Archive pour octobre, 2017

Tutti i Santi

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Publié dans:immagini sacre |on 31 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

1 NOVEMBRE 2017 | TUTTI I SANTI – T. ORDINARIO – A | OMELIA

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1 NOVEMBRE 2017 | TUTTI I SANTI -| OMELIA

Per cominciare
Oggi siamo invitati a festeggiare il numero sterminato di cristiani di cui la chiesa riconosce la « santità » e la propone all’imitazione di tutti i fedeli. Essi rappresentano il trionfo di Dio, dei suoi progetti su persone come noi che hanno raggiunto la maturità della fede e la salvezza. Tra di essi ricordiamo anche alcuni che abbiamo conosciuto, che ci sono cari e vivono già l’esperienza di far parte del mondo di Dio.

La parola di Dio
Apocalisse 7,2-4.9-14. Il brano dell’Apocalisse ci presenta la grandiosa processione della moltitudine immensa dei salvati. Essi, in piedi, lodano Dio. Sono passati attraverso il martirio e hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello.
1 Giovanni 3,1-3. Siamo figli di Dio sin d’ora, dice Giovanni, e quello che ci attende è qualcosa di straordinario. Le parole dell’apostolo alimentano la nostra speranza: saremo simili a Dio e lo vedremo così come egli è.
Matteo 5,1-12a. L’evangelista Matteo ci presenta le beatitudini di Gesù: un modo di vivere e di raggiungere la felicità alternativi, che vanno al cuore del vangelo: povertà, mitezza, misericordia, purezza di cuore…

Riflettere
L’Apocalisse (la prima lettura) parla di 144.000 segnati da ogni tribù dei figli d’Israele (il numero è simbolico: 12 x 12 x 1000 = tantissimi). Sono i cristiani della prima ora, fedeli fino al martirio. Poi presenta una moltitudine immensa che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua… Sono i salvati, i santi che sono lì davanti all’Agnello, avvolti in bianche vesti.
Festeggiamo oggi la santità della chiesa: un numero sterminato di persone, una varietà di tipi altrettanto straordinaria! Nel dizionario dei santi benedettini si trovano 7.000 nomi. Un autore (un certo O’Hanlon) avrebbe scritto la vita di 3.000 santi irlandesi. Il calendario romano attuale fa memoria di qualche centinaio di santi, ma già soltanto i più recenti, quelli proclamati dagli ultimi due papi, sono quasi 500.
Tra i santi ci sono teenager come Maria Goretti (11 anni), Laura Vicuña (13) e Domenico Savio (15). Ma anche molti anziani, per esempio San Gilberto (100 anni) e Maria Maddalena di Postel (90 anni).
Santi che sono vissuti nelle condizioni di vita le più varie. Naturalmente ci sono papi e vescovi, preti, religiosi e suore, ma santa Maria Francesca e santa Zita erano domestiche, sant’Isidoro un contadino, santa Germana una pastorella. Piergiorgio Frassati era un giovane studente universitario, l’eroica mamma Gianna Beretta Molla era medico chirurgo; medico della carità a Napoli è stato Giuseppe Moscati. Qualcuno ha passato tutta la vita in convento, altri sono stati scrittori, predicatori, professori, missionari, funzionari civili ed ecclesiastici, imperatori, re e regine… Il 13 luglio è la festa dell’imperatore sant’Enrico. Luigi IX, re di Francia, muore di peste in esilio, dopo aver condotto l’ottava crociata e cercando di convertire i musulmani.
Oggi ricordiamo anche i santi della nostra famiglia. Santi sconosciuti al mondo, ma conosciuti da Dio. Abbiamo avuto la fortuna, la grazia di conoscerli, di godere della loro presenza, del loro amore. Possiamo pregarli.

