Archive pour juin, 2017

Le Beatitudini

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Publié dans:immagini sacre |on 30 juin, 2017 |Pas de commentaires »

2 LUGLIO 2017 | 13A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

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2 LUGLIO 2017 | 13A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

Per cominciare

Chi accetta di diventare discepolo di Gesù deve sapere che questa scelta diventa prioritaria di fronte a qualunque altra. Ma Gesù invita i cristiani ad accogliere coloro che lasciano tutto e si mettono in viaggio per annunciare il vangelo, dando loro, quando occorre, la necessaria ospitalità.

La parola di Dio
2 Libro dei Re 4,8-11.14-16. Il profeta Eliseo viene ospitato da una famiglia perché « è un uomo di Dio e un santo ». Il profeta ricambia suscitando da parte di Dio il miracolo che quella famiglia attendeva.
Romani 6,3-4.8-11. Continua la lettera di Paolo ai primi cristiani di Roma. Ricorda a loro che hanno ricevuto il battesimo e la vita nuova per mezzo della passione, morte e risurrezione di Gesù. E li invita a vivere per lui.
Matteo 10,37-42. Il capitolo decimo di Matteo presenta le condizioni per mettersi al seguito di Gesù. Chi sceglie Gesù lo fa in modo radicale e condivide la sua vita.

Riflettere
Ciò che impressiona maggiormente nelle affermazioni di Gesù è sicuramente la radicalità della scelta che il discepolo deve fare, senza mezze misure.
È sottolineata bene anche la libertà che il cristiano deve avere di fronte alle cose e alle persone nei confronti di Dio. Quando si tratta di Dio, tutto passa in secondo ordine.
Colpisce la serietà che Gesù richiede a coloro che vogliono diventare suoi discepoli, l’impegno che un cristiano assume quando vuole prendere le cose sul serio.
La frase che Gesù dice assume un tono così paradossale da apparire poco reale. Invece proprio questo riferirsi alla propria casa, agli affetti più cari e quotidiani, rende estremamente concrete le sue parole. In fondo Gesù chiede a ogni cristiano di non assolutizzare le persone, le cose, le situazioni che riempiono la sua vita di ogni giorno.
E si tratta di una rinuncia vera, anche se non sempre il distacco diventa fisico: non a tutti Gesù chiede di abbandonare fisicamente parenti e beni, ma certamente a tutti chiede di cambiare il proprio atteggiamento nei loro confronti. Si tratta di legami veri e profondi, che non possono essere rinnegati, ma che un vero discepolo vive in un modo nuovo, mettendoli a servizio del vangelo.
Su questo punto, che parrebbe assolutamente originale, Gesù ricalca un pensiero che era già stato espresso nell’antico testamento, anche se le parole a noi paiono paradossali e vanno lette nel contesto in cui sono state espresse. E tuttavia è evidente la prevalenza di Dio su ogni cosa e persona: « Qualora il tuo fratello, figlio di tuo padre o figlio di tua madre, o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso t’istighi in segreto, dicendo: « Andiamo, serviamo altri dèi », dèi che né tu né i tuoi padri avete conosciuto, divinità dei popoli che vi circondano, vicini a te o da te lontani da un’estremità all’altra della terra, tu non dargli retta, non ascoltarlo. Il tuo occhio non ne abbia compassione: non risparmiarlo, non coprire la sua colpa. Tu anzi devi ucciderlo: la tua mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi sarà la mano di tutto il popolo. Lapidalo e muoia, perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore, tuo Dio… » (Dt 13,7-11).
Tra le condizioni per mettersi al seguito di Gesù bisogna dunque tenere presenti queste parole riportate dall’evangelista Matteo, che inducono il cristiano a impegnarsi fino in fondo per delle scelte non facili. Gesù non ha mai parlato di una scelta di comodo. D’altra parte sa che questa scelta egli la può richiedere, anzi è l’unico a poterla richiedere.
Il capitolo 10 di Matteo è tutto dedicato all’impegno missionario degli apostoli. Dopo aver scelto i dodici (vv. 1-4), Gesù li manda al popolo d’Israele (vv. 5-6). Intanto traccia per loro uno stile di comportamento (vv. 7-15), li invita a non scomporsi nelle persecuzioni (vv. 16-25) e a essere liberi anche di fronte ai legami familiari per potersi impegnare in questo nuovo tipo di vita (vv. 34-39).
Ma quasi per offrire loro un segno tangibile di solidarietà, invita tutti a essere ospitali nei loro confronti. « Chi accoglie voi, accoglie me », dice esplicitamente Gesù. Come Gesù è mandato dal Padre, così gli apostoli sono mandati da Gesù. Nel modo con cui gli uomini accoglieranno gli apostoli, così accolgono lui e il Padre.
Chi non accoglie e non ascolta gli apostoli, nel giorno del giudizio sarà punito più severamente della gente di Sodoma e Gomorra (v. 15).
Chi invece li ospita e quindi permette al profeta o al giusto di poter annunciare il vangelo, dice Gesù, riceverà la stessa ricompensa riservata al profeta o al giusto. Anche chi accoglie un « piccolo », cioè uno che non ha altre credenziali e qualifiche che quella di essere discepolo, non perderà la sua generosità.
Già nell’antico testamento l’ospitalità e il rispetto per il forestiero erano sacri, perché il popolo ebraico aveva in prima persona conosciuto la dipendenza, lo sfruttamento, la condizione dello straniero. Chi rifiutava l’ospitalità era come se non accogliesse un « an-gelo », un messaggero di Dio (cf Gn 18).
Nel vangelo però l’ospitalità è data a un titolo tale che non può essere negata. Il credente sa che dando ospitalità all’inviato di Gesù, ospita Gesù in persona. Per il credente quindi l’ospitalità non è soltanto un atto di cortesia, di umanità, di solidarietà, ma è un vero atto di fede.

