la Tomba di Rachele, Gerusalemme

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I FENICI – SVILUPPO
(questi sudi sono naturalmente frammentari, metto il link al sito)
Nata verso il 1150 a.C., la civiltà fenicia si avviò ad un lento declino verso l’850 a.C., con la dominazione assiro-babilonese, fino al 350 a.C., periodo della dominazione macedone di Alessandro Magno.
Tramite una fitta rete di commerci e attraverso l’uso delle navi triremi di loro invenzione, si sparsero in tutto il Mediterraneo, fondando città ovunque. E’ possibile riassumere la seguente situazione.
Libano: Tiro, Sidone, Tripoli, Haifa, Arvad, Beruta (Beirut);
Africa Settentrionale: Leptis Magna, Utica, Cartagine, Tunisi, Lisso (dopo le colonne d’Ercole);
Sicilia occidentale : Drapana (Trapani), Lilibeo (Marsala), Panormo (Palermo), Mothya (Mozia);
Spagna: Gadir (Cadice), Ibiza e Cartagena;
Sardegna: Nora, Cagliari, Bythia, Carloforte, Tharros e Sant’Antioco;
Creta, Rodi, Melo, Malta, Gozo,Cipro .
Si presume che anche la città di Tebe in Grecia abbia origini fenicie. Su alcuni documenti si racconta della presenza fenicia anche in alcuni porti dell’Asia Minore.
I Fenici subirono diverse dominazioni, ma le affrontarono intelligentemente, rispettandole. In cambio poterono mantenere una certa autonomia economica.
La Fenicia convisse con Israele in modo pacifico, sviluppando un’intensa attività commerciale. A Tale proposito, ricordiamo che intorno al 1600 a.C. l’Egitto si trovava sotto il controllo degli Hyksos. Questo era un popolo di origine hurrita, cioè caucasico, proveniente dalle regioni dell’Urartu, molto favorevole agli ebrei, che aveva conquistato la mesopotamia, stabilendosi tra Siria ed Assiria, ed era in lotta con gli ittiti. I semiti, seguendo Giuseppe, migrarono dalle dure terre palestinesi verso il delta del Nilo, dove vissero in pace e serenità.
Successivamente nel 1570 a.C., il faraone Ahmose dell’Alto Egitto cacciò gli Hyksos e fondò il Regno Nuovo, destinato a durare quattro secoli. Sotto Tutmosi III, gli ebrei migrarono dall’Egitto, guidati da Mosè (forse un seguace del monoteista Akhenaton, che si avvalse di Aronne per comunicare con i semiti) e si ristabilirono nella Palestina, occupata nel frattempo da altri popoli, fondando le dodici tribù. Siamo intorno al 1200-1100 a.C., a questo punto, come già detto, entra in scena Davide che riunisce le tribù e fonda il regno di Israele, approfittando del fatto che l’Egitto, in lotta con gli Ittiti, lascia un po’ di autonomia alla Palestina.
In seguito alla dominazione dei popoli del mare nasce il regno dei Fenici. Le città di Tiro, fondata da Hiram prima del 1100 a.C., e Sidone prendono il posto, come importanza, di Biblo. La convivenza con Israele, basata sul commercio, si interruppe per questioni religiose.
La convivenza con l’Egitto fu ottima e sempre imperniata al commercio. Verso l’850 a.C. gli assiri di Assurnarsipal II, non più minacciati dal pericolo dei Medi, conquistarono i fenici, i quali, consapevoli della loro inferiorità, andarono incontro agli aggressori con pace e proponendo commerci. Ciò ebbe i suoi frutti fino al 700 a.C., quando tutte le città parteciparono ad una rivolta armena antiassira, subito sedata da Sennacherib, che impose una tassazione elevata. Sidone subì devastazioni, Tiro si difese e la sua isola non fu presa, nonostante alcune città fenicie collaborarono con gli assiri, come faranno secoli dopo con Alessandro Magno.
Sotto il successore assiro Asarhaddon, Sidone si ribellò e stavolta fu Tiro a collaborare con i mesopotamici. Sidone fu distrutta. Fu poi la volta di Assurbanipal che continuò a controllare la zona.
In generale, però la Fenicia, anche se divisa in due provincie (settentrionale e meridionale), continuò a prosperare con i commerci.
Intorno all’800 a.C. alcuni abitanti di Tiro migrarono in Africa e fondarono Cartagine.
La cultura che ne deriverà acquisterà sempre più potere, fino allo scontro con quella romana, che segnerà la sua fine.
