Archive pour octobre, 2017

Dio creatore

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Publié dans:immagini sacre |on 23 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

ORA, MANGIA ET LABORA GIANFRANCO RAVASI

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ORA, MANGIA ET LABORA GIANFRANCO RAVASI

13 Dic, 2016 in Angolo del Card. Ravasi con tag cultura / Gianfranco Ravasi da Cortile Dei Gentili

Tempo fa ho ricevuto da un amico che vive in Germania il volume di un a me ignoto filosofo coreano, Byung-Chul Han, segnato da un titolo enigmatico Duft der Zeit, ossia «il profumo del tempo», accompagnato da un sottotitolo più esplicativo e comprensibile, Ein philosophischer Essay zur Kunst des Verweilens, un saggio dedicato dunque all’«arte del soffermarsi, dell’attardarsi, del sostare». Lessi allora qualche capitolo e annotai una frase suggestiva, costruita sulla bipolarità semantica del termine greco pnéuma, che significa sia soffio, vento, respiro sia spirito: «Chi perde il respiro, perde anche lo spirito», per cui – continuava il filosofo coreano – noi viviamo ora in un tempo di assoluta “dispnea”.
Mi è venuto in mente questo saggio (che mi si dice verrà tradotto prossimamente in italiano da Vita e Pensiero) sfogliando e centellinando qua e là l’imponente raccolta di Regole monastiche d’occidente approntata con tutti i crismi del rigore critico da Cecilia Falchini, una monaca di Bose, la comunità diretta da Enzo Bianchi. È lui che prende per mano, attraverso una nitida introduzione, il lettore per non lasciarlo smarrire in una vera e propria foresta testuale. Perché evocavo «il profumo del tempo»? Proprio perché la contemplazione e il silenzio che aleggiano in queste pagine sono una vera e propria esercitazione a ritrovare il respiro del corpo e lo spirito dell’anima, “soffermandosi” ad aspirare l’aroma delle ore e dei giorni.
Il titolo della raccolta mette in luce, però, un’altra dimensione di questo piccolo oceano di scritti, a prima vista alternativa rispetto alla solitudine (“monaco” deriva da mónos, “solo, unico”), cioè la vita cenobitica che, come indica la matrice greca, suppone invece una vita (bíos) condotta in comune (koinós). La titolatura, infatti, è una citazione biblica: «Abitare come fratelli insieme». È la resa dell’ebraico shebet ’ahîm gam-jahad del primo versetto del Salmo 133, una deliziosa miniatura fatta nell’originale di sole 37 parole, ove forse si descrive (o si auspica) l’armonia tra i membri della comunità sacerdotale che guida il culto nel tempio di Gerusalemme. Uno stare insieme che, se veramente fraterno, sarebbe tôb e na’îm, ossia “buono/bello” e “affascinante/delizioso”.
Cosa che non sempre e facilmente si realizzava, stando a queste regole monastiche, se esse dovevano premurarsi di denunciare il rischio dell’avarizia, della lussuria, della collera, dell’invidia, della maldicenza e mormorazione, dell’ozio, della superbia e così via, preoccupandosi persino delle questioni concrete connesse al lavoro, alla cucina, all’igiene, al riso sguaiato, alla condanna della caccia e ad altro ancora. Ed è proprio questa concretezza – che potrà stupire coloro che immaginano i monasteri come piste di decollo verso cieli mistici – a permettere che l’aria spirituale sia pura e le grandi colonne che sostengono l’architettura interiore della comunità siano ben solide. Si tratta di quei pilastri che vengono descritti in tanti modi in queste pagine ma che sono costanti, come la preghiera, la povertà e la condivisione dei beni, l’obbedienza, il celibato, la lettura, il lavoro, l’ospitalità.
Il cuore pulsante del cenobio è, comunque, Cristo, il suo Vangelo, che è l’anima di tutte le regole, la liturgia, l’amore fraterno. Leggendo questa vera e propria enciclopedia dell’anima che dal IV secolo fino al VII vede svilupparsi almeno una ventina di regole monastiche, ci si accorge che la vera spiritualità sa coniugare il minimo all’infinito, annodare il tempo all’eterno, intrecciare la pesantezza della quotidianità alla danza della grazia, incrociare il turgore della corporeità con la lievità dell’anima. Cecilia Falchini parte dalle regole dell’Africa mediterranea ove emerge, gigantesca per l’influsso che eserciterà, la Regola di Agostino; procede mostrando come la ricchezza spirituale dell’Oriente cristiano sia stata travasata in Occidente (sorprendenti sono le 203 domande e risposte del Parvum ascetikon del grande Basilio, vescovo di Cesarea del IV sec.); giunge poi in Gallia, una regione particolarmente fertile di esperienze religiose, cristallizzate in una decina di testi normativi, non di rado desunti dalla spiritualità orientale.
Non manca una puntata nell’Irlanda, la terra di san Colombano, e un viaggio “fruttuoso” anche in Spagna ove, accanto al famoso Isidoro di Siviglia, testimone dell’epoca ispanico-visigotica, c’è appunto un Fruttuoso, un aristocratico che visse a Compluto (León) e divenne poi vescovo di Braga nel 656. Abbiamo lasciato per ultimo il nostro paese, non perché sia stato privo di proposte spirituali, ma perché la figura di Benedetto con la sua regola – forse una delle più note anche alla cultura “laica” attuale – costituisce un caposaldo fondamentale. Anzi, a partire dal IX secolo in Europa il modello benedettino iniziò a stendere il suo manto anche sulle altre forme monastiche, divenendo una sorta di pietra di paragone o di archetipo generale su cui uniformarsi.
Preziosa è, dunque, questa panoramica che si allarga su un orizzonte variegato, divenendo uno specchio circolare dell’intera spiritualità occidentale. Essa rifletteva anche la civiltà e il terreno sociale dal quale le varie tipologie religiose sbocciavano, fiorivano e fruttificavano. Alla radice, comunque, c’era la fede e quel respiro dello spirito da cui siamo partiti. Una lezione, quindi, anche per i nostri giorni vissuti in apnea o in dispnea interiore, perché – era già Pascal a registrarlo nei suoi Pensieri (n. 139) – «tutta l’infelicità degli uomini deriva da una cosa sola: l’incapacità di starsene tranquilli, in una camera». Ma non per fissare, atonici, il vuoto. Era Kafka nei sui Aforismi di Zürau a ricordarcelo: «Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno…».