Attualizzare
Se riflettiamo a certe scelte importanti della nostra vita (matrimonio, scelta professionale…) vedremo che tutti siamo chiamati qualche volta a fare scelte radicali, e le facciamo sovente in modo non necessariamente traumatico, semplicemente perché riteniamo che la strada che vogliamo iniziare per noi è molto importante.
Così per sposarsi, una persona lascia realmente padre, madre, fratelli e sorelle, la propria casa… Per il proprio lavoro, a volte soltanto per elevarsi socialmente, si lascia tutto, anche la propria nazione. Dunque la scelta di Gesù non è assurda: dipende soltanto dal valore che noi attribuiamo alla sua chiamata.
Abbiamo probabilmente fatto l’abitudine a Dio, fino al punto da dimenticare che dal momento che è Dio, nei nostri confronti non può che diventare un assoluto.
Scegliere Dio può comportare questa fatica: ma la nostra scelta ha la possibilità di fare il miracolo di legarci maggiormente alle persone care, di farci gustare in modo più intenso e genuino le cose di questo mondo. Ogni volta che offriamo qualcosa a Dio, ci viene restituita rinnovata: come quando durante la messa offriamo pane e vino e riceviamo in cambio il corpo e il sangue del suo Figlio.
Che significa oggi praticamente rinunciare al padre, alla madre, alla famiglia, alla propria vita? Significa evidentemente mettere a disposizione di Dio ciò che abbiamo: il nostro tempo, il denaro, i nostri progetti. A qualcuno Dio chiederà anche un abbandono visibile e fisico, a molti chiederà di diventare più disponibili, di dedicare più spazio alle cose di Dio: alla preghiera, alla comunità cristiana, agli impegni nella parrocchia, al servizio.
Probabilmente dobbiamo anche trovare il modo di compiere alcuni gesti che possano esprimere la nostra disponibilità a subordinare nelle scelte gli interessi personali a quelli di Dio. Un tempo questi gesti si chiamavano piccole rinunce o « fioretti ». Cose superate, forse. Ma è un fatto che bisogna esercitarsi per essere capaci di fare delle scelte più importanti nel momento in cui ci saranno richieste.
La seconda parte del brano fa riferimento all’ospitalità che deve essere offerta ai discepoli. Ma il discorso può essere allargato, ricordando che presso gli antichi – e in modo speciale nelle comunità ecclesiali – l’ospitalità era considerata una cosa sacra. Oggi la si vede come un atto di ingenuità, una mancanza di accortezza, di furbizia: chi non si difende e non si barrica dentro la propria casa, pensa che o prima o poi ne avrà delle conseguenze spiacevoli.
Si moltiplicano quindi le porte blindate, gli antifurto, non si aprono le porte… Si vive in una diffidenza di fondo: c’è un senso di sfiducia spesso motivata, frutto di esperienze amare. Chi chiede ospitalità spesso non è sincero, è un approfittatore, un opportunista.
Difficilmente quindi la pratica dell’ospitalità potrebbe essere vissuta oggi come in passato. Sarebbe semplicistico accusare di individualismo o di mancanza di solidarietà chi non si sente di essere ospitale. Ci troviamo infatti di fronte a un ambiente sociale talmente mutato che pare giustificare certi comportamenti restii e chiusi. Forse però bisogna tentare qualcosa per sbloccare in qualche modo questa situazione.
Anzitutto quando si parla di ospitalità, non necessariamente ci si riferisce a quella tradizionale, quando si accoglieva una persona in casa per interi giorni e notti. È in qualche modo ospitalità anche l’accoglienza che si manifesta con un sorriso, con il saluto, la disponibilità al dialogo. Queste piccole cose servono molto a far sentire l’altro a suo agio, sgelando i rapporti, indicando la porta aperta a un rapporto di amicizia più approfondito.
È ospitalità non chiudersi in casa tra quattro mura, cercando di incontrare gente, fare e accettare inviti a pranzo…
Nel vangelo si parla di ospitalità offerta al discepolo « in quanto discepolo ». Quindi almeno tra fratelli nella fede bisognerebbe riuscire a praticare l’ospitalità anche in senso stretto, materiale. Se fossimo più comunità, avremmo più coraggio nell’abbattere steccati, nel non temere che gli altri ficchino il naso in casa nostra.
L’ospitalità può diventare in molti casi un atto di solidarietà doveroso: è il caso di chi subisce uno sfratto improvviso, una calamità naturale, delle impreviste difficoltà familiari… Dovremmo ricuperare l’idea che quando una persona diventa nostra ospite, non porta soltanto del disagio in più, ma « la benedizione di Dio ».
Se abbiamo tanta paura di offrire ospitalità, dobbiamo riconoscere che è anche perché siamo ricchi, possediamo molto e temiamo di perdere ciò che abbiamo.
L’ospitalità ci mette in condizione di offrire un servizio, di sperimentare la gioia di essere utili agli altri, di condividere con altri le cose che possediamo.
L’ospitalità infine mi fa dimenticare me stesso e miei problemi. I nostri drammi personali e familiari che ci tormentano, messi a confronto di quelli di altri spesso diventano piccole cose. Quanto più evitiamo di calarci nella pelle degli altri, di entrare nel loro animo nelle loro difficoltà, tanto più le nostre difficoltà ci sembrano insormontabili. È il confronto invece che rende solidali e ridimensiona i problemi.

In realtà accogli Cristo
« Lo sanno tutti: è bello accogliere bene i forestieri, non lasciar mancare alla loro mensa le attenzioni dovute agli ospiti, essere disponibili nei loro confronti, attendere la loro venuta. Dio ama l’ospitalità, tanto che neppure un bicchiere d’acqua fresca rimarrà senza ricompensa. Pensa che Abramo ospitò Dio, mentre pensava semplicemente di essere ospitale, e Lot ospitò degli angeli. Come fai a sapere se anche tu, quando accogli un ospite, non accogli Cristo? D’altra parte in ogni ospite c’è Cristo, perché Cristo è nel povero, come egli stesso dice… » (Sant’Ambrogio).