Nel 600 a.C. la civiltà di Assur e di Ninive lasciò il posto a quella di Babilonia, sotto il dominio di Nabucodonosor II, che scese fino in Egitto. I Fenici si allearono con Israele per contrastarlo, ma furono sconfitti. Gli ebrei conobbero la cattività babilonese, ma Tiro resistette di nuovo, dal 585 a.C. al 572 a.C., proponendo alla fine un patto di pace, in cui formalmente veniva annessa a Babilonia, mantenendo comunque una certa autonomia economica. Questo grazie anche alla politica del lungimirante re babilonese che sognava un grande impero in armonia. Gli ingegneri fenici lavorarono a Babilonia e la resero una delle città più belle del mondo.
Nel 539 a.C. il re persiano Ciro II conquistò la Mesopotamia e quindi la Fenicia. I fenici costituirono la marina persiana e aiutarono gli ebrei a ricostruire Gerusalemme, abbandonata per il periodo di cattività. La convivenza con la Persia fu eccellente, anche se Tiro perse Cipro, presa dall’Egitto.
Nel 525 a.C. il re persiano Cambise conquistò anche l’Egitto ed i Fenici collaborarono nell’impresa, avendo in cambio la quasi totale indipendenza.
Nel 500 a.C., Dario era il re dell’impero persiano. Dinanzi a Salamina di Cipro i fenici furono sconfitti dai greci, inferiori come numero ed esperienza, successivamente presso Samo, con l’aiuto di Dario i fenici vinsero.
Nel 480 a.C., Serse I, nuovo re di Persia, con 1207 navi, comandate da fenici, affrontò le 313 navi greche di Temistocle, presso la baia di Salamina in Grecia, venendo sconfitto. Fu poi la volta della sconfitta di Micale, presso Mileto. Contemporaneamente, presso Imera, in Sicilia, i siracusani (alleati dei greci) sconfissero truppe cartaginesi ed etrusche. Dunque, la Grecia fece la sua comparsa sui mari che prima erano fenici. Nel 465 a.C. gli elleni presero Cipro ed ormai, assieme a Cartagine, presero il posto dei libanesi, sempre più sotto le satrapie persiane.
Nel 332 a.C. Alessandro Magno, diretto in Egitto, comincia ad assediare Tiro, dopo aver annesso le altre città fenicie. Secondo la sua strategia questa città doveva essere distrutta, perché rappresentava sempre la marina dei persiani. Fu aiutato da altre città fenicie e realizzò una diga che tolse ai tirii l’elemento naturale di difesa: il mare. Tiro, che aveva ricevuto la promessa di aiuto da parte di Cartagine, si difese strenuamente, poi, non ricevendo alcuna collaborazione esterna, capitolò. Fu la fine del regno fenicio. Tiro fu distrutta e rifiorì un po’ sotto i romani.
Verso il 300 a.C. Alessandro Magno non c’era più ed il suo impero fu diviso in tre diadochie: la Macedonia sotto gli agonidi, l’Egitto sotto i tolemaici e l’Asia Minore sotto i seleucidi. Per quanto riguarda la Fenicia, anche se il suo regno non c’era più, ci furono ancora delle attività commerciali di svariato tipo. L’elemento dominante era però l’ellenizzazione dei costumi e della società: basti pensare che ogni 5 anni a Tiro si svolgevano i giochi.
In questo periodo lo spirito fenicio sopravvisse in Cartagine che ebbe un grande splendore e presto si scontrò dapprima con i greci e poi con i romani.
30 LUGLIO 2017 | 17A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA
Per cominciare
Gesù chiede agli apostoli e a chi vuole seguirlo di abbandonare tutto per lui, sapendo che questa scelta risponde perfettamente al desiderio di felicità di ogni persona. Nessuna rinuncia quindi, per chi lo segue, ma un lasciare qualcosa per acquistare ciò che più affascina, conquista e dà un senso pieno alla propria vita.
La parola di Dio
1° Libro dei Re 3,5.7-12. È la preghiera di Salomone, divenuto re d’Israele succedendo a suo padre Davide. Consapevole della responsabilità che lo attende chiede un cuore docile per governare con giustizia il suo popolo. Al Signore piace la sua preghiera e gli concede largamente quanto ha chiesto.
Romani 8,28-30. Continua il capitolo ottavo della lettera di Paolo ai cristiani di Roma. In questi due versetti viene riassunta tutta l’avventura cristiana: chiamati da Dio, i cristiani conducono una vita nuova seguendo Gesù. In questo modo sono giustificati agli occhi di Dio e saranno glorificati presso di lui.
Matteo 13,44-52. Il vangelo ci propone tre nuove parabole. Ancora sul regno di Dio, questa volta presentato in tutto il suo fascino, capace di attrarre le persone fino a spingerle a lasciare tutto per mettersi al suo servizio.