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 23 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

Matteo 22, 15-20

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Publié dans:STUDI |on 20 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

22 OTTOBRE 2017 | 29A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

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22 OTTOBRE 2017 | 29A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

Per cominciare
Gesù viene posto di fronte a una questione squisitamente politica. Ma anche questa volta il Figlio di Dio non si lascia coinvolgere ed entra nel cuore della questione: si devono riconoscere i diritti di Dio sia nella politica che nell’economia e in ogni altro settore della vita personale e pubblica.

La parola di Dio
Isaia 45,1.4-6. Ciro, re di Persia, diventa uno strumento di Dio per riedificare Israele. La storia della salvezza è nelle mani di Dio, che si serve degli strumenti più utili, anche di una persona lontana dalla fede.
1 Tessalonicesi 1,1-5b. La lettera ai Tessalonicesi, che iniziamo a leggere oggi, è il più antico documento della chiesa delle origini. Paolo l’ha scritta a Corinto nell’anno 51. Aveva incontrato gli abitanti di Tessalonica durante il suo secondo viaggio e si era rivolto dapprima alla fiorente comunità giudaica, che però gli fece una feroce opposizione (At 17,1-10). Questo lo spingerà a rivolgersi ai pagani.
Matteo 22, 15-21. I farisei, esasperati dal racconto delle parabole sferzanti di Gesù nei confronti delle autorità ebraiche, gli tendono una trappola perché si comprometta davanti al potere politico. Ma Gesù li costringe a uscire dall’ipocrisia e a riconoscere i diritti di Dio.

Riflettere
Il brano di vangelo che ci viene proposto oggi occupa un posto di rilievo nel racconto degli evangelisti. È presente non solo in Matteo, ma anche in Marco (12,13-17) e in Luca (20,20-26).
Il vangelo di questa domenica è preceduto da tre parabole che mettono in evidenza l’atteggiamento negativo dei farisei nei confronti di Gesù: gli invitati scortesi, i vignaioli omicidi e quella dei due figli, di cui uno dice di sì, ma poi non obbedisce.
Con le sue parabole, Gesù ha esasperato i farisei e i maestri della legge. Per questo, dice Luca, « Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore » (20,20).
I farisei praticamente passano al contrattacco. Gli presentano questioni spinose, cercano in questo caso, di portarlo sul terreno della politica. Gesù poteva fare un passo falso e offrire il pretesto per accusarlo davanti alle autorità.
La risposta data da Gesù ai farisei e agli erodiani è famosa e viene usata spesso quasi fosse un proverbio. Della frase si è persa la saggezza evangelica, facendo dire a Gesù parole di sola furbizia umana. Invece fanno riferimento al primato di Dio su ogni azione dell’uomo.
I farisei fanno spesso brutta figura nel vangelo. Sappiamo da altre fonti che molti di loro erano invece persone rispettabili e osservanti. Possiamo immaginare però quale disorientamento ha portato nella loro vita il comportamento libero di Gesù.
In questa circostanza attaccano Gesù e per essere più forti si fanno accompagnare dagli erodiani. Pongono a Gesù una questione cruciale, il pagamento delle tasse agli invasori romani; e la testimonianza degli erodiani poteva diventare importante nel caso di un’accusa, perché essi erano vicini a Erode, che governava in pieno accordo con i Romani.
La questione era questa. Ogni ebreo ? dai ragazzi di una dozzina d’anni ai 65 anni ? uomini, donne e gli stessi schiavi, dovevano pagare ai Romani un denaro d’argento a testa (la paga quotidiana di un lavoratore). Ma questo pagamento determinava il riconoscimento dell’autorità di Cesare, che avveniva in un contesto tale per cui ? così sostenevano soprattutto gli zeloti ? l’accettarlo poteva apparire idolatria, e si opponeva direttamente al primo comandamento della legge.
Nella risposta di Gesù troviamo l’unico suo pronunciamento su una questione politica. Su queste questioni Gesù si è sempre comportato con assoluta indifferenza. Ha pagato la tassa per sé e per Pietro (Mt 17,24-27); non ha voluto farsi proclamare re, dopo la moltiplicazione dei pani (Gv 6,15); non ha voluto lasciarsi coinvolgere in questioni di eredità (Lc 12,13-14). Eppure agli occhi delle autorità appare più pericoloso di qualsiasi agitatore politico.
La risposta di Gesù è un misto di ironia e di logica stretta. Gesù li costringe subito a porsi di fronte a quella moneta che ad essi ripugnava. Nella moneta c’era infatti l’immagine dell’imperatore e la scritta Tiberius Caesar Divi Augusti Filius Augustus Pontifex Maximus. Per un vero ebreo questo era intollerabile. I farisei non erano d’accordo con i romani, ma erano anche contrari a qualsiasi movimento di ribellione contro Roma. Essi riponevano la loro fiducia in Iahvè, che aveva il potere di liberarli come aveva fatto in passato.
Gesù non cade dunque nel tranello di presentarsi come ribelle a Roma e dice: « Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare ». E l’atmosfera si fa pesante. Lo era già sin dall’inizio, a dire il vero. Quel loro presentarsi servile e astuto (« Sappiamo che sei veritiero… Tu non hai soggezione di alcuno… ») era ripugnante. E Gesù non si era sottratto alla schiettezza che gli avevano riconosciuta, e aveva risposto senza alcun timore alla loro doppiezza: « Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? ».
La risposta di Gesù però va oltre e aggiunge: « Ma rendete a Dio quello che è di Dio ». Ed è questa l’originalità di ciò che lui afferma.
La prima parte poteva apparire una risposta dettata da realismo, dalla saggezza, forse anche dalla furbizia, la seconda parte allarga gli orizzonti, perché non c’è nulla che si sottragga veramente a Dio, nemmeno la politica.
In questo senso fa parte della signoria di Dio sul mondo e sulla storia la vicenda di Ciro, a cui fa riferimento la prima lettura, tratta dal secondo Isaia: Dio sceglie Ciro, il suo eletto ? un uomo che non conosce il vero Dio ? e lo rende strumento di salvezza: lo chiama ad abbattere davanti a lui le nazioni, e questo per amore di Israele.
La risposta di Gesù in realtà più che accettazione dell’autorità di Cesare, suonava dunque così: « Non lasciatevi sottomettere da nessun Cesare di questo mondo. Non rassegnatevi alla logica del mondo, ma trovate la vera libertà in Dio, signore del mondo ».
Gesù insegna a rispettare e a valorizzare il servizio politico, purché esso rispetti e realizzi le esigenze di Dio. Perché davanti a qualsiasi aberrazione e abuso di potere, anche democratico, i cristiani testimoniano e promuovono i diritti di Dio. È questo il significato vero e rivoluzionario della frase di Gesù.