Chi è il cristiano
« Cristiano è colui che imita Cristo in tutto… Con tutti è ospitale, a nessuno chiude la porta in faccia, accoglie i poveri alla sua mensa. Tutti riconoscono la sua bontà e nessuno da lui viene offeso. Egli serve Dio giorno e notte con semplicità e rettitudine, con una coscienza coerente e fedele. Vive abitualmente con la mente aperta a Dio, non è attaccato alle cose materiali, ma ha un vivo desiderio per le cose di fede » (S. Cipriano).
Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

Chiesa di San Pietro e Paolo, (Ohio)

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Publié dans:immagini sacre |on 28 juin, 2017 |Pas de commentaires »

PIETRO E PAOLO: LA CONVERSIONE E IL MARTIRIO

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PIETRO E PAOLO: LA CONVERSIONE E IL MARTIRIO

Domenica 29 giugno, Santi Pietro e Paolo. «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente!» così risponde Simone, figlio di Giona, alla domanda di Gesù: «Voi chi dite che io sia?» Il Voi dice che l’interrogativo era diretto a tutti i Suoi apostoli; ma è Pietro che risponde? a nome di tutti. È Pietro che riconosce in Gesù di Nazaret: il Cristo ossia il Messia; il Figlio di Dio… il Vivente! Ma tale risposta impone a Cristo una precisazione; quindi dice: Pietro, questa tua confessione ha origine in Dio, ti è stata rivelata dal Padre mio… non è cosa tua!

DI SANDRO SPINELLI

25/06/2003 di Archivio Notizie

Domenica 29 giugno, Santi Pietro e Paolo: «Ora sono veramente certo che il Signore mi ha strappato dalla mano di Erode» (At 12,1-11); «Benedetto il Signore che libera i suoi amici» (Salmo 33); «Ora per me è pronta la corona di giustizia» (2 Tm 4,6-8.17-18); «Tu sei Pietro: a te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16,13-19)

DI SANDRO SPINELLI
«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente!» così risponde Simone, figlio di Giona, alla domanda di Gesù: «Voi chi dite che io sia?» Il Voi dice che l’interrogativo era diretto a tutti i Suoi apostoli; ma è Pietro che risponde? a nome di tutti. È Pietro che riconosce in Gesù di Nazaret: il Cristo ossia il Messia; il Figlio di Dio… il Vivente! Ma tale risposta impone a Cristo una precisazione; quindi dice: Pietro, questa tua confessione ha origine in Dio, ti è stata rivelata dal Padre mio… non è cosa tua!
Ora noi possiamo goderne perché con questa risposta-confessione di Pietro, è stato stretto un nuovo legame tra la conoscenza umana e il mistero del Dio vivente! In un altro momento della storia e in un’altra regione, un legame altrettanto nuovo è stato allacciato tra il Mistero e Saulo di Tarso. Soltanto Dio Padre poteva rivelare persuasivamente a Saulo tutto quanto è riferito a Suo Figlio Gesù e così penetrare e abbattere la barriera dell’opposizione che questo servo fervente dell’Antico aveva eretta.
Il Signore s’è fatto conoscere da quest’uomo dopo averlo disarcionato dal suo cavallo e averlo accecato. Cioè dopo aver annullato i punti che egli riteneva sua forza. Così Saulo risulta essere tra i primi uomini della storia umana per i quali Cristo divenne «segno di contraddizione», ma nei quali a vincere fosse Cristo e non l’uomo. Anzi, con sorpresa grande per noi, proprio questa opposizione di Saulo, si è dimostrata un terreno particolarmente fertile perché vi possa attecchire e fiorire la rivelazione di Cristo Gesù.
Cristo Gesù ha poi unito le anime di questi due: di Simone al quale il Signore stesso ha dato nome Pietro e di Saulo che – dopo la sua elezione ad Apostolo – ha cominciato a chiamarsi Paolo. Li ha quindi condotti a Roma dove hanno edificato e glorificato la Chiesa. Ora noi, chiesa fondata da Cristo sui pilastri che sono gli Apostoli, possiamo contemplare tutte le grandi opere di Dio (Atti 2, 11) che si sono attuate in questi due testimoni del Signore: l’apostolato svolto e il martirio subito.
Ci sono, nella Cappella Paolina in Vaticano, due grandi affreschi di Michelangelo – gli ultimi della sua attività di pittore (circa il 1550); descrivono: la conversione di Paolo e il martirio di Pietro. È di grande potenza espressiva l’economia di composizione; in entrambi gli affreschi, una linea verticale taglia dall’alto in basso lo spazio dell’opera; intorno a questo asse l’artista ha quindi realizzato il suo lavoro. Ebbene, nella conversione di Paolo (a sinistra entrando nella Cappella) questa linea verticale è costituita dall’accecante bagliore che dal cielo, da Dio tocca Paolo che sta correndo sul suo cavallo… ne arresta la sua prepotente azione e la converte in potenza missionaria. Nel martirio di Pietro (parete destra, entrando) la linea compositiva è costituita dall’asse verticale della croce che porta il martire a testa in giù. Qui, la fierezza dello sguardo di Pietro punta diritta all’osservatore e pare interrogarlo: «Per Cristo, sei disposto anche tu a questo?».
Paolo e Pietro sono – con evidenza – due vasi di creta che sanno e possono contenere e ridonare la grandezza di Dio: cioè la Sua Presenza tra gli uomini, la santità ch’è sola del Signore, l’efficacia di ogni azione compiuta in Suo nome. In tal modo ci è dato riconoscere che i vasi di creta, nelle mani di Dio diventano roccia! Roccia ferma e sicura a cui approdare per assaporare la salvezza, su cui sostare per vivere in pace, su cui continuare il lavoro di edificazione del Regno di Dio che è la Chiesa. È proprio grazie alla Chiesa che tutto il contenuto di questa festa… si dipana in tutti i giorni della storia e in ogni luogo della terra a favore di ciascun uomo. È proprio grazie alla Chiesa che la nostra fede continua ad essere alimentata dall’eredità di Pietro capo e garante, e dall’eredità di Paolo: il grande missionario appassionato solo della proclamazione del Vangelo.
L’odierno brano di Vangelo si conclude, infine, parlando di chiavi; ed è proprio a questo versetto che si riferiscono le due chiavi incrociate che si trovano nello stemma papale. Queste stanno ad indicare il potere che Gesù ha dato ai suoi apostoli: «tutto ciò che legherete sulla terra, sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierete sulla terra, sarà sciolto nei cieli». Avere le chiavi è infatti il segno della potestà. Da quel giorno… tutto ciò che è stato legato qui, sulla terra è rimasto legato anche nei cieli e tutto quanto che è stato sciolto qui sulla terra, è rimasto sciolto anche nei cieli; infatti ai Suoi apostoli Cristo ha dato il potere di sigillare durante il progredire della storia e ha garantito che parimenti è sigillato nella gloria del regno che non passa.
Questa festa di Pietro e Paolo è dunque celebrazione dell’unità del gregge di Cristo. In Pietro e nei suoi successori troviamo il criterio sicuro di permanenza nella genuina tradizione evangelica, la garanzia della fede e l’esperienza della continua rigenerazione del perdono offerto dal Signore Gesù.