Riflettere
Davide diventa vecchio, ma non ha designato ancora il suo successore. Adonia decide: « Sarò io il re ». Adonia è fratello minore di Assalonne, che ha congiurato contro il padre Davide, ma è stato ucciso. Adonia organizza una grande festa religiosa, con sacrifici di pecore, buoi e vitelli grassi, e invita i ministri e i sacerdoti di Davide. Lo scopo è di proclamarsi di fatto re di Israele. Non invita però né Salomone, né il profeta Natan, né le milizie più fedeli a Davide. Natan e Betsabea, madre di Salomone, si appellano a Davide, che fa salire Salomone sulla sua mula e lo fa sfilare per la città al suono delle trombe, scortato dalle milizie. Viene unto re, al grido di « Viva Salomone! ».
La liturgia presenta la preghiera che Salomone pronuncia in questa circostanza. Il nuovo re è giovane e non sembra montarsi la testa per la posizione in cui viene a trovarsi, ma sente la sua inadeguatezza e chiede a Dio la forza di governare il popolo con intelligenza e cuore.
Il passo, tratto del primo libro dei Re, è stato scelto per sottolineare la sua saggezza, e per metterla in parallelo con le parabole di questa domenica, che parlano della furbizia di chi fa delle scelte audaci e scomode per qualcosa che lo affascina molto.
Le brevi parabole del capitolo 13 di Matteo infatti si riferiscono al regno di Dio e sottolineano la fortuna di imbattersi in qualcosa di inaspettatamente arricchente, che ti fa abbandonare ogni cosa per possederlo. Una scelta che, fuori metafora, si riferisce alla radicalità della decisione di fronte al progetto di vita di Gesù.
Gesù incomincia astutamente il suo discorso cercando di far capire che la scelta di vita fatta da lui e dai suoi discepoli ha una logica precisa. Essi sono come l’uomo che trova un tesoro, come un mercante che compra una perla di valore inestimabile: nessuno dirà che sono dei pazzi a svendere tutto pur di procurarsi ciò che vogliono, perché ciò che comprano ha un valore immensamente più grande di ciò che lasciano.
Queste parabole nella chiesa primitiva dovevano risuonare anche come una spiegazione della straordinaria diffusione del cristianesimo: quei pagani, uomini e don-ne, avevano lasciato tutto, sì, ma perché si erano trovati di fronte a un qualcosa di grande valore.
Questo valore grande è l’essersi messi a servizio del regno di Dio, per il quale vale la pena rinunciare a tutto. Costruire il regno di Dio è realizzare una società nuova in cui Dio venga riconosciuto come tale e tutte le forze che si collocano contro l’uomo vengo-no sconfitte.
È questo un ideale a cui tendere e non raggiungibile mai del tutto in questo mondo, ma è un ideale di fronte al quale l’atteggiamento più logico e intelligente, tale da poter riempire e giustificare una vita, è « vendere tutto », aderire cioè ai nuovi valori con un impegno totale, senza rimpianti.
La terza parabola parla anch’essa di una scelta. È quella che fanno i pescatori davanti alla rete piena di pesci. Essi scelgono e tengono per sé solo i pesci commestibili, così come sottolinea la legislazione ebraica nel libro del Levitico: « Tra gli animali che vivono nell’acqua, nei laghi, nei mari o nei fiumi, potete mangiare quelli che hanno pinne e squame. Ma vi asterrete dal mangiare quelli che non hanno pinne e squame, siano esse bestiole acquatiche o altri animali acquatici » (11,9-10).
Ma questa scelta sottolinea che l’impegno di costruire il regno e di svendere tutto a questo scopo si fa anche giudizio.
Attualizzare
Per parlarci del regno di Dio Gesù avrebbe potuto farci un bel discorso filosofico o teologico, presentarci le sue teorie sulla validità dei suoi progetti, stupirci con i suoi ragionamenti. Invece ancora una volta presenta tre scene di vita, tre parabole tratte dalla esperienza di chi lo sta ascoltando.
C’è una linea coerente tra le parabole che stiamo leggendo in queste domeniche. Gesù appare come il grande seminatore, generosissimo e aperto a tutti, e dona il suo regno anche a chi si direbbe chiuso e insensibile. Ma la seminagione viene guastata dal nemico, che semina di notte la zizzania. Eppure anche adesso, Gesù dice di aspettare a sradicare la zizzania, ma di lasciarli crescere insieme, il grano buono e la zizzania, e poi si farà la separazione. Ancora una volta si tratta del regno e della bontà paziente e misericordiosa di Dio.
Le tre parabole odierne possiamo considerarle un regalo prezioso di Matteo, perché non sono presenti negli altri evangelisti. Parlano anch’esse del regno di Dio. Le prime due raccontano di due uomini, di due persone molto diverse. Il primo è un uomo, forse un contadino, che trova un tesoro per caso. Se è un contadino è certamente un mezzadro o un bracciante, non certamente il proprietario di quel campo. È uno che fatica senza troppe aspettative. Il secondo è un intenditore, un mercante di perle preziose.
