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IL PROGETTO DI UN’ECOLOGIA INTEGRALE. L’ARMONIA CON DIO, CON GLI ALTRI, CON LA NATURA, CON SE STESSO

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IL PROGETTO DI UN’ECOLOGIA INTEGRALE. L’ARMONIA CON DIO, CON GLI ALTRI, CON LA NATURA, CON SE STESSO

Felice Accrocca

Il 29 novembre 1979 – con la lettera Inter sanctos – Giovanni Paolo II proclamava l’Assisiate patrono dei cultori dell’ecologia poiché la sua figura spiccava tra i santi e gli altri grandi uomini che avevano «percepito gli elementi della natura come uno splendido dono di Dio agli uomini» e avevano contemplato «in modo singolare le opere del Creatore». Secondo Jacques Dalarun ciò ha favorito un malinteso, in quanto «in tutti i suoi scritti Francesco non usa mai il termine natura: è un controsenso pensare che potesse venerare un concetto che gli è estraneo. Francesco – precisa infatti lo storico francese – non venera la natura: celebra la creazione»[1]. Si tratta di puntualizzazioni senz’altro opportune, anche se credo che pur utilizzando un termine non del tutto appropriato, Giovanni Paolo II intendesse dire sostanzialmente le stesse cose affermate da Dalarun.
Nell’occasione, papa Wojtyla faceva espressa menzione del Cantico di frate sole, dal quale un altro pontefice, Francesco, avrebbe tratto – decenni più tardi – l’ispirazione e il titolo per una straordinaria enciclica sulla «cura della casa comune»[2]. In questo testo, Francesco d’Assisi viene descritto come «l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di un’ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità». San Francesco, sostiene il papa,
manifestò un’attenzione particolare verso la creazione di Dio e verso i più poveri e abbandonati. Amava ed era amato per la sua gioia, la sua dedizione generosa, il suo cuore universale. Era un mistico e un pellegrino che viveva con semplicità e in una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso. In lui si riscontra fino a che punto sono inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore (LS 10).
Una sintesi inclusiva, completa ed efficace. Dico inclusiva perché non di rado letture parziali dell’esperienza di Francesco d’Assisi si sono incrociate e scontrate, con l’obiettivo di sottolineare un aspetto della sua poliedrica personalità a scapito dell’altro, se non in opposizione all’altro.
In tal modo, molti hanno finito per forgiarsi un Francesco a proprio uso e consumo, senza preoccuparsi troppo se il ritratto confezionato fosse o meno supportato dalle fonti. Si è così giunti a plasmarne un modello buono per ogni stagione – dal vegetariano, al pacifista, al patriottico e così via –, vivisezionandolo senza posa, estrapolando aspetti specifici della sua personalità per poi assolutizzarli fino a fare di essi il tutto di quella esperienza, dimenticando spesso la sorgente da cui tutto era scaturito, vale a dire il suo rapporto con il Dio di Gesù Cristo. Mi propongo, in queste pagine, di far percepire qualcosa di quell’«ecologia integrale» di Francesco, che seppe ricostruire «una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso».