Attualizzare
Questa festa è l’invito a guardare al paradiso, al destino che attende ogni cristiano fedele alla propria vocazione. Ad attendere l’incontro con il Signore. Una poesia di Adriana Zarri dice: « Arriveremo con i piedi sporchi e ce li laverai, come facesti con gli apostoli… », come per indicare la fatica della nostra purificazione e l’attesa di un incontro speciale.
Questa festa ci invita soprattutto a dire di sì alla vita, con entusiasmo e coraggio, perché è adesso che ci giochiamo l’eternità. Ad amare quindi il momento in cui viviamo e a essere persone capaci di incarnare le beatitudini, di riscriverle nella lingua e nella cultura odierna, di mostrare che cosa opera oggi il vangelo quando una persona lo accoglie davvero.
Perché i santi furono persone ben incarnate tra la gente del loro tempo. Anche noi: per annunciare il vangelo, per farci capire, per usare il linguaggio giusto, per entrare nella lunghezza d’onda di chi ci sta vicino… dobbiamo sentirci parte del nostro ambiente di vita, capire che questo è il nostro campo di azione, dove ci giochiamo la nostra santità e l’aldilà.
Mons. Sandro Maggiolini dice: « Non si parla mai di chi è contento di vivere o almeno accetta la vita com’è, di chi paga le tasse e coltiva l’orto, e fa una passeggiata nei campi; di chi fa una vita buona tutti i giorni e osserva le regole, la santità feriale, quella di tutti i giorni, paragonabile a chi guida l’auto e osserva i limiti di velocità e non finisce sui giornali ».
Ancora mons. Maggiolini: « Vale di più un sacrista sorridente che un vescovo con il broncio ». A comportarsi così c’è più gusto, in ogni caso alla fine l’armonia è più grande, si vive meglio.
Siamo tutti chiamati alla santità. Siamo già figli di Dio, ma ciò che questo vuol dire lo scopriremo pienamente solo un giorno. Dobbiamo imparare a riconoscere e a realizzare la nostra vocazione. Abbiamo una sola vita, la dobbiamo giocare nel modo migliore. Un prete ricorda che una signora dopo la messa gli ha voluto parlare e gli ha detto: « Sono una pensionata, ho una casa e tutto ciò che mi occorre e anche di più. Desidero fare qualcosa di speciale prima di morire: mi insegni a fare un’adozione a distanza. Voglio aiutare un bambino che fa fatica a vivere ».
Voglia di eternità
« Non dico che meritiamo un aldilà, né che la logica ce lo dimostri, dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d’eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Senza di essa non c’è più gioia di vivere… È troppo facile affermare: « bisogna vivere, bisogna accontentarsi di questa vita ». E quelli che non se ne accontentano? » (Miguel de Unamuno).
Guardando i santi impariamo a volare
C’era una volta un contadino che andò nella foresta vicina a casa sua per catturare un uccello da tenere prigioniero. Riuscì a prendere un aquilotto. Lo mise nel pollaio insieme alle galline e lo nutrì a granturco e becchime, incurante del fatto che l’aquila fosse la regina di tutti gli uccelli. Dopo cinque anni, quest’uomo ricevette a casa sua la visita di un naturalista. Mentre passeggiavano per il giardino, il naturalista disse: « Quell’uccello non è una gallina. È un’aquila ». « È vero », rispose il contadino, « è un’aquila. Ma io l’ho allevata come una gallina, e ora non è più un’aquila. È diventata una gallina come le altre, nonostante le ali larghe quasi tre metri ». « No », obiettò il naturalista. « È e sarà sempre un’aquila. Perché ha un cuore d’aquila, un cuore che un giorno la farà volare verso le vette ».
« No, no », insistette il contadino, « è diventata una gallina e non volerà mai come un’aquila ». Allora decisero di fare una prova. Il naturalista prese l’animale, lo sollevò ben in alto e sfidandolo gli disse: « Dimostra che sei davvero un’aquila, dimostra che appartieni al cielo e non alla terra, apri le tue ali e vola! ». L’aquila, appollaiata sul braccio teso del naturalista, si guardava distrattamente intorno. Vide le galline là, in basso, intente a razzolare dei chicchi. E saltò vicino a loro. Il contadino commentò: « Te l’avevo detto, è diventata una semplice gallina! ». « No », insistette di nuovo il naturalista. « È un’aquila. E un’aquila sarà sempre un’aquila. Proviamo di nuovo domani ». Il giorno dopo, il naturalista e il contadino si alzarono molto presto. Presero l’aquila, la portarono fuori città, lontano dalle case degli uomini, in cima a una montagna. Il sole nascente dorava i picchi delle montagne. Con un gesto deciso, il naturalista sollevò verso l’alto il rapace e gli ordinò: « Dimostra che sei un’aquila, dimostra che appartieni al cielo e non alla terra, apri le tue ali e vola! ». L’aquila si guardò intorno. All’improvviso comparve nel cielo un’aquila con le ali distese che puntava nella direzione del sole. In quel momento, lei apri le sue ali potenti, gracchiò con il tipico kau-kaii delle aquile e si alzò, sovrana, al di sopra di se stessa. Iniziò a volare, a volare sempre più in alto, fino a congiungersi con l’altra aquila.

Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

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Publié dans:immagini sacre |on 30 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

