1 OTTOBRE 2017 | 26A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA
Per cominciare
Gesù polemizza con i capi del popolo ebraico che non accettano la sua predicazione. Egli si rivolge anche agli esclusi e ai lontani, che però si rivelano più disponibili di fronte alla salvezza. Come capita spesso, Gesù esprime questi pensieri con una parabola tratta dalla vita quotidiana.
La parola di Dio
Ezechiele 18,25-28. Il profeta Ezechiele richiama il principio della responsabilità individuale e afferma che non contano tanto il passato vissuto o i condizionamenti ricevuti nel corso della propria vita, quanto le scelte responsabili che vengono fatte personalmente oggi.
Filippesi 2,1-11. Paolo invita i Filippesi all’umiltà, sulla quale unicamente si può fondare un’intensa vita di comunità. E dice loro di guardare a Cristo, che con l’incarnazione si è fatto servo di tutti, umiliandosi fino all’obbrobrio della croce. Ma proprio per questo è stato esaltato dal Padre al di sopra di ogni altro.
Matteo 21,28-32. Gesù continua le polemiche nei confronti dei farisei e dei maestri della legge, che appaiono formalmente irreprensibili, ma nella sostanza si rivelano contrari alla salvezza, rifiutando sia Giovanni Battista che lo stesso Salvatore.
Riflettere
Gesù è in piena polemica con la classe dirigente ebraica. Siamo al capitolo 21 di Matteo. Gesù entra pacificamente, ma solennemente, in Gerusalemme cavalcando un’asina. Scaccia i mercanti del tempio, viene ai ferri corti con i capi dei sacerdoti e le altre autorità, che gli chiedono: « Con quale autorità fai queste cose? E chi ti ha dato questa autorità? » (Mt 21,23). Al posto di rispondere, Gesù pone anche lui una domanda: « Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini? » (Mt 21,25). Essi con astuzia si rifiutano di rispondere e Gesù racconta a loro la breve parabola dei due fratelli.
La prima lettura di questa domenica, che parla di « responsabilità personale », va letta nel contesto di questa polemica. Non basta, dice Ezechiele, essere discendenti di Abramo. Non basta aver ricevuto la legge e avere ben radicate le radici nel popolo dei salvati. Ciò che il Signore chiede è una risposta positiva che sia espressione di fede personale e vera, che coinvolga realmente e renda protagonisti nella comunità.
A questo fa riferimento Gesù con la sua parabola. Il racconto a una prima impressione sembra quasi innocuo, addirittura banale nella sua semplicità, tratto com’è dalla quotidianità della vita familiare. E le conclusioni portate da Gesù sembrano addirittura sproporzionate.
Ma la parabola va letta tenendo presenti le due parabole che seguono e che proclameremo nelle prossime domeniche: quella dei servi omicidi e quella dell’indisponibilità a partecipare al banchetto delle nozze regali. È infatti in gioco il rifiuto della classe dirigente israeliana di accogliere il Salvatore, e Gesù, senza mezzi termini, la condanna, non la giustifica.
Gesù dice: non vi siete pentiti, non siete entrati nella giusta disponibilità, non avete l’apertura mentale e del cuore per poter accogliere la parola che salva. « Giovanni venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli » (Mt 21,25). Ecco perché non accogliete neanche me.
Gesù sa che i capi religiosi che ha davanti tengono in scacco il popolo e non vivono con coerenza la loro fede, essi che « legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito » (Mt 23,2-4). Gesù li provoca, afferma di preferire i peccatori che si convertono di fronte alla sua predicazione.
« Che ve ne pare? », domanda Gesù. E la domanda da una parte può esprimere la volontà di Gesù di coinvolgere gli interlocutori nel ragionamento, per aiutarli ad arrivare da soli alle conclusioni. Ma può avere anche sapore di sfida. « È così logico il ragionamento », pare dire Gesù. Per questo la parabola appare anche provocatoria nella sua semplicità e chiarezza.
Anche oggi nella chiesa è possibile trovare gli atteggiamenti dei due fratelli. Quello del diplomatico astuto, che pare sempre stare dalla parte giusta e dice di sì, ma in lui prevalgono secondi fini e altri obiettivi. E colui che lì per lì trova difficile obbedire, cerca di sottrarsi alle proposte, agli incarichi, alla fatica della testimonianza, ma poi si pente, si adegua e rientra nei ranghi.
Il primo figlio è rappresentato, come dicevamo, dalla gente che conta in Israele, dagli uomini-guida, dai capi del sinedrio e della sinagoga. Il secondo rappresenta la gente esclusa: i poveri materialmente, gli ammalati, ma soprattutto i peccatori, gli esclusi dalla salvezza: l’esattore Zaccheo, l’adultera, la prostituta…
Gesù, che conosce i cuori, sa che questi ultimi, i lontani, hanno tante giustificazioni: l’educazione ricevuta, le circostanze, gli amici, i condizionamenti.
Di fatto, la salvezza viene donata a tutti, ma i secondi l’accolgono, gli altri no: sono diffidenti, guardinghi. Gesù si presenta fuori dal sistema, poco rispettoso delle loro tradizioni. Soprattutto è un uomo libero.