1. L’armonia con Dio
Nel Sacro Convento di Assisi, nella cappella delle reliquie (vi si accede dalla basilica inferiore), si conserva una piccola pergamena (10×13 cm) che contiene, su entrambi i lati, due brevi autografi di Francesco, straordinariamente e meritatamente famosi: si tratta delle cosiddette Lodi di Dio Altissimo e della Benedizione a frate Leone. Secondo quanto attesta Tommaso da Celano, il Santo scrisse quelle parole sul monte della Verna a sostegno di uno dei suoi compagni, chiamato ad affrontare una forte tentazione. Quel frate, riferisce l’agiografo,
desiderava ardentemente di avere a sua consolazione uno scritto contenente parole del Signore con brevi note scritte di proprio pugno da san Francesco. Era infatti convinto che avrebbe potuto superare o almeno sopportare più facilmente la grave tentazione, non della carne ma dello spirito, da cui si sentiva oppresso[3].
Tommaso non indica il nome del destinatario, ma fortunatamente è proprio quest’ultimo a rivelarci la sua identità attraverso le parole da lui stesso vergate sulla pergamena, nel lato che riporta la Benedizione. Si tratta, come tutti sanno, di frate Leone. Dall’insieme dei dati così trasmessi si può supporre che in un primo tempo – comunque, «dopo l’impressione delle stimmate» – e per motivazioni proprie (per rendere «grazie a Dio per il beneficio a lui fatto», dice Leone), Francesco scrisse su un foglio le Lodi di Dio Altissimo; poi, in un secondo momento, a richiesta del frate tentato, consegnò a quest’ultimo il testo che egli aveva inizialmente redatto per proprio conto, aggiungendovi, sul retro, la benedizione accompagnata da un disegno di sua mano. Un testo senza dubbio straordinario. Quel che è importante capire, per intenderne appieno la natura e il contenuto, è cosa avesse intenzione di dire frate Leone quando accennò al beneficio ricevuto da Francesco. Senz’altro si riferiva alle stimmate. Ma ad esse soltanto?
Ora, sappiamo che gli ultimi anni di vita del Santo non furono affatto facili. Alla redazione del testo definitivo della Regola si era finalmente giunti con molte difficoltà, a prezzo di numerosi e dolorosi contrasti. A ciò si aggiungano le incomprensioni e – se non vogliamo usare eufemismi – persino i maltrattamenti che Francesco fu talvolta costretto a subire da parte di alcuni confratelli (CAss 11: FF 1554). Nell’apologo Sulla vera letizia, alla domanda di frate Leone su cosa si dovesse intendere per «vera letizia», è possibile – per non dire probabile – che con la sua risposta egli volesse rappresentare anche lo stato in cui poteva essersi effettivamente venuto a trovare (forse, in più di un’occasione), se non per il ripetersi di una situazione identica a quella descritta, per aver comunque subito il rifiuto dei suoi, a volte malcelato, altre volte manifesto. Alla fine, Francesco ebbe un crollo; la testimonianza dei compagni ci offre un quadro particolareggiato di quei terribili momenti di solitudine. Essi narrarono, infatti, che subì una «gravissima tentazione dello spirito», durante la quale «alle volte fuggiva la compagnia dei fratelli, perché non riusciva a mostrarsi loro ilare come soleva essere». Rimase due anni in quella difficile condizione, fin quando non ne fu liberato dal Signore (CAss 63: FF 1591).
Francesco, quindi, ebbe anch’egli il suo Getsemani. Come tutti i grandi mistici gli fu chiesto di attraversare la notte buia dello spirito, durante la quale gli sembrò che il Signore tacesse, che non rispondesse al suo grido di angoscia. Non è del tutto azzardato collocare le stimmate a ridosso del superamento di questo periodo difficile: sulla Verna, Francesco avrebbe dunque avuto la risposta definitiva ai propri dubbi. Si tratterebbe della risposta evidente di Dio dopo un doloroso periodo di “assenza”. Il «beneficio» ricevuto potrebbe perciò consistere non solo e non tanto nell’impressione delle stimmate, ma nel dono – immenso – di una pace interiore ritrovata, che gli faceva accettare con serenità pure situazioni che prima erano state per lui causa di tentazione.
Quelle Lodi straordinarie costituirebbero, quindi, il sigillo di un’armonia ritrovata a caro prezzo, un bene immenso a lungo agognato da Francesco. Un’armonia che diventa sigillo di un’esistenza vissuta in Dio e tutta orientata al suo servizio, il che – d’altronde – è quanto propose ai frati esortandoli con queste parole:
Nient’altro dunque dobbiamo desiderare, niente altro volere, nient’altro ci piaccia e diletti, se non il Creatore e Redentore e Salvatore nostro, solo vero Dio, il quale è il bene pieno, ogni bene, tutto il bene, vero e sommo bene [...]. Niente dunque ci ostacoli, niente ci separi, niente si interponga (Rnb XXIII, 9.10: FF 70-71).

