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14 MAGGIO 2017 | 5A DOMENICA DI PASQUA – A | OMELIA

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14 MAGGIO 2017 | 5A DOMENICA DI PASQUA – A | OMELIA

Io sono la Via, la Verità e la Vita

Per cominciare
Non è facile vedere un filo unitario fra le letture bibliche di questa domenica, tutte bellissime e ricche di contenuto teologico. A parte l’evidente sfondo pasquale… L’elemento sicuro di novità è l’istituzione dei sette diaconi, per un servizio ai fratelli nella comunità. È la risposta immediata della nascente chiesa di Gesù a un problema nuovo.

La parola di Dio
Atti 6,1-7. La chiesa, guidata dallo Spirito, impara a organizzarsi. La scelta dei diaconi non è che un esempio, ma molto significativo, dei problemi nuovi che la comunità deve affrontare. Mentre cresce la coscienza di essere chiamata a continuare in forma responsabile la missione salvifica di Gesù.
1ª Pietro 2,4-9.
Il primo papa esorta a riconoscere l’identità di ogni cristiano, salvato da Cristo, pietra angolare scelta e preziosa davanti a Dio. È grazie al mistero pasquale infatti che i cristiani e la chiesa sono diventati stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo a cui Dio ha affidato il compito di proclamare le meraviglie da lui compiute.
Giovanni 14,1-12. Il brano fa parte dei « discorsi di addio » di Gesù ai discepoli, che l’evangelista colloca tra la sera del Giovedì santo e il momento dell’arresto. Gesù parla della sua andata al Padre. Ci va per « preparare loro un posto », dove potrà prenderli sempre con sé. È Gesù la « via » che rende questo viaggio possibile.

Riflettere
Il vangelo ci fa rivivere un momento particolarmente drammatico e pesante per Gesù. È la sera degli addii. Dopo il gesto della lavanda dei piedi, Gesù parla di ciò che lo attende. Giuda è appena uscito per consegnare il Maestro alle autorità ebraiche; anche Pietro – Gesù lo sa e lo fa capire – sta per tradirlo.
Gesù invita gli apostoli a non turbarsi. Questo verbo indica molto più che la semplice paura. Chi si turba vacilla, dubita, non ha più una visione lineare delle cose.
E poi li incoraggia ad avere più fiducia nel Padre e ad avere più fede anche in lui. A essi, che saranno turbati e si disperderanno durante la passione e lo potrebbero essere anche nel momento in cui Gesù li abbandonerà in modo visibile e definitivo con l’ascensione, affida il compito di costruire la chiesa e di assumere la sua missione.
Gesù rivela nel suo dire il rapporto strettissimo che lo lega al Padre e agli apostoli. E, nello stesso tempo, rivela la sua più profonda identità: « Chi ha visto me ha visto il Padre… Io sono nel Padre e il Padre è in me » (Gv 14,9-10).
Gli apostoli sembrano assediarlo con le loro domande. Vogliono sapere, ma appaiono come li abbiamo sempre conosciuti: duri nel comprendere, poco lucidi soprattutto nell’accettazione piena di ciò che si compie attorno a Gesù. Tommaso, ma anche Filippo, più di altri, si rivelano stranamente stonati.
Del resto il vangelo non risparmia agli apostoli l’immagine di persone incapaci di comprendere e tardi di cuore e nel complesso non fanno bella figura. Eppure sono episodi raccontati da loro nel momento della predicazione e della nascita della chiesa. E questo naturalmente depone a favore dell’autenticità storica di questi fatti.
Nella prima lettura si parla dei diaconi, una figura che è stata rivalutata dal Concilio Vaticano II, ma che non dappertutto ha trovato ancora la piena valorizzazione nelle comunità.
La seconda lettura invece fa riferimento alla piena dignità di ogni cristiano. Siamo pietre vive di una costruzione fondata sulla pietra angolare che è Cristo.

Attualizzare
Gesù nel vangelo di domenica scorsa afferma di essere la porta, oggi di essere la strada, la via, la verità, la vita. Sono parole che ci danno sicurezza. Ci siamo messi al suo seguito e non dobbiamo turbarci, né arrenderci di fronte alle inevitabili difficoltà della vita. La parola di Gesù dà sicurezza anche a quel progetto di vita che ognuno di noi deve realizzare in se stesso e che lo rende idoneo ad assumere il compito di farsi testimone e annunciatore.
Gesù, conoscendo bene gli apostoli, pare dire a loro, ma anche a noi, che non è nei suoi progetti toglierci i problemi, le difficoltà o le debolezze, ma di garantirci la sua presenza: « Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi ». E ancora: « Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò » (Gv 14,14).
« Nella casa del Padre mio vi sono molti posti! », dice poi Gesù, che prepara un posto agli apostoli e a ciascuno di noi. Tutti siamo chiamati alla salvezza. E di questa salvezza conosciamo la strada, che è Gesù.
La seconda lettura presenta la chiesa degli apostoli che si organizza e di fronte a un nuovo problema e lo affronta con fantasia e senza paura di intraprendere qualcosa di inedito. Una chiesa che ci piace, una comunità che è un organismo vivo.
Nascono da questa chiesa i diaconi e la loro elezione appare solenne: di loro si elencano i nomi, così come per la scelta dei dodici apostoli: « Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia » (At 6,5). Nella storia tra i diaconi, oltre a Lorenzo, ricordiamo figure straordinarie come san Lorenzo e Francesco d’Assisi.
Nella chiesa di oggi per poter essere ordinato diacono permanente il candidato deve aver dato prova di essere impegnato in qualche servizio apostolico, essersi distinto tra i fedeli per lo spirito di fede, di amore alla chiesa, per una particolare disponibilità al servizio, al dialogo, alla collaborazione. Deve avere maturità e senso di responsabilità, predisposizione a comunicare con i poveri.
Inoltre deve avere almeno 25 anni se è celibe, e 35 se è sposato. Chi è celibe in seguito non potrà più sposarsi; chi invece è sposato deve avere il consenso della moglie. Invece non hanno importanza né la classe sociale, né il titolo di studio del nuovo diacono.
Il diaconato permanente è stata davvero una magnifica intuizione della chiesa primitiva, ed è stato rivalutato dopo il Vaticano II. Dobbiamo aspettarci in futuro altre novità? Certamente, anche se oggi sembra che viviamo un momento di stallo. Per esempio, riconoscere nella comunità cristiana maggior rilievo alla donna ai fini di una nuova evangelizzazione.

Diaconi per la chiesa di oggi
Il diacono Gino fa il camionista da tutta la vita. Il suo incarico è di preparare gli adulti al battesimo e alla cresima. « È un impegno che mi dà l’occasione di andare nelle case, di avvicinare famiglie di ogni tipo », dice. Mario invece fa il commercialista a Napoli, ed è amico di molti professionisti. Da giovane è stato ufficiale di marina. Albert è professore di pedagogia religiosa all’Università di Tübingen in Gemania. Ha tre figli e fa il diacono nella parrocchia St. Laurentius, dove ha introdotto la catechesi familiare. André è un poliziotto parigino che ha avuto sin da ragazzo un posto fisso in parrocchia. Giuseppe fa il tranviere in una grande città del nord. Vive in un quartiere particolarmente bisognoso e cominciò a occuparsi dei ragazzi abbandonati, coinvolgendo anche la moglie e gli amici. Diventare diacono per lui è stata una cosa naturale. I suoi compagni di lavoro gli dicono: « Ecco, accetteremmo volentieri uno come te come nostro prete! ».
Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