ss. Pietro e Paolo

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Publié dans:immagini sacre |on 27 juin, 2017 |Pas de commentaires »

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO – OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II (2001)

https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/homilies/2001/documents/hf_jp-ii_hom_20010629_sts-peter-paul.html

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO – OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II (2001)

Venerdì 29 giugno 2001

1. « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente » (Mt 16,16).

Quante volte abbiamo ripetuto questa professione di fede, pronunciata un giorno da Simone, figlio di Giona, nei pressi di Cesarea di Filippo! Quante volte io stesso ho trovato in queste parole un sostegno interiore per proseguire nella missione che la Provvidenza mi ha affidato!
Tu sei il Cristo! L’intero Anno Santo ci ha portati a fissare lo sguardo su « Gesù Cristo unico salvatore, ieri, oggi e sempre ». Ogni celebrazione giubilare è stata un’incessante professione di fede in Cristo, rinnovata in modo corale a duemila anni dall’Incarnazione. Alla domanda, sempre attuale, di Gesù ai suoi discepoli: « Voi chi dite che io sia? » (Mt 16,15), i cristiani del Duemila hanno risposto ancora una volta unendo le loro voci a quella di Pietro: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente ».
2. « Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli » (Mt 16,17).
Dopo due millenni, la « roccia » su cui è fondata la Chiesa resta sempre la stessa: è la fede di Pietro. « Su questa pietra » (Mt 16,18) Cristo ha costruito la sua Chiesa, edificio spirituale che ha resistito all’usura dei secoli. Certamente, su basi semplicemente umane e storiche non avrebbe potuto reggere all’assalto di tanti nemici!
Nel corso dei secoli, lo Spirito Santo ha illuminato uomini e donne, di ogni età, vocazione e condizione sociale, per farne « pietre vive » (1 Pt 2,5) di questa costruzione. Sono i santi, che Dio suscita con inesauribile fantasia, ben più numerosi di quanti ne additi solennemente la Chiesa ad esempio per tutti. Una sola fede; una sola « roccia »; una sola pietra angolare: Cristo, Redentore dell’uomo.
« Beato te, Simone figlio di Giona »! La beatitudine di Simone è la stessa di Maria santissima, alla quale Elisabetta disse: « Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore » (Lc 1,45). E’ la beatitudine riservata anche alla comunità dei credenti di oggi, alla quale Gesù ripete: Beata te, Chiesa del Duemila, che custodisci intatto il Vangelo e continui a proporlo con rinnovato entusiasmo agli uomini dell’inizio di un nuovo millennio!
Nella fede, frutto del misterioso incontro tra la grazia divina e l’umiltà umana che ad essa si affida, sta il segreto di quella pace interiore e di quella gioia del cuore che anticipano in qualche misura la beatitudine del Cielo.

3. « Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede » (2 Tm 4,7).
La fede si « conserva » donandola (cfr Enc. Redemptoris missio, 2). E’ questo l’insegnamento dell’apostolo Paolo. Ciò è avvenuto da quando i discepoli, il giorno di Pentecoste, usciti dal Cenacolo e sospinti dallo Spirito Santo, si mossero in ogni direzione. Questa missione evangelizzatrice prosegue nel tempo ed è la maniera normale con cui la Chiesa amministra il tesoro della fede. Di questo suo dinamismo tutti dobbiamo essere attivamente partecipi.
Con tali sentimenti rivolgo il mio più cordiale saluto a voi, cari e venerati Fratelli, che oggi mi fate corona. In modo speciale saluto voi, cari Arcivescovi Metropoliti, nominati nel corso dell’ultimo anno e venuti a Roma per il tradizionale rito dell’imposizione del Pallio. Voi provenite da ventuno Paesi dei cinque continenti. Nei vostri volti contemplo il volto delle vostre Comunità: un’immensa ricchezza di fede e di storia, che nel Popolo di Dio si compone e si armonizza come in una sinfonia.
Saluto anche i novelli Vescovi, ordinati nel corso di quest’anno. Anche voi provenite da varie parti del mondo. Nelle diverse membra del corpo ecclesiale, che voi qui rappresentate, ci sono speranze e gioie, ma non mancano certo le ferite. Penso alla povertà, ai conflitti, talora persino alle persecuzioni. Penso alla tentazione del secolarismo, dell’indifferenza e del materialismo pratico, che mina il vigore della testimonianza evangelica. Tutto ciò non deve affievolire, ma intensificare in noi, venerati Fratelli nell’Episcopato, l’ansia di recare la Buona Novella dell’amore di Dio ad ogni essere umano.
Preghiamo perché la fede di Pietro e di Paolo sostenga la nostra comune testimonianza e ci renda disponibili, se necessario, a giungere sino al martirio.
4. Fu proprio il martirio il suggello della testimonianza resa a Cristo dai due grandi Apostoli che oggi celebriamo. A distanza di qualche anno l’uno dall’altro, versarono il loro sangue qui a Roma, consacrandola una volta per sempre a Cristo. Il martirio di Pietro ha segnato la vocazione di Roma come sede dei suoi successori in quel primato che Cristo gli conferì a servizio della Chiesa: servizio alla fede, servizio all’unità, servizio alla missione (cfr Enc. Ut unum sint, 88).
E’ pressante quest’anelito alla totale fedeltà al Signore; si fa sempre più intenso il desiderio della piena unità di tutti i credenti. Mi rendo conto che, « dopo secoli di aspre polemiche, le altre Chiese e Comunità ecclesiali sempre più scrutano con uno sguardo nuovo tale ministero di unità » (ivi, 89). Ciò vale in modo particolare per le Chiese Ortodosse, come ho potuto notare anche nei giorni passati, nel corso della mia visita in Ucraina. Quanto vorrei che s’affrettassero i tempi della riconciliazione e della reciproca comunione!
In tale spirito, sono lieto di rivolgere il mio cordiale saluto alla Delegazione del Patriarcato di Costantinopoli, guidata da Sua Eminenza Jeremias, Metropolita di Francia ed Esarca di Spagna, che il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I ha inviato per la celebrazione dei santi Pietro e Paolo. La loro presenza aggiunge una particolare nota di gioia alla nostra festa. Intercedano per noi i Santi Apostoli, affinché il nostro impegno congiunto possa sollecitare e preparare la ricomposizione di quell’unità, piena ed armonica, che dovrà caratterizzare la Comunità cristiana nel mondo. Quando questo avverrà, sarà più facile al mondo riconoscere il volto autentico di Cristo.
5. « Ho conservato la fede »! (2 Tm 4,7). Così afferma l’apostolo Paolo facendo il bilancio della sua vita. E sappiamo in quale modo la conservò: donandola, diffondendola, facendola fruttificare il più possibile. Sino alla morte.
Allo stesso modo, la Chiesa è chiamata a conservare il « deposito » della fede, comunicandolo a tutti gli uomini e a tutto l’uomo. Per questo il Signore l’ha inviata nel mondo, dicendo agli Apostoli: « Andate, e fate discepole tutte le nazioni » (Mt 28,19). Questo mandato missionario è più che mai valido ora, all’inizio del terzo millennio. Anzi, di fronte alla vastità del nuovo orizzonte, esso deve ritrovare la freschezza degli inizi (cfr Enc. Redemptoris missio, 1).
Se san Paolo vivesse oggi, come esprimerebbe l’anelito missionario che ha contrassegnato la sua azione a servizio del Vangelo? E san Pietro non mancherebbe certo di incoraggiarlo in questo generoso slancio apostolico, dandogli la sua destra in segno di comunione (cfr Gal 2,9).
Affidiamo, pertanto, all’intercessione di questi due Santi Apostoli il cammino della Chiesa all’inizio del nuovo millennio. Invochiamo Maria, la Regina degli Apostoli, perché ovunque il popolo cristiano cresca nella comunione fraterna e nello slancio missionario.
Possa quanto prima l’intera comunità dei credenti proclamare con un cuor solo e un’anima sola: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente! ». Tu sei il nostro Redentore, il nostro unico Redentore! Ieri, oggi e sempre. Amen.

 

La partenza di Abramo da Ur

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Publié dans:immagini sacre |on 26 juin, 2017 |Pas de commentaires »

GENESI 12,1-4A – COMMENTO BIBLICO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Genesi%2012,1-4a

GENESI 12,1-4A – COMMENTO BIBLICO

In quei giorni, 1 il Signore disse ad Abràm: « Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. 2 Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione.
3 Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra ».
4 Allora Abràm partì, come gli aveva ordinato il Signore.