2. L’armonia con gli altri
Non sempre Francesco mostrò amabilità di carattere, poiché in alcuni momenti giunse letteralmente a perdere le staffe, come quando salì sulla casa che era stata costruita alla Porziuncola senza il suo consenso e cominciò a scoperchiarne il tetto (CAss 56: FF 1579) o quando, a Bologna, fece uscire tutti i frati – anche i malati – da una dimora edificata appositamente per loro, proprio perché la voce corrente diceva essere quella la «casa dei frati» (2Cel 58: FF 644). Peraltro, i compagni e lo stesso frate Leone testimoniarono, senza mezzi termini, il timore che i frati, anche frate Elia, nutrivano nei riguardi di Francesco[4]. Nondimeno, quest’uomo sanguigno, capace di scagliare vere e proprie maledizioni[5] – altra cosa, perciò, dal Santo ritratto spesso in maniera sdolcinata dalla carta stampata e dalla cinematografia –, seppe mostrare grande sensibilità, anche in momenti non facili della sua vita.
Esemplare, in tal senso, la lettera autografa che scrisse a frate Leone; un paleografo del valore di Attilio Bartoli Langeli ha potuto dimostrarne le diverse fasi di scrittura: le ultime quattro righe dell’originale, infatti, furono aggiunte da Francesco in un secondo momento. Inizialmente, in risposta ai dubbi di Leone, egli si era espresso in tono piuttosto duro:
Frate Leone, il tuo frate Francesco ti augura salute e pace. Così dico a te, figlio mio, come madre, che tutte le parole, che abbiamo detto lungo la via, le riassumo brevemente in questa parola di consiglio, e non c’è bisogno che tu venga da me per consigliarti, perché così ti consiglio: in qualunque maniera ti sembra meglio di piacere al Signore Dio e di seguire le sue orme e la sua povertà, fatelo con la benedizione del Signore Dio e con la mia obbedienza (LfL 1-3: FF 249-250).
Leone non aveva dunque alcuna ragione per tornare da Francesco, poiché quest’ultimo gli aveva detto tutto quanto aveva da comunicargli. La lettera veniva chiusa dal Tau che l’Assisiate apponeva abitualmente in calce ai propri scritti (3Cel 3: FF 828; LegM IV, 9: FF 1079). Egli faceva così capire al confratello che non desiderava vederlo; in un secondo momento, dovette tuttavia pentirsi della sua iniziale durezza. Così raschiò il Tau e, con penna e inchiostro diversi da quelli utilizzati in precedenza, scrisse le ultime quattro righe nell’esiguo spazio ancora disponibile: «E se a te è necessario, perché tu ne abbia altra consolazione, che la tua anima ritorni a me, e tu lo vuoi, vieni!» (LfL 4: FF 250).
Grazie all’autografo, è quindi possibile penetrare – almeno per un attimo – nell’animo di Francesco, scorgerne turbamenti e ripensamenti interiori. Capiamo perciò che ci troviamo di fronte a un uomo forse portato ad agire d’impulso, ma che sapeva comunque riconoscere le intemperanze del proprio carattere; un uomo in lotta con la propria umanità, anche per lui – e non potrebbe essere altrimenti – difficilmente governabile. Eppure quale molla l’aveva fatto scattare? Un carattere, per quanto impulsivo, ha comunque bisogno che s’accenda una miccia per scoppiare. Il terreno, naturalmente, è insidioso, le ipotesi non sono suffragate da dati certi. Quella che propongo è perciò una lettura forse possibile, o meglio, una proposta interpretativa conscia della sua debolezza.
Credo che una spiegazione sia infatti possibile a partire dalla considerazione della temperie spirituale vissuta in quegli anni dall’Assisiate. La lettera fu scritta entro il 1224: dopo quella data Francesco e Leone, di fatto, vissero insieme e uno scritto del genere non si giustificherebbe; inoltre, negli ultimi anni di vita, Francesco era ormai del tutto cieco. Ora, molto probabilmente, proprio negli anni precedenti il 1224 – come s’è accennato – il Santo fu preda di una «gravissima tentazione dello spirito» (CAss 63: FF 1591). Giungendo in un momento tanto difficile, la richiesta di Leone avrebbe senz’altro potuto provocare l’iniziale rifiuto di Francesco: tali incontri, ormai, gli costavano troppo – sia dal lato psicologico che spirituale – ed era forte la tentazione di evitarli. In un primo tempo, dunque, egli potrebbe aver ceduto all’impulso che gli suggeriva di rispondere subito con un «no» secco. Poi, tornando in se stesso, dovette ritenere più giusto non dare la precedenza ai propri problemi, privando l’amico di un incontro al quale teneva tanto.
Non poteva, cioè, non vivere quanto egli stesso chiedeva ad altri. Dobbiamo infatti tener presente che – con tutta probabilità – nei primi mesi del 1223, un ministro, logorato dalle tensioni che gli procuravano i suoi rapporti con i frati, scrisse a Francesco chiedendogli il permesso di potersi ritirare in un eremo. Per tutta risposta questi l’invitò a «reputare una grazia» tutte quelle cose che gli impedivano «di amare il Signore Iddio» e tutti coloro – «frati o altri» – che a lui si opponevano: «E ama – l’esortò – coloro che ti fanno queste cose. E non aspettarti da loro altro, se non ciò che il Signore ti darà. E in questo amali e non pretendere che siano cristiani migliori» (Lmin 2-5: FF 234). Gli additava così una via diversa: non la separazione dai fratelli, ma un’immersione totale nella fraternità, priva di difese e di attese nei riguardi degli altri, indicando nella misericordia la via privilegiata per guadagnare a Cristo i suoi frati.
Se a un ministro Francesco aveva chiesto tanto, poteva egli stesso esimersi dal bere il calice? Così, lottando aspramente, corresse il tono iniziale della lettera – che finiva per apparirgli troppo duro – e fece marcia indietro. Con sensibilità veramente materna – «come una madre» –, seppe dunque mettere le esigenze di Leone davanti alle proprie. Per lui, infatti, veniva sempre prima l’Altro, il totalmente Altro, immensamente distante e sorprendentemente vicino; poi l’altro, il fratello che Dio metteva sui suoi passi e che lui si sforzava di vedere con gli occhi dell’Altissimo. Solo alla fine veniva lui, al quale non fece mai sconti di nessun genere. Pure l’armonia con i fratelli, come quella con Dio, fu dunque conquistata a prezzo di un’ascesi non facile.