UN SERIO AMMONIMENTO PER I TEMPI DIFFICILI

https://www.bibbiaweb.org/doc/cb_tempi_difficili_nelle_assemblee.html

UN SERIO AMMONIMENTO PER I TEMPI DIFFICILI

Christian Briem

Titolo dell’originale: Ein ernstes Wort in ernster Zeit

Indice:
1. Introduzione
2. Principi, e non regole
3. Separazione dal male
4. Indicazioni per il procedimento pratico
5. Allontanarsi dall’errore
6. Come lo Spirito Santo agisce — nessuna democrazia
7. Nessuna indipendenza
8. Argomenti
1. Introduzione
Viviamo in tempi solenni, e siamo giunti agli ultimi giorni del periodo della grazia. La Parola di Dio li definisce «tempi difficili» (2 Timoteo 3:1). Satana è riuscito, a causa delle nostre infedeltà, ad introdurre, non solo tra la cristianità professante, ma anche fra i credenti in particolare dei concetti dottrinalmente nocivi. Favorito da una grande mondanità e da una notevole superficialità spirituale, si è sviluppato tra noi uno spirito di liberalità e di indifferenza contro il quale il Signore ci mette in guardia particolarmente nella lettera a Laodicea.
In considerazione di questa situazione non è sorprendente — benché questo sia affliggente — che, non solo individui, ma gruppi interi o assemblee abbiano adottato dei punti di vista errati per quanto concerne il radunamento dei credenti, cosicché una separazione da costoro si è resa inevitabile. A questo punto sorge evidente la domanda se nelle Sacre Scritture ci sono degli esempi di assemblee che si sono separate da una o più altre assemblee, vale a dire che non sono più riconosciute come essendo in comunione con loro alla tavola del Signore.
Diciamo pure subito che esempi di questo tipo non ce ne sono (come del resto non vi sono che rari esempi che riguardano la vita pratica dell’assemblea). Però nella Parola non troviamo neanche nessun esempio che un’assemblea sia stata «ricevuta» in comunione. Così, per esempio, non possiamo pensare che i credenti in Antiochia abbiano iniziato a rompere il pane, il più grande privilegio collettivo dei cristiani, soltanto al momento in cui Barnaba venne da loro (Atti 11). Essendo cristiani, possedevano questo privilegio e certamente ne avranno approfittato senza un invito particolare da parte di qualcuno. È ciò che vediamo presso i primi cristiani a Gerusalemme (Atti 2:42…). In quel tempo esisteva solo un unico «terreno» sul quale i primi credenti realizzavano la comunione fra di loro. Tutti gli altri uomini erano giudei o pagani; e non avevano parte a questo privilegio.
2. Principi, e non regole
Oggi la condizione della cristianità è diventata molto più difficile e Dio, conformemente alla Sua sapienza, non ci presenta nella Sua Parola una raccolta di regole e di esempi, ma stabilisce dei principi divini che ci dirigono in ogni situazione. Troppo facilmente saremmo tentati di risolvere i problemi in modo schematico, senza un profondo esercizio interiore. Questi principi sono generalmente legati a situazioni particolari allora esistenti. Le situazioni del passato possono anche non più ripresentarsi, ma i principi rimangono. Considereremo adesso un esempio che illustra in particolare il nostro soggetto.
I credenti di Corinto pensavano avere la libertà di entrare nel tempio degli idoli e di mangiare la carne sacrificata agl’idoli, perché sapevano che gli idoli, di per sé, non sono nulla. La cosa pur essendo vera, il modo di fare da essi seguito in questa circostanza non era corretto. E perché? Essi violavano — senza saperlo — due principi divini, che l’apostolo Paolo chiarisce loro:
1. Dietro alle cose visibili si nascondono potenze invisibili, principi, disposizioni, sistemi, sia buoni che malvagi.
2. Partecipando esteriormente a queste cose, si entra in una comunione interiore con questi sistemi, che lo si sappia e che lo si voglia o meno.
Dietro ai sacrifici offerti agl’idoli c’erano i demoni, e i Corinti andando nel tempio per mangiare la carne sacrificata agl’idoli si trovavano in comunione con i demoni (1 Corinzi 10). Era ed è moralmente impossibile partecipare alla Tavola del Signore e alla tavola dei demoni. Oggi questo pericolo specifico non esiste per così dire più per noi, però i principi nominati mantengono tutta la loro validità. È quindi necessario farne una giusta applicazione ai problemi attuali. Se non si possono qualificare gli incontri di credenti su un terreno che non è scritturale, come «tavola dei demoni» (sarebbe assurdo e insensato farlo), bisogna tuttavia esaminare su quale base costoro si radunano e secondo quali principi. Se le disposizioni adottate sono inequivocabilmente errate, perché, ad esempio, si pratica un’accettazione aperta delle persone richiedenti, chi si raduna con loro e prende parte alla cena, si unifica all’errore che viene qui praticato. In 2 Giovanni 2, vediamo che tramite una partecipazione esteriore, anche solo tramite un saluto, si può entrare in comunione con il male. Che lo vogliamo o no, che lo facciamo intenzionalmente o no, ha poca importanza: Dio considera la cosa in questo modo.
3. Separazione dal male
Il sentiero e la risorsa che Dio ci indica nei giorni del declino è la separazione da ciò che non corrisponde al Suo pensiero. Se non vogliamo essere privati della presenza del Signore quando il male si manifesta, l’unica via da seguire è la separazione dal male. Questo principio lo troviamo sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento. L’osservanza di questo principio conduce all’unità.
Al momento che il popolo d’Israele si corruppe e cadde nell’idolatria, Mosè prese la tenda di convegno e la piantò «per sé fuori dell’accampamento, a una certa distanza dall’accampamento» stesso. «E chiunque cercava il SIGNORE, usciva verso la tenda di convegno, che era fuori dell’accampamento» (Esodo 33,7). È così che Mosè, il servitore di Dio, separò i fedeli da coloro che non lo erano. Il sentiero della verità in quei tempi malvagi, per chi cercava l’Eterno, era fuori dell’accampamento. E là l’Eterno concesse a Mosè il privilegio di parlargli faccia a faccia, come un uomo parla col proprio amico (versetto 11).
E che cosa fece il «buon Pastore» con le sue pecore quando «l’ovile» d’Israele si trovò invaso da ogni sorta di male? Si accinse a riformarlo? È ciò che gli uomini hanno sempre cercato di fare: riformare, migliorare le cose che vanno in rovina. No, il Signore Gesù divenne per essi «la Porta» che permetteva loro di abbandonare «l’ovile», vale a dire il sistema giudaico corrotto. Egli chiamò le proprie pecore per nome e le condusse fuori (Giov. 10,3). Nello stesso modo procede oggi con i Suoi: Li conduce fuori da ciò che Egli non può approvare — o non corrisponde più alla Sua volontà. Egli è l’autorità che ha il potere e il diritto di fare questo, perché è «la Porta».
Passando adesso direttamente all’Apocalisse, l’ultimo libro del Nuovo Testamento, troviamo, a proposito di «Babilonia» (la «grande prostituta», il «ricettacolo di demoni»), che al residuo fedele degli ultimi giorni vien detto: «Uscite da essa, o popolo mio, affinché non siate complici dei suoi peccati» (18:4). Vediamo qui ancora lo stesso principio visto precedentemente, benché le circostanze siano completamente diverse. Naturalmente, applicando oggi questo principio, non possiamo dire a coloro, dai quali ci separiamo, che sono «Babilonia». Sarebbe assurdo affermarlo. Il principio della separazione dal male rimane invariato, che si tratti dell’ «ovile» oppure di «Babilonia» o ancora dei falsi sistemi che ci sono oggi nella cristianità.
Se passiamo alle epistole del Nuovo Testamento, troviamo ancora lo stesso principio. A proposito del sigillo nel passo di 2 Timoteo 2:19 è detto, in rapporto alla responsabilità dell’uomo: «Si ritragga dall’iniquità chiunque pronunzia il nome del Signore». L’«iniquità» è tutto ciò che è in contraddizione con Dio e con la Sua volontà rivelata. Quando l’iniquità non può essere tolta, bisogna che chi vuole essere fedele si separi da essa.
L’apostolo Paolo, per illustrare la cosa, ci parla di una grande casa nella quale ci sono molti vasi che si distinguono fra di loro in base a due aspetti diversi: quello del materiale e quello dell’uso. L’ingiunzione consiste quindi nel purificarsi e nel separarsi dai «vasi a uso ignobile» — non solo dal loro insegnamento, ma anche dai vasi stessi, cioè: dalle persone. Il fatto che, separandosi da loro, si diventa un «vaso a uso nobile» (versetto 21), dimostra che non dobbiamo considerare i «vasi a uso ignobile» unicamente come dei cristiani professanti, ma anche tutti i credenti che sono contaminati da un male qualsiasi, oppure che sono in contatto con cose che disonorano il Nome del Signore. Quindi anche i credenti possono essere dei «vasi a uso ignobile» quando sono in contatto con l’iniquità. E ciascuno personalmente ha la responsabilità di separarsi da loro. L’espressione «se dunque uno» dimostra inoltre chiaramente che si tratta di tutti i credenti, e non solo di una categoria particolare di servitori del Signore (come a volte vien detto). Ognuno è responsabile di agire così
D’altronde questa istruzione fa parte di ciò che l’apostolo Paolo aveva già scritto a Timoteo, affinché sapesse «come bisognava comportarsi nella casa di Dio» (1 Timoteo 3:15) — in un tempo (e questa è la visuale della seconda epistola a Timoteo) nel quale la manifestazione esteriore dell’Assemblea si era ormai molto discostata dai pensieri di Dio.
Nonostante le espressioni personali («uno», «tu»), la frase del versetto seguente (2 Timoteo 2:22): «con quelli che invocano il Signore con un cuore puro», dimostra che Dio considera anche il lato collettivo della situazione. Se Timoteo si fosse separato dai vasi a uso ignobile e avesse ricercato la giustizia, la fede, l’amore, la pace avrebbe trovato altri che si erano comportati anche così. E ciò avverrebbe pure oggi in circostanze simili. Il ritrarsi dall’iniquità — che si tratti di singole persone o di assemblee intere — non spinge all’isolamento, ma è un obbligo per coloro che desiderano mantenere l’ordine nella casa di Dio e invocare il Signore con un cuore puro. Questo può effettivamente comportare il rifiuto della comunione a un’assemblea intera o addirittura a più assemblee.
In 2 Timoteo 2 ci viene presentato un principio generale che racchiude tutte le forme di iniquità. Siccome l’iniquità può presentarsi sotto differenti aspetti e in misure diverse, è quindi logico che anche il modo di ritrarsi dall’iniquità, impostoci, avvenga in modi diversi.
4. Indicazioni per il procedimento pratico
Cosa si deve fare quando un gruppo di credenti o un’assemblea locale si pone, sia dal lato dottrinale che sia pratico, su un terreno che non è più conforme alla Scrittura? Abbiamo già notato prima che il Nuovo Testamento non ci dà molti esempi che trattano i rapporti tra le assemblee. Considerando però dei passi come Romani 15:4; 1 Corinzi 10:6-11 e 2 Timoteo 3:16 («Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare…») non possiamo fare a meno di credere che anche l’Antico Testamento ci offra esempi e indicazioni che riguardano il nostro soggetto. Vogliamo dunque considerare alcune di queste indicazioni anche nell’Antico oltre che nel Nuovo Testamento.
Che ci possa essere in certo modo un allontanarsi, un abbandonare un’assemblea locale, lo troviamo accennato in Levitico 14, dov’è parlato di una casa colpita interamente dalla lebbra (muffa). Essa doveva essere demolita (versetto 45). Ma qui vorrei fare risaltare con quale prudenza, accortezza e cura il sacerdote doveva prima esaminare la cosa. Quest’esempio ci insegna che una decisione secondo 2 Timoteo 2, non potrà assolutamente essere presa con leggerezza e precipitazione, ma soltanto dopo che tutti i mezzi e gli sforzi per togliere l’iniquità si saranno dimostrati infruttuosi.
Nel capitolo 21 del Deuteronomio, troviamo un’altra indicazione per cui normalmente sono le assemblee vicine che hanno il compito di occuparsi dei problemi di un’assemblea. Siccome però nel Nuovo Testamento l’espressione «assemblee vicine» non esiste, non vorrei dare troppa importanza a questo pensiero. Se le assemblee vicine sono troppo deboli o non vogliono adempiere i propri impegni, saranno allora assemblee più distanti che dovranno interessarsi al caso. Il Corpo di Cristo o la Casa di Dio non è limitato dai confini di una città o di un paese.
Mi sembra che Matteo 18 a partire dal versetto 15, ci porga un aiuto prezioso. Evidentemente si tratta qui del peccato di un fratello contro un’altro fratello; però i principi presentati dal Signore sono certamente applicabili in modo più esteso. Anzitutto ci doveva essere la sollecitudine di «guadagnare» l’altro, o gli altri, cercando di regolare la cosa in un ambito ristretto. Se questo non avesse dato risultati, era necessario che due o tre testimoni «confermassero» la cosa. Qui il Signore non parla già più di «guadagnare»; la questione aveva preso un carattere più serio. Se si rifiutava di ascoltarli, bisognava dirlo alla chiesa: vale a dire che il male era da quel momento reso pubblico, e veniva posto sulla coscienza dell’assemblea; questo procedimento assumeva dunque notevole gravità. Se si rifiutava anche di ascoltare la chiesa, la rottura diveniva inevitabile.
5. Allontanarsi dall’errore
In Romani 16 vediamo un esempio di applicazione pratica dei principi esposti in 2 Timoteo 2. L’argomento trattato qui può essere espresso nel modo seguente: Cosa bisogna fare quando la predizione, che l’apostolo Paolo aveva fatto agli anziani a Mileto, si avvera e che fra i credenti o addirittura fra i sorveglianti stessi «sorgono uomini che insegnano cose perverse per trascinarsi dietro i discepoli» (Atti 20:30)? La risposta la troviamo nell’istruzione che l’apostolo Paolo dà ancora in Romani 16: «Ora vi esorto, fratelli, a tener d’occhio quelli che provocano le divisioni e gli scandali in contrasto con l’insegnamento che avete ricevuto. Allontanatevi da loro. Costoro, infatti, non servono il nostro Signore Gesù Cristo, ma il proprio ventre; e con dolce e lusinghiero parlare seducono il cuore dei semplici» (versetti 17-18).
Forse il Nome del Signore è sovente sulla bocca di tali uomini, ma non c’è in loro una vera sottomissione a Lui e alla Sua Parola. Per quanto lusinghiere possano essere le loro parole, dovranno essere controllate alla luce della dottrina apostolica. Se ciò che questi dottori dicono, è in contrasto con l’insegnamento che abbiamo ricevuto, provocherà immancabilmente divisioni e scandali; poiché saranno spalleggiati da coloro che sostengono le loro opinioni. Le divisioni che ne risultano manifestano chiaramente che il loro autore insieme ai suoi complici, malgrado tutto lo zelo che mostrano, servono in realtà i propri interessi («il proprio ventre») e non quelli del Signore. I figli di Dio devono allontanarsi da tali persone, quand’anche i seduttori e i loro seguaci avessero avuto il loro posto in mezzo ai credenti, come sembra che tale fosse stato il caso di Roma. Il settarismo è iniquità, e le sette sono opere della carne (Galati 5:20). Dobbiamo allontanarci da esse e dai loro sostenitori.
Questo principio conserva tutta la sua validità — concorde con i versetti 19 a 22 di 2 Timoteo 2 — anche quando si tratta di una assemblea intera che viene trascinata su un terreno errato. Allora saranno altre assemblee — come abbiamo già visto, possibilmente vicine — che dovranno occuparsi della cosa.
Normalmente saranno dei fratelli assennati, che godono della fiducia dei fratelli e sorelle locali, ad occuparsi di questa assemblea. Se tutti gli sforzi per un ristabilimento dei fratelli e sorelle di una località vengono a fallire, se la base per poter continuare a camminare insieme non esiste più, le assemblee non possono fare altro che prendere atto della situazione e, anche se questo passo è molto doloroso, alla fine allontanarsi da loro.
Naturalmente ciò non vuol dire che quella assemblea sia esclusa. A motivo della presenza del Signore in mezzo a loro, le assemblee locali hanno l’autorità di legare e sciogliere individui (Matteo 18:18-20), che fanno parte del loro ambito locale. È evidente che il Signore in Matteo 18 parla di una assemblea in un certo luogo. Le assemblee locali però non possono né ammettere, né escludere un’altra assemblea. Non hanno nessuna autorità per farlo.Quando si verificano tali evoluzioni deplorevoli, che fratelli e sorelle di un’assemblea locale abbandonano ciò che essi stessi avevano un tempo professato, allora non vengono «messi fuori comunione» da qualcuno, ma si sono messi loro stessi fuori comunione. Hanno effettivamente abbandonato di propria iniziativa il terreno comune che avevano fino ad ora riconosciuto e ritenuto valido. Dunque i protagonisti di una separazione non sono coloro che mantengono fermamente i principi delle Sacre Scritture, ma bensì coloro che li abbandonano.
Al fine di rendere la cosa più comprensibile, è forse utile considerare il caso contrario, il caso positivo, che fortunatamente si è già verificato più volte. Supponiamo che, tramite il lavoro di alcuni missionari in un paese lontano, un certo numero di persone abbiamo creduto nel Signore Gesù. Prima o poi, avranno il desiderio di rompere il pane. Se rispondono alle condizioni essenziali, chi potrebbe rifiutare loro la comunione alla Tavola del Signore? Ma cosa bisogna fare adesso per evitare la formazione di un gruppo indipendente?
Dei fratelli di fiducia dovranno venire da vicino o da lontano, per unirsi a loro come rappresentanti delle assemblee delle loro località A questo punto, non sono questi fratelli che hanno «eretto la Tavola del Signore». È il Signore stesso che lo fa. E non si tratta neppure di «ammissione» di quel gruppo di credenti. Né fratelli, né assemblee locali possono ammettere altre assemblee. Però assemblee locali possono riconoscere uno o più gruppi di credenti come trovandosi sullo stesso terreno scritturale. Anche questo avviene, come già detto, tramite alcuni fratelli, ma non senza l’esercizio della coscienza delle assemblee locali, come abbiamo già visto. Nei capitoli 8 e 11 degli Atti, troviamo dei belli esempi di questo modo di procedere.
6. Come lo Spirito Santo agisce — nessuna democrazia
Sulla base di alcuni passi della Scrittura, vedremo in qual modo Dio desidera che la Sua volontà venga realizzata nella Sua assemblea; e ciò per contrastare la tendenza, che si sta propagando nei nostri tempi, di voler fare dell’assemblea uno strumento sempre più democratico, parlamentare. Questa volontà dev’essere messa in evidenza, per la salvaguardia del gregge, per mezzo di uomini da Lui abilitati, sotto la guida e nella potenza dello Spirito Santo. Questo però non ha nulla a che fare con il dominare, come è detto in 1 Pietro 5:3. Si tratta del mantenimento dei diritti di Dio di fronte al male; potremmo anche definirlo come «amministrazione dell’assemblea».
I versetti che considereremo dimostrano chiaramente due cose diverse: in primo luogo che una tale amministrazione o guida esiste: e in secondo luogo che non tutti i credenti hanno ricevuto la mansione di esercitare una tale funzione.
Dio ha dato al Suo gregge dei «vescovi» (sorveglianti) perché, in vista dei pericoli che lo minacciavano sia di dentro che di fuori, badassero a lui e provvedessero a pascerlo (Atti 20:28-30). Il compito benedetto, ma non facile, dei vescovi è di aver cura della chiesa di Dio (1 Timoteo 3:5).
Pietro parla degli «anziani» in un senso più generale e pensa semplicemente a dei fratelli maturi di una certa età, in contrasto con dei più giovani (1 Pietro 5:1-5). Sono loro che hanno l’incarico di pascere il gregge di Dio e di sorvegliarlo. I giovani invece devono essere sottomessi agli anziani.
Fra molti altri doni che Dio ha fatto alla Sua chiesa, in 1 Corinzi 12:28, troviamo pure i «doni di governo» (o di guida, di direzione, di amministrazione).
Nella descrizione dei diversi doni di grazia in Romani 12:8, è parlato anche di «chi presiede», e viene esortato a farlo con diligenza.
In 1 Tessalonicesi 5:12 vengono nominati coloro che sono «preposti nel Signore» ai santi e che li «istruiscono». Costoro dovevano essere stimati e amati. Anche in 1 Timoteo 5:17 è parlato di anziani «che tengono bene la presidenza» — della chiesa, naturalmente. Una premessa fondamentale per chi aspira all’incarico di vescovo, è quella di saper governare bene la propria famiglia (1 Timoteo 3:4-5). Due sfere diverse — lo stesso modo di procedere.
Già all’inizio c’erano nell’assemblea degli «uomini autorevoli tra i fratelli» (Atti 15:22), e di coloro che erano «reputati colonne» (Galati 2:9). La caratteristica dei conduttori, secondo Ebrei 13:7 è che «annunzino la parola di Dio»; più tardi segue poi l’esortazione: «Ubbidite ai vostri conduttori e sottomettetevi a loro, perché essi vegliano per la vostra vita come chi deve renderne conto» (versetto 17).
Rendere attenti a questi rapporti, non significa assolutamente voler appoggiare il clericalismo. Questo sarebbe altrettanto riprovevole quanto la ribellione contro l’autorità stabilita da Dio. Non dobbiamo neppure pensare che gli «anziani» possano agire indipendentemente dai fratelli o dall’assemblea, e tanto meno contro di essa. Essi agiscono per lei, come suoi sostituti.
È anche ciò che troviamo in passi come Romani 16:17; 1 Tessalonicesi 5:14 e 2 Tessalonicesi 3:6-15 dove di volta in volta, «i fratelli» vengono esortati a fare una determinata cosa. Naturalmente, l’espressione «i fratelli» è sinonimo di tutta l’assemblea: tutti, fratelli e sorelle devono agire in quel modo. Ma è altre si evidente che non ogni individuo possiede la condizione spirituale necessaria per poter esercitare il servizio richiesto in ogni caso particolare. I «semplici» in Romani 16 non sono all’altezza di poter tenere d’occhio gli altri né i loro insegnamenti. Lo Spirito Santo saprà mobilitare gli strumenti adatti per questo, e l’assemblea intera sarà sottomessa a Lui e a quanto dice. Così almeno è il caso normale. C’è forse qualcuno che creda sul serio che «ammonire i disordinati» sia il compito che tocca ad ogni credente, sia pure giovane e privo d’esperienza? Qui ancora sarà lo Spirito Santo che si servirà, per questo compito difficile, di strumenti adatti che posseggono il peso morale necessario. Però tutti, fratelli e sorelle, si associeranno a questo servizio e così potranno, in questo senso, tutti ottemperare all’esortazione ricevuta. Il procedimento non sarà diverso quando si tratta di «notare» qualcuno che si comporta disordinatamente (2 Tessalonicesi 3).
7. Nessuna indipendenza
Un passo interessante in Deuteronomio 17, sottolinea quanto detto. Quando in Israele capitava una controversia fra due parti, che era «troppo difficile» da giudicare, allora i contendenti dovevano salire al luogo che il Signore aveva scelto. «Andrai dai sacerdoti levitici e dal giudice in carica a quel tempo; li consulterai ed essi ti faranno conoscere ciò che dice il diritto; tu ti conformerai a quello che essi ti dichiareranno nel luogo che il Signore avrà scelto, e avrai cura di fare tutto quello che ti avranno prescritto. Ti conformerai alla legge che essi ti avranno insegnata e alle sentenze che avranno pronunziate; non devierai da quello che ti avranno insegnato, né a destra né a sinistra. L’uomo che avrà la presunzione di non dare ascolto al sacerdote che sta là per servire il Signore, il tuo Dio, o al giudice, quell’uomo morirà; così toglierai via il male da Israele» (versetti 9-12). Questo insegnamento ci fa vedere due cose: Qui ancora erano i sacerdoti, i leviti, il giudice che emettevano la sentenza — un giudizio che corrispondeva al pensiero di Dio. E tutti dovevano conformarsi a questa sentenza. Dio non tollerava nessuna indipendenza in Israele.
Anche il Nuovo Testamento non riconosce l’indipendenza delle assemblee locali fra di loro. L’esempio di Atti 15 lo dimostra molto chiaramente. Anche se questo avvenimento non lo si può più riprodurre come tale nei nostri giorni, i principi però perdurano. Cosa impariamo dunque da questo notevole capitolo? Che Dio non permette nessuna indipendenza tra le assemblee. La questione era di sapere se i credenti delle nazioni dovevano essere circoncisi e osservare la legge di Mosè (versetti 1 e 5). Sebbene in Antiochia, dove la questione fu sollevata, ci fosse un’assemblea sana e benché l’apostolo Paolo e Barnaba, in quel tempo, soggiornassero anche lì, Dio non permise che la questione fosse risolta da loro. Dovettero salire a Gerusalemme, ed è là che la cosa fu decisa. In questo modo fu mantenuta l’unità, ed evitata una rottura in due blocchi diversi, l’uno a carattere giudaico, l’altro a carattere greco.
L’unità pratica fra i credenti dei primi tempi viene sottolineata dal fatto che in seguito Paolo e Barnaba, passando da una città all’altra, dove c’erano delle assemblee, «trasmisero ai fratelli, le decisioni prese dagli apostoli e dagli anziani che erano a Gerusalemme» (Atti 16:4). Le cose erano allora così semplici che quelle decisioni furono volentieri accettate! Non c’è quindi da stupirsi se nel versetto che segue troviamo che: «Le chiese dunque si fortificavano nella fede e crescevano ogni giorno di numero».
E come vediamo le cose nei nostri giorni? Certo, oggi non abbiamo più gli apostoli, e non si possono più prendere decisioni del genere. Ma abbiamo il Signore: Lui è in mezzo ai due o tre radunati nel Suo Nome. Quanto è penoso oggi dover vedere come sovente si contrappone il proprio giudizio ai giudizi delle assemblee. Questo non è altro che indipendenza. Il risultato sarà per certo una rovina più grande. È lì che lo spirito d’indipendenza conduce immancabilmente.
8. Argomenti
È inutile argomentare che le membra del Corpo dipendono unicamente dal capo, da Cristo. Questa è solo una parte della verità. Dio ha anche reso le membra del Corpo di Cristo dipendenti le une dalle altre. Leggiamo pure il capitolo 12 della 1a epistola ai Corinzi: «L’occhio non può dire alla mano: Non ho bisogno di te» (versetto 21). Le singole membra avevano bisogno le une delle altre, come pure le singole assemblee. Erano unite insieme, formavano insieme il Corpo unico di Cristo. Ci poteva e ci può forse essere in questo divino organismo una qualsiasi indipendenza?
Oltre a ciò, l’assemblea è anche la Casa di Dio, la colonna e il sostegno della verità (1 Timoteo 3:15). In ogni «stanza», in ogni ambito di questa casa regna lo stesso «regolamento» di Dio. E quando tramite il Suo intervento, diverse assemblee giungono ad un determinato giudizio nei confronti di una certa cosa, non è forse conforme al Suo regolamento, che tutte le assemblee riconoscano questo giudizio? Il fatto che certe lettere provenienti da alcune assemblee non vengono tenute in conto o vengono addirittura nascoste all’assemblea locale, rappresenta una dolorosa violazione di questo regolamento. Questo modo di agire non corrisponde forse a quello di Diotrefe, anche se nel suo caso si trattava di un rifiuto dell’autorità apostolica (3 Giovanni 9)?
Oggi si mette sovente in avanti l’argomento che il giudizio di qualche fratello e di alcune assemblee può essere errato. Infatti questo è possibile, benché normalmente si tratti di un caso eccezionale, che non bisognerebbe citare continuamente — forse per poter ignorare giudizi che non ci garbano. La Parola di Dio parte sempre dal caso normale (vedi i diversi passi citati più sopra), e noi dovremmo fare lo stesso; vale a dire riconoscere che il giudizio di coloro che si sono occupati della cosa, corrisponde al pensiero di Dio, ed è stato prodotto dal Suo Spirito. Il fatto di mettere continuamente in dubbio certi giudizi, tradisce uno spirito d’indipendenza e d’orgoglio. Se effettivamente un giudizio si avverasse essere errato, dovrà essere riesaminato.
Contro il pensiero di doversi allontanare da una assemblea viene anche detto che il Signore non ingiunge ai fedeli di Sardi di abbandonare l’assemblea, anzi considera Sardi ancora come una assemblea. A questo punto c’è da dire che nelle sette lettere la questione della disciplina dell’assemblea non viene per niente presa in considerazione, poiché il Signore stesso — come Colui che cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro — giudica il loro stato e agisce di conseguenza verso le assemblee. Per di più, dal punto di vista storico, il male allora esisteva solo in germe, all’inizio, ma il Signore parlava in quei termini perché conosceva anticipatamente il suo pieno sviluppo. Dal punto di vista profetico abbiamo qui una figura dei diversi stadi o epoche della chiesa, della cristianità, ed è quindi manifesto che non dobbiamo né possiamo uscire dalla cristianità. Quando però ci viene presentato un sistema religioso malvagio, come «Babilonia», allora udiamo anche nell’Apocalisse l’ordine concreto del Signore: «Uscite da essa, o popolo mio».
Che il Signore ci aiuti a salvaguardare i Suoi diritti, in un tempo in cui molti fanno ciò che pare loro meglio! Che ci dia anche un discernimento adeguato per capire quanto Lo abbiamo disonorato! E non dimentichiamo la santità di Colui che è in mezzo a noi! Al grande privilegio della Sua presenza, è collegata una solenne responsabilità.
La nostra benedizione riposa, in ogni tempo, in un cammino che tenga costantemente conto della nostra dipendenza dal Capo, e l’uno dall’altro! Dipendenza e obbedienza sono principi morali che vengono da Dio e conducono all’ordine e alla pace. Indipendenza e disubbidienza sono invece dei principi ispirati dal Diavolo, e sono distruttivi e nefasti.

 

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Cristo è risorto

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Publié dans:immagini sacre |on 8 mai, 2017 |Pas de commentaires »

L’AMORE, FRUTTO DELLO SPIRITO, è FONTE DI PACE

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L’AMORE, FRUTTO DELLO SPIRITO, è FONTE DI PACE

Com’è difficile parlare oggi di pace! Sembra un bene lontano, desiderato, sperato, ma non posseduto. E il motivo è semplice: ci sentiamo incapaci di costruire la pace. Tutti invocano la pace, anche coloro che non sanno a chi rivolgere questa preghiera. Mai come oggi si sente che la pace è un dono, e noi credenti, abituati al linguaggio biblico, sappiamo che la pace è un dono del Dio della pace. Per noi cristiani è un raggio di quell’amore, frutto dello Spirito Santo che è stato effuso da Dio nei nostri cuori (vedi Gal 5,22; Rm 5,5). È il dono che Gesù vuole farci, quando dice: “Vi lascio la pace, vi dò la mia pace” (Gv 14,27).
Quella di Dio è una pace diversa
La parola “pace” ha una lunga storia. Si suole dire che c’è pace quando non c’è guerra, e tra le persone che c’è pace quando non c’è discordia. Dopo le guerre, quando si riprende un’apparente situazione di pace, lo si fa mediante un trattato. Comunque la parola “pace” mantiene tante volte un senso assai ambiguo. Il libro della Sapienza, nella sua lunga descrizione dell’idolatria con tutte le sue conseguenze di immoralità, dice degli uomini: “Non bastò loro sbagliare nella conoscenza di Dio; essi, pur vivendo in una grande guerra d’ignoranza, danno a sí grandi mali il nome di pace” (14,22). Ambigua era pure la celebre “pace romana” dei tempi di Augusto, tanto da dire che alla nascita di Gesù “tutto il mondo era in pace”. Lo era perché le potenti legioni romane sapevano dominare: era una pace imposta, subìta, come lo dimostrano, in Palestina, la guerriglia degli zeloti e, in Germania, la disfatta delle legioni di Augusto a Teutoburgo, e ai nostri tempi le dittature, che sì mantengono una specie di pace, ma senza rispetto delle persone. È solo il meglio del peggio.
Chi legge la Bibbia si accorge quante volte l’uomo ha sperimentato l’incapacità di giungere con le sue sole forze alla vera pace: il peccato gliela rubava in continuità. Comunque una nostalgia di pace si incideva in modo sempre più profondo in lui e, a poco a poco, riusciva sempre meglio a capire che solo Dio poteva procurargli la pace in modo stabile. A questo lo conduceva la parola di Dio: “Agli afflitti io pongo sulle labbra: Pace, pace ai lontani e ai vicini, dice il Signore, io li guarirò” (Is 57,19). La pace è il bene messianico per eccellenza. Il Messia viene infatti chiamato da Isaia “il Principe della pace” (Is 9,5) e, nello stesso periodo di Isaia, il profeta Michea parla della sicurezza che regnerà ai tempi del Re-Messia e dice: “Tale sarà la pace” (Mi 5,4), mentre Ezechiele la definisce come “un’alleanza di pace” (34,25; 37,26), dono totale di Dio, che dice al suo popolo: “Vi purificherò. Vi darò un cuore nuovo…, uno spirito nuovo…; farò con voi un’alleanza di pace, che sarà per voi un’alleanza eterna” (36, 25-26; 37, 26). Questa pace, dono di Dio, è davvero ben diversa da una pace puramente umana. Essa nasce da una conversione totale di ogni singola persona, da una sincera accoglienza del dono di Dio, da un cuore nuovo, da uno spirito nuovo, tutti doni di Dio; essa nasce da un cuore colmo di quell’amore che Gesù ci ha insegnato. Come fondamento della pace c’è il suo comandamento: “Amatevi come io vi ho amato”.
Su questa linea si collocano quei testi paolini, anteriori alla redazione dei Vangeli, nei quali si descrive come Dio in Gesù ci dona la pace.

Come si costruisce la pace
Paolo, salutando i suoi destinatari, va sempre oltre il semplice saluto o augurio umano: “La pace sia con voi”, non annuncia una pace qualunque, ma quella pace che l’umanità, in particolare Israele, si aspettava da sempre. Dice infatti, all’inizio di tutte le sue lettere: “Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo”. E nella lettera ai Romani, dopo aver descritto l’opera purificatrice di Gesù Cristo, afferma: “Ora siamo in pace con Dio” e dice che ciò è possibile perché “l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato” (5,1.5). Paolo è così affascinato dall’opera redentrice che il Padre compie per mezzo di Cristo, che si congeda dai suoi destinatari romani dicendo: “Il Dio della pace sia con tutti voi. Amen!” (Rm 15, 33). Ma le parole più belle di Paolo le troviamo nella Lettera ai cristiani di Efeso, dove descrive lo scopo dell’opera di Cristo: “Egli è la nostra pace; egli è colui che ha fatto dei due (pagani e giudei) un popolo solo, abbattendo il muro di separazione, cioè l’inimicizia… per creare in se stesso un solo uomo nuovo, facendo la pace e per riconciliare per mezzo della croce tutti e due con Dio in un solo popolo, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani (i pagani) e pace a coloro che erano vicini (i giudei; Israele). Per questo per mezzo di lui possiamo presentarci tutti gli uni gli altri al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,14-18), cioè veramente in comunione tra noi.
“Gesù è la nostra pace… Gesù è venuto ad annunciare la pace”, non a parole, ma per mezzo della sua croce. Perché solo quando lo contempliamo innalzato in croce in atto di chiedere perdono per tutti, sentiamo che egli abbatte i muri di separazione tra gli uni e gli altri, che egli distrugge in se stesso ogni inimicizia e con il suo amore, fatto dono sino alla fine, ci riconcilia tutti con il Padre e tra noi. Gesù, riconciliando, costruisce la sua comunità. Come non c’è vero amore di Dio se manca l’amore del prossimo, se non ci si impegna a diventare “prossimo degli altri”, così non c’è vera pace se non c’è volontà di imitare fino in fondo i sentimenti del Cristo crocifisso: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù” (Fil 2,5). Il dono della pace è frutto del mutuo perdono, fonte di ogni vera riconciliazione. La vera pace è donata ai riconciliati con Dio e i fratelli. E fratello è ogni persona umana.

Fissiamo lo sguardo su Gesù
Osserviamo Gesù nel Cenacolo, la notte in cui fu tradito. Non poteva non soffrire, eppure, nel lungo dialogo che intrattiene con i suoi discepoli dopo che Giuda se ne è andato, chiede loro di amarlo, osservando i suoi comandamenti e promettendo loro lo Spirito Santo, e aggiunge: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non come il mondo la dà io la dono a voi” (14,27). Non è il solito saluto di congedo quello di Gesù. L’evangelista per esprimere bene la coscienza che Gesù aveva di sé, l’esperienza di amore che egli stava vivendo in quel momento, ha coniato una formula di saluto nuova. Egli contempla Gesù come un patriarca che prima di lasciarli dona loro in eredità quello che possiede: la pace. Egli sa che la morte si avvicina e dà senso alla sua morte rendendola fonte di riconciliazione e di pace. Questo dice che Gesù uomo nella sua passione è sempre in comunione con il Padre ed è guidato dallo Spirito, questa è la comunione gli che infonde serenità e pace.
Sì, è vero che sulla croce griderà: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”. La morte è l’anti-Dio; di fronte alla morte che si avvicina è difficile sentire il Dio della vita, ma l’espressione “Dio mio, Dio mio” ci fa capire che egli, anche in quel momento, è in stretta comunione con il Padre; sa che il Padre gli è accanto. Aveva detto ai suoi nel Cenacolo: “Il Padre non mi lascerà solo” (Gv 16,32). Anche sulla croce, sa di essere uno con il Padre.
Nel Cenacolo, dopo aver donato la sua pace, guarda l’imminente futuro dei discepoli. Sa che per loro i giorni della sua passione saranno colmi di tristezza. Perciò dice loro: “Non si turbi il vostro cuore, né si sgomenti” e, alla conclusione del lungo e intimo dialogo che ha con loro, dirà: “Vi ho detto tutte queste cose, perché uniti a me abbiate pace” (Gv 16,33). È chiaro che la pace nasce dalla comunione con lui e potrà farsi piena solo in comunione con lui e i fratelli. Quando non si vive da riconciliati, non si è in pace né con il Padre, né con Gesù perché secondo Paolo “solo per mezzo di lui (cioè accogliendo in noi la sua pace) possiamo presentarci gli uni gli altri al Padre in un solo Spirito”. È il dono dello Spirito che ci rende una cosa sola tra noi e con Dio-Padre, Dio-Figlio, Dio-Spirito Santo. Non chiediamo forse nella celebrazione eucaristica che lo Spirito Santo ci renda “un solo corpo, un solo spirito”?

A confronto con il Padre e Gesù
Nella notte di Natale è stata donata la pace a tutti. Gli angeli infatti hanno cantato: “Pace sulla terra agli uomini che Dio ama” (Lc 2,14). Questo annuncio dice che Dio ama tutti e, proclamando il dono messianico per eccellenza, afferma qual è la missione di Gesù: portare la pace. Ma gli uomini l’hanno accolta? Un giorno Gesù, immagino con tanta tristezza, disse: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, ma la divisione” (Lc 12,51). Si accorge di essere nella storia un “segno di contraddizione” (Lc 2,34). E da quanto dice ai discepoli nel Cenacolo, sa che questa contraddizione continuerà per mezzo loro nella storia. Comunque il rifiuto degli altri non li priverà della “sua pace”. Dice infatti: “In qualunque casa entriate, dite: «Pace a questa casa». Se in essa vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà a voi” (Lc 10,5). Come Gesù nella sofferenza non perde la sua pace, neppure i suoi discepoli nella loro missione, la perderanno. La sofferenza apostolica che può anche comportare il martirio (morte subìta non cercata),1 può coesistere con la pace del cuore. La comunione con Gesù è sempre fonte di pace e di serenità. Nessuna sofferenza ce la può togliere. Nessuna sofferenza, dice Paolo, neppure la morte (= martirio) “ci può separare dall’amore di Cristo” o “dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,31-39).
Non possiamo vivere la beatitudine dei “Beati i portatori di pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9), se non facciamo opera di riconciliazione a costo di qualsiasi sofferenza. La vita cristiana è lasciar vivere Gesù in noi e, Gesù, il Figlio, ha portato a compimento la sua opera di riconciliazione per mezzo della sua Croce. Per essere davvero chiamati “Figli di Dio”, dobbiamo imitarlo. Altrimenti come esprimiamo nella vita la nostra dignità di figli?

Preghiamo
“Vieni, Signore, a visitarci nella pace, la tua presenza ci riempia di gioia”. Così ti ha invocato il popolo d’Israele e noi facciamo nostra questa preghiera aggiungendo: “Compi in noi tutte le tue promesse di pace”. E tu, o Padre, hai iniziato a compiere in noi le tue promesse quando nel tuo immenso amore hai inviato a noi il Figlio tuo Gesù come Salvatore e le hai compiute perfettamente quando per mezzo della sua croce ci hai riconciliati con te e tra di noi.
Gesù, tuo Figlio, ha portato a termine la sua opera di pace riconciliando tutti tra di loro e con te, Padre. La tua pace, infatti, non esiste senza una riconciliazione comunitaria aperta a ogni persona, di qualunque razza o lingua. I tuoi discepoli prima di iniziare la celebrazione eucaristica, vero banchetto di comunione, sentono il bisogno di riconciliarsi tra loro e con te, abbattendo ogni muro di separazione. Con questo noi vogliamo impegnarci nel vivere la beatitudine degli “operatori di pace”. Ma sappiamo anche, o Padre, che non ce la faremo mai da soli. Per questo, quando ci riuniamo noi ti invochiamo: “Guarda con amore, o Padre, questa tua famiglia e donale la pienezza dello Spirito Santo perché diventi un solo popolo e un solo Spirito”. Solo così, con la forza dello Spirito che ci doni in ogni Eucaristia, riusciremo a imitare tuo Figlio e a essere chiamati figli tuoi. Grazie, o Padre, per averci chiamati a te per vivere nel Figlio, per mezzo dello Spirito, ciò che il mondo più desidera: la Pace. Amen!

Mario Galizzi SDB

1 Questo è veramente importante in un tempo in cui si parla dei kamikaze musulmani chiamandoli “martiri”. Questi cercano la morte e cercano, morendo, di travolgere più gente possibile nella loro morte. I cristiani, imitando Gesù, non cercano la morte ma quando, perseguitati, debbono subirla, anche allora cercano la vita per sé e per i loro nemici. Come Gesù sanno morire perdonando e chiedendo perdono per chi li fa soffrire, perché anch’essi abbiano la vita.

 

Il Buon Pastore

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Publié dans:immagini sacre |on 6 mai, 2017 |Pas de commentaires »

7 MAGGIO 2017 | 4A DOMENICA DI PASQUA – A | OMELIA

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7 MAGGIO 2017 | 4A DOMENICA DI PASQUA – A | OMELIA

Io sono il Buon Pastore

Per cominciare
Oggi, domenica del Buon Pastore, è la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni sacerdotali. Il sacerdozio è un grande dono di Gesù. Cristo Risorto si è mostrato visibilmente, ma ha poi inviato i suoi apostoli, e ha dato loro pieni poteri: « Come il Padre ha mandato me, così io mando voi ». Ha fatto di ogni prete un altro se stesso, ha detto a loro di continuare la sua opera di evangelizzazione.

La parola di Dio
Atti 2,14a.36-41.
Il giorno di Pentecoste Pietro incomincia a fare « il pescatore di uomini ». È come sempre un uomo pronto ed entusiasta, ma adesso si mette con il suo temperamento a servizio della predicazione e della testimonianza del nome di Gesù.
1 Pietro 2,20b-25.
Pietro parla ormai ai cristiani della chiesa costituita, li invita a imitare Cristo, ad accoglierlo come Pastore. È l’inizio del suo magistero, del suo ministero. « Eravate erranti come pecore senza pastore… », ora siete una comunità.
Giovanni 10,1-10.
Gesù usa la metafora del buon pastore e parla di un rapporto vivo, efficacissimo tra il pastore e le sue pecore. Parole che indicano il desiderio di avere con ciascuno di noi un’amicizia personale e intima.

Riflettere
Il brano degli Atti degli apostoli presenta il secondo dei numerosi discorsi che Luca inserisce nelle vicende della chiesa delle origini, che sono destinati a spiegare a chi legge ciò che sta avvenendo.
Pietro il giorno di Pentecoste spiega a chi li prende per ubriachi il senso di ciò che è avvenuto, il vento impetuoso, il fragore, le lingue di fuoco e il parlare in lingue. Dimostrando di conoscere bene le scritture, cita alcuni passaggi dell’antico testamento che sarebbero inspiegabili, senza la risurrezione di Gesù.
Investito dallo Spirito, accusa poi gli ebrei di aver crocifisso Gesù. Alle sue parole la gente si sente trafiggere il cuore, si apre al pentimento e riceve il battesimo. Sono migliaia, il primo nucleo del nuovo Israele.
Il vangelo di Giovanni ci presenta un Gesù inesauribile nel dichiarare il rapporto di amore e di alleanza che vuole avere con ciascuno di noi: qui si paragona al pastore, che a quel tempo aveva un legame strettissimo con le sue pecore. Il pastore conosce e ama le sue pecore a una a una, cammina con loro. Ed esse riconoscono la sua voce, lo seguono, si fidano di lui.
« Io sono la porta delle pecore », dice Gesù. E fa riferimento alla porta che si trova nel lato nord-est del muro, non lontano dal tempio di Gerusalemme. È davanti al tempio e a quella che era chiamata la « Porta delle Pecore », presso l’attuale Piscina Probatica o « delle pecore » che Gesù, ha detto con solennità: « Io sono il buon pastore… Io sono la porta delle pecore ».
Gesù si presenta in questo modo nella figura del vero pastore del popolo di Dio. Gesù, come Iahvè (ricordiamo il celebre Salmo 23: « Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome…). Ma qui Gesù si definisce in qualche modo anche « la porta del tempio », cioè la porta che conduce al luogo che rappresenta il cuore della religiosità degli ebrei.
Gesù si contrappone ai farisei. Essi cacciano dalla sinagoga quelli che credono in Gesù (cf « il cieco nato »). Egli afferma al contrario in modo assoluto (« Io sono ») che lui è autorizzato a essere la porta che conduce alla salvezza: « Se uno entra attraverso me sarà salvo ».
Essi invece non amano le pecore, non le conoscono, non le liberano, non sono al loro servizio, ma impongono su di loro pesi smisurati. Ma le pecore non ascoltano questi falsi pastori, non li seguono.
« Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza ». Attraverso la « Porta delle Pecore » entravano le pecore che venivano sacrificate nel tempio. Ma Gesù non solo non uccide le sue pecore, ma dà la vita per loro.
Attenzione ai verbi che vengono usati da Giovanni in questo brano: « entrare », « ascoltare », « condurre », « seguire », « conoscere »: tutti richiamano un rapporto speciale del pastore con le pecore, e, fuori metafora, del cristiano con Gesù.

Attualizzare
La prima considerazione e la prima domanda che dobbiamo farci quest’oggi è questa: piaccia o non piaccia, ognuno di noi segue dei modelli e si lascia influenzare nelle sue scelte da qualcuno, da qualcosa. Chi influisce di più nei nostri orientamenti di vita? È Cristo il nostro riferimento, il nostro pastore?
« Io sono la porta », dice di sé Gesù. Legando questa immagine meno consueta a quella del buon pastore. « Porta » indica libertà, possibilità di fuga e di ritorno; indica anche passaggio, dialogo, comunicazione.
In questo ultimo senso, è un’immagine dai significati attualissimi. Perché la nostra è l’epoca dei cellulari e della comunicazione (« Ovunque c’è un occhio. Ovunque c’è un obiettivo », scrive Milan Kundera, sottolineando anche i rischi degli eccessi e dell’invadenza), ma è anche l’epoca delle divisioni nette, delle incomprensioni, dell’innalzamento di nuovi muri, soprattutto simbolici. Bella invece l’immagine della porta, perché dice « lasciar passare », superare barriere, accogliere.
Questa è la domenica mondiale dedicata alla preghiera per le vocazioni. Secolarizzazione, edonismo, riduzione delle nascite, indisponibilità ad assumere impegni a lungo termine… sono alcune delle cause dell’attuale crisi delle vocazioni. « Mancano atteggiamenti di fondo in grado di dar vita a un’autentica cultura vocazionale » (Giovanni Paolo II).
In realtà ogni vita è vocazione e il primo « sì » a Dio lo diciamo accogliendo la vita, rispondendo alla chiamata di accettarci e di realizzarci secondo i piani che Dio ha sulla nostra vita.
Oggi ci sono tante forme di rifiuto della vita. E c’è anche chi è incapace di dire « grazie » per il dono della vita.
In questo clima è normale che non ci si senta di assumere impegni duraturi e impegnativi, sia di tipo matrimoniale che a servizio diretto della chiesa.
Ma la mancanza di vocazioni sacerdotali è un problema serissimo per le comunità cristiane. « Lasciate una parrocchia vent’anni senza prete e vedrete che si adoreranno le bestie », pare abbia detto il santo Curato d’Ars con un assoluto e tragico realismo, di cui tutti dovremmo farci carico.
Sono i sacerdoti a garantire l’eucaristia e la riconciliazione, che costruiscono la vita dei credenti e della comunità cristiana.

Il vero pastore nel sogno di Giovanni Paolo II
« Degli otto viaggi di Giovanni Paolo II in Africa, ricordo soprattutto il racconto di un sogno », ricordava il giornalista di Avvenire Silvano Stracca. Lo aveva narrato a Kaduna, in Nigeria, parlando in cattedrale ai catechisti. Era il febbraio del 1982 ed erano trascorsi solo nove mesi dai tre colpi di Alì Agca in piazza San Pietro, il 13 maggio di un anno prima. « Ieri », aveva raccontato il Papa, « ho sognato di trovarmi a colloquio con san Pietro, il quale mi chiese che cosa stavo facendo. Risposi: mi trovo in Nigeria. E san Pietro: non ci credo. Ho incontrato i giovani di Onitsha. E san Pietro: non ci credo. Sì che è vero, insisto io; e stamattina ho perfino ordinato cento preti a Kaduna e domani andrò a parlare all’università di Ibadan; e poi mi stanno aspettando nel Benin, nel Gabon e nella Guinea Equatoriale. Ma san Pietro non si convinse ancora. Allora gli mostrai la mia veste bianca dicendo: « Guarda com’è rossa della polvere per la strada che ho percorso ». Solo allora », concluse il Papa, « san Pietro mi ha creduto ». Vi riconosceranno che siete miei discepoli dalla polvere che sporca i vostri vestiti, ripeterebbe Gesù oggi.

Festa della mamma
C’è una donna che ha qualcosa di Dio per l’immensità del suo amore e molto di un angelo per l’instancabile sollecitudine verso i suoi cari.
Una donna che, da giovane, ha la saggezza di un’anziana e, nella vecchiaia, lavora con il vigore della gioventù.
Una donna che se è povera, è soddisfatta dalla felicità di coloro che ama; se è ricca darebbe volentieri tutto il suo tesoro per non subire la ferita dell’ingratitudine.
Una donna che pur essendo vigorosa, trema al pianto di un bambino e, pur essendo debole, ha il coraggio di un leone.
Questa donna è la mamma

Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

Papa Francesco in Egitto

PAPAL VISIT EGYPT

Publié dans:immagini sacre |on 4 mai, 2017 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO -VIAGGIO APOSTOLICO IN EGITTO

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2017/documents/papa-francesco_20170503_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO -VIAGGIO APOSTOLICO IN EGITTO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 3 maggio 2017

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi desidero parlarvi del Viaggio apostolico che, con l’aiuto di Dio, ho compiuto nei giorni scorsi in Egitto. Mi sono recato in quel Paese in seguito a un quadruplice invito: del Presidente della Repubblica, di Sua Santità il Patriarca Copto ortodosso, del Grande Imam di Al-Azhar e del Patriarca Copto cattolico. Ringrazio ciascuno di loro per l’accoglienza che mi hanno riservato, veramente calorosa. E ringrazio l’intero popolo egiziano per la partecipazione e l’affetto con cui ha vissuto questa visita del Successore di San Pietro.
Il Presidente e le Autorità civili hanno posto un impegno straordinario perché questo evento potesse svolgersi nel migliore dei modi; perché potesse essere un segno di pace, un segno di pace per l’Egitto e per tutta quella regione, che purtroppo soffre per i conflitti e il terrorismo. Infatti il motto del Viaggio era “Il Papa della pace in un Egitto di pace”.
La mia visita all’Università Al-Azhar, la più antica università islamica e massima istituzione accademica dell’Islam sunnita, ha avuto un doppio orizzonte: quello del dialogo tra i cristiani e i musulmani e, al tempo stesso, quello della promozione della pace nel mondo. Ad Al-Azhar è avvenuto l’incontro con il Grande Imam, incontro che si è poi allargato alla Conferenza Internazionale per la Pace. In tale contesto ho offerto una riflessione che ha valorizzato la storia dell’Egitto come terra di civiltà e terra di alleanze. Per tutta l’umanità l’Egitto è sinonimo di antica civiltà, di tesori d’arte e di conoscenza; e questo ci ricorda che la pace si costruisce mediante l’educazione, la formazione della sapienza, di un umanesimo che comprende come parte integrante la dimensione religiosa, il rapporto con Dio, come ha ricordato il Grande Imam nel suo discorso. La pace si costruisce anche ripartendo dall’alleanza tra Dio e l’uomo, fondamento dell’alleanza tra tutti gli uomini, basata sul Decalogo scritto sulle tavole di pietra del Sinai, ma molto più profondamente nel cuore di ogni uomo di ogni tempo e luogo, legge che si riassume nei due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo.
Questo medesimo fondamento sta anche alla base della costruzione dell’ordine sociale e civile, in cui sono chiamati a collaborare tutti i cittadini, di ogni origine, cultura e religione. Tale visione di sana laicità è emersa nello scambio di discorsi con il Presidente della Repubblica dell’Egitto, alla presenza delle autorità del Paese e del Corpo diplomatico. Il grande patrimonio storico e religioso dell’Egitto e il suo ruolo nella regione mediorientale gli conferiscono un compito peculiare nel cammino verso una pace stabile e duratura, che poggi non sul diritto della forza, ma sulla forza del diritto.
I cristiani, in Egitto come in ogni nazione della terra, sono chiamati ad essere lievito di fraternità. E questo è possibile se vivono in sé stessi la comunione in Cristo. Un forte segno di comunione, grazie a Dio, abbiamo potuto darlo insieme con il mio caro fratello Papa Tawadros II, Patriarca dei Copti ortodossi. Abbiamo rinnovato l’impegno, anche firmando una Dichiarazione Comune, di camminare insieme e di impegnarci per non ripetere il Battesimo amministrato nelle rispettive Chiese. Insieme abbiamo pregato per i martiri dei recenti attentati che hanno colpito tragicamente quella venerabile Chiesa; e il loro sangue ha fecondato quell’incontro ecumenico, a cui ha partecipato anche il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo: il Patriarca ecumenico, mio caro fratello.
Il secondo giorno del viaggio è stato dedicato ai fedeli cattolici. La Santa Messa celebrata nello Stadio messo a disposizione dalle autorità egiziane è stata una festa di fede e di fraternità, in cui abbiamo sentito la presenza viva del Signore Risorto. Commentando il Vangelo, ho esortato la piccola comunità cattolica in Egitto a rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus: a trovare sempre in Cristo, Parola e Pane di vita, la gioia della fede, l’ardore della speranza e la forza di testimoniare nell’amore che “abbiamo incontrato il Signore!”.
E l’ultimo momento l’ho vissuto insieme con i sacerdoti, i religiosi e le religiose e i seminaristi, nel Seminario Maggiore. Ci sono tanti seminaristi: questa è una consolazione! E’ stata una liturgia della Parola, in cui sono state rinnovate le promesse di vita consacrata. In questa comunità di uomini e donne che hanno scelto di donare la vita a Cristo per il Regno di Dio, ho visto la bellezza della Chiesa in Egitto, e ho pregato per tutti i cristiani nel Medio Oriente, perché, guidati dai loro pastori e accompagnati dai consacrati, siano sale e luce in quelle terre, in mezzo a quei popoli. L’Egitto, per noi, è stato segno di speranza, di rifugio, di aiuto. Quando quella parte del mondo era affamata, Giacobbe, con i suoi figli, se n’è andato là; poi, quando Gesù è stato perseguitato, è andato là. Per questo, raccontarvi questo viaggio significa percorrere il cammino della speranza: per noi l’Egitto è quel segno di speranza sia per la storia sia per l’oggi, di questa fraternità che ho voluto raccontarvi.
Ringrazio nuovamente coloro che hanno reso possibile questo Viaggio e quanti in diversi modi hanno dato il loro contributo, specialmente tante persone che hanno offerto le loro preghiere e le loro sofferenze. La Santa Famiglia di Nazaret, che emigrò sulle rive del Nilo per scampare alla violenza di Erode, benedica e protegga sempre il popolo egiziano e lo guidi sulla via della prosperità, della fraternità e della pace.

Grazie!

Santi Filippo e Giacomo

PENS e it - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 3 mai, 2017 |Pas de commentaires »

SS. FILIPPO E GIACOMO, APOSTOLI E MARTIRI (FESTA) – 3 MAGGIO

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SS. FILIPPO E GIACOMO, APOSTOLI E MARTIRI (FESTA) – 3 MAGGIO

Santi Filippo e Giacomo
Apostoli e martiri

Gli apostoli Filippo e Giacomo “Minore” sono festeggiati lo stesso giorno perché le loro reliquie furono deposte insieme nella Chiesa dei Dodici Apostoli a Roma.

Filippo è conosciuto principalmente attraverso i Vangeli e gli Atti degli Apostoli (cfr. Gv 1,43-48 – Gv 6,5-7 – Gv 12,21-22 – Gv 14,8-31 – At 8,5-40).
Filippo, come Pietro e Andrea, era originario di Bethsaida, sulle sponde del lago di Tiberiade; fu tra i primi a seguire Gesù quando questi passò dal suo paese. Gesù disse una parola “Seguimi”. Filippo lo seguì portandosi dietro anche Natanaele al quale egli aveva detto: « Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret ». (cfr. Gv 1,43-48).
Più tardi, Filippo fu testimone dei miracoli del Maestro, come quello della moltiplicazione dei pani, quando, sulla montagna, Gesù venne circondato da una folla tale che…dice Filippo: « Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo ». (cfr. Gv 6,5-7).
Ma l’insegnamento più grande del Maestro, Filippo lo provocò con una sua domanda, dopo l’ultima Cena, quando :« Gli disse Filippo: « Signore, mostraci il Padre e ci basta ». Gli rispose Gesù: « Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre…  » » (cfr. Gv 14,8-31)
Parole inaudite, frasi che danno le vertigini e che i discepoli comprenderanno pienamente solo quando lo Spirito Santo scenderà su di loro, nel giorno della Pentecoste. Parole che Filippo si porterà dentro nella sua missione (cfr. At 8,5-40).
La tradizione più comune afferma che Filippo morì crocifisso a Geropoli all’età di 87 anni.
Filippo è venerato come santo dalla Chiesa cattolica e da quella evangelica (commemorazione liturgica il 3 maggio), dalla Chiesa anglicana (1° maggio), dalla Chiesa ortodossa (14 novembre), dalla Chiesa armena (17 novembre), dalla Chiesa copta (18 novembre).

Giacomo,a differenza di Filippo, non ha quasi parte alcuna nei Vangeli; egli era, pare, figlio d’Alfeo, e forse cugino di Gesù. Viene detto “Minore” per distinguerlo da Giacomo “Maggiore”, fratello di Giovanni Evangelista e figlio di Zebedeo. La sua parte principale ha inizio dopo l’Ascensione di Gesù e dopo la Pentecoste ed è narrata negli Atti degli Apostoli. In effetti, nella prima Chiesa, Giacomo “Minore” godette d’una particolare autorità.
Quando S. Pietro venne miracolosamente liberato dalle catene, nella prigione del Re Erode, corse a darne notizia, per primo all’Apostolo Giacomo.
S. Paolo, dopo la conversione, tornando a Gerusalemme, si diresse subito alla casa di Giacomo, per ricevere istruzioni. E dopo il suo ultimo viaggio in missione, lo stesso Paolo farà la sua precisa relazione proprio nella casa di Giacomo, dove gli altri Apostoli si sono radunati.
Anche gli Ebrei avevano grande ammirazione per la figura di questo Galileo, primo vescovo cristiano di Gerusalemme. Qui fondò una comunità di cristiani, operando sempre numerose conversioni.
Eppure anch’egli cadde vittima della persecuzione o meglio di una specie di sommossa, durante la quale Giacomo venne portato su un punto elevato del Tempio, perché rinnegasse la sua fede in Gesù, dinanzi al popolo.
Alla leale e animosa risposta dell’Apostolo, molti, anche tra gli ebrei, resero Gloria al Signore ma i Farisei, esasperati, fecero precipitare Giacomo dall’alto del Tempio.
Era l’anno 62, e anche fra gli Ebrei, i più saggi e giusti si dolsero di quella uccisione voluta da pochi facinorosi ed eseguita da una folla eccitata.
Giacomo lasciò a monumento sempiterno la Lettera Cattolica nella quale è celebre il suo detto: “la fede senza le opere è morta”.

Significato dei nomi :
Filippo : « che ama i cavalli » (greco)
Giacomo : « che segue Dio » (ebraico).

Publié dans:Santi, Santi feste (dei) |on 3 mai, 2017 |Pas de commentaires »
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