Sono simili però in questo: vengono messi entrambi di fronte alla grande occasione della loro vita.
L’uomo che trova un tesoro nascosto nel campo, lo trova casualmente, forse mentre scava e vanga. In passato era frequente l’usanza di nascondere sotto terra i propri tesori, soprattutto per difendersi dalle incursioni degli esercizi nemici o dei banditi.
Probabilmente quell’uomo, nel sentire il terreno resistere, si sarà addirittura allarmato, forse seccato, pensando a una grossa pietra che gli avrebbe dato problemi e fatica. È sorpreso da ciò che trova senza averlo cercato.
Il mercante invece è sempre alla ricerca di qualcosa che valga di più, che possa permettergli il salto di qualità negli affari. Ma senza tentennamenti decidono entrambi di entrarne in possesso. E per fare questo vendono tutto ciò che possiedono.
Si può immaginare la sorpresa e la costernazione dei parenti e degli amici, di chi li ha conosciuti. Finora erano stati prudenti ed equilibrati. Adesso sembrano avere un colpo di testa. Ma i due vendono tutto con gioia, anzi, lo fanno entrambi con una certa ansia e impazienza.
Essi ora vedono tutto con occhi diversi. Tutto è cambiato. Il tesoro nel campo e la perla preziosa diventano misura di ogni loro pensiero, di ogni loro sguardo. Tutto diventa secondario, meno amabile, meno desiderabile.
Non pensano più alla fatica o ai viaggi fatti. Gli altri che guardano al campo, vedono solo un terreno in attesa di essere vangato e concimato. Lui ci vede il tesoro che nasconde. E ha capito che quando ne entrerà in possesso non avrà più bisogno di altro. Così pure il mercante, che si prepara a fare l’affare della vita.
Il discorso sulla rinuncia a tutto appare secondario e in ogni caso sarebbe sciocco volerlo sottolineare, dal momento che il vantaggio è tale da ripagare abbondantemente ciò che si perde. È una decisione gioiosa, ed è l’unica ragionevole per questi due uomini.
Non è difficile uscire dai due racconti per coglierne il significato. A volte il senso della vita lo si trova solo scavando e faticando. A volte si deve andarne alla ricerca, come fa il mercante.
Ma una volta che sì ha la fortuna di trovarlo, diventa ragionevole svendere ogni cosa, per possederlo.
E può darsi che qualcuno ci darà del pazzo, dell’imprudente. Ci sarà chi cercherà di remare contro e farci cambiare idea. Oppure che ci dirà che è inutile cercare, perché il senso della vita non è possibile trovarlo, perché non esiste.
Ma il cristiano non è uno sciocco e sa che la vita va spesa per qualcosa che valga. Gesù e il suo regno sono la perla preziosa, il tesoro nel campo, per i quali si può abbandonare tutto.
Noi spesso non siamo così. Qualcuno la scelta della vita, quella decisiva, non l’ha mai fatta. E vive nella chiesa in punta di piedi, quasi come un ospite di passaggio. La pratica cristiana, e la stessa celebrazione eucaristica, per queste persone non sono dei doni che ci arricchiscono e ci realizzano. Ma qualcosa di pesante che si deve compiere.
La chiesa, sin dai tempi della vita pubblica di Gesù, ha la pretesa di essere una prima realizzazione nel tempo del regno di Dio. Ciò significa che scegliere la « pietra preziosa » vuol dire entrare in un rapporto nuovo proprio con questa comunità ecclesiale. È nella chiesa che si realizza oggi praticamente il contratto di compravendita. Il battesimo e la cresima sono i momenti decisivi di questa scelta, perché realizzano l’inserimento nella comunità di una persona che ha cambiato mentalità, che si è impegnata a vedere ogni cosa con occhi nuovi, disposta a svendere tutto pur di vivere l’esperienza del regno.
La chiesa ha però la responsabilità di fare di sé ogni giorno una realtà credibile e affascinante. È realizzando le beatitudini che potrà proporsi agli altri quale pietra preziosa che si può acquistare a qualsiasi prezzo.
La terza parabola, la rete gettata in mare, si riferisce a una scena quotidiana tra i pescatori del mare di Galilea. Dopo la pesca, la rete si riempie di pesci, viene tirata terra e incomincia la selezione. Il fulcro della parabola è proprio la selezione che si fa dopo la pesca, una selezione che nel nostro caso ha carattere escatologico, si riferisce cioè agli ultimi tempi. In qualche modo questa parabola si collega a quella della zizzania: prima della pesca non è possibile separare pesci, dopo verranno scelti solo quelli commestibili.