3. L’armonia con il creato
La conversione spinse Francesco a guardare con occhi diversi a uomini e cose: anche agli animali, che divennero i suoi fratelli più piccoli, anche al creato che si rivelò ai suoi occhi come l’orma del Creatore. Da questa consapevolezza nuova mosse l’esigenza di una lode incessante di Dio, riservata non agli uomini soltanto, ma a tutta intera la creazione. Solo in questo contesto possiamo comprendere nella sua piena e vera luce il Cantico di frate sole, il più famoso tra i compimenti poetici di Francesco. Un testo che – contrariamente a quel che molti credono – nacque in circostanze umanamente tutt’altro che positive. Nei primi mesi del 1225, ormai sullo scorcio della propria esistenza, Francesco si fermò per oltre cinquanta giorni a San Damiano, in preda ad atroci sofferenze. A un certo momento, una notte, non ce la fece più e invocò il soccorso del Signore; si sentì così rispondere in spirito: «Fratello, rallegrati e gioisci di cuore nelle tue infermità» (CAss 83: FF 1614); il mattino seguente compose il Cantico di frate sole. Ricordano i compagni:
Quando era più tormentato dal male, incominciava a dire le Lodi del Signore, e poi le faceva cantare dai suoi compagni, perché, andando dietro al canto, potesse dimenticare l’acerbità dei dolori e delle malattie. E così fece fino al giorno della sua morte (CAss 83: FF 1615).
Quella poesia che nei secoli ha dato pace e consolazione a milioni e milioni di uomini nacque dunque in un momento di particolare dolore, eco di un animo pacificato nel profondo e perciò capace d’invitare tutte le creature alla lode di Dio.
Una questione ancora aperta, che si rivela di non poca importanza per comprendere il testo e il rapporto di Francesco con il creato, è il modo d’intendere la preposizione «per», tante volte ripetuta nel Cantico («Laudato si’, mi’ Signore, per»). Le citazioni da due studiosi, entrambi seri e competenti, bastano a darci il quadro della contesa: Carlo Paolazzi asserisce, infatti, in modo netto, che il «per»