Attualizzare
Chiesa e politica: il tema è spesso in prima pagina e di altissimo interesse. Alcuni pensano che la chiesa non dovrebbe parlare di politica, che lo fa troppo, che ciò che dice a volte le si ritorce contro. Ma in ogni epoca storica gli uomini di chiesa si sono espressi sui temi scottanti del loro tempo.
Un solo esempio. Nel 1845 Louis Rendu, vescovo di Annecy – dove c’era il più grande cotonificio dello stato savoiardo-piemontese – denunciò presso Carlo Alberto la condizione disumana degli operai-bambini, proprio mentre il Congresso degli scienziati italiani – tutti grandi capitalisti – affermava che « il lavoro infantile nelle officine e nelle fabbriche era assolutamente necessario per reggere la concorrenza straniera ».
Molto più recentemente tutti ricordiamo gli interventi contro la guerra in Iraq di Giovanni Paolo II, tra un coro di consensi.
Che direbbe Gesù della questione? Il brano di vangelo di questa domenica si direbbe che capiti a proposito. Perché a Gesù viene posta una questione squisitamente politica: pagare o non pagare il tributo a Cesare? Come dicevamo, la risposta di Gesù ai farisei e agli erodiani è famosa, anche se viene usata non di frequente a proposito e a sproposito.
Gesù costringe i farisei a porsi di fronte a quell’odiata moneta su cui è scolpita l’immagine dell’imperatore e il riconoscimento che Tiberio è Divus e Pontifex Maximus. Gesù sa bene che farisei ed erodiani nei confronti dei romani sono a disagio, ma non cercano lo scontro.
Gesù però non cade nel loro tranello: « Date a Cesare quel che è di Cesare », dice. « e a Dio quel che è di Dio ». Risposta che al di là di ogni furbizia o realismo, chiede di allargare gli orizzonti. Perché non c’è nulla che si sottragga veramente a Dio, nemmeno la questione del pagare o non pagare le tasse a Cesare.
Gesù non chiede un’accettazione supina all’autorità romana, anzi, invita a non lasciarsi accalappiare e a non sottomettersi in modo passivo a nessun Cesare di questo mondo. « Non rassegnatevi a certe logiche », dice Gesù. « Trovate invece la vera libertà nella fedeltà a Dio, signore del mondo ».
In ogni tempo la fede, quando si incarna e viene vissuta, si fa visibile, trasforma l’ambiente e la società, diventa fermento, lievito di storia, si fa « politica ». Questo dovrebbero ricordare i laici cristiani, che oggi guardano con diffidenza alla politica, e la lasciano a uomini di altre ambizioni, e magari a qualche vescovo.

Intervistare Gesù
Qualcuno chiede a Beppe Severgnini, nella sua rubrica « Italians Magazine » del supplemento al Corriere della Sera: « Se potessi intervistare un grande personaggio del passato, chi sarebbe e di che cosa vorresti parlare? ». Risposta: « Gesù. Vorrei conoscere il Suo conciso giudizio sugli ultimi duemila anni ».

Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

Fede e speranza in Cristo

una speranza,

Publié dans:INTERESSANTI |on 18 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 37. BEATI I MORTI CHE MUOIONO NEL SIGNORE

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PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 37. BEATI I MORTI CHE MUOIONO NEL SIGNORE