COMMENTO
Genesi 12,1-4a

La chiamata di Abramo
Nella seconda parte della Genesi (Gn 12-50) si narrano le vicende dei Patriarchi, i quali sono presentati non solo come i progenitori, ma anche come i modelli di Israele nel suo rapporto con Dio. Il primo di essi è Abram, al quale verrà poi cambiato il nome in Abraham (Abramo: cfr. Gn 17,5). Abramo non è soltanto il primo dei patriarchi ma è anche quello che ha suscitato maggiore interesse nella riflessione religiosa di Israele. Nel ciclo a lui dedicato (Gn 12,1 – 25,18) si nota però una sproporzione tra la lunghezza del racconto e la povertà del materiale narrativo in esso contenuto. In realtà la storia di Abramo è costruita mediante un accavallarsi di racconti che spesso non sono altro che narrazioni dello stesso fatto desunte da diverse tradizioni. Molti racconti sono eziologie riguardanti l’origine di un luogo di culto. Dio è presentato come colui che dirige gli avvenimenti, entrando personalmente in scena e manifestando direttamente il suo volere.
Nelle vicende di Abramo si intrecciano due temi di grandissima importanza, quello relativo alle promesse divine e quello della fede con cui l’uomo si apre a Dio e alla sua iniziativa salvifica. La fede di Abramo è presentata non come qualcosa di perfetto fin dall’inizio ma piuttosto come un atteggiamento interiore che si sviluppa e giunge a maturazione attraverso difficoltà e prove, cadute e riprese coraggiose.
La vicenda di Abramo si apre con la sua chiamata da parte di Dio. Questa è presentata in un testo probabilmente di origine piuttosto tardiva (Gn 12,1-9) come l’atto di nascita di Israele. La liturgia ne riprende solo i primi versetti. Dio si rivolge ad Abramo con queste parole: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre verso la terra che io ti indicherò» (v. 1). Praticamente Dio gli chiede di abbandonare tutti i suoi legami naturali: patria, clan, famiglia. A quel tempo ciò significava trovarsi soli di fronte a un mondo ostile e pieno di pericoli (cfr. Gn 4,14). Dio inoltre chiede ad Abram di avviarsi verso un paese di cui non gli indica il nome e l’ubicazione. Il lettore può supporre che si tratti della terra di Canaan, verso la quale si era diretto Terach con la sua famiglia (cfr. 11,31), ma Dio non lo dice, e neppure spiega quale sarà il suo rapporto con tale paese. Ad Abramo non resta altro che andare verso l’ignoto, lasciandosi guidare ciecamente da Dio.
Alle richieste divine corrispondono due promesse. Anzitutto Abramo sarà il progenitore di un grande popolo. Umanamente parlando questa promessa non è realizzabile, perché, come il narratore ha annotato poco prima (Gn 11,30), la moglie di Abramo, Sarai, è sterile. Inoltre Dio benedirà Abramo, cioè, secondo la mentalità biblica, lo riempirà di favori e di benessere sia in campo materiale che spirituale. Inoltre renderà grande il suo nome, cioè lo renderà celebre: la grandezza del nome va di pari passo con il possesso di un grande potere. Questa promessa si aggancia al racconto della torre di Babele, dove si dice che l’umanità, ancora indivisa, aveva voluto farsi un nome, e con esso una potenza, mediante la costruzione della torre (cfr. Gn 11,4), e proprio per questo era stata dispersa: per volontà di Dio Abramo diventerà strumento di quell’unità che gli uomini avevano invano cercato di ottenere. Ciò non avrà però lo scopo di aumentare il suo potere, ma di realizzare un bene che viene da Dio e riguarda tutti.
Inoltre Dio farà di Abramo una benedizione. Questa promessa viene specificata in due affermazioni. Anzitutto Dio benedirà quelli che lo benediranno, e maledirà quelli che lo malediranno. Ciò significa che Abramo troverà in Dio la sua costante protezione, in quanto coloro che vorranno fargli del male saranno immediatamente puniti da Dio. Inoltre in lui tutte le famiglie della terra «si diranno benedette», cioè si augureranno l’una all’altra di essere benedette come Abramo (cfr. Gn 48,20); questa promessa ha un’apertura universalistica, che è resa esplicita nella traduzione greca dei LXX e nelle citazioni del NT, dove l’espressione «In te si diranno benedette» è tradotta «In te saranno benedette». Il nome di Abramo viene dunque usato per benedire e, di conseguenza, la benedizione di Abramo passerà a una moltitudine sterminata di gente. È chiaro che ciò avverrà mediante la sua discendenza. Questa promessa è in stridente contrasto con l’insicurezza a cui Abramo deve andare incontro lasciando la propria famiglia e con il fatto che egli non può avere un figlio.
Di fronte alla richiesta e alle promesse divine, Abramo non parla ma si mette in viaggio portando con sé il nipote Lot (v. 4a). In tal modo Abramo è presentato come il modello di una fede radicale nella parola di Dio.
A queste informazioni la tradizione sacerdotale ne aggiunge altre che non sono riprese dalla liturgia: Abramo aveva allora settantacinque anni e, lasciata Carran con la moglie, il nipote e tutti i suoi beni, giunse nella terra di Canaan (vv. 4b-5): in base ai dati riportati precedentemente (cfr. Gn 11,26.32) risulta che Abramo ha dovuto effettivamente separarsi da suo padre Terach che, al momento della sua partenza, era ancora vivo. La migrazione di Abramo richiama da vicino quella dei giudei ritornati nella loro terra al termine dell’esilio.
Il racconto continua con l’arrivo di Abramo a Sichem, presso la Quercia di More; il narratore annota che «nel paese si trovavano allora i cananei» (v. 6b). È solo in questo momento che Dio fa ad Abramo la terza promessa, quella cioè di dare proprio quella terra alla sua discendenza (v. 7). Anche qui si nota un evidente contrasto tra la promessa divina e l’impossibilità, umanamente parlando, che essa si attui. Per gli esuli, che vedevano tutte le difficoltà di un ritorno in quella che consideravano come la loro patria, doveva essere di grande incoraggiamento il potersi rifare a questa promessa totalmente gratuita di cui era portatore il loro lontano antenato. Ancora una volta Abramo tace. Ma proprio in quel luogo costruisce un altare al Signore. Poi si sposta verso sud e si accampa vicino a Betel, dove costruisce un altro altare e invoca il nome di JHWH; infine scende nel deserto del Negev e vi si stabilisce. Questi altari, eretti in una terra abitata da popolazioni straniere, sono piccoli segni di una fede che resiste alla prova e sa attendere che Dio attui le promesse.