va inteso in senso strumentale («per mezzo di sorella Luna», «per mezzo di fratello Vento»), non in senso causale («a causa di…»), che distoglierebbe la pienezza della lode dal Creatore, dirottandola sulle creature[6].
Dal proprio canto, Daniele Solvi ritiene che la testimonianza dei compagni – da lui giudicata «autorevole» (il riferimento è a CAss 83: FF 1615) – spinga piuttosto a credere che il «per» «doveva avere valore causale, non strumentale o di agente»[7]. Cosa dire in proposito?
È bene anzitutto precisare che pure in altri suoi scritti Francesco invita le creature tutte a lodare il Signore. Così, ad esempio, nelle Lodi per ogni ora (Lora 5-8: FF 264) oppure nell’Esortazione alla lode di Dio (Eslod 5-7.11-12: FF 265a). Non si ha, tuttavia, la stessa chiarezza quando si tratta del Cantico di frate sole. La situazione appare in effetti complessa e neppure le testimonianze agiografiche si rivelano concordi. Infatti, mentre secondo Tommaso da Celano Francesco volle invitare tutte le creature alla lode di Dio (Mem 213: FF 803), i compagni del Santo danno una diversa lettura del testo (CAss 83, 88: FF 1615, 1624).
Il panorama variegato non consente – a mio avviso – di assumere una posizione netta ed esclusiva. Non è detto, peraltro, che le due opinioni non possano coesistere. Certo è che Francesco ha utilizzato l’uno e l’altro registro, entrambi finalizzati alla lode di Dio. I compagni, infatti, ricordano come Francesco comandasse al frate ortolano di non coltivare tutto il terreno, ma di lasciarne libera una parte affinché producesse erbe verdeggianti che poi fiorissero al tempo opportuno; egli, inoltre,
diceva che il frate ortolano doveva fare un bel giardinetto da qualche parte dell’orto, dove seminare e trapiantare ogni sorta di erbe odorose e di piante che producono bei fiori, affinché nel tempo della fioritura invitino tutti quelli che le guardano a lodare Dio, poiché ogni creatura dice e grida: Dio mi ha fatta per te, o uomo (CAss 88: FF 1623).
Servendosi delle testimonianze dei compagni, Tommaso da Celano concettualizzò quel che essi lasciavano intuire, estraendo dalle loro memorie il succo di una lezione di vita. Secondo il Celanese, infatti, agli occhi di Francesco il mondo appariva come uno «specchio tersissimo» della bontà di Dio:
In ogni opera loda l’Artefice; tutto ciò che trova nelle creature lo riferisce al Creatore. Esulta di gioia in tutte le opere delle mani del Signore, e attraverso questa visione letificante intuisce la causa e la ragione che le vivifica. Nelle cose belle riconosce la Bellezza Somma, e da tutto ciò che per lui è buono sale un grido: «Chi ci ha creati è infinitamente buono». Attraverso le orme impresse nella natura, segue ovunque il Diletto e si fa scala di ogni cosa per giungere al suo trono (Mem 165: FF 750).
Espressioni, queste, divenute poi famose soprattutto grazie a san Bonaventura, che le riprese testualmente[8].
Di grande interesse si rivelano le riletture del redattore dello Specchio di perfezione, il quale si sforzò d’interpretare in chiave cristologica comportamenti o scelte di Francesco e di dare agli stessi un contenuto teologico, che risultava assente nella fonte di cui egli si servì. Ciò appare evidente proprio nel capitolo decimo dell’opera, dedicato all’amore di Francesco per le creature e delle creature per lui. La pericope 118, in modo particolare, presenta inserti originali del redattore con l’obiettivo di fornire la chiave interpretativa per comprendere in modo adeguato il comportamento del Santo, che a un lettore sprovveduto sarebbe altrimenti potuto sembrare sin troppo singolare.
Avverte perciò che, dopo il fuoco, Francesco «amava in modo particolare l’acqua, simbolo della santa penitenza e tribolazione, che lavano le sporcizie dell’anima; e perché il primo lavacro dell’anima si fa per mezzo dell’acqua del battesimo» (Spec 118: FF 1818). Ricorda poi il monito rivolto da Francesco al frate incaricato della legna, affinché non tagliasse del tutto l’albero, ma ne lasciasse sempre una parte intatta, spiegando – ed è questo il suo contributo originale – che doveva far così «per amore di colui che volle operare la nostra salvezza sul legno della croce» (ivi). Anche il monito rivolto all’ortolano perché lasciasse libera una parte del terreno in modo tale che nella stagione adatta potesse riempirsi di fiori, rivela un fondamento cristologico, «per amore di colui che è chiamato “fiore del campo e giglio delle valli”» (ivi). Nell’esegesi biblica era del resto ormai luogo comune riferire al Cristo quel noto versetto del Cantico dei cantici (2,1), in coerenza con l’interpretazione che vedeva appunto nello sposo la figura del Figlio di Dio.
La creazione, dunque, grida: «Chi ci ha creati è infinitamente buono» (Mem 146: FF 750); e ancora: «Dio mi ha fatta per te, o uomo» (CAss 88: FF 1623). È questo il punto forte del discorso di Francesco: la creazione tutta, opera di Dio, è chiamata alla lode di Dio, ma vi è chiamato soprattutto l’uomo, vertice della creazione stessa, poiché tutto è stato dato a lui in maniera che se ne serva e lo restituisca al Creatore. Torna, in altri termini, il concetto di restituzione, ben attestato negli scritti di Francesco. A Dio va, quindi, ricondotta l’opera creata, perché loda Dio e parla di Dio. Far violenza alla creazione vuol dire, perciò, far violenza a Dio stesso.
Il dramma è tutto qui: che le creature servono Iddio molto meglio dell’uomo, poiché, mentre esse obbediscono al Creatore, l’uomo gli volta tranquillamente le spalle (Am V, 1-2: FF 153-154). È vero, però, che Francesco – il quale esaltava l’obbedienza delle creature inanimate opponendola alla disobbedienza dell’uomo nei confronti del suo Creatore – non si dimostrò miope di fronte alla violenza gratuita e alla sopraffazione che pure tante volte il mondo animale lascia emergere con fare ferino. Di fronte alla cattiveria gratuita, anzi, reagì a volte con implacabile durezza: maledì una scrofa che aveva ucciso un agnello appena nato e quella morì dopo tre giorni tra dolori indicibili (Mem 111: FF 698). Maledì un pettirosso, il più grande tra quelli di un’intera covata, poiché si era messo a perseguitare i fratelli più piccoli, saziandosi a volontà e scacciando gli altri lontano dal cibo, perché ne restassero privi (Mem 47: FF 633).
Anche gli animali, in definitiva, dovevano obbedire al progetto di amore di Dio, per cui egli esprimeva comunque delle opzioni preferenziali, prediligendo quelli che potevano essere presi a modello per esaltare i valori evangelici. L’armonia con la creazione includeva così il rispetto di quelle stessi leggi che sono necessarie affinché tra gli uomini possa instaurarsi una vera pace.