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 18 ottobre 2017

Carissimi fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei mettere a confronto la speranza cristiana con la realtà della morte, una realtà che la nostra civiltà moderna tende sempre più a cancellare. Così, quando la morte arriva, per chi ci sta vicino o per noi stessi, ci troviamo impreparati, privi anche di un “alfabeto” adatto per abbozzare parole di senso intorno al suo mistero, che comunque rimane. Eppure i primi segni di civilizzazione umana sono transitati proprio attraverso questo enigma. Potremmo dire che l’uomo è nato con il culto dei morti.
Altre civiltà, prima della nostra, hanno avuto il coraggio di guardarla in faccia. Era un avvenimento raccontato dai vecchi alle nuove generazioni, come una realtà ineludibile che obbligava l’uomo a vivere per qualcosa di assoluto. Recita il salmo 90: «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio» (v. 12). Contare i propri giorni fa si che il cuore diventi saggio! Parole che ci riportano a un sano realismo, scacciando il delirio di onnipotenza. Cosa siamo noi? Siamo «quasi un nulla», dice un altro salmo (cfr 88,48); i nostri giorni scorrono via veloci: vivessimo anche cent’anni, alla fine ci sembrerà che tutto sia stato un soffio. Tante volte io ho ascoltato anziani dire: “La vita mi è passata come un soffio…”.
Così la morte mette a nudo la nostra vita. Ci fa scoprire che i nostri atti di orgoglio, di ira e di odio erano vanità: pura vanità. Ci accorgiamo con rammarico di non aver amato abbastanza e di non aver cercato ciò che era essenziale. E, al contrario, vediamo quello che di veramente buono abbiamo seminato: gli affetti per i quali ci siamo sacrificati, e che ora ci tengono la mano.
Gesù ha illuminato il mistero della nostra morte. Con il suo comportamento, ci autorizza a sentirci addolorati quando una persona cara se ne va. Lui si turbò «profondamente» davanti alla tomba dell’amico Lazzaro, e «scoppiò in pianto» (Gv 11,35). In questo suo atteggiamento, sentiamo Gesù molto vicino, nostro fratello. Lui pianse per il suo amico Lazzaro.
E allora Gesù prega il Padre, sorgente della vita, e ordina a Lazzaro di uscire dal sepolcro. E così avviene. La speranza cristiana attinge da questo atteggiamento che Gesù assume contro la morte umana: se essa è presente nella creazione, essa è però uno sfregio che deturpa il disegno di amore di Dio, e il Salvatore vuole guarircene.
Altrove i vangeli raccontano di un padre che ha la figlia molto malata, e si rivolge con fede a Gesù perché la salvi (cfr Mc 5,21-24.35-43). E non c’è figura più commovente di quella di un padre o di una madre con un figlio malato. E subito Gesù si incammina con quell’uomo, che si chiamava Giairo. A un certo punto arriva qualcuno dalla casa di Giairo e gli dice che la bambina è morta, e non c’è più bisogno di disturbare il Maestro. Ma Gesù dice a Giairo: «Non temere, soltanto abbi fede!» (Mc 5,36). Gesù sa che quell’uomo è tentato di reagire con rabbia e disperazione, perché è morta la bambina, e gli raccomanda di custodire la piccola fiamma che è accesa nel suo cuore: la fede. “Non temere, soltanto abbi fede”. “Non avere paura, continua solo a tenere accesa quella fiamma!”. E poi, arrivati a casa, risveglierà la bambina dalla morte e la restituirà viva ai suoi cari.
Gesù ci mette su questo “crinale” della fede. A Marta che piange per la scomparsa del fratello Lazzaro oppone la luce di un dogma: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi tu questo?» (Gv 11,25-26). È quello che Gesù ripete ad ognuno di noi, ogni volta che la morte viene a strappare il tessuto della vita e degli affetti. Tutta la nostra esistenza si gioca qui, tra il versante della fede e il precipizio della paura. Dice Gesù: “Io non sono la morte, io sono la risurrezione e la vita, credi tu questo?, credi tu questo?”. Noi, che oggi siamo qui in Piazza, crediamo questo?
Siamo tutti piccoli e indifesi davanti al mistero della morte. Però, che grazia se in quel momento custodiamo nel cuore la fiammella della fede! Gesù ci prenderà per mano, come prese per mano la figlia di Giairo, e ripeterà ancora una volta: “Talità kum”, “Fanciulla, alzati!” (Mc 5,41). Lo dirà a noi, a ciascuno di noi: “Rialzati, risorgi!”. Io vi invito, adesso, a chiudere gli occhi e a pensare a quel momento: della nostra morte. Ognuno di noi pensi alla propria morte, e si immagini quel momento che avverrà, quando Gesù ci prenderà per mano e ci dirà: “Vieni, vieni con me, alzati”. Lì finirà la speranza e sarà la realtà, la realtà della vita. Pensate bene: Gesù stesso verrà da ognuno di noi e ci prenderà per mano, con la sua tenerezza, la sua mitezza, il suo amore. E ognuno ripeta nel suo cuore la parola di Gesù: “Alzati, vieni. Alzati, vieni. Alzati, risorgi!”.
Questa è la nostra speranza davanti alla morte. Per chi crede, è una porta che si spalanca completamente; per chi dubita è uno spiraglio di luce che filtra da un uscio che non si è chiuso proprio del tutto. Ma per tutti noi sarà una grazia, quando questa luce, dell’incontro con Gesù, ci illuminerà.

 

El Greco, San Luca

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Publié dans:immagini sacre |on 17 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO… IN OCCASIONE DELLA FESTA DI SAN LUCA (18.10)

https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/2000/oct-dec/documents/hf_jp-ii_spe_20001017_san-luca.html

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO… IN OCCASIONE DELLA FESTA DI SAN LUCA
ALL’ARCIVESCOVO – VESCOVO DI PADOVA