Linee interpretative
La chiamata di Abramo ha tutte le caratteristiche dei numerosi racconti di vocazione che si trovano nella Bibbia. Essa mette in luce un progetto divino in base al quale verrà ridata a tutta l’umanità la salvezza (benedizione) persa col peccato. Dio conferisce dunque ad Abramo e, per mezzo suo, al popolo che nascerà da lui non un privilegio, ma un servizio di ampiezza universale. La benedizione che gli è promessa consiste in un grande benessere materiale, che viene visto come conseguenza di una vita giusta. È proprio questo benessere materiale che fa di lui il modello del giusto che attua nella sua vita una totale sottomissione a Dio e per questo viene riempito di doni da parte sua.
Nella risposta silenziosa del patriarca appaiono i connotati essenziali di una autentica esperienza di fede: ascolto, abbandono delle proprie sicurezze, fiducia, disponibilità a mettersi in cammino. Il suo atteggiamento non ha nulla però di una sottomissione cieca e meccanica. L’obbedienza a un comando preciso è una metafora per indicare la sua piena partecipazione a un progetto divino che lo supera, che forse non capisce fino in fondo, ma che dà un senso alle sue scelte di vita. Questo progetto consiste nella nascita di una nuova umanità il cui collante non sarà il potere ma l’amore. L’obbedienza incondizionata a questo progetto dovrà essere la caratteristica fondamentale del popolo che da lui nascerà. In questa prospettiva appare chiaro che non solo per Abramo, ma anche per tutti gli israeliti l’elezione ha senso unicamente se comporta la ricerca di un modo di essere che diventi esempio e modello per tutta l’umanità.

(tema delle letture)

GIOVANNI-PAOLO-II-NON-ABBIATE-PAURA

Publié dans:immagini sacre |on 23 juin, 2017 |Pas de commentaires »

25 GIUGNO 2017 | 12A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

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25 GIUGNO 2017 | 12A DOMENICA T. ORDINARIO – A | OMELIA

Per cominciare
« Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio », dice Gesù. Gesù parla agli apostoli e ai missionari e li incoraggia a non essere deboli e timorosi nella loro testimonianza, riponendo la propria sicurezza in Dio.

La parola di Dio
Geremia 20,10-13. Geremia è stato profeta in un periodo difficile della storia di Israele. Ha conosciuto persecuzione, carcere duro e morte in esilio. È un modello per chi non deve arrendersi nell’annunciare la parola di Dio.
Romani 5,12-15. Paolo afferma che come il peccato e la morte sono entrati nel mondo a causa del primo uomo, la salvezza è venuta da Gesù, l’uomo nuovo: una salvezza ben più significativa, avendo dato inizio a una nuova umanità.
Matteo 10,26-33. Continua la lettura del capitolo decimo di Matteo. Chi annuncia il vangelo, dice Gesù, lo deve fare con grande slancio e senza temere le difficoltà, i contrasti e la stessa persecuzione.

Riflettere
Geremia ha profetato tra il 626 a.C. e il 587. Soprattutto negli ultimi vent’anni è stato coinvolto con la storia del suo popolo, che subì due deportazioni per opera di Nabuccodonor, re di Babilonia: la prima nel 597, la seconda nel 587, con la distruzione della città, del tempio, della deportazione dei superstiti e dello stesso re Sedecia.
Sin dal 605 Nabuccodonosor governa sulla Palestina e Geremia invita la popolazione ad accettare questa sottomissione in attesa di tempi migliori, immaginando e minacciando, a nome di Dio, le tragiche conseguenze di una ribellione. Come avverrà.
Geremia fa il profeta quasi contro voglia: « Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si beffa di me.… » (20,7).
Geremia veniva accusato di scoraggiare la gente e i soldati, fu gettato in una cisterna e poi fu anche lui deportato e probabilmente morì in Egitto.
L’esperienza della coraggiosa e contrastata predicazione di Geremia, si collega al capitolo 10 di Matteo, dove Gesù, scelti i dodici apostoli, li manda in missione, lasciando però ad essi alcune avvertenze, che dovranno caratterizzare il loro comportamento, ma anche l’incoraggiamento a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà e ai contrasti a cui andranno incontro.
Gesù in poche battute ripete per tre volte l’invito a « non avere paura ». « Non abbiate paura degli uomini », dice. Parole che sanno di incoraggiamento, di consolazione, di sicurezza. Parole amiche, di chi prevede per i suoi seguaci tempi duri e vuole infondere coraggio. Parole che sanno di realismo, perché è inevitabile che chi segue lui vada incontro alla croce e alla persecuzione.
Parole accompagnate da alcuni passaggi forti, per far capire chi è che dà la forza di superare la paura: « Abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo… » (Mt 10,28). Parole che intendono infondere coraggio e spingere gli apostoli a buttarsi senza riserve nella missione, sapendo di avere Dio dalla loro parte. Nel parallelo passo di Luca si legge: « Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il regno » (Lc 12,32).
La preoccupazione, la paura, può sorgere proprio dall’inadeguatezza e dalla sproporzione delle forze in campo di fronte alla costruzione del regno, e ai poteri forti che potrebbero contrastarle, ma Gesù assicura quel piccolo manipolo di persone che potranno sempre contare su un Padre che si curerà di loro, soprattutto nel momento della difficoltà. L’importante è che, più che ricercare di accrescere la loro forza nelle risorse umane, non perdano la fede in Dio.
« Nessun passero cade a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati » (Mt 10,30-31). È questa la certezza che l’ultima parola la dirà colui che ci manda ad annunciare agli altri la sua parola. Anche gli esseri più piccoli, i passeri, e la cosa più insignificante, i nostri capelli, sono nelle mani del Padre, che se ne prende cura.
« Quello che io vi dico nelle tenebre, voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze » (Mt 10, 27), dice Gesù, che chiede agli apostoli un entusiasmo che non ammette timidezze. Chi si mette al suo seguito deve essere mosso da forti convinzioni, dal bisogno di gridare a tutti la gioia e le convinzioni che si porta dentro.
È un parlare che fa pensare inoltre alla capacità di presentare quel che ha detto Gesù non solo in modo aperto e pubblico, senza complessi di inferiorità o « rispetto umano », ma anche facendo uso, diremmo oggi, di tutti quegli strumenti nuovi (tecnologici) che possano rendere più trasparente il messaggio.
« Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli (Mt 10,32). Non dimentichiamo che Gesù queste parole le dice a uomini che lo abbandoneranno nel momento del pericolo, che diranno di non conoscerlo, per paura della persecuzione.