DAL TRATTATO « SULLA TRINITÀ » DI SANT’ILARIO DI POITIERS

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DAL TRATTATO « SULLA TRINITÀ » DI SANT’ILARIO DI POITIERS

De Trinitate, III,20; VII,12. PL 10,87-88. 209.
Porgo ascolto al Signore e credo alle cose che sono state scritte. Perciò so che, subito dopo la risurrezione, Cristo spesso si offrì in corpo alla vista di molti ancora increduli. E precisamente si fece vedere a Tommaso, che non voleva credere se non avesse potuto toccare con mano le sue ferite, così come disse: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò. Il Signore si adatta alla nostra debole mente e, per chiarire i dubbi di chi non riesce a credere, opera un miracolo caratteristico della sua invisibile potenza.
Tu che indaghi minuziosamente le realtà celesti, chiunque tu possa essere, spiegami il modo con cui avviene questo fatto. I discepoli erano in un ambiente chiuso e tutti quanti insieme tenevano una riunione in un luogo appartato. Ed ecco il Signore, per rendere ferma la fede di Tommaso, accetta la sfida, si presenta e offre la possibilità di palpare il suo corpo, di toccare con mano la sua ferita. Naturalmente, poiché doveva essere riconosciuto per le sue ferite, egli dovette mostrarsi con il corpo che aveva ricevuto le ferite.
All’incredulo io domando attraverso quali parti dell’abitazione che era chiusa, Cristo, dotato di corpo com’era, poté penetrare. Con molta precisione l’Evangelista annota infatti: Venne Gesù a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro. Forse che, penetrando nella struttura delle pareti e nella compattezza delle parti in legno, attraversò la loro natura impenetrabile? Infatti, eccolo lì in mezzo a loro con un corpo reale, non sotto apparenze simulate o false.
Segui, dunque, con gli occhi della tua mente la via battuta da lui nel penetrare, accompagnalo con la vista dell’intelletto mentre entra nell’abitazione chiusa.
Tutte le aperture sono intatte e sbarrate, ma ecco compare in mezzo colui al quale tutto è accessibile in virtù della sua potenza. Tu vai cavillando sui fatti invisibili, io a te domando la spiegazione di fatti visibili. Non viene meno in alcun modo la compattezza e il materiale ligneo e pietroso non lascia passare cosa alcuna attraverso gli elementi che lo compongono, per una specie di infiltrazione impercettibile. Il corpo del Signore non perde la sua natura fisica per poi riprenderla dal nulla: eppure di dove viene colui che si ferma in mezzo? A queste domande si arrendono pensiero e parola, e il fatto nella sua verità supera l’umana capacità di intendere.
Tommaso esclama: Mio Signore e mio Dio! Dunque, colui che egli confessa come Dio è il suo Dio. Senza dubbio Tommaso non ignorava le parole del Signore: Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo.Come la fede di un Apostolo, professando Cristo come Dio, poté dimenticare il massimo precetto che ordina di vivere nella confessione dell’unità divina? Ma la potenza della risurrezione fece intendere all’Apostolo il mistero della fede nella sua pienezza. Già sovente egli aveva udito le parole di Gesù: Io e il Padre siamo una cosa sola. Tutto quello che il Padre possiede è mio. Io sono nel Padre e il Padre è in me. Ormai, senza pericolo per la fede, Tommaso può attribuire a Cristo il nome che designa la natura divina.
La sua fede schietta non esclude di credere nell’unico Dio Padre proclamando la divinità del Figlio di Dio. Infatti, egli crede che il Figlio di Dio non possiede una natura diversa da quella del Padre.
E la fede nell’unica natura non correva il rischio di trasformarsi in empia confessione di un secondo Dio, perché la perfetta nascita di Dio non aveva portato una seconda natura divina. Pertanto, fu con piena conoscenza della verità contenuta nel mistero evangelico che Tommaso confessò il suo Signore e il suo Dio. Qui non si tratta di un titolo d’onore, ma del riconoscimento della sua natura. Egli credette che Cristo era Dio nella piena realtà della sua sostanza e della sua potenza.
Il Signore confermò che l’affermazione di Tommaso non era un semplice riconoscimento di onore, ma atto di fede, dicendo: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!
Infatti, Tommaso credette perché vide. Ma tu mi puoi domandare: Che cosa ha creduto? Che cosa poté credere se non ciò che ha dichiarato: Mio Signore e mio Dio? Nessuna natura, se non quella divina, avrebbe potuto risorgere per propria virtù dalla morte alla vita; e la sicurezza di una fede ormai certa fa professare a Tommaso questa verità, cioè che è Dio.
Non possiamo pensare che il nome Dio non indichi una natura reale. Infatti quel nome non è forse stato pronunziato in base a una fede nella natura divina fondata su prove? Sicuramente quel Figlio, devoto al Padre suo, che faceva non la sua volontà, ma quella di colui che lo aveva mandato e cercava non la propria gloria, ma quella di colui dal quale era venuto, avrebbe ricusato nei propri confronti l’onore implicito in un nome del genere, per non distruggere l’unità divina che aveva proclamato.
Ma in realtà, egli conferma il mistero espresso dalla fede dell’Apostolo e accetta come suo il nome che indica la natura del Padre; così egli insegnò che erano beati coloro che, pur non avendo visto quando risorgeva dai morti, afferrando il senso della risurrezione avevano creduto che egli era Dio.