Al venerato Fratello
ANTONIO MATTIAZZO
Arcivescovo – Vescovo di Padova

1. Tra le glorie di codesta Chiesa, di grande significato è il particolare rapporto che la lega alla memoria dell’evangelista Luca, del quale – secondo la tradizione – custodisce le reliquie nella splendida Basilica di santa Giustina: tesoro prezioso e dono veramente singolare, giunto attraverso un provvidenziale cammino. San Luca infatti – secondo antiche testimonianze – morì in Beozia e fu sepolto a Tebe. Di là, come riferisce san Girolamo (cfr De viris ill. VI, I), le sue ossa furono trasportate a Costantinopoli, nella Basilica dei Santi Apostoli. Successivamente, stando a fonti che le ricerche storiche vanno esplorando, furono trasferite a Padova.
Un’occasione propizia per ravvivare l’attenzione e la venerazione per questa «presenza», che si radica nella storia cristiana di codesta Città, è stata ora offerta dalla ricognizione del corpo del Santo Evangelista, nonché dal Congresso Internazionale a lui dedicato. A questo si è inteso dare una significativa ispirazione ecumenica, sottolineata anche dal fatto che l’Arcivescovo ortodosso di Tebe, Hieronymos, ha chiesto di poter ricevere un frammento delle reliquie, da deporre là dove è venerato ancora oggi il primo sepolcro dell’Evangelista.
Le celebrazioni che si svolgono in occasione del menzionato Congresso offrono un nuovo stimolo, perché codesta diletta Chiesa che è in Padova riscopra il vero tesoro che san Luca ci ha lasciato: il Vangelo e gli Atti degli Apostoli.
Nel rallegrarmi per l’impegno posto in tale direzione, desidero indugiare brevemente su alcuni aspetti del messaggio lucano, perché codesta Comunità possa trarne orientamento ed incoraggiamento per il suo cammino spirituale e pastorale.
2. Ministro della parola di Dio (cfr Lc 1, 2), Luca ci introduce alla conoscenza della luce discreta ed insieme penetrante che da essa promana illuminando la realtà e gli eventi della storia. Il tema della parola di Dio, filo d’oro che attraversa i due scritti che compongono l’opera lucana, unifica anche le due epoche da lui contemplate, il tempo di Gesù e quello della Chiesa. Quasi narrando la « storia della parola di Dio », il racconto di Luca ne segue la diffusione, dalla Terra Santa fino ai confini del mondo. Il cammino proposto dal terzo Vangelo è profondamente segnato dall’ascolto di questa parola che, come seme, dev’essere accolta con bontà e prontezza di cuore, superando gli ostacoli che le impediscono di attecchire e portare frutto (cfr Lc 8,4-15).
Un aspetto importante che Luca evidenzia è il fatto che la parola di Dio misteriosamente cresce e si afferma anche attraverso la sofferenza e in un contesto di opposizioni e di persecuzioni (cfr At 4,1-31; 5,17-42; passim). La parola che san Luca addita è chiamata a farsi, per ogni generazione, evento spirituale capace di rinnovare l’esistenza. La vita cristiana, suscitata e sorretta dallo Spirito, è dialogo interpersonale che si fonda proprio sulla parola che il Dio vivente ci rivolge, chiedendoci di accoglierla senza riserve nella mente e nel cuore. Si tratta in definitiva di diventare discepoli disposti ad ascoltare con sincerità e disponibilità il Signore, sull’esempio di Maria di Betania, la quale « ha scelto la parte migliore », perché « sedutasi ai piedi di Gesù ascoltava la sua parola » (cfr Lc 10,38-42).
In questa prospettiva, desidero incoraggiare, nella programmazione pastorale di codesta diletta Chiesa, la proposta delle « Settimane bibliche », l’apostolato biblico e i pellegrinaggi in Terra Santa, il luogo dove la Parola si è fatta carne (cfr Gv 1,14). Vorrei anche stimolare tutti – presbiteri, religiosi, religiose, laici -a praticare e promuovere la lectio divina, sino a far diventare la meditazione della Sacra Scrittura un tassello essenziale della propria vita.
3. « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua » (Lc 9,23).
Per Luca esser cristiani significa seguire Gesù sulla via che Egli percorre (Lc 19,57; 10, 38; 13, 22; 14, 25). E’ Gesù stesso che prende l’iniziativa e chiama a seguirlo, e lo fa in modo deciso, inconfondibile, mostrando così la sua identità del tutto fuori dal comune, il suo mistero di Figlio, che conosce il Padre e lo rivela (cfr Lc 10,22). All’origine della decisione di seguire Gesù vi è l’opzione fondamentale in favore della sua Persona. Se non si è stati affascinati dal volto di Cristo è impossibile seguirlo con fedeltà e costanza, anche perché Gesù cammina per una via impervia, pone condizioni estremamente esigenti e si dirige verso un destino paradossale, quello della Croce. Luca sottolinea che Gesù non ama compromessi e richiede l’impegno di tutta la persona, un deciso distacco da ogni nostalgia del passato, dai condizionamenti familiari, dal possesso dei beni materiali (cfr Lc 9,57-62; 14,26-33).
L’uomo sarà sempre tentato di attenuare queste esigenze radicali e di adattarle alle proprie debolezze, oppure di desistere dal cammino intrapreso. Ma è proprio su questo che si decide l’autenticità e la qualità della vita della comunità cristiana. Una Chiesa che vive nel compromesso sarebbe come il sale che perde il sapore (cfr Lc 14,34-35).
Occorre abbandonarsi alla potenza dello Spirito, capace d’infondere luce e soprattutto amore per Cristo; occorre aprirsi al fascino interiore che Gesù esercita sui cuori che aspirano all’autenticità, rifuggendo dalle mezze misure. Questo è certo difficile per l’uomo, ma diventa possibile con la grazia di Dio (cfr Lc 18,27). D’altra parte, se la sequela di Cristo implica che si porti ogni giorno la Croce, questa a sua volta è albero di vita che conduce alla risurrezione. Luca, che accentua le esigenze radicali della sequela di Cristo, è anche l’Evangelista che descrive la gioia di coloro che diventano discepoli di Cristo (cfr Lc 10,20; 13,17; 19,6.37; At 5,41; 8,39; 13,48).
4. E’ nota l’importanza che Luca dà, nei suoi scritti, alla presenza e all’azione dello Spirito, a partire dall’Annunciazione, quando il Paraclito discende su Maria (cfr Lc 1,35), fino alla Pentecoste, quando gli Apostoli, mossi dal dono dello Spirito, ricevono la forza necessaria per annunciare in tutto il mondo la grazia del Vangelo (cfr At 1,8; 2,1-4). E’ lo Spirito Santo a plasmare la Chiesa. San Luca ha delineato nei tratti della prima comunità cristiana il modello sul quale la Chiesa di tutti i tempi deve rispecchiarsi: è una comunità unita in « un cuor solo e un’anima sola », assidua nell’ascolto della parola di Dio; una comunità che vive di preghiera, spezza con letizia il Pane eucaristico, apre il cuore alle necessità dei bisognosi fino a condividere con loro i beni materiali (At 2,42-47; 4,32-37). Ogni rinnovamento ecclesiale dovrà attingere a questa fonte ispiratrice il segreto della propria autenticità e freschezza.
