, è vivente e ha quella forza di trasformare.
Com’è bello pensare che si è annunciatori della risurrezione di Gesù non solamente a parole, ma con i fatti e con la testimonianza della vita! Gesù non vuole discepoli capaci solo di ripetere formule imparate a memoria. Vuole testimoni: persone che propagano speranza con il loro modo di accogliere, di sorridere, di amare. Soprattutto di amare: perché la forza della risurrezione rende i cristiani capaci di amare anche quando l’amore pare aver smarrito le sue ragioni. C’è un “di più” che abita l’esistenza cristiana, e che non si spiega semplicemente con la forza d’animo o un maggiore ottimismo. La fede, la speranza nostra non è solo un ottimismo; è qualche altra cosa, di più! È come se i credenti fossero persone con un “pezzo di cielo” in più sopra la testa. È bello questo: noi siamo persone con un pezzo di cielo in più sopra la testa, accompagnati da una presenza che qualcuno non riesce nemmeno ad intuire.
Così il compito dei cristiani in questo mondo è quello di aprire spazi di salvezza, come cellule di rigenerazione capaci di restituire linfa a ciò che sembrava perduto per sempre. Quando il cielo è tutto nuvoloso, è una benedizione chi sa parlare del sole. Ecco, il vero cristiano è così: non lamentoso e arrabbiato, ma convinto, per la forza della risurrezione, che nessun male è infinito, nessuna notte è senza termine, nessun uomo è definitivamente sbagliato, nessun odio è invincibile dall’amore.
Certo, qualche volta i discepoli pagheranno a caro prezzo questa speranza donata loro da Gesù. Pensiamo a tanti cristiani che non hanno abbandonato il loro popolo, quando è venuto il tempo della persecuzione. Sono rimasti lì, dove si era incerti anche del domani, dove non si potevano fare progetti di nessun tipo, sono rimasti sperando in Dio. E pensiamo ai nostri fratelli, alle nostre sorelle del Medio Oriente che danno testimonianza di speranza e anche offrono la vita per questa testimonianza. Questi sono veri cristiani! Questi portano il cielo nel cuore, guardano oltre, sempre oltre. Chi ha avuto la grazia di abbracciare la risurrezione di Gesù può ancora sperare nell’insperato. I martiri di ogni tempo, con la loro fedeltà a Cristo, raccontano che l’ingiustizia non è l’ultima parola nella vita. In Cristo risorto possiamo continuare a sperare. Gli uomini e le donne che hanno un “perché” vivere resistono più degli altri nei tempi di sventura. Ma chi ha Cristo al proprio fianco davvero non teme più nulla. E per questo i cristiani, i veri cristiani, non sono mai uomini facili e accomodanti. La loro mitezza non va confusa con un senso di insicurezza e di remissività. San Paolo sprona Timoteo a soffrire per il vangelo, e dice così: «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (2 Tm 1,7). Caduti, si rialzano sempre.
Ecco, cari fratelli e sorelle, perché il cristiano è un missionario di speranza. Non per suo merito, ma grazie a Gesù, il chicco di grano che, caduto nella terra, è morto e ha portato molto frutto (cfr Gv 12,24).

Publié dans:PAPA FRANCESCO CATECHESI |on 4 octobre, 2017 |Pas de commentaires »
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