Publié dans:Santi, TRINITÀ (SS) |on 30 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

Matteo 22, 34-40

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Publié dans:immagini sacre |on 27 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

29 OTTOBRE 2017 | 30A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/2017-Anno_A/05-Ordinario_A/Omelie/30-Domenica/10-30a-Domenica_A_2017-UD.htm

29 OTTOBRE 2017 | 30A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

Per cominciare
Un fariseo, dottore della legge, interroga Gesù. La sua domanda non è sincera, ma Gesù non si rifiuta e risponde trasmettendo il messaggio centrale della legge, che è quello dell’unico comandamento dell’amore di Dio e del prossimo.

La parola di Dio
Esodo 22,20-26. Nella legge ebraica troviamo queste norme a difesa dei forestieri, degli orfani, delle vedove, dei poveri. Gesti di amore e di carità che hanno già il sapore del vangelo.
1 Tessalonicesi 1,5c-10. Paolo fa l’elogio della comunità di Tessalonica, che si comporta in maniera esemplare, secondo gli insegnamenti e l’esempio di vita che ha dato lo stesso apostolo.
Matteo 22,34-40. Ancora un altro tentativo di mettere alla prova Gesù da parte dei farisei e dei dottori della legge. È la loro ultima manovra, che offre però a Gesù di esprimere il suo pensiero a proposito del cuore della legge e del vangelo.

Riflettere
Nel brano di vangelo letto in questa domenica Gesù celebra nel modo più alto l’amore di Dio, che è il vertice di ogni spiritualità. Afferma che deve essere amato « con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente ». Cioè con tutto l’essere. Egli è la fonte del nostro esistere.
Ma c’è anche l’esaltazione dell’amore del prossimo: Dio e l’uomo vengono associati: sono due facce della stessa medaglia, uno rimanda all’altro.
L’episodio è centrale ed riportato dai tre evangelisti sinottici, ma non allo stesso modo. Luca lo inserisce nel viaggio verso Gerusalemme, fuori da ogni controversia e serve a introdurre la parabola del buon samaritano. In Marco il contesto è simile a quello di Matteo, ma è assente la polemica. Lo scriba loda Gesù: « Hai detto bene, maestro », e Gesù a sua volta gli dice: « Non sei lontano dal regno di Dio » (Mc 12, 32-34).
Qui invece interrogano Gesù per metterlo alla prova, dato che ha chiuso la bocca ai sadducei (cf il vangelo di domenica scorsa). « Maestro, nella legge, qual è il grande comandamento? ».
La domanda è raffinata, peccato che sia animata da rancore. I rabbini, maestri della legge, maniacali nel trasformare in centinaia di precetti la legge di Mosè, probabilmente si interrogavano davvero su quale fosse il « grande comandamento », cioè la disposizione più importante tra quelle che essi stessi nella storia si erano date
Ricordiamo che essi avevano raccolto la legge in 613 comandamenti: 365 proibizioni (una ogni giorno dell’anno) e 248 precetti (tanti quanti, secondo loro, erano le ossa umane).
La risposta di Gesù è inequivocabile, splendida, semplice. « Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti ».
Gesù dà valore anche in questo caso alla legge di Mosè. E presenta un atteggiamento filiale che lui osserverà per tutta la vita, in tutte le circostanze.
A noi questo amare « con tutto il cuore » fa problema, almeno praticamente. Amare con tutto il cuore ricorda che è un impegno che presuppone un oggi e un domani. Che domani sarà possibile amare Dio più di oggi. Sappiamo anzi che dal nostro amore di oggi dipende anche l’intensità del nostro amore di domani. Dice Ranher: « Il nostro è vero amore oggi, solo se si protende per diventare più di quanto è oggi, se è amore che si mette in viaggio, se si apre al domani ».
Sappiamo poi che concretamente questo amore lo si vive soprattutto « lasciandoci amare da Dio ». Ma questo è un altro discorso.
Gesù aggiunge: « Il secondo comandamento poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso ». Un precetto conosciuto anche nell’antico testamento, come abbiamo appena letto nel libro dell’Esodo. Dove si dice di avere cura e attenzione per i forestieri, le vedove e gli orfani, per i più indigenti. Dio si fa vendicatore nei confronti di chi opprime e maltratta, perché « chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora » (Pr 14,31).
Ma sarà tra i cristiani della nuova comunità nata dalla Pasqua che il precetto dell’amore diventerà pienamente centrale. E diventerà la caratteristica di un’infinità di santi. In tempi recenti basti nominare Madre Teresa e Giovanni XXIII. Ma gli esempi di vita sono tantissimi, con sfumature incredibili, una fioritura di episodi di eroica generosità. È del resto l’atteggiamento di ogni cristiano quando si converte davvero e incontra in qualche modo Dio.