A partire dalla Chiesa madre di Gerusalemme, lo Spirito allarga gli orizzonti e sospinge gli Apostoli e i Testimoni fino a raggiungere Roma. Sullo sfondo di queste due città si svolge la storia della Chiesa primitiva, una Chiesa che cresce e si dilata nonostante le opposizioni che la minacciano dall’esterno e le crisi che dall’interno ne appesantiscono il cammino. Ma in tutto questo percorso, ciò che realmente preme a Luca è presentare la Chiesa nell’essenza del suo mistero: esso è costituito dalla perenne presenza del Signore Gesù che, agendo in essa con la forza del suo Spirito, le infonde consolazione e coraggio nelle prove del cammino nella storia.
5. Secondo una pia tradizione, Luca è ritenuto pittore dell’immagine di Maria, la Vergine Madre. Ma il vero ritratto che Luca traccia della Madre di Gesù è quello che emerge dalle pagine della sua opera: in scene divenute familiari al Popolo di Dio, egli delinea un’immagine eloquente della Vergine. L’Annunciazione, la Visitazione, la Natività, la Presentazione al Tempio, la vita nella casa di Nazareth, la disputa con i dottori e lo smarrimento di Gesù, la Pentecoste hanno fornito ampia materia, lungo i secoli, all’incessante rielaborazione di pittori, scultori, poeti e musicisti.
Opportunamente, quindi, al Congresso Internazionale è stata prevista una riflessione sul tema dell’arte, ed insieme si è allestita una mostra ricca di pregevoli opere.
Quello che tuttavia è più importante cogliere è che, attraverso quadri di vita mariana, Luca ci introduce nella interiorità di Maria, facendoci scoprire nello stesso tempo la sua funzione unica nella storia della salvezza.
Maria è colei che pronuncia il «fiat», un sì personale e pieno alla proposta di Dio, definendosi « Serva del Signore » (Lc 1,38). Questo atteggiamento di totale adesione a Dio e disponibilità incondizionata alla sua Parola costituisce il modello più alto della fede, l’anticipazione della Chiesa come comunità dei credenti.
La vita di fede cresce e si sviluppa in Maria nella meditazione sapienziale delle parole e degli eventi della vita di Cristo (cfr Lc 2,19.51). Ella « medita nel cuore » per comprendere il senso profondo delle parole e dei fatti, assimilarlo e poi anche comunicarlo agli altri.
Il Canto del Magnificat (cfr Lc 1,46-55) manifesta un altro importante tratto della «spiritualità» di Maria: Ella incarna la figura del povero, capace di riporre pienamente la sua fiducia in Dio, che abbatte i troni dei potenti ed esalta gli umili.
Luca ci delinea anche la figura di Maria nella Chiesa dei primi tempi, mostrandola presente nel Cenacolo in attesa dello Spirito Santo: « Tutti questi (gli undici Apostoli) erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù, e con i fratelli di Lui » (At 1,14).
Il gruppo raccolto nel Cenacolo costituisce come la cellula germinale della Chiesa. Al suo interno Maria svolge un duplice ruolo: da una parte intercede per la nascita della Chiesa ad opera dello Spirito Santo; dall’altra comunica alla Chiesa nascente la sua esperienza di Gesù.
L’opera di Luca propone così alla Chiesa che è in Padova un efficace stimolo a valorizzare la « dimensione mariale » della vita cristiana nel cammino della sequela di Cristo.
6. Un’altra dimensione essenziale della vita cristiana e della Chiesa, su cui la narrazione lucana proietta vivida luce, è quella della missione evangelizzatrice. Di questa missione Luca indica il fondamento perenne, e cioè l’unicità e l’universalità della salvezza operata da Cristo (cfr At 4,12). L’evento salvifico della morte-risurrezione di Cristo non conclude la storia della salvezza, ma segna l’avvio di una nuova fase, caratterizzata dalla missione della Chiesa, chiamata a comunicare i frutti della salvezza operata da Cristo a tutte le nazioni. Per questa ragione, Luca fa seguire al Vangelo, come logica conseguenza, la storia della missione. E’ lo stesso Risorto che dà agli Apostoli il «mandato» missionario: « Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto » (Lc 24,45-48).
La missione della Chiesa comincia a Pentecoste « da Gerusalemme » per estendersi « sino ai confini della terra ». Gerusalemme non indica solo un punto geografico. Sta piuttosto a significare un punto focale della storia della salvezza. La Chiesa non parte da Gerusalemme per abbandonarla, ma per innestare sull’ulivo d’Israele le nazioni pagane (cfr Rm 11,17).
Compito della Chiesa è immettere nella storia il lievito del Regno di Dio (cfr Lc 13,20-21). Compito impegnativo, descritto negli Atti degli Apostoli come un itinerario faticoso e accidentato, ma affidato a «testimoni» pieni di entusiasmo, di intraprendenza, di gioia, disponibili a soffrire e a dare la vita per Cristo. Questa energia interiore è comunicata loro dalla comunione di vita con il Risorto e dalla forza dello Spirito che egli dona.
Quale grande risorsa può costituire, per la Chiesa che è in Padova, il continuo confronto con il messaggio dell’Evangelista, di cui custodisce i resti mortali!
7. Alla luce di questa visione lucana, auspico che codesta Comunità diocesana, in piena docilità al soffio dello Spirito, sappia testimoniare con audacia creativa Gesù Cristo, sia nel proprio territorio, sia, secondo la sua bella tradizione, nella cooperazione missionaria con le Chiese dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia.
Questo impegno missionario trovi un ulteriore impulso in questo Anno giubilare, che celebra i duemila anni dalla nascita di Cristo e chiama la Chiesa a un profondo rinnovamento di vita. Proprio il Vangelo di Luca riporta il discorso con cui Gesù, nella Sinagoga di Nazareth, proclama « l’anno di grazia del Signore », annunciando la salvezza come liberazione, guarigione, buona novella ai poveri (cfr Lc 4,14-20). Lo stesso Evangelista presenterà poi la forza risanante dell’amore misericordioso del Salvatore in pagine toccanti come quella della pecorella smarrita e del figlio prodigo (cfr Lc 15).
Di questo annuncio il nostro tempo ha più che mai bisogno. Esprimo, dunque, il mio fervido incoraggiamento a codesta Comunità, perché l’impegno per la nuova evangelizzazione sia sempre più forte ed incisivo. Esorto anche a proseguire e sviluppare le iniziative ecumeniche che sono state avviate con alcune Chiese Ortodosse in termini di collaborazione sul piano delle opere di carità, della cultura teologica, della pastorale. Il Congresso Internazionale su san Luca rappresenti una tappa significativa nel cammino di codesta Chiesa, aiutandola a radicarsi sempre più nel terreno della Parola di Dio e ad aprirsi con rinnovato slancio alla comunione e alla missione.
Con tali auspici, imparto di cuore a Lei, venerato Fratello, ed a quanti sono affidati alle sue cure pastorali, una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 15 Ottobre 2000