Nella chiesa primitiva questa parabola doveva mettere in guardia tutti quelli che entravano nella comunità cristiana superficialmente, per opportunismo, con una intenzione non limpida. Costoro nell’ultimo giorno saranno esclusi dalla regno.
I sogni infranti della famiglia per bene
Erano una « buona e bella famiglia »: brava gente, onesta e stimata. Anche con Dio c’era un buon rapporto: messa la domenica e le altre feste comandate, rispetto verso il prossimo e, all’occorrenza, opere di carità. II futuro già programmato con giuste ambizioni: una laurea in ingegneria per il figlio, in previsione di un lavoro redditizio, anni di riposo per i genitori in attesa dei nipotini. Fu il ragazzo, un giorno, a dire: « Appena laureato andrò a lavorare lontano, in un paese senza soccorsi. Il Dio che mi avete insegnato ad amare e a pregare in chiesa, la domenica, mi sta stretto. Voglio scoprire da vicino il Dio che mi avete insegnato ad amare e a pregare fra chi ha bisogno di un aiuto per sopravvivere, fra quegli « ultimi »‘ dove ha un domicilio privilegiato. È un’esigenza che mi brucia dentro ». Un fulmine a ciel sereno, la guerra in famiglia, pianti, accuse, ricatti. I genitori al figlio: « Non puoi farci questo! » (Mariapia Bonanate).
Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb
PAPA FRANCESCO – DIO SI ARRANGIA PER ENTRARE
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 12 giugno 2017
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVII, n.135, 13/06/2017)
Basta tenere la porta del cuore socchiusa che «Dio si arrangia per entrare», salvandoci dal finire nella schiera degli «in-meriscordi»: neologismo per intendere coloro che senza misericordia mettono in pratica le beatitudini al contrario. È proprio dalla tentazione «narcisista dell’autoreferenzialità» — l’opposto dell’«alterità» cristiana che «è dono e servizio» — che Papa Francesco ha messo in guardia nella messa celebrata lunedì mattina, 12 giugno, a Santa Marta.
Riferendosi al passo della seconda lettera di san Paolo ai Corinzi (1, 1-7), proposto dalla liturgia come prima lettura, il Pontefice ha fatto subito notare che in appena «diciannove righe per otto volte Paolo parla di consolazione, di lasciarsi consolare per consolare gli altri». La consolazione, dunque, «ricorre per otto volte in diciannove righe: è troppo forte, qualcosa vuol dirci». E «per questo credo — ha aggiunto — che questa sia un’opportunità, un’occasione per riflettere sulla consolazione: cosa è la consolazione della quale parla Paolo». Ma «prima di tutto dobbiamo vedere che la consolazione non è autonoma, non è una cosa chiusa in se stessa».
Infatti, ha fatto presente il Papa, «l’esperienza della consolazione, che è un’esperienza spirituale, ha bisogno sempre di un’alterità per essere piena: nessuno può consolare se stesso, nessuno». E «chi cerca di farlo, finisce guardandosi allo specchio: si guarda allo specchio, cerca di truccare se stesso, di apparire; si consola con queste cose chiuse che non lo lasciano crescere e l’aria che respira è quell’aria narcisista dell’autoreferenzialità». Ma «questa è la consolazione truccata che non lascia crescere, non è consolazione perché è chiusa, le manca un’alterità».
«Nel Vangelo troviamo tanta gente che è così» ha spiegato Francesco. «Per esempio — ha detto — i dottori della legge che sono pieni della propria sufficienza, chiusi, e questa è la “loro consolazione” tra virgolette». Il Papa ha voluto fare esplicito riferimento al «ricco Epulone, che viveva di festa in festa e con questo pensava di essere consolato». Però, ha affermato, sono forse le parole della preghiera del fariseo, del pubblicano, davanti all’altare, a esprimere meglio questo atteggiamento: «Ti ringrazio Dio perché non sono come gli altri». Insomma, quell’uomo «si guardava allo specchio, guardava la propria anima truccata da ideologie e ringraziava il Signore». È Gesù stesso che «ci fa vedere questa possibilità di questa gente che, con questo modo di vivere, mai arriverà alla pienezza» ma «al massimo alla “gonfiezza”, ossia vanagloria».
«La consolazione, per essere vera, per essere cristiana, ha bisogno di un’alterità» ha continuato Francesco, perché «la vera consolazione si riceve». Per questa ragione «Paolo Incomincia con quella benedizione: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione!”». Ed «è proprio il Signore, è Dio che ci consola, è Dio che ci dà questo dono: noi col cuore aperto, lui viene e ci dà». Questa è «l’alterità che fa crescere la vera consolazione; e la vera consolazione dell’anima matura anche in un’altra alterità, perché noi possiamo consolare gli altri». Ecco, allora, che «la consolazione è uno stato di passaggio dal dono ricevuto al servizio donato», tanto che «la vera consolazione ha questa doppia alterità: è dono e servizio».