4. L’armonia con se stesso
Forse quello dell’armonia di Francesco con se stesso può risultare l’aspetto più insidioso, perché egli sembrò a tratti avere misericordia per tutti meno che per la propria persona, tanto che un frate dovette impiegare una volta grande accortezza e sapienza per convincerlo del fatto che non s’era mostrato troppo indulgente con «frate corpo» (2Cel 210-211: FF 800). Malgrado raccomandasse ai frati di trattare il corpo con discrezione, non dette qui buon esempio. «Fu questo – assicura Tommaso – l’unico insegnamento nel quale la condotta del Padre non corrispose alle parole» (2Cel 129: FF 713).
Eppure i suoi scritti mostrano che, a prezzo di duro sforzo, anche quest’ultimo dissidio fu da lui ricomposto. Espressioni rivelatrici compaiono – a mio avviso – nel Saluto alle virtù, nel quale scrive che
la santa obbedienza confonde ogni volontà propria corporale e carnale, e tiene il corpo di ciascuno mortificato per l’obbedienza allo spirito e per l’obbedienza al proprio fratello; e allora egli è suddito e sottomesso a tutti gli uomini che sono nel mondo, e non soltanto ai soli uomini, ma anche a tutte le bestie e alle fiere, così che possano fare di lui quello che vogliono, per quanto sarà loro concesso dall’alto dal Signore (Salvir 14-18: FF 258).
L’«obbedienza caritativa [...] soddisfa a Dio e al prossimo» (Am III, 6: FF 149), rivelandosi così antidoto efficace per combattere il peccato di Adamo, che non peccò «fino a quando non contravvenne all’obbedienza» (Am II, 2: FF 146).
Proprio in questa concezione dell’obbedienza sta la chiave del superamento di un’apparente contraddizione, poiché «colui che si appropria la sua volontà e si esalta per i beni che il Signore dice e opera in lui» «mangia dell’albero della scienza del bene» (Am II, 3: FF 147). È nell’abbandono a Dio che alla fine Francesco risolve interrogativi e dubbi, restituendo a Dio ogni cosa, dal momento che «tutti i beni sono suoi» (Rnb XVII, 17: FF 49), invitando pure i suoi frati a non attribuire «al proprio io carnale» «ogni scienza che sanno e desiderano sapere», ma a restituirla «all’altissimo Signore Dio, al quale appartiene ogni bene» (Am VII, 4: FF 156). In definitiva, è beato quel «servo che restituisce tutti i beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà tolto ciò che credeva di possedere» (Am XVIII, 2: FF 168).
Nella lotta difficile con se stesso, alla fine Francesco accettò che fosse Dio a decidere tempi e modi della sua vita. Come Gesù anch’egli, dopo aver pregato in molte occasioni che il calice passasse senza che fosse costretto a berlo, «depose tuttavia la sua volontà nella volontà del Padre dicendo: “Padre, sia fatta la tua volontà; non come voglio io, ma come vuoi tu”» (2Lf 10: 183). In questa perenne tensione egli riuscì a far pace con se stesso, anche se la vittoria fu pagata a caro prezzo.
5. Torniamo a fare della nostra terra un giardino
Non possiamo, dunque, comprendere la disposizione di Francesco nei riguardi del creato e degli animali al di fuori di un orizzonte teocentrico, prescindendo cioè da Dio e dall’obbedienza che gli è dovuta. Il rispetto dell’ambiente passa – nel suo insegnamento – attraverso il rispetto e l’obbedienza dovuti al Creatore: il Santo era infatti ben cosciente che Dio aveva creato l’universo come un giardino e voleva che l’uomo, riconquistato dal sangue di Cristo, tornasse a obbedire al suo Creatore in modo che l’universo intero diventasse di nuovo quel giardino che era stato in origine. L’obbedienza, «sorella» della carità (Salvir 3: FF 256), virtù poco amata in ogni tempo, chiede all’uomo di adeguare i suoi progetti a quelli che sono i progetti di Dio; un’obbedienza dovuta «non solo al Padre che è nei cieli, ma anche al progetto di vita che egli ha inscritto nell’intera famiglia delle sue creature»[9]. E ha ben ragione Carlo Paolazzi quando afferma che siamo, forse, di fronte al «messaggio più inatteso e inascoltato dell’intera cultura religiosa dell’Occidente cristiano»[10].