Publié dans:Santi Evangelisti |on 17 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

Matteo 22,1-14

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Publié dans:immagini sacre |on 13 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

15 OTTOBRE 2017 | 28A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/2017-Anno_A/05-Ordinario_A/Omelie/28-Domenica/10-28a-Domenica_A_2017-UD.htm

15 OTTOBRE 2017 | 28A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

Per cominciare
Dio invita gli uomini a una grande festa ed essi paradossalmente rifiutano. Questo comportamento, che è stato storicamente quello degli israeliti, apre la porta a tanti altri che vengono invitati al loro posto. Dio estende il suo invito a tutti gli uomini, di fatto alla comunità cristiana, invitata per ultima, a cui Gesù affida il suo regno.

La parola di Dio
Isaia 25,6-10a. Sul monte Sion il Signore invita a un banchetto grandioso a cui sono invitati tutti i popoli. Ma non è solo l’invito a una festa, bensì a una vita totalmente salvata, in cui verrà asciugata ogni lacrima e cancellata ogni miseria umana.
Filippesi 4,12-14.19-20. Paolo ringrazia per l’aiuto materiale che gli abitanti di Filippi hanno voluto dargli. Dice grazie, ma nello stesso tempo afferma di essere ormai abituato ad affrontare un po’ tutto nella sua vita di missionario, sia i momenti più confortevoli che quelli più difficili.
Matteo 22,1-14. Ancora una parabola sul rifiuto degli ebrei ad accogliere gli inviti di Dio. Un rifiuto che questa volta suscita una dura reazione da parte del re, che amareggiato, estende il suo invito a ogni genere di persone, a chiunque vorrà accettarlo.

Riflettere

L’esperienza del banchetto, del pranzo condiviso, è una delle più comuni per il popolo ebraico. Ogni grande festa era accompagnata da sacrifici « pacifici », in cui si condivideva il pranzo e c’era allegria per tutti. Il mangiare insieme in festa era addirittura il simbolo del regno messianico, di un tempo di benessere, di grande fraternità, di rapporti radicalmente nuovi.
C’è un bel legame tra la prima lettura (l’apocalisse di Isaia, V secolo) e il vangelo. Le immagini di Isaia sono efficaci, fresche: parlano del banchetto messianico in un quadro di convivialità, gioia, abbondanza. Una situazione di benessere, ma soprattutto di un nuovo rapporto con il Signore, di una nuova conoscenza di lui (strapperà il velo), di una gioia e un destino oltre ogni limite (eliminerà la morte per sempre).
Anche per Gesù il banchetto rappresenta qualcosa di speciale. Lo considera il simbolo della vita futura definitiva. « Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi », dice (Lc 13,29).
Nella sua vita pubblica Gesù partecipa a tantissimi banchetti. A Cana, con la madre e gli apostoli, a casa di Zaccheo e di Simone il lebbroso (con la presenza fuori programma della peccatrice), a casa di Marta e di Maria. Inizia con un banchetto anche la chiamata di Levi, il pubblicano. È durante un pasto che si rivela a Emmaus e ancora durante un pasto decide di lasciare la più bella memoria di sé nel pane e nel vino.
Alcune delle parabole di Gesù hanno come sfondo un banchetto. Così quella che ci viene proposta questa domenica, in cui un re, avendo preparato un grande banchetto per le nozze del figlio, manda i servi a chiamare gli invitati, che però rifiutano. Alcuni lo fanno perché hanno altri impegni (il lavoro dei campi, i propri affari…), ma altri reagiscono con la violenza all’invito: maltrattano i servi e li uccidono.
La reazione del re è durissima: si sdegna e mette a ferro e fuoco la città. L’evangelista Luca che racconta la stessa parabola, non parla di questo particolare, e dice semplicemente: « Nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena » (14,24). Del resto in Luca la parabola ha altre varianti ancora rispetto a Matteo: chi chiama è un uomo qualunque, non un re. Gli inviti vengono fatti una sola volta, e al loro rifiuto, il padrone pieno di sdegno invita quanti più può a partecipare al banchetto: poveri, storpi, ciechi e zoppi. E soprattutto non c’è vendetta nei confronti di chi non accetta l’invito.
Matteo invece usa un linguaggio profetico, diretto e duro: il re « fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città » (22,7). Più degli altri evangelisti Matteo ha il senso della drammaticità della chiamata, del giudizio di Dio sugli atteggiamenti concreti che gli uomini, ebrei e cristiani, assumono nei confronti della proposta evangelica.
Matteo si è legato alla storia d’Israele, ha voluto dire di più, ricordando probabilmente l’incendio di Gerusalemme del 70 d.C.
A proposito degli aspetti più drammatici del racconto di Matteo, della reazione durissima del re, c’è anche chi dice che la parabola, oltre ad avere una finalità teologica, ne avrebbe una pedagogica. Matteo usa quelle similitudini come farebbe una madre, che sgrida il figlio che esce di casa e gli dice di stare attento alle macchine per non essere investito. Però la mamma glielo dice proprio perché non vuole che questo avvenga.
L’evangelista Matteo ha un altro particolare che non compare nel racconto di Luca: tra gli ultimi invitati, buoni e cattivi, c’è uno che non ha indossato l’abito nuziale. Anche in questo caso la reazione del re è severissima: quell’uomo viene legato mani e piedi e gettato fuori nelle tenebre (cf Mt 22,13).
In realtà l’invitato, presentandosi in quel modo, era presente alla festa, ma senza parteciparvi davvero. Matteo aggiunge questo particolare (qualcuno scrive che si potrebbe trattare anche di due parabole accostate) in riferimento alla comunità cristiana delle origini, nella quale qualcuno poteva trovarsi come per caso, non ben motivato, magari per secondi fini.