«Così — ha rilanciato il Pontefice — se io lascio entrare la consolazione del Signore come dono è perché ho bisogno di essere consolato: sono bisognoso». Infatti «per essere consolato è necessario riconoscere di essere bisognoso: soltanto così il Signore viene, ci consola e ci dà la missione di consolare gli altri». Certo, ha riconosciuto Francesco, «non è facile avere il cuore aperto per ricevere il dono e fare il servizio, le due alterità che fanno possibile la consolazione».
«È proprio Gesù che spiega come posso fare che il mio cuore sia aperto» ha affermato il Papa: «Un cuore aperto, è un cuore felice e nel Vangelo abbiamo sentito chi sono i felici, chi sono i beati: i poveri». Così «il cuore si apre con un atteggiamento di povertà, di povertà di spirito: quelli che sanno piangere, quelli miti, la mitezza del cuore; quelli affamati di giustizia, che lottano per la giustizia; quelli che sono misericordiosi, che hanno misericordia nei confronti degli altri; i puri di cuore; gli operatori di pace e quelli che sono perseguitati per la giustizia, per amore alla giustizia». E «così il cuore si apre e il Signore viene con il dono della consolazione e la missione di consolare gli altri».
Ma ci sono però, ha avvertito Francesco, anche coloro che «hanno un cuore chiuso: non sono felici perché non può entrare il dono della consolazione e darlo agli altri». Non seguono le beatitudini, insomma, e «si sentono ricchi di spirito, ossia sufficienti». Sono «quelli che non hanno bisogno di piangere perché si sentono giusti; quelli violenti che non sanno cosa sia la mitezza; quelli ingiusti che vivono dell’ingiustizia e fanno ingiustizia; quelli “in-misericordi” — ossia senza misericordia — che mai perdonano, mai hanno bisogno di perdonare perché non si sentono con il bisogno di essere perdonati; quelli sporchi di cuore; quelli operatori di guerre, non di pace; e quelli che mai sono criticati o perseguitati perché lottano per la giustizia perché non importa loro le ingiustizie delle altre persone: questi sono chiusi».
Proprio di fronte a queste beatitudini al contrario, ha suggerito il Pontefice, «ci farà bene oggi pensare» a «come è il mio cuore: è aperto? So ricevere il dono della consolazione, lo chiedo al Signore, e poi so darlo agli altri come un dono del Signore e servizio mio?». E «così, con questi pensieri durante giornata, tornare e ringraziare il Signore che è tanto buono e sempre cerca di consolarci». Ricordando che Dio «ci chiede soltanto che la porta del cuore sia aperta o almeno un pochettino, così lui poi si arrangia per entrare».
http://www.maranatha.it/Ore/santi/0726letPage.htm
26 LUGLIO – SANTI GIOACCHINO E ANNA (m)
XVI SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO – MERCOLEDÌ
Genitori della Beata Vergine Maria
UFFICIO DELLE LETTURE
Prima Lettura
Dalla seconda lettera ai Corinzi di san Paolo, apostolo 3, 7 – 4, 4
Il ministero del Nuovo Testamento è un ministero di gloria
Fratelli, se il ministero della morte, inciso in lettere su pietre, fu circonfuso di gloria, al punto che i figli d’Israele non potevano fissare il volto di Mosè a causa dello splendore pure effimero del suo volto, quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito? Se già il ministero della condanna fu glorioso, molto di più abbonda di gloria il ministero della giustizia. Anzi sotto quest’aspetto, quello che era glorioso non lo è più a confronto della sovraeminente gloria della Nuova Alleanza. Se dunque ciò che era effimero fu glorioso, molto più lo sarà ciò che è duraturo.
Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero. Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto. Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore.
Perciò investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo, al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti a ogni coscienza, al cospetto di Dio.
E se il nostro vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono, ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio.
Responsorio 2 Cor 3, 18; cfr. Fil 3, 3
R. Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come uno specchio la gloria del Signore, * veniamo trasformati, di gloria in gloria, nella sua immagine
V. Adoriamo Dio, mossi dal suo Spirito e ci gloriamo in Cristo Gesù;
R. veniamo trasformati, di gloria in gloria, nella sua immagine.
Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di san Giovanni Damasceno, vescovo
(Disc. 6, per la Natività della B. V. Maria 2. 4. 5. 6; PG 96, 663. 667.670)
Li conoscerete dai loro frutti
Poiché doveva avvenire che la Vergine Madre di Dio nascesse da Anna, la natura non osò precedere il germe della grazia; ma rimase senza il proprio frutto perché la grazia producesse il suo. Doveva nascere infatti quella primogenita dalla quale sarebbe nato il primogenito di ogni creatura «nel quale tutte le cose sussistono» (Col 1, 17). O felice coppia, Gioacchino ed Anna! A voi è debitrice ogni creatura, perché per voi la creatura ha offerto al Creatore il dono più gradito, ossia quella casta madre, che sola era degna del creatore.