Attualizzare
Se chiedessimo a qualcuno qual è il comandamento più importante, molti probabilmente risponderebbero: non rubare, non bestemmiare, saltare la messa di domenica, tradire la moglie o il marito…
Molti sarebbero anche oggi colti di sorpresa dalla parola di Gesù. Anche se l’amore è certamente la parola più gettonata nella comunità cristiana, nella predicazione, nella catechesi, tra i bambini e tra gli adulti. Una parola forse abusata, che non sempre ha riscontro nella vita.
Accanto ai santi, infatti, non è difficile vedere tra i cristiani i guerrafondai, gli usurai, i colonizzatori, i furbastri dell’economia, i razzisti, i violenti, i vendicatori, quelli che vedono sempre nell’altro un nemico.
E se vai a scavare a fondo, ti accorgi che gli stessi hanno forse anche di Dio un’idea sbagliata e non timbrata dall’amore, ma dalla discriminazione, dalla divisione, dalla separazione: un Dio rigorista e inflessibile, sempre pronto a punire e a condannare.
La risposta di Gesù non lascia dubbi sulla centralità dell’amore e i due precetti « simili », che di fatto sono messi sullo stesso piano, nelle sue parole sono destinati a segnare il ritmo della vita di ogni vero discepolo, ne danno la prospettiva dalla quale va guardata tutta la legge.
Un amore che è risposta all’amore di Dio che ci ama per primo. Amore per il fratello che verifica l’amore per Dio. Lo afferma l’evangelista Giovanni: « Se uno dice: « Io amo Dio » e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello » (1Gv 4,20-21); « Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore (4,7-8);
Come dicevamo, è stato prescritto anche qualcosa del genere già nell’antica legge. Lo abbiamo appena ascoltato: « Non molesterai, né opprimerai il forestiero, non maltratterai la vedova o l’orfano… » (Es 22,20). Già a quel tempo l’attenzione a queste categorie di persone non la si praticava per puro spirito umanitario ? che sarebbe già un fatto notevole per quel tempo. Ma lo si doveva fare perché così voleva Dio, perché « l’ira di Iahvè si sarebbe accesa e avrebbe fatto morire di spada » chi non avesse fatto in questo modo, dal momento che « Dio ascolta chi grida verso di lui, essendo pietoso » (Es 22,20-26).
Per l’ebreo però l’amore non si estendeva a tutti indistintamente. Se era prescritto questo sentimento di apertura in alcune situazioni, l’amore veniva per lo più inteso nel cerchio dei propri connazionali, nel proprio clan, nella famiglia.
Il cristiano invece ama il prossimo non perché è della stessa sua tribù, del proprio gruppo famigliare (il racconto di Luca lo precisa: nella sua parabola chi ama davvero è un samaritano, un nemico). Tanto meno ama solo quelli che gli sono simpatici o che la pensano come lui.
Ci amiamo perché siamo creature di Dio e perché Dio ci ama. Dobbiamo amarci perché siamo tutti figli di Dio in Gesù, fratelli tra di noi nella fede.
L’amore dell’uomo inoltre per noi cristiani nasce dall’amore di Dio: è per questo che può diventare grande, eroico, senza misura. Un amore per Dio così fedele e appassionato, da renderci simili a lui e che ci porta a vivere la misericordia verso l’uomo.
È proprio questo brano di vangelo che ci fa capire quanto sia falsa l’idea che la fede in Dio diminuisce l’uomo e il suo impegno nel mondo. C’è chi pensa che chi guarda al cielo è un alienato e non gli interessa più ciò che capita attorno a sé. C’è chi ha scritto che affinché Dio sia tutto, l’uomo deve diventare nulla (Feuerbach, Nietzsche, Sartre).
Gesù risponde con la sua vita a questa visione delle cose. Salendo al cielo è rimasto tra noi incarnato nel volto di ogni uomo, che per noi oggi è in qualche modo « sacramento di Dio ». Questo ci dice oggi con la sua parola: amare Dio e amare l’uomo sono un unico precetto, sono « il » comandamento, la legge della nostra vita. Nessuna gelosia da parte di Dio, nessun antagonismo.
Invece potremmo riflettere a lungo dove può condurre un impegno per l’uomo che non sia animato e orientato dalla fede in Dio. Quante deviazioni e quante velleità si sono concretizzate nella nostra storia e nella storia a volte tragica degli ultimi secoli.
Senza Dio siamo troppo poveri. La carità inventiva di Madre Teresa
Madre Teresa. A lei, i teorici della carità posero una montagna di obiezioni e mossero critiche. L’accusarono su giornali e pamphlet di sfruttare le sofferenze dei poveri, di rifiutare le soluzioni scientifiche e politiche ai mali dell’India. Di essere colpevole di non spendere le molte offerte che le pervenivano per costruire ospedali moderni e ben attrezzati. Mentre lei, convinta di dover usare mezzi poveri per poter servire i poveri, si metteva all’opera ogni giorno tra i più bisognosi, chiedendo alle sue suore di mantenersi povere, servendosi semplicemente della loro voce, delle loro mani, delle risorse disponibili per servire e assistere i più poveri. « Per capire i poveri ed essere accettate dai poveri, noi dobbiamo vivere come i poveri », diceva a loro. Non teorizzava Madre Teresa, ma era tenacissima quando capiva che una soluzione poteva funzionare davvero per i suoi poveri. Spendeva parole solo per ricordare a se stessa e agli altri di « pregare ». Diceva: « Pregando, Dio mi mette il suo amore nel cuore e così posso amare i poveri. Senza Dio siamo troppo poveri per aiutare i poveri ».

Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

La creazione del mondo

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Publié dans:immagini sacre |on 26 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

CENTRALITÀ DELLA BELLEZZA NEL CRISTIANESIMO SECONDO BALTHASAR

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=149

La bellezza che salva

CENTRALITÀ DELLA BELLEZZA NEL CRISTIANESIMO SECONDO BALTHASAR

sintesi della relazione di Elio Guerriero
Verbania Pallanza, 10 febbraio 2001
la via del frammento

Von Balthasar (1905-1988) ha cercato di dare una risposta alla grande domanda che attraversa tutto il 1900 e che oggi, con il processo di globalizzazione, è ancora più attuale: come è possibile che qualcosa di particolare, un frammento, possa avere una rilevanza universale? Come può la vicenda particolare di Gesù di Nazaret avere un valore per l’uomo di ogni luogo e di ogni tempo?
Interessato alla letteratura e alla musica von Balthasar si avvicina alla teologia soprattutto dopo l’incontro con Romano Guardini a Berlino, altro grande teologo che ricorreva alla letteratura per cogliere quelle domande a cui dare una risposta in termini teologici. Di Guardini condivide il rifiuto del soggettivismo di Kant e dell’idealismo tedesco. La realtà non è creata dal soggetto e deve essere percepita in maniera più obiettiva e completa.
Inoltre condivide la visione di Guardini secondo la quale vale la pena di guardare il reale in compagnia dei grandi maestri, come Socrate, Agostino, Dante, Pascal, Kirkegaard, Rilke, Dostoevskij. Insieme con loro si può percepire meglio il reale e accostarsi meglio a Cristo.
Laureatosi in letteratura, von Balthasar decide di diventare gesuita. Frequenta con disagio lo studentato di filosofia dove impera la filosofia scolastica. A Lione incontra De Lubac, che lo avvia alla conoscenza dei padri della Chiesa.
Nel 1939, diventato assistente degli studenti cattolici a Basilea, incontra Adrienne von Speyr che influenzerà profondamente la sua teologia. Cerca di capire- ripeteva spesso Adrienne – Dio non è così. Dio non tiene i conti. Dio è prodigo, è anzitutto colui che dà. Questa visione getta luce sul mistero trinitario: il Padre è colui che non tiene la divinità per sé, ma la dona completamente al Figlio, il quale la restituisce interamente al Padre in gratitudine, nello Spirito dell’agape. E’ questa la grande rivelazione di Adrienne.
Ma come mai vi è il peccato nel mondo e Dio lo permette? Il mondo, le creature, secondo Adrienne, sono il dono gratuito che il Padre fa al Figlio nel desiderio di donare sempre di più, sono come la rosa che l’amato dà all’amata. Di fronte al rifiuto delle creature, di fronte al peccato, il Figlio si offre spontaneamente per andare a riprenderle, per riportarle a casa. Gesù è come il pastore che va alla ricerca della pecorella smarrita.
In questa prospettiva Adrienne dà molta importanza alla discesa agli inferi, come annuncio di solidarietà totale con tutti gli uomini di tutti i tempi: Gesù vive totalmente la solidarietà con tutti.
A Basilea von Balthasar incontra Karl Barth, a cui attribuisce il merito di avere superato definitivamente la visione di Calvino secondo la quale Dio è venuto al mondo per dire sì e no. Dio, per Barth, è venuto al mondo per dire solo sì.
Per fare teologia secondo von Balthasar bisogna essere in qualche modo consanguinei di Dio, bisogna essere santi. Nasce da questa visione la polemica contro i « teologi a tavolino ». Solo nel dono si può capire che Dio non tiene nulla per se stesso, ma si dona. Apprezza di Bernanos la figura del santo che si fa carico del peccato di tanti e di Teresa di Lisieux la via dell’infanzia spirituale, la via del bambino che sta in braccio alla mamma, la via della fiducia gioiosa.
Siamo tutti frammenti, siamo tutti piccole creature, ma con un significato universale. Anche il più piccolo degli uomini è importante per Dio ed è importante per l’uomo.
Non invitato al concilio Vaticano secondo, dedicherà il suo tempo alla stesura della sua monumentale trilogia (Gloria, Teodrammatica e Teologica), che inizia proprio affrontando il tema della bellezza.
la bellezza che è Cristo
Von Balthasar critica severamente il mondo contemporaneo per avere abbandonato la bellezza e per averne smarrito il senso: « la bellezza disinteressata ha preso congedo in punta di piedi dal mondo moderno di interessi per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza » e, aggiunge « non è più amata e custodita nemmeno nella religione ».