Attualizzare
La parabola di Gesù, al di là degli aspetti più crudi riportati da Matteo, parla di una grandiosa festa di nozze, di un re che ha cercato di fare l’impossibile per rendere le nozze del figlio memorabili.
Evidentemente il re è Dio, il creatore, che ha profuso nel mondo meraviglie incredibili e chiama alla festa della vita.
Moravia e Nietzsche hanno scritto che i cristiani si annoiano e sono noiosi. « Dovrebbero farci sentire altri canti », dice Nietzsche; e Moravia: « La religione è noiosa. Nelle chiese la gente si annoia ». Ma le parole di Gesù ci dicono che dobbiamo pensare al regno di Dio come a qualcosa di gioioso, a una splendida festa senza fine.
Molti potrebbero testimoniare di aver accolto l’invito di Cristo nella loro vita proprio per essere stati affascinati dalla bellezza, dalla gioia e dalla pienezza di vita che proviene dalla proposta cristiana.
Il succo della parabola è l’intenzione di Dio di chiamare tutti, indistintamente, alla festa per le nozze del figlio. La scelta universale nella parabola appare conseguenza del rifiuto degli ebrei, ma in realtà Dio offre a tutti la sua salvezza. A qualcuno può non piacere, ma di fronte alla salvezza siamo tutti uguali, senza categorie, senza posizioni privilegiate.
Si tratta anche di una chiamata urgente, unica, irripetibile, che esige prontezza: non vuoi venire tu? Chiamo un altro. Dio non forza la mano. Non manda le guardie a portarci l’invito o a costringerci a entrare.
Naturalmente il banchetto a cui Dio chiama non è la messa. È la chiamata alla vita cristiana, alla vita di fede, all’impegno di trasformare il mondo per mezzo dell’amore, del vangelo.
La partecipazione a questo banchetto esige la veste della conversione. Bisogna cambiare vita per vivere nella chiesa e trasformare il mondo.
Invece quello che non indossa l’abito nuziale è uno che si trova tra i salvati per caso, che vive tra i cristiani senza sentirsi a casa sua, che chiede magari i sacramenti e le benedizioni, ma non porta nel cuore una fede personale che lo riscalda veramente. Troppo comodo, però, immaginarsi nella comunità, pensarsi cristiano perché battezzato, senza condividerne gli ideali, senza rinunciare al proprio modo sbagliato di vivere.
Pensiamo al caso limite dei grandi camorristi o dei mafiosi: tutte persone battezzate, che nei loro covi incollano le immaginette di padre Pio e della Madonna, ma non hanno scrupoli a tiranneggiare la gente e a usare violenze di ogni tipo.
Ma il fatto che l’invito sia rivolto a ogni genere di persone ci fa capire che qualunque sia il passato di un uomo ? il nostro passato ? è sempre possibile entrare al banchetto di nozze, diventare costruttori di un mondo nuovo.
Ritornando alla prima parte della parabola e attualizzandone al massimo il significato, possiamo affermare che il Signore oggi chiama al suo banchetto concretamente nella chiesa, nella vita della chiesa. E possiamo chiederci qual è la nostra risposta, qual è la nostra disponibilità nei suoi confronti. Da qualche anno gli inviti si moltiplicano: si organizzano incontri di ogni tipo. Ma chi partecipa? C’è chi dice: siamo sempre gli stessi. Molti si accontentano di vivere ai margini, dicono di non avere tempo. Ma davvero è il tempo che manca?
Sta di fatto che anche oggi, come nella parabola, è difficile convocare la gente al banchetto. Ma se si perdono i contatti con la vita della comunità parrocchiale si corre il rischio di vivere una vita di fede individuale, di diventare spiritualmente sottoalimentati. Oggi si sente di tutto ? pensiamo a quante ore dedichiamo alla televisione ? bisogna ascoltare anche la parola di Dio.
Dobbiamo sicuramente domandarci però se quello della chiesa è l’invito a una festa. Non tanto se una parrocchia è capace di organizzare qualcosa di effervescente e di festoso, ma se ciò che viene organizzato risponde davvero ai bisogni profondi dell’uomo d’oggi, alla sua curiosità esistenziale, alla sua sete di felicità. Nelle parrocchie infatti a volte c’è tempo per iniziative di contorno, ma non per incontri seri sulla parola di Dio.
È comunque difficile oggi convocare i cristiani. Troppa gente ha quasi tagliato i ponti con la chiesa e si limita ad avere nei suoi confronti soltanto i contatti inevitabili. E allora l’unica cosa che può funzionare è spesso la testimonianza personale. Ognuno di noi deve farsi portatore di Dio e della sua salvezza. Far arrivare il regno di Dio dove la gente vive. Del resto è lì che il regno deve diventare visibile realtà.

La comunione dal Papa
Durante la visita di Giovanni Paolo II a Reims (Francia) dovettero scegliere cinquanta persone per ricevere la comunione dalle mani del papa. L’arcivescovo decise di scegliere le 50 persone più coinvolte nelle attività parrocchiali. In questo modo furono escluse molte persone ragguardevoli, tra cui una ricchissima nobildonna francese, che, per poter esserci aveva assicurato un bell’assegno per le opere diocesane. Ma il vescovo non cambiò idea. Il giorno prima però uno di quelli che erano stati scelti si ammalò. Con chi sostituirlo? Il parroco si rivolse al vescovo, che disse: « Faremo come dice il vangelo: esci di qui e la prima persona che incontrerai l’inviterai a ricevere la comunione dal papa ». Così fece. Il Signore dimostrò un bel senso dell’umorismo, perché il cinquantesimo invitato fu André, il barbone che chiedeva l’elemosina all’uscita della cattedrale (il primo che il parroco aveva incontrato), che ricevette quindi con sorpresa la comunione dalle mani di Giovanni Paolo II.
Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

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