Attualizzare
Questa parabola è detta proprio per noi. Siamo noi quelli che sono stati invitati a lavorare nella vigna (al mattino o alle 17 del pomeriggio), che in qualche modo abbiamo risposto di sì con il battesimo. Noi che abbiamo il privilegio di sentirci a posto perché cattolici, ma che pure viviamo la nostra esperienza cristiana consapevoli della nostra fragilità, dei nostri tanti « no » detti a Dio.
È bello sapere, come dice la parabola di Gesù, che qualunque sia stata finora la nostra risposta agli inviti di Dio, è sempre possibile rispondere di sì, convertirsi. Confermare ogni giorno, con i fatti, ciò in cui crediamo e di cui ci diciamo orgogliosi.
Quante parole andiamo dicendo! Gesù ci rinfaccerebbe questa cosa. Dovremmo « obbedire » di più e parlare di meno. È incredibile, ma sono spesso i docili, i malati, i superimpegnati che trovano sempre tempo per tutto, energie per tutto. Mentre ci sono i trafficoni sempre agitati, gli sfaticati lamentosi che non trovano mai l’occasione buona per fare ciò che devono.
C’è anche chi tiene il piede in due staffe ed è incoerente: predica la carità ma è attaccato avidamente ai suoi soldi; c’è il marito che canta in chiesa e poi fa il prepotente in famiglia; la donna che ascolta con devozione le prediche del parroco ma non ha alcuna pazienza con i figli e la suocera…
« Non ho voglia », « Non me la sento », « Non tocca a me », « Perché dovrei farlo io? » sono le espressioni più gettonate dai giovani, ma non solo da loro. Il farsi i fatti propri è uno dei mestieri più diffusi nella nostra società.
Siamo svogliati, lenti di fronte all’impegno di costruire il regno di Dio, di realizzare almeno un poco ciò che il Signore ci suggerisce e ci invita a fare. Non abbiamo la fretta, la passione di chi deve annunciare una notizia importante, che non ci si può tenere dentro.
Eppure c’è un’umanità che aspetta, ci sono fratelli che non sanno perché vivono e sono senza speranza. Se accogliamo l’invito a lavorare nella vigna del Signore, possiamo dire a loro con la nostra vita e le nostre parole che c’è un Padre che dà senso pieno a ciò che facciamo, che è bello vivere.
Può darsi che col tempo qualcuno si sia pentito del « sì » detto un giorno al Signore. Guardando alla vita degli altri, si è fatto dei complessi, si è vergognato di farsi vedere troppo buono, troppo coerente con la sua fede. Ed è così che ci si spegne, che ci si lascia andare come quelli che lucidamente o per ignoranza dicono di « no » a Dio.
Comunque, prima di dare la nostra risposta al Padre che ci invita, dovremmo pensarci un momento, rifletterci su, pregarci sopra qualche minuto, una giornata intera. Prima di prendere una decisione importante, prima di sposarci, prima di sfasciare il matrimonio o di mettere al mondo un figlio, prima di scegliere ciò che può cambiare una vita…
A proposito di questa parabola, è molto curioso ciò che scrive Alessandro Pronzato, il quale ipotizza un « terzo figlio », quello che – quando il padre lo invita a lavorare nella vigna – lo costringe a sedersi al tavolo e a discutere per ore e giorni sul modo migliore di coltivare la vigna, per individuare gli errori nella coltivazione, per ricercare le responsabilità. E al padre che dice: « Va bene, figlio mio, ma adesso dimmi: sei disposto a darmi una mano? », il figlio risponde: « Vedi che tenti sempre di eludere i problemi? Va sempre a finire così con te… ». E così di seguito, continuando a discutere e a progettare. E la vigna aspetta.
Ma Pronzato non si ferma e nella sua originalità ipotizza anche un « quarto figlio », quello che accetta ogni giorno di tirare il carretto senza parlare, il figlio che va alla vigna senza bisogno di rispondere nemmeno con un « sì » o un « no ». Al padre è sufficiente un cenno perché lui capisca al volo e parta in silenzio, senza un’obiezione, senza cercare scuse o volere spiegazioni. Un giovane « mulo » che potrebbe apparire poco simpatico nella sua muta obbedienza. Ma si sa che il mondo è pieno di questa gente silenziosa che manda avanti il mondo.
Detto nel modo più rispettoso, Gesù rientra proprio in questa ultima categoria. Lui che si è fatto uomo, condividendo fino in fondo la nostra condizione di uomini e si è fatto obbediente al Padre. Lui che ha detto davvero un « sì » pieno, senza alcuna riserva, pienamente fedele fino in fondo (2ª lettura).
L’uomo libero dice di « sì »
« Non l’uomo che si chiude in sé è uomo completo, ma l’uomo che si apre, che esce da se stesso, diventa completo e trova se stesso… Adamo (e Adamo siamo noi stessi) pensava che il « no » fosse l’apice della libertà. Solo chi può dire « no » sarebbe realmente libero; per realizzare realmente la sua libertà, l’uomo deve dire « no » a Dio; solo così pensa di essere finalmente se stesso, di essere arrivato al culmine della libertà… Solo nel « sì » l’uomo diventa realmente se stesso; solo nella grande apertura del « sì », nella unificazione della sua volontà con la volontà divina, l’uomo diventa immensamente aperto, diventa « divino ». Essere come Dio era il desiderio di Adamo, cioè essere completamente libero. Ma non è divino, non è completamente libero l’uomo che si chiude in se stesso; lo è uscendo da sé, è nel « sì » che diventa libero » (Benedetto XVI).
Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA