I discepoli di Emmaus

PAPA FRANCESCO – 24. LO SPIRITO SANTO CI FA ABBONDARE NELLA SPERANZA
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 31 maggio 2017
La Speranza cristiana
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nell’imminenza della solennità di Pentecoste non possiamo non parlare del rapporto che c’è tra la speranza cristiana e lo Spirito Santo. Lo Spirito è il vento che ci spinge in avanti, che ci mantiene in cammino, ci fa sentire pellegrini e forestieri, e non ci permette di adagiarci e di diventare un popolo “sedentario”.
La lettera agli Ebrei paragona la speranza a un’àncora (cfr 6,18-19); e a questa immagine possiamo aggiungere quella della vela. Se l’àncora è ciò che dà alla barca la sicurezza e la tiene “ancorata” tra l’ondeggiare del mare, la vela è invece ciò che la fa camminare e avanzare sulle acque. La speranza è davvero come una vela; essa raccoglie il vento dello Spirito Santo e lo trasforma in forza motrice che spinge la barca, a seconda dei casi, al largo o a riva.
L’apostolo Paolo conclude la sua Lettera ai Romani con questo augurio: sentite bene, ascoltate bene che bell’augurio: «Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (15,13). Riflettiamo un po’ sul contenuto di questa bellissima parola.
L’espressione “Dio della speranza” non vuol dire soltanto che Dio è l’oggetto della nostra speranza, cioè Colui che speriamo di raggiungere un giorno nella vita eterna; vuol dire anche che Dio è Colui che già ora ci fa sperare, anzi ci rende «lieti nella speranza» (Rm 12,12): lieti ora di sperare, e non solo sperare di essere lieti. E’ la gioia di sperare e non sperare di avere gioia, già oggi. “Finché c’è vita, c’è speranza”, dice un detto popolare; ed è vero anche il contrario: finché c’è speranza, c’è vita. Gli uomini hanno bisogno di speranza per vivere e hanno bisogno dello Spirito Santo per sperare.
San Paolo – abbiamo sentito – attribuisce allo Spirito Santo la capacità di farci addirittura “abbondare nella speranza”. Abbondare nella speranza significa non scoraggiarsi mai; significa sperare «contro ogni speranza» (Rm 4,18), cioè sperare anche quando viene meno ogni motivo umano di sperare, come fu per Abramo quando Dio gli chiese di sacrificargli l’unico figlio, Isacco, e come fu, ancora di più, per la Vergine Maria sotto la croce di Gesù.
Lo Spirito Santo rende possibile questa speranza invincibile dandoci la testimonianza interiore che siamo figli di Dio e suoi eredi (cfr Rm 8,16). Come potrebbe Colui che ci ha dato il proprio unico Figlio non darci ogni altra cosa insieme con Lui? (cfr Rm 8,32) «La speranza – fratelli e sorelle – non delude: la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Perciò non delude, perché c’è lo Spirito Santo dentro di noi che ci spinge ad andare avanti, sempre! E per questo la speranza non delude.
C’è di più: lo Spirito Santo non ci rende solo capaci di sperare, ma anche di essere seminatori di speranza, di essere anche noi – come Lui e grazie a Lui – dei “paracliti”, cioè consolatori e difensori dei fratelli, seminatori di speranza. Un cristiano può seminare amarezze, può seminare perplessità, e questo non è cristiano, e chi fa questo non è un buon cristiano. Semina speranza: semina olio di speranza, semina profumo di speranza e non aceto di amarezza e di dis-speranza. Il Beato cardinale Newman, in un suo discorso, diceva ai fedeli: «Istruiti dalla nostra stessa sofferenza, dal nostro stesso dolore, anzi, dai nostri stessi peccati, avremo la mente e il cuore esercitati ad ogni opera d’amore verso coloro che ne hanno bisogno. Saremo, a misura della nostra capacità, consolatori ad immagine del Paraclito – cioè dello Spirito Santo –, e in tutti i sensi che questa parola comporta: avvocati, assistenti, apportatori di conforto. Le nostre parole e i nostri consigli, il nostro modo di fare, la nostra voce, il nostro sguardo, saranno gentili e tranquillizzanti» (Parochial and plain Sermons, vol. V, Londra 1870, pp. 300s.). E sono soprattutto i poveri, gli esclusi, i non amati ad avere bisogno di qualcuno che si faccia per loro “paraclito”, cioè consolatore e difensore, come lo Spirito Santo fa con ognuno di noi, che stiamo qui in Piazza, consolatore e difensore. Noi dobbiamo fare lo stesso con i più bisognosi, con i più scartati, con quelli che hanno più bisogno, quelli che soffrono di più. Difensori e consolatori!
Lo Spirito Santo alimenta la speranza non solo nel cuore degli uomini, ma anche nell’intero creato. Dice l’Apostolo Paolo – questo sembra un po’ strano, ma è vero: che anche la creazione “è protesa con ardente attesa” verso la liberazione e “geme e soffre” come le doglie di un parto (cfr Rm 8,20-22). «L’energia capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l’azione dello Spirito di Dio che “aleggiava sulle acque” (Gen1,2) all’inizio della creazione» (Benedetto XVI, Omelia, 31 maggio 2009). Anche questo ci spinge a rispettare il creato: non si può imbrattare un quadro senza offendere l’artista che lo ha creato.
Fratelli e sorelle, la prossima festa di Pentecoste – che è il compleanno della Chiesa – ci trovi concordi in preghiera, con Maria, la Madre di Gesù e nostra. E il dono dello Spirito Santo ci faccia abbondare nella speranza. Vi dirò di più: ci faccia sprecare speranza con tutti quelli che sono più bisognosi, più scartati e per tutti quelli che hanno necessità. Grazie.
PAPA FRANCESCO – INNO ALLA GIOIA
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 23 maggio 2016
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n.117, 23-24/05/2016)
«La carta d’identità del cristiano è la gioia»: lo «stupore» di fronte alla «grandezza di Dio», al suo «amore», alla «salvezza» che ha donato all’umanità non può che portare il credente a una gioia che neanche le croci della vita possono scalfire, perché anche nella prova c’è «la sicurezza che Gesù è con noi».
Un vero e proprio inno alla gioia è stata la meditazione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta lunedì 23 maggio. Lo spunto è venuto dalla liturgia del giorno. In particolare, il Pontefice ha voluto rileggere l’incipit del brano tratto dalla prima Lettera di Pietro (1, 3-9) che — ha detto — per il «tono esultante», l’«allegria», il modo dell’apostolo di intervenire «a tutta forza» ricorda l’inizio «dell’Oratorio di Natale di Bach». Scrive, infatti, Pietro: «Sia benedetto il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, ricreati, mediante la resurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce; essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rilevata nell’ultimo tempo».
Sono parole in cui si percepisce «lo stupore davanti alla grandezza di Dio», davanti alla «rigenerazione che il Signore — “in Gesù Cristo e per Gesù Cristo” — ha fatto in noi». Ed è «uno stupore pieno di giubilo, allegro»: subito dopo, ha fatto notare il Papa, nel testo della lettera s’incontra la «parola chiave», ovvero: «Perciò siete ricolmi di gioia».
La gioia di cui parla l’apostolo è duratura. Per questo, ha spiegato Francesco, egli aggiunge nell’epistola che, anche se per un po’ di tempo si è costretti a essere «afflitti dalle prove», quella gioia dell’inizio «non sarà tolta». Infatti essa scaturisce da «quello che Dio ha fatto in noi: ci ha rigenerati in Cristo e ci ha dato una speranza». Una speranza — «quella che i primi cristiani dipingevano come un’àncora in cielo» — che, ha detto il Papa, è anche la nostra. Da lì viene la gioia. E infatti Pietro concludendo il suo messaggio invita tutti: «Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa».
Da tutto ciò, ha sottolineato il Pontefice, si capisce come la gioia sia davvero la «virtù del cristiano». Un cristiano, ha specificato, «è un uomo e una donna con gioia nel cuore». Di più: «Non esiste un cristiano senza gioia». Qualcuno potrebbe obbiettare: «Ma, Padre, io ne ho visti tanti!», intendendo dire con ciò che «non sono cristiani: dicono di esserlo, ma non lo sono, gli manca qualcosa». Ecco perché secondo il Papa «la carta di identità del cristiano è la gioia, la gioia del Vangelo, la gioia di essere stati eletti da Gesù, salvati da Gesù, rigenerati da Gesù; la gioia di quella speranza che Gesù ci aspetta». E anche «nelle croci e nelle sofferenze di questa vita», ha aggiunto, il cristiano vive quella gioia, esprimendola in un altro modo, ovvero con la «pace» che viene dalla «sicurezza che Gesù ci accompagna, è con noi». Il cristiano, infatti, vede «crescere questa gioia con la fiducia in Dio». Egli sa bene che «Dio lo ricorda, che Dio lo ama, che Dio lo accompagna, che Dio lo aspetta. E questa è la gioia».
A fare da contraltare a questo inno alla gioia, la liturgia del giorno propone «un’altra parola», quella legata all’episodio del Vangelo di Marco (10, 17-27) nel quale si narra del giovane «che si è avvicinato a Gesù per seguirlo»: un «bravo giovane» tanto da riuscire «a conquistare il cuore di Gesù» il quale, si legge, «fissò lo sguardo su di lui» e «lo amò». A quel giovane Gesù fece una proposta: «Una sola cosa ti manca: vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e vieni con me»; ma a queste parole egli «si fece scuro in volto e se ne andò rattristato».
Il giovane, ha notato Francesco, «non è stato capace di aprire il cuore alla gioia e ha scelto la tristezza». Ma perché? La risposta è chiara: «Perché possedeva molti beni. Era attaccato ai beni». Del resto, Gesù stesso aveva avvisato «che non si può servire due padroni: o servi il Signore o servi le ricchezze». Tornando su questo tema già affrontato in un’omelia pochi giorni fa, il Pontefice ha spiegato: «le ricchezze non sono cattive in se stesse», la cattiveria è «servire la ricchezza». Fu così, insomma, che il giovane se ne andò triste: «Egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato».
È questo un episodio che getta luce anche sulla vita quotidiana «nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, nelle nostre istituzioni»: qui infatti, ha sottolineato il Papa, se «troviamo gente che si dice cristiana e vuole essere cristiana ma è triste», vuol dire che succede qualcosa «che non va». Ed è compito di ognuno aiutare questa gente «a trovare Gesù, a togliere quella tristezza, perché possa gioire del Vangelo, possa avere questa gioia che è propria del Vangelo».
Francesco ha voluto approfondire ancora questo concetto centrale e legare la gioia allo stupore che scaturisce — come ricordato da san Pietro nella sua lettera — «davanti alla rivelazione, davanti all’amore di Dio, davanti alle emozioni dello Spirito Santo». Perciò si può ben dire che «il cristiano è un uomo, una donna di stupore».
Una parola — “stupore” — che ritorna anche alla fine del brano evangelico del giorno, «quando Gesù spiega agli apostoli che quel ragazzo tanto bravo non è riuscito a seguirlo, perché era attaccato alle ricchezze e dice che è molto difficile che un ricco, uno che è attaccato alle ricchezze, entri nel regno dei Cieli». Si legge infatti che loro, «più stupiti», dicevano: «E chi può essere salvato?».
L’uomo, il cristiano — ha spiegato il Papa — può essere talmente stupito di fronte a tanta grandezza e tanta bellezza, da pensare: «Io non ce la faccio. Non so come si fa!». La risposta che Gesù dà guardando in faccia i suoi discepoli è consolante: «Impossibile agli uomini — non ce la facciamo… — ma non a Dio!». Possiamo, cioè, vivere la «gioia cristiana», lo «stupore della gioia», e salvarci «dal vivere attaccati ad altre cose, alle mondanità», soltanto «con la forza di Dio, con la forza dello Spirito Santo».
Perciò, ha invitato il Pontefice al termine dell’omelia, «chiediamo oggi al Signore che ci dia lo stupore davanti a lui, davanti a tante ricchezze spirituali che ci ha dato; e con questo stupore ci dia la gioia, la gioia della nostra vita e di vivere in pace nel cuore le tante difficoltà; e ci protegga dal cercare la felicità in tante cose che alla fine ci rattristano: promettono tanto, ma non ci daranno niente!». Questa la conclusione: «Ricordatevi bene: un cristiano è un uomo e una donna di gioia, di gioia nel Signore; un uomo e una donna di stupore».
28 MAGGIO 2017 | 7A DOM.: ASCENSIONE DI GESÙ – A | OMELIA
ASCENSIONE DI GESU’ AL CIELO
Per cominciare
« Gesù è risorto dai morti e siede alla destra di Dio nei cieli », dice Paolo agli Efesini. E li invita a conoscere più profondamente Dio che si rivela in Gesù. Il vangelo di Matteo afferma che « alcuni dubitavano » anche durante le apparizioni di Gesù risorto. In realtà l’ascensione è il raggiungimento della fede piena da parte degli apostoli, che si rendono finalmente conto della identità divina di Gesù.
La parola di Dio
Atti 1,1-11. È l’inizio del libro degli Atti. I primi cinque versetti costituiscono il « prologo »: Luca riprende la narrazione dove l’aveva lasciata nel suo vangelo: Gesù risorto si mostra vivo, prima di salire al cielo. Gli altri versetti presentano il racconto dell’Ascensione di Gesù e la promessa dello Spirito Santo.
Efesini 1,17-23. Paolo riassume con grande partecipazione gli avvenimenti della risurrezione e ascensione di Gesù, che costituiscono la grande speranza a cui Dio ci ha chiamati. E prega perché i cristiani siano illuminati da Dio per comprendere che Gesù siede alla destra di Dio, e occupa la posizione più grande che si possa immaginare nel presente e nel futuro.
Matteo 28,16-20. Convocati in Galilea, gli apostoli ricevono da Gesù risorto il compito di ammaestrare e battezzare tutte le nazioni, e di diffondere il suo progetto evangelico di vita. E li rassicura che si troverà al loro fianco « fino alla fine del mondo ».
Riflettere
A differenza di Marco e Luca, il vangelo di Matteo non presenta l’ascensione. Ma si conclude con il mandato agli apostoli da parte del Risorto, a cui « è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra ». « Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli », dice loro Gesù, « insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato » (Mt 28,16-20). È la missione di Gesù che continua nei suoi apostoli, a cui egli conferisce i suoi stessi poteri.
Gesù che siede alla destra di Dio è la glorificazione e la riconciliazione definitiva dell’uomo con Dio. Gesù è il nuovo Adamo che torna al Padre dopo aver santificato, riscattato, purificato l’umanità con la sua morte in croce.
Gesù scompare visibilmente agli occhi degli apostoli, ma non abbandona l’uomo al suo destino. Inizia una presenza nuova, diversa, ma reale: nella chiesa, nei sacramenti, nel fratello che amiamo come lui e come fosse lui.
Credere nell’ascensione non significa pensare che Gesù d’ora in poi abiti in un « astro lontano », da cui potrebbe raggiungere la terra con qualche viaggio straordinario da astronauta; significa che è davvero vivo per noi e operante nel nostro mondo attraverso la nuova realtà della sua risurrezione.
Gesù è presente nei fratelli che soffrono: « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? » (At 9,4); è presente nei poveri e negli infelici: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare… » (Mt 25,31-46).
L’Ascensione è festa di fede. Siamo figli di Dio e il destino di Gesù è il nostro destino. « La vita è un paradiso, e tutti siamo in un paradiso, ma non vogliamo riconoscerlo: ché, se avessimo volontà di riconoscerlo, domani stesso si instaurerebbe in tutto il mondo il paradiso » (Fedor Dostoevskij).
« Perché state a guardare il cielo? », dicono i due angeli agli apostoli. Gesù tornerà un giorno e la terra dovrà essere preparata ad accoglierlo.
L’Ascensione è la festa della potenza di Dio, ma anche del valore della nostra vita quotidiana. La fedeltà di Gesù ha preparato la sua glorificazione; la nostra fedeltà prepara anche la nostra glorificazione. È festa dunque di impegno, di una presenza viva nel mondo, di motivazioni nuove, di accettazione delle sfide che la vita ci propone. « C’è qualcosa di peggio che avere un’anima cattiva », dice Peguy: « è avere un’anima da tutti i giorni ». L’ascensione ci infonde motivazioni nuove, una speranza che riposa nelle promesse di Dio
Attualizzare
John Kennedy da ragazzo voleva fare il giornalista, poi disse di aver scelto di fare il presidente degli Stati Uniti perché non intendeva raccontare soltanto le vicende importanti degli altri, ma voleva lui stesso essere protagonista di avvenimenti che altri avrebbero potuto raccontare di lui.
Era un ragazzo e non pensava che una cosa non nega necessariamente l’altra, anzi che si completano a vicenda. Così è stato del comando di Gesù agli apostoli: « Andate, ammaestrate tutte le genti. Fate discepoli tutti i popoli ». Leggendo i vangeli e il libro degli Atti ci si può convincere dell’entusiasmo che gli apostoli ci hanno messo per raccontare, scrivere e testimoniare le vicende e le parole di Gesù.
È noto che ogni evangelista presenta i fatti in una prospettiva originale, un po’ diversa dagli altri, funzionale alla sua finalità teologica. I racconti dell’ascensione in particolare sono pieni di simboli suggestivi, di tempo e di spazio.
Nel reportage di Luca compaiono uomini in vesti bianche, una nube che sottrae Gesù che sale al cielo… riferimenti ad antiche teofanie. Il biblista Ravasi dice che questi simboli non sono che una nuova, grande dichiarazione di fede nel Cristo risorto.
Luca chiude il suo vangelo con il racconto più lungo e più solenne dell’ascensione, e apre la sua seconda opera, gli Atti, con lo stesso racconto. Per Luca infatti l’ascensione è il vertice della Pasqua e quasi la spiegazione di quel prodigio che fu la risurrezione di Gesù.
L’ascensione non riduce la Pasqua di Gesù solo a un miracolo straordinario, quasi un ritorno alla vita di un cadavere, ma afferma che con la Pasqua è Dio che entra nel cuore dell’umanità e glorifica l’uomo Gesù.
È così che la fede dei discepoli, sempre incerta e dubbiosa, legata fino all’ultimo a prospettive terrene e nazionalistiche, nel momento dell’ascensione diventa finalmente piena.
L’ascensione è senza dubbio il momento in cui negli apostoli la fede in Gesù si fa più esplicita. Ora finalmente vedono l’uomo Gesù, un uomo straordinario, autorevole e sorprendente, ma anche debole e sconfitto, sedere con la sua umanità alla destra di Dio, Dio egli stesso.
Per questo andare in tutto il mondo a parlare e a scrivere di lui più che un comando è un’esigenza entusiasmante, come è stato per gli apostoli, che – come dice Luca – dopo averlo adorato se ne tornarono a Gerusalemme « pieni di gioia ».
Credere nell’Aldilà
« Secondo voi, che cosa c’è dopo la morte nell’Aldilà? ». La domanda è stata fatta da un’agenzia di sondaggi, la CSA, a 1024 francesi dai 18 anni in su. Le risposte:
- qualcosa, ma non so cosa 38%
- non c’è niente, il nulla 25%
- un’altra vita nell’aldilà 22%
- la reincarnazione 11%
- non risponde 4%
Cristo non ha mani
ha soltanto le nostre mani
per fare il suo lavoro oggi.
Cristo non ha piedi
ha soltanto i nostri piedi
per guidare gli uomini sui suoi sentieri.
Cristo non ha labbra
ha soltanto le nostre labbra
per raccontare di sé agli uomini di oggi.
Cristo non ha mezzi
ha soltanto il nostro aiuto
per condurre gli uomini a sé.
Noi siamo l’unica bibbia
che i popoli leggono ancora,
siamo l’unico messaggio di Dio
scritto in opere e parole.
http://www.artcurel.it/ARTCUREL/ARTE/TEORIA%20DELL%27ARTE/bellezzaetrasfigurazionebianchi.htm
BELLEZZA E TRASFIGURAZIONE
di Enzo Bianchi
Nell’episodio della trasfigurazione è certamente presente il nucleo evangelico più denso e pregnante circa la visione cristiana della bellezza. Ci chiediamo: Quale bellezza emerge dalla trasfigurazione di Gesù? E quale rapporto può avere con la salvezza?
La trasfigurazione è mistero di bellezza anzitutto in quanto mostra che la bellezza è dimensione in Dio che si rivela in Cristo: Cristo narra la bellezza di Dio con la luminosità irradiante del suo volto trasfigurato. Il Dio che «abita una luce inaccessibile» (1 Tm 6,16) ha comunicato agli uomini la sua luce in Cristo, dunque in un corpo umano, nel viso di un uomo: così, tramite il Figlio, che è «irradiazione della gloria del Padre» (Eb 1,3), l’uomo può conoscere il Dio che nessuno ha mai visto né può vedere e può avere comunione con lui. Al cuore della trasfigurazione, come della salvezza, vi è il dono di Dio: la bellezza si declina pertanto come donazione e grazia di Dio cui l’uomo risponde con la gratuità. La bellezza cristiana è l’evento di una relazione di grazia, e la vita cristiana, in quest’ottica, si configura come vita eucaristica posta sotto il primato del dono e non della prestazione, come esperienza di luce e avventura di libertà e amore, dove luce, libertà e amore trovano in Cristo la loro oggettivazione. Diventare somigliantissimi al Cristo partecipando alla bellezza della sua vita è quindi il compito dei discepoli. Bellezza e santità sono sinonimi! E la santità cristiana si declina come comunione. Come la trasfigurazione, infatti, è evento di comunione tra prima e nuova alleanza (Mosè ed Elia e i tre discepoli), tra cielo e terra e tra l’uomo e tutto il creato e il cosmo (l’alta montagna), tra viventi e trapassati che nel Cristo ricevono la possibilità di comunicare, così anche la bellezza cristiana, che nasce dalla rinuncia alla concupiscenza, al possesso e all’abuso, trova nella comunione un suo criterio decisivo. Avvenuta nella carne umana di Gesù di Nazaret, la trasfigurazione non è riducibile a esperienza gnostica ma si oppone a ogni spiritualità dualistica, di rottura: essa non vuole suscitare rotture con il mondo né evasioni dalla storia, non richiede cinismo verso ciò che è corporeo e materiale e neppure vuole negare o diminuire l’umano, ma chiede di accogliere positivamente tutte queste realtà in Cristo per mantenerle o restituirle alla loro bontà e bellezza radicali. E così la bellezza apre alla contemplazione, alla purificazione dello sguardo sulle realtà tutte, considerate come tempio di Dio, luogo della sua presenza.
La trasfigurazione è poi celebrazione del volto, anzitutto il volto luminoso di Cristo, ma poi i volti di coloro che lo attorniano – Mosè, Elia, Pietro, Giacomo, Giovanni -, e questo ricorda ai credenti che la comunione ecclesiale è compagnia di volti e nomi precisi, cioè di libertà personali, e che la chiesa ha la responsabilità di essere un luogo di libertà e di umanità, che bandisce la paura e tutto ciò che attenta alla piena dilatazione dell’umano e, soprattutto, della libertà. In particolare la trasfigurazione ricorda che il volto di ogni figlio di Adamo, di ogni uomo creato a immagine e somiglianza di Dio è portatore di un riflesso dello splendore divino e ha insita in sé la vocazione alla bellezza, a vivere una vita bella, buona e felice. Ora, la luce e lo splendore di bellezza che abitano l’umanità di Cristo preannunciano il regno escatologico in cui non vi sarà più alcuna bruttezza e in cui l’umanità tutta sarà resa dimora di Dio, bella come una sposa pronta per il suo sposo (cf. Ap 21,2-3). Se il regno di Dio è la perfetta bellezza, è cioè il mondo pienamente rispondente allo sguardo e alla volontà di Dio, la chiesa ha nella storia il compito di annunciare la bellezza, o meglio, ha la vocazione di essere bella, «senza macchia né ruga, senza difetti» (Ef 5,27). Per far questo deve essere chiaro che la bellezza da perseguire è certamente già stata narrata da Cristo, ma per la chiesa è a-venire, è la bellezza del regno, del Cristo quando verrà nella sua gloria. La dimensione escatologica è costitutiva della trasfigurazione. Scrive Basilio: «Pietro, Giacomo e Giovanni conobbero la bellezza di Cristo sul monte: era bellezza che splendeva più del sole, ed essi furono resi degni di cogliere con gli occhi un anticipo della sua gloriosa seconda venuta». La trasfigurazione è promessa, promessa del regno, della ricapitolazione di tutte le cose in Cristo, della Pasqua eterna, della salvezza universale, della venuta nella gloria del Figlio dell’uomo, e anche la bellezza è sempre una promessa: essa apre il futuro, ma non è mai totalmente fruibile, non può essere esaurita, abbracciata completamente. Altrimenti sarebbe un idolo. Anche l’esperienza umana di bellezza ha questo connotato: la bellezza dischiude una promessa di felicità suscitando così una tensione vitale nell’uomo. La bellezza ci visita, di essa noi possiamo parlare solo in termini di evento e di avvento, mai di dato!
La trasfigurazione configura dunque la salvezza come vita con Cristo, come un essere con lui («È bello per noi stare qui»: Mt 17,4): essa apre al credente la via della partecipazione alla vita divina attraverso l’ascolto («Questi è il mio Figlio … Ascoltatelo!»: Mt 17,5) e dunque connota la bellezza della vita cristiana anche nella sua dimensione di interiorità: si tratta di «rendere bello l’uomo nascosto nel cuore» (1 Pt 3,4), cioè di dare radici interiori e profonde alla bellezza. Nessuna comunione con gli altri uomini e con le creature se non si vive questa dimensione interiore di comunione con Dio che richiede la pacificazione e l’unificazione del cuore! Il «comportamento bello» (1 Pt 2,12) dei cristiani, il loro «comportamento santo» (1 Pt 1,15-16), la loro condotta eticamente responsabile e irreprensibile trova la sua radice nell’innesto vitale della prassi nel mistero pasquale e si nutre di interiorità, di silenzio, di solitudine, di attesa, di lacrime, di preghiera… non di sola efficienza vive l’uomo, ma anche, e soprattutto, di gratuità, di perdono, di carità.
È questa comunione fra Dio e uomo, fra l’umano e lo spirituale, fra uomo e uomo, fra l’uomo e il cosmo e tutte le creature che costituisce il cuore della trasfigurazione come esperienza di bellezza e di salvezza. La splendida Gerusalemme celeste descritta nell’Apocalisse non sarà forse esperienza di comunione piena, senza più ombre e opacità? E ciò che si celebra nell’eucaristia non è forse anche magistero di bellezza per le vite dei cristiani? Vite troppo spesso tentate di spegnere il fuoco del vangelo con la timidezza e perfino la pavidità, di frenare l’irruenza del vento dello Spirito con un’etica delle buone maniere, di rendere insipido il sale della buona novella con l’edulcorazione delle esigenze evangeliche, di imprigionare la follia della croce nella camicia di forza della razionalità, della prudenza e del buon senso. E tutto questo fa sì che ci si debba porre una domanda: Che ne abbiamo fatto, noi cristiani, della chiamata a vivere la bellezza?
Ma dalla trasfigurazione discende anche un imperativo per le chiese. La trasfigurazione è una festa amatissima dall’oriente cristiano e da li assunta in occidente a partire dal XII secolo (con Pietro il Venerabile, abate di Cluny): essa visibilizza quello scambio dei doni tra chiese sorelle che dovrebbe condurre alla ricomposizione dell’unità visibile tra i credenti in Cristo. Perché è proprio questa divisione che deturpa la bellezza a cui è chiamata la chiesa. E smentendone la bellezza ne indebolisce la forza di segno salvifico, ne spegne la dimensione profetica, ne infiacchisce la capacità testimoniale. E infatti nell’essere uno come il Padre e il Figlio sono uno nel seno della Trinità divina, che i cristiani possono dare al mondo la loro «bella testimonianza». La loro vocazione è essere riflesso della bellezza trinitaria.
PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 23. EMMAUS, IL CAMMINO DELLA SPERANZA
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 24 maggio 2017
La Speranza cristiana – 23. Emmaus, il cammino della Speranza
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi vorrei soffermarmi sull’esperienza dei due discepoli di Emmaus, di cui parla il Vangelo di Luca (cfr 24,13-35). Immaginiamo la scena: due uomini camminano delusi, tristi, convinti di lasciare alle spalle l’amarezza di una vicenda finita male. Prima di quella Pasqua erano pieni di entusiasmo: convinti che quei giorni sarebbero stati decisivi per le loro attese e per la speranza di tutto il popolo. Gesù, al quale avevano affidato la loro vita, sembrava finalmente arrivato alla battaglia decisiva: ora avrebbe manifestato la sua potenza, dopo un lungo periodo di preparazione e di nascondimento. Questo era quello che loro aspettavano. E non fu così.
I due pellegrini coltivavano una speranza solamente umana, che ora andava in frantumi. Quella croce issata sul Calvario era il segno più eloquente di una sconfitta che non avevano pronosticato. Se davvero quel Gesù era secondo il cuore di Dio, dovevano concludere che Dio era inerme, indifeso nelle mani dei violenti, incapace di opporre resistenza al male.
Così, quella mattina della domenica, questi due fuggono da Gerusalemme. Negli occhi hanno ancora gli avvenimenti della passione, la morte di Gesù; e nell’animo il penoso arrovellarsi su quegli avvenimenti, durante il forzato riposo del sabato. Quella festa di Pasqua, che doveva intonare il canto della liberazione, si era invece tramutata nel più doloroso giorno della loro vita. Lasciano Gerusalemme per andarsene altrove, in un villaggio tranquillo. Hanno tutto l’aspetto di persone intente a rimuovere un ricordo che brucia. Sono dunque per strada, e camminano, tristi. Questo scenario – la strada – era già stato importante nei racconti dei vangeli; ora lo diventerà sempre di più, nel momento in cui si comincia a raccontare la storia della Chiesa.
L’incontro di Gesù con quei due discepoli sembra essere del tutto fortuito: assomiglia a uno dei tanti incroci che capitano nella vita. I due discepoli marciano pensierosi e uno sconosciuto li affianca. È Gesù; ma i loro occhi non sono in grado di riconoscerlo. E allora Gesù incomincia la sua “terapia della speranza”. Ciò che succede su questa strada è una terapia della speranza. Chi la fa? Gesù.
Anzitutto domanda e ascolta: il nostro Dio non è un Dio invadente. Anche se conosce già il motivo della delusione di quei due, lascia a loro il tempo per poter scandagliare in profondità l’amarezza che li ha avvinti. Ne esce una confessione che è un ritornello dell’esistenza umana: «Noi speravamo, ma… Noi speravamo, ma…» (v. 21). Quante tristezze, quante sconfitte, quanti fallimenti ci sono nella vita di ogni persona! In fondo siamo un po’ tutti quanti come quei due discepoli. Quante volte nella vita abbiamo sperato, quante volte ci siamo sentiti a un passo dalla felicità, e poi ci siamo ritrovati a terra delusi. Ma Gesù cammina con tutte le persone sfiduciate che procedono a testa bassa. E camminando con loro, in maniera discreta, riesce a ridare speranza.
Gesù parla loro anzitutto attraverso le Scritture. Chi prende in mano il libro di Dio non incrocerà storie di eroismo facile, fulminee campagne di conquista. La vera speranza non è mai a poco prezzo: passa sempre attraverso delle sconfitte. La speranza di chi non soffre, forse non è nemmeno tale. A Dio non piace essere amato come si amerebbe un condottiero che trascina alla vittoria il suo popolo annientando nel sangue i suoi avversari. Il nostro Dio è un lume fioco che arde in un giorno di freddo e di vento, e per quanto sembri fragile la sua presenza in questo mondo, Lui ha scelto il posto che tutti disdegniamo.
Poi Gesù ripete per i due discepoli il gesto-cardine di ogni Eucaristia: prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà. In questa serie di gesti, non c’è forse tutta la storia di Gesù? E non c’è, in ogni Eucaristia, anche il segno di che cosa dev’essere la Chiesa? Gesù ci prende, ci benedice, “spezza” la nostra vita – perché non c’è amore senza sacrificio – e la offre agli altri, la offre a tutti.
È un incontro rapido, quello di Gesù con i due discepoli di Emmaus. Però in esso c’è tutto il destino della Chiesa. Ci racconta che la comunità cristiana non sta rinchiusa in una cittadella fortificata, ma cammina nel suo ambiente più vitale, vale a dire la strada. E lì incontra le persone, con le loro speranze e le loro delusioni, a volte pesanti. La Chiesa ascolta le storie di tutti, come emergono dallo scrigno della coscienza personale; per poi offrire la Parola di vita, la testimonianza dell’amore, amore fedele fino alla fine. E allora il cuore delle persone torna ad ardere di speranza.
Tutti noi, nella nostra vita, abbiamo avuto momenti difficili, bui; momenti nei quali camminavamo tristi, pensierosi, senza orizzonti, soltanto un muro davanti. E Gesù sempre è accanto a noi per darci la speranza, per riscaldarci il cuore e dire: “Vai avanti, io sono con te. Vai avanti”. Il segreto della strada che conduce a Emmaus è tutto qui: anche attraverso le apparenze contrarie, noi continuiamo ad essere amati, e Dio non smetterà mai di volerci bene. Dio camminerà con noi sempre, sempre, anche nei momenti più dolorosi, anche nei momenti più brutti, anche nei momenti della sconfitta: lì c’è il Signore. E questa è la nostra speranza. Andiamo avanti con questa speranza! Perché Lui è accanto a noi e cammina con noi, sempre!