 

Publié dans:ECOLOGIA |on 21 février, 2017 |Pas de commentaires »

Dio Padre

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https://en.wikipedia.org/wiki/God_the_Father#/media/File:Waldburg-Gebetbuch_158.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 17 février, 2017 |Pas de commentaires »

19 FEBBRAIO 2017 | 7A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO A | OMELIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/2017-Anno_A/05-Ordinario_A/Omelie/07-Domenica/10-07a-Domenica_A_2017-UD.htm

19 FEBBRAIO 2017 | 7A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO A | OMELIA

Occhio per occhio…? Ma io vi dico…

Per cominciare
Anche l’antico testamento rifiutava la vendetta e l’odio, ma Gesù si spinge molto oltre e invita i suoi discepoli ad amare i nemici e a pregare per i persecutori. Le sue parole sono di una novità assoluta e non hanno riscontro in nessun’altra civiltà.

La parola di Dio
Levitico 19,1-2.17-18. Il Signore per bocca di Mosè invita gli Israeliti a essere santi. In particolare chiede loro di rifiutare l’odio e la vendetta, e di lasciarsi guidare dall’amore, di amare « il prossimo come se stessi ».
1 Corinzi 3,16-23. Paolo, dopo aver richiamato quelli che nella chiesa di Corinto dividono la comunità in fazioni, schierandosi per l’uno o per l’altro predicatore, li invita a riconoscere la propria dignità e la santità della chiesa. A farsi stolti per Dio, rifiutando una sapienza che conduce a una gloria effimera. La chiesa, dice Paolo, è come un santuario tenuto in piedi dallo Spirito, ed è minacciato drammaticamente nella sua solidità da queste divisioni, mentre tutto deve essere strumento a servizio della stabilità e della unità di questo edificio.
Matteo 5,38-48. Siamo ancora al capitolo quinto di Matteo, il notissimo « Discorso della Montagna ». Gesù dice ai discepoli di rifiutare la vendetta e l’odio, di non considerare nessuno nemico, anzi di amare i propri nemici.

Riflettere
Tra i passi del « Discorso della Montagna », questo è senza dubbio il più difficile da accettare, ma è anche quello che qualifica più nettamente l’uomo che ha deciso di seguire la nuova legge.
Anche se non sono mancati alcuni saggi dell’antichità che hanno formulato espressioni morali elevate, come Diogene: « Comportati in modo da trasformare i tuoi nemici in amici » o Marco Aurelio: « È proprio dell’uomo amare anche coloro che lo percuotono », l’amare i nemici proposto da Gesù fa parte di una logica assolutamente nuova, sconosciuta almeno a livello ufficiale nel mondo antico, anche in quello ebraico, che praticava una giustizia fondata esclusivamente sull’uguaglianza del dare e dell’avere (« occhio per occhio, dente per dente »).
Amare i nemici è per Gesù molto più che perdonarli: è fare loro del bene positivamente, è offrire loro la propria tunica, non richiedere interesse nei prestiti, è salutare per primi, porgere la guancia quando si è stati offesi.
È una prospettiva nuova, dura, paradossale, costruita partendo da un punto di vista impensabile: amare gli importuni, i prepotenti e i nemici perché Dio li ama di un amore di benevolenza e di misericordia.
È in questo modo che i figli di Dio imitano la sua paternità, agiscono mossi dallo Spirito, vivono anticipando la gioia della vita futura.
La giustizia di Gesù non segue una logica umana: il discepolo di Gesù deve essere più generoso del più giusto degli uomini: potrebbe essere chiamato infatti a rinunciare al rispetto dei propri diritti; a prestare a chi non può pagare e quindi senza poter esigere la restituzione di ciò che ha dato in prestito; a donare il proprio vestito, ossia ciò che ha di più personale, a chi lo richiede… Infatti, dice Gesù, salutare chi saluta, prestare a chi può restituire e con l’interesse, donare a chi può ricambiare fa parte di una logica antica.