Secondo Balthasar la bellezza è ciò che ha a che fare con la forma, tanto che in latino bello si dice « formosus ». Si coglie la forma percependo l’unità interna. Ciò che ha forma è armonico, ordinato e bello, è cosmo in opposizione a caos. Cogliendo la forma è possibile afferrare il principio organizzativo di ogni essere, che è tanto più strutturato quanto più è perfetto.
La forma – dice Balthasar – splende, si dà a conoscere. Per cercare di entrare nel cuore di una persona non si può fare a meno della sua forma, come per gustare un’opera d’arte.
Ma la luce della bellezza non solo illumina, ma anche nasconde. Quanto più si comprende un’opera d’arte tanto più ci avviciniamo al mistero. Quanto più ci avviciniamo ad una persona, tanto più scopriamo l’altro come alterità. Quanto più si tolgono i veli, tanto più ci avviciniamo a Dio.
Sono due aspetti del reale: da una parte la forma si dà a conoscere con lo splendore, dall’altra, quanto più splende, tanto più nasconde o rivela un mistero.
la liturgia del cosmo
Così quanto più noi ci avviciniamo alla realtà, ci avviciniamo all’altro, tanto più ci avviciniamo al mistero, alla trascendenza, a Dio. Ogni bellezza creata rimanda alla bellezza originaria di Dio, ne è una cifra: « I cieli narrano la gloria di Dio e l’opere delle sue mani annunzia il firmamento ». E’ la liturgia del cosmo. Il cosmo è un canto di bellezza, che può essere innalzato da ogni uomo.
Ma questa liturgia cosmica è come attraversata da una dissonanza, dalla presenza costante e in crescita del peccato, che ostacola sempre più l’uomo a scorgere la bellezza.
Di fronte al diffondersi del peccato Dio intraprende una paziente e straordinaria opera per riportare a casa l’uomo che si è allontanato e corre il rischio di perdersi. Poiché la bellezza del cosmo non basta, Dio decide di rendersi presente con la rivelazione in forme sempre più incisive e radicali. Innanzitutto nelle teofanie dell’Antico Testamento attraverso le quali si manifesta come un Dio che vuole entrare in dialogo con gli uomini rivelando il suo nome. Ma gli israeliti ne abusano.
Dio non si ritrae di fronte alla cattiveria degli uomini, ma si dona ancora di più, inviando i suoi profeti. Ma il popolo li ammazza.
la rivelazione di Dio
A Dio non resta che inviare il proprio Figlio. Ma anche il Figlio viene ucciso.
E’ questa la bellezza della rivelazione di Dio, che come il pastore della parabola, con infinita pazienza cerca in tutti i modi di riportare a casa la recalcitrante pecorella smarrita, senza ricorrere alla violenza, ma con un’opera illimitata di convinzione e di benevolenza.
La bellezza di Dio viene dalla sua azione buona, dal suo andare incontro alla creatura, dal suo venire al mondo per salvare la sua creatura.
Questo è possibile perché in Dio stesso, come svela il mistero trinitario, c’è in Dio fin dall’eternità questo dono. Il Padre, pur avendo la divinità, non la tenne per sé come tesoro geloso, ma la donò al Figlio. Questo gesto iniziale si ripete nella storia, con la venuta del Figlio nel mondo (kenosi), per convincere, come fa la mamma con il suo bambino, la creatura a tornare da lui.
la bellezza di Dio
La bellezza è il dono sproporzionato, la prodigalità di Dio che si manifesta a noi in particolare nella venuta del Figlio nel mondo. La bellezza è il viaggio del Figlio di Dio attraverso la terra per salire sulla croce. La bellezza cristiana è la non forma, è colui da cui si distoglie lo sguardo perché troppo brutto da vedere (canti del servo di Isaia). La bellezza è l’estremo amore di Dio nella gloria del suo morire.
Ma la vertigine di questo amore non termina sulla croce, ma scende sino agli inferi, nella solitudine della morte, nella solidarietà più estrema, per riportare a Dio quanto di imperfetto, di caotico e di deforme c’è nella creazione.
Il viaggio di Cristo nel mondo, di Dio che diventa senza forma per ridar forma al cosmo, per riportare ordine e pace lì dove aveva prevalso il caos e la violenza, è la risurrezione. La risurrezione è l’abbraccio tra Padre e Figlio nello Spirito dell’amore. Gli apostoli, e noi con loro, sono chiamati a rendere testimonianza e a vivere questa esperienza fondamentale di amore, di prodigalità estrema, di bellezza.

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Lazzaro (morte e resurrezione)

pens e it Resurrezione-Lazzaro - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 25 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 38. IL PARADISO, META DELLA NOSTRA SPERANZA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2017/documents/papa-francesco_20171025_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 38. IL PARADISO, META DELLA NOSTRA SPERANZA

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 25 ottobre 2017

Cari fratelle e sorelle, buongiorno!

Questa è l’ultima catechesi sul tema della speranza cristiana, che ci ha accompagnato dall’inizio di questo anno liturgico. E concluderò parlando del paradiso, come meta della nostra speranza.
«Paradiso» è una delle ultime parole pronunciate da Gesù sulla croce, rivolto al buon ladrone. Fermiamoci un momento su quella scena. Sulla croce, Gesù non è solo. Accanto a Lui, a destra e a sinistra, ci sono due malfattori. Forse, passando davanti a quelle tre croci issate sul Golgota, qualcuno tirò un sospiro di sollievo, pensando che finalmente veniva fatta giustizia mettendo a morte gente così.
Accanto a Gesù c’è anche un reo confesso: uno che riconosce di aver meritato quel terribile supplizio. Lo chiamiamo il “buon ladrone”, il quale, opponendosi all’altro, dice: noi riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni (cfr Lc 23,41).
Sul Calvario, in quel venerdì tragico e santo, Gesù giunge all’estremo della sua incarnazione, della sua solidarietà con noi peccatori. Lì si realizza quanto il profeta Isaia aveva detto del Servo sofferente: «E’ stato annoverato tra gli empi» (53,12; cfr Lc 22,37).
È là, sul Calvario, che Gesù ha l’ultimo appuntamento con un peccatore, per spalancare anche a lui le porte del suo Regno. Questo è interessante: è l’unica volta che la parola “paradiso” compare nei vangeli. Gesù lo promette a un “povero diavolo” che sul legno della croce ha avuto il coraggio di rivolgergli la più umile delle richieste: «Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Non aveva opere di bene da far valere, non aveva niente, ma si affida a Gesù, che riconosce come innocente, buono, così diverso da lui (v. 41). È stata sufficiente quella parola di umile pentimento, per toccare il cuore di Gesù.
Il buon ladrone ci ricorda la nostra vera condizione davanti a Dio: che noi siamo suoi figli, che Lui prova compassione per noi, che Lui è disarmato ogni volta che gli manifestiamo la nostalgia del suo amore. Nelle camere di tanti ospedali o nelle celle delle prigioni questo miracolo si ripete innumerevoli volte: non c’è persona, per quanto abbia vissuto male, a cui resti solo la disperazione e sia proibita la grazia. Davanti a Dio ci presentiamo tutti a mani vuote, un po’ come il pubblicano della parabola che si era fermato a pregare in fondo al tempio (cfr Lc 18,13). E ogni volta che un uomo, facendo l’ultimo esame di coscienza della sua vita, scopre che gli ammanchi superano di parecchio le opere di bene, non deve scoraggiarsi, ma affidarsi alla misericordia di Dio. E questo ci dà speranza, questo ci apre il cuore!
Dio è Padre, e fino all’ultimo aspetta il nostro ritorno. E al figlio prodigo ritornato, che incomincia a confessare le sue colpe, il padre chiude la bocca con un abbraccio (cfr Lc 15,20). Questo è Dio: così ci ama!
Il paradiso non è un luogo da favola, e nemmeno un giardino incantato. Il paradiso è l’abbraccio con Dio, Amore infinito, e ci entriamo grazie a Gesù, che è morto in croce per noi. Dove c’è Gesù, c’è la misericordia e la felicità; senza di Lui c’è il freddo e la tenebra. Nell’ora della morte, il cristiano ripete a Gesù: “Ricordati di me”. E se anche non ci fosse più nessuno che si ricorda di noi, Gesù è lì, accanto a noi. Vuole portarci nel posto più bello che esiste. Ci vuole portare là con quel poco o tanto di bene che c’è stato nella nostra vita, perché nulla vada perduto di ciò che Lui aveva già redento. E nella casa del Padre porterà anche tutto ciò che in noi ha ancora bisogno di riscatto: le mancanze e gli sbagli di un’intera vita. È questa la meta della nostra esistenza: che tutto si compia, e venga trasformato in amore.
Se crediamo questo, la morte smette di farci paura, e possiamo anche sperare di partire da questo mondo in maniera serena, con tanta fiducia. Chi ha conosciuto Gesù, non teme più nulla. E potremo ripetere anche noi le parole del vecchio Simeone, anche lui benedetto dall’incontro con Cristo, dopo un’intera vita consumata nell’attesa: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,29-30).
E in quell’istante, finalmente, non avremo più bisogno di nulla, non vedremo più in maniera confusa. Non piangeremo più inutilmente, perché tutto è passato; anche le profezie, anche la conoscenza. Ma l’amore no, quello rimane. Perché «la carità non avrà mai fine» (cfr 1 Cor 13,8).

 

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