Attualizzare
Si direbbe che la persecuzione sia parte integrante dell’annuncio del vangelo. Gesù avvisa i suoi sin dall’inizio. Li ha appena scelti e li manda in missione. Ma li mette immediatamente in guardia. Li rende consapevoli che le sue parole non giungeranno a gente disposta a riceverle, ma, proprio perché si tratta di parole liberanti, quindi spesso provocatorie e alternative, sono destinate a non essere immediatamente e facilmente accolte, anzi rifiutate, contrastate, impedite.
Gli Atti degli apostoli ci raccontano che la persecuzione ha accompagnato la chiesa sin dai primi decenni. L’apostolo Giacomo, il diacono Stefano, Pietro e Giovanni hanno sperimentato con il carcere e la vita che la messa in guardia di Gesù non era tanto per dire. Ci sarà sempre chi si difenderà con ogni mezzo alla novità del vangelo, chi non vorrà abbandonare le proprie concezioni di vita e tradizioni.
La storia della chiesa rivela, sin dagli inizi, due movimenti in parallelo. Da una parte la straordinaria audacia e infaticabilità dei primi cristiani e dall’altra la persecuzione, i contrasti. Curiosa però questa intolleranza verso i cristiani, fino a diventare in ogni tempo autentica persecuzione, carcere, martirio. Perché ci si difende dai cristiani, perché danno fastidio e vengono perseguitati o derisi, emarginati? Perché chi è al potere teme coloro che parlano solo di amore, di fraternità, di giustizia?
Ma è stato così in ogni epoca, soprattutto quando il vento dello Spirito ha soffiato più forte e le istituzioni si sono sentite minacciate. Anche oggi in molte nazioni i cristiani subiscono persecuzione, carcere, emarginazione. Sono oltre un centinaio all’anno i missionari che vengono assassinati.
Ma anche nei paesi della democrazia avanzata e del benessere, il cristianesimo conosce l’emarginazione e chi si dichiara cristiano è talvolta oggetto di irrisione e di indifferenza. Molti si vergognano di dirsi cristiani, non si fanno riconoscere, temono di apparire poco moderni, poco aperti, troppo ossequienti ai preti e alla chiesa. Si mimetizzano per evitare disagi, opposizioni, contrapposizioni.
L’impressione è che se le chiese nei giorni di festa sono ancora abbastanza frequentate, si tratta sovente di un cristianesimo vissuto per abitudine. La vita reale sembra rimanere fuori e ogni cristiano vive i propri valori in solitudine, tra l’indifferenza dei più.
I cristiani nella nostra società non appaiono protagonisti e non sono per lo più persone di rottura. Molte battaglie condotte dai vertici sembrano dettate dalla paura di scomparire, lasciano i cristiani indifferenti, mentre il profumo delle verità evangeliche non si diffonde nei media moderni e non riesce a farsi strada, a raggiungere chi è vittima di un pensare comune piatto e scontato.
Il vero cristianesimo dovrebbe modificare profondamente la società e investire i rapporti umani. Il cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, ha scritto qualche tempo fa ai suoi diocesani invitandoli al « rispetto e alla gentilezza, che aiutano a umanizzare il territorio: a fare un piacere gratuito, a dare volentieri la precedenza o a cedere un posto, a coltivare sentimenti di fiducia più che di diffidenza…. ». E di fronte al grave problema della casa, ha esortato: « Oso rivolgermi anzitutto alle comunità parrocchiali, agli istituti religiosi, alle realtà del mondo cattolico e alle famiglie che possiedono diverse unità abitative disponibili, perché si offrano a condividere almeno parte delle rispettive proprietà, dandole in locazione a prezzi accessibili ».
La parola di Dio ci invita a ricuperare il coraggio della testimonianza. Ispirandoci alla tenacia di Geremia, a quella degli apostoli, di Paolo. « Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato » (At 4,20), dicono Pietro e Giovanni davanti al tribunale ebraico per giustificare la loro condotta. Chi ha conosciuto il messaggio di Dio non può tenerlo per sé. È lo Spirito che spinge a rendere partecipi anche altri della propria gioia per il dono della vita nuova ricevuta.
Ricordiamo ciò che ha detto ai giovani Giovanni Paolo II a Tor Vergata: « Se sarete quello che dovete essere, metterete il fuoco in tutto il mondo ». A volte si è troppo timidi, quando qualcuno ti canzona o magari ti bestemmia in faccia per provocarti. Mentre i cristiani non temono il confronto e accettano la sfida, sanno rendere ragione delle proprie convinzioni e della propria felicità. Rifiutano il ghetto, non si staccano dalla vita, sanno di costruire la storia.

La fede difficile dei giovani
« Voglio esprimere il mio disagio », dice Cesare, un ragazzo di 16 anni di Vicenza: « Nel mio ambiente, tra gli amici e i compagni di scuola, sono tra i pochi della mia età ad avere il coraggio di definirmi cristiano. E per questo sono spesso offeso e deriso… ». Ha scritto alla rivista Dimensioni Nuove e altri giovani come lui gli hanno risposto che essere cristiani era difficile 2000 anni fa e lo è ancora oggi. Che dirsi cristiani non è cosa da poco, perché non si tratta solo di pronunciare una frase o partecipare a una messa: essere cristiani può significare avere il coraggio di restare in pochi. Ed è esattamente questo che dice Gesù quando chiede ai suoi discepoli di non avere paura, di rendergli aperta testimonianza, di non nascondersi, anzi di sbandierare la propria identità senza complessi.

Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

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