Rallègrati Anna, «sterile che non hai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori» (Is 54, 1). Esulta, o Gioacchino, poiché dalla tua figlia è nato per noi un bimbo, ci è stato dato un figlio, e il suo nome sarà Angelo di grande consiglio, di salvezza per tutto il mondo, Dio forte (cfr. Is 9, 6). Questo bambino è Dio.
O Giacchino ed Anna, coppia beata, veramente senza macchia! Dal frutto del vostro seno voi siete conosciuti, come una volta disse il Signore: «Li conoscerete dai loro frutti» (Mt 7, 16). Voi informaste la condotta della vostra vita in modo gradito a Dio e degno di colei che da voi nacque. Infatti nella vostra casta e santa convivenza avete dato la vita a quella perla di verginità che fu vergine prima del parto, nel parto e dopo il parto. Quella, dico, che sola doveva conservare sempre la verginità e della mente e dell’anima e del corpo.
O Giachino ed Anna, coppia castissima! Voi, conservando la castità prescritta dalla legge naturale, avete conseguito, per divina virtù, ciò che supera la natura: avete donato al mondo la madre di Dio che non conobbe uomo. Voi, conducendo una vita pia e santa nella condizione umana, avete dato alla luce una figlia più grande degli angeli ed ora regina degli angeli stessi.
O vergine bellissima e dolcissima! O figlia di Adamo e Madre di Dio. Beato il seno, che ti ha dato la vita! Beate le braccia che ti strinsero e le labbra che ti impressero casti baci, quelle dei tuoi soli genitori, cosicché tu conservassi in tutto la verginità! «Acclami al Signore tutta la terra, gridate, esultate con canti di gioia» (Sal 97, 4). Alzate la vostra voce, gridate, non temete.
http://web.cheapnet.it/sancharbel/vita.html
SAN CHARBEL MAKHLOUF 24 LUGLIO (MF)- VITA DI UN EREMITA
(c’è poco, quasi tutto in francese)
Il nostro Santo nacque in Beqakafra, paese distante a 140 Km. della capitale del Libano, Beirut, un giorno 8 di maggio dell’anno di 1828; quinto figlio di Antun Makhlouf e Brigitte Chidiac, pia famiglia di contadini. Otto giorno dopo la sua nascita, ricevette il battesimo, nella chiesa di Nostra Signora del suo paese,dove i suoi genitori gli hanno imposto il nome di Yusef.(Giuseppe) I primi anni trascorsero in pace e tranquillit?, circondato della sua famiglia e sopratutto dell’insigne devozione di sua madre, che per tutta la sua vita fece pratic? con la parola e le opere la sua fede religiosa, dando esempio ai suoi figli che crebbero, cos? nel santo timore di Dio. A tre anni, il padre di Yusef fu arruolato dall’Esercito turco, che combatteva in quel momento de contro le truppe egizie. Suo padre muore ritornando a casa e sua madre passato po’ di tempo si risposa con un uomo devoto e perbene, che successivamente ricever? il diaconato. Yusef aiut? sempre il suo patrigno in tutte le cerimonie religiose, rivelando fin dal principio un raro ascetismo ed inclinazione alla vita di preghiera.
INFANZIA
Yusef impar? le prime nozioni nella scuola parrocchiale del suo paese, piccola stanza adiacente alla chiesa. All’et? di 14 anni si dedica a curare un gregge di pecore vicino alla casa paterna; e in questo periodo iniziano le sue prime e autentiche esperienze riguardanti la preghiera, si ritirava costantemente in una caverna che aveva scoperto vicino ai pascoli, e l? passava molte ore in meditazione, ricevendo spesso le burle degli altri ragazzi come Lui pastori della zona. A parte il suo patrigno (diacono), Yusef ebbe due zii da parte di madre che erano eremiti e appartenenti all’Ordine Libanese Maronita, e da essi accorreva con frequenza, trascorrendo molte ore in conversazioni, riguardanti la vocazione religiosa e il monacato, che ogni volta si fa pi? significativo per Lui.
LA VOCAZIONE
All’et? di 20 anni, Yusef ? un uomo fatto, sostegno della casa, Lui sa che presto dovr? contrarre matrimonio, tuttavia, resiste all’idea e prende un periodo di attesa di tre anni, nei quali ascolt? la voce di Dio « Lascia tutto, vieni e seguimi » si decide, e quindi, senza salutare nessuno, nemmeno sua madre, una mattina dell’anno di 1851 si dirige al convento della Madonna di Mayfouq, dove sar? ricevuto prima come postulante e poi come novizio, facendo una vita esemplare sin dal primo momento, sopratutto riguardo all’obbedienza. Qu? Yusef prese l’abito di novizio e rinunzi? al suo nome originale per scegliere quello di CHARBEL, un martire di Edessa vissuto nel secondo secolo.
STUDI PER SACERDOTE
Passato qualche tempo lo trasferirono al convento di Annaya, dove profess? i voti perpetui come monaco nel 1853. Subito dopo, l’obbedienza lo port? al monastero di San Cipriano di Kfifen (nome del paese), dove realizz? i suoi studi di filosofia e teologia, facendo una vita esemplare soprattutto nell’osservanza della Regola del suo Ordine. Fu ordinato sacerdote il 23 luglio 1859 da parte di Mons. Jose al Marid, sotto il patriarcato di Paulo Massad, nella residenza patriarcale di Bkerke. Da poco tempo ordinato, il P. Charbel ritorn? al monastero di Annaya per ordine dei suoi superiori. L? pass? lunghi anni, sempre come esempio per tutti i suoi confratelli nelle diverse attivit?, che lo coinvolgevano: l’apostolato, la cura dei malati, cura di anime ed il lavoro manuale (pi? ? umile meglio ?).
L’EREMITA
Cos? trascorse la sua vita in comunit?. Tuttavia, egli anelava ardentemente di essere eremita, e per questo chiese autorizzazione al superiore, il quale vedendo che Dio era con Lui redasse l’autorizzazione il 13 di febbraio del 1875. E vi rimase fino al giorno della sua morte avvenuta la vigilia di Natale dell’anno di 1898. Nell’eremo dei santi Pietro e Paolo, il P. Charbel si dedic? al colloquio intimo con Dio, perfezionandosi nelle virt?, nella ascesi, nella santit? eroica, nel lavoro manuale, nella coltivazione della terra, nella preghiera (Liturgia delle ore 7 volte al giorno), e nella mortificazione della carne, mangiando una volta al giorno e portando il cilicio. Il P. Charbel raggiunse la fama dopo il suo morte, iniziando con il prodigio del suo corpo incorrotto, che sudava sangue, quello della luce osservati e constatati non solo dai membri del suo Ordine, ma dal popolo che cominci? a venerarlo come Santo, anche quando la gerarchia ed i superiori ne avevano proibito il culto, in attesa che la Chiesa pronunciasse il suo verdetto.
BEATIFICAZIONE E CANONIZZAZIONE
Col passare del tempo, ed in vista dei miracoli che faceva e del culto di cui era oggetto, il P. Superiore generale Ignacio Dagher and? a Roma nel 1925 per sollecitare di S.S. Papa Pio XI l’apertura del processo di beatificazione dell’eremita P. Charbel. Durante la chiusura del concilio Vaticano II, il 5 di dicembre di 1965, il papa Paolo VI, lo beatific?, con le seguenti parole: « un eremita della montagna libanese ? iscritto nel numero dei Venerabili… un nuovo membro di santit? monastica arricchisce con il suo esempio e con la sua intercessione tutto il popolo cristiano. Egli pu? farci capire in un mondo affascinato per il comfort e la ricchezza, il grande valore della povert?, della penitenza e dell’ascetismo, per liberare l’anima nella sua ascensione a Dio ». Il 9 di ottobre di 1977 durante il sinodo mondiale di vescovi, lo stesso Papa canonizz? al Beato Charbel, elevando lo agli altari con il seguente formula: » In onore della Santa ed Unica Trinit? per esaltazione della fede cattolica e promozione della vita cristiana, con l’autorit? del nostro Signore Ges? Cristo, e dei venerabili apostoli Pietro e Paolo, e nostra, dopo matura riflessione e implorando l’intenso aiuto divino… decretiamo e definiamo che il Beato Charbel Majluf ? SANTO, e lo iscriviamo nel libro dei Santi, stabilendo che sia venerato come Santo con pietosa devozione in tutta la Chiesa. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. »
Innamorato dell’Eucaristia e del Santa Vergine Maria, San Charbel modello ed esempio di vita consacrata, ? considerato l’ultimo dei Grandi Eremiti. I suoi miracoli sono molteplici e chi si affida alla sua intercessione, non resta deluso, ricevendo sempre il beneficio della Grazia e la guarigione del corpo e dell’anima.
« Il giusto fiorir?, come una palma, si alzer? come un cedro del Libano, piantato nella casa del Signore. » Sal.91(92)13-14