Attualizzare
Dice un personaggio de I fratelli Karamazov di Dostoevskij: « In sole 24 ore posso arrivare a odiare anche l’uomo migliore del mondo: quello perché sta troppo a tavola, quest’altro perché ha il raffreddore e non fa che soffiarsi il naso. Io divento nemico degli uomini appena mi si accostano… ».
Siamo fatti così, intolleranti verso gli altri. Ci facciamo facilmente i nemici, dividiamo in categorie le persone. Basta un gesto, un diritto anche piccolo non riconosciuto e a volte ci spacchiamo per sempre.
Ma questa volta Gesù pare chiedere ai suoi discepoli qualcosa di decisamente scomodo, quasi di intollerabile. Amare è difficile, ma ce la caviamo cercando di farlo con chi ci accetta e con chi non ci dà troppo fastidio. Ma amare i nemici sembra decisamente troppo. Com’è possibile amare chi è cattivo verso di noi, verso gli altri, verso tutti? Sarebbe poi facile riandare alla storia e pensare ai grandi violenti di tutti i tempi. Come si può amare chi ha voluto i campi di sterminio, o perseguita i cristiani per la loro religiosità?
Ancora una volta il parlare di Gesù è un parlare semitico, che semplifica e radicalizza il discorso per renderlo più chiaro. Ma vuole indubbiamente far scoprire che il comportamento del discepolo di Gesù è qualitativamente diverso da quello di chi si trova sotto una logica puramente umana.
La legge del mondo risponde a una logica di giustizia ferrea, di divisione di ceti, di razze, di religione. Gesù chiede ai cristiani di superare ogni barriera con l’amore.
Come il prossimo è colui che ci è più vicino, così il nostro nemico è colui che non ci ama, che ci dà concretamente fastidio, che è importuno, non saluta, cerca di strapparti ciò che è palesemente tuo. Gesù assicura che la carità usata nei loro confronti è costruttiva, vittoriosa.
Nell’antico testamento, soprattutto nel testo dei salmi, il nemico è sempre presente, creando tra l’altro parecchio disagio alla spiritualità dei cristiani… Ma anche oggi, c’è sempre qualcuno che ha bisogno di un nemico. Sono spesso persone in difficoltà o dalla personalità fragile.
L’amore per i nemici ha dei risvolti profondamente umani, perché parte da una simpatia profonda per l’altro, dal tentativo di entrare nel suo animo, di capirlo meglio, di compatirlo. Sottolinea in fondo quanto sia complesso l’animo dell’uomo, quanto sia superficiale fidarsi dello schema amici-nemici nell’organizzare la nostra vita.
Di fronte ai nemici il cristiano è guidato in ogni caso esclusivamente da una logica di amore. Anche nei casi di legittima difesa, di insurrezione rivoluzionaria necessaria di fronte a un governo palesemente ingiusto, deve lasciarsi guidare dall’amore nella scelta delle strategie, in modo da proporsi anche l’obiettivo della conversione del proprio nemico.
Diamo ancora uno sguardo alle prime due letture: Mosè e Paolo esortano a essere santi. E Gesù non chiede qualcosa di meno o di diverso. La logica delle beatitudini si regge soltanto in un regime di eroismo e santità. È solo così che l’amore verso i nemici o meglio ancora « non considerare nessuno come nemico » può diventare possibile.

È dolce ciò che è promesso
« Si deve usare carità a tutti gli uomini: conosciuti e sconosciuti, buoni e cattivi, amici e nemici. La carità deve abbracciare gli amici, ma in modo tale da estendersi anche ai nemici: deve donarsi agli amici che la desiderano, ma offrirsi anche ai nemici che non la vogliono. Quelli deve conservare, questi acquistare; quelli deve fare contenti, perché da amici non si facciano nemici; questi deve invitare, perché da nemici diventino amici. Il Signore ci ordina di estendere la carità fino ai nemici, e di dilatare la bontà del cuore cristiano fino ai persecutori. Ci impone di amare i nemici. Forse potrebbe essere amaro tale comando per chi lo sente; ma sia dolce, vi prego, ciò che è promesso a chi obbedisce. Si conservi nel cuore questa soave dolcezza e si supererà l’amara difficoltà. Colui che amerà i propri nemici e farà del bene a chi lo odia, sarà figlio di Dio » (san Fulgenzio di Ruspe).

Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb

Cristo appare a Pietro e Paolo

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Publié dans:immagini sacre |on 15 février, 2017 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 11. LA SPERANZA NON DELUDE (CFR RM 5,1-5)

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PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 11. LA SPERANZA NON DELUDE (CFR RM 5,1-5)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 15 febbraio 2017

La Speranza cristiana – 11. La speranza non delude (cfr Rm 5,1-5)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Fin da piccoli ci viene insegnato che non è una bella cosa vantarsi. Nella mia terra, quelli che si vantano li chiamano “pavoni”. Ed è giusto, perché vantarsi di quello che si è o di quello che si ha, oltre a una certa superbia, tradisce anche una mancanza di rispetto nei confronti degli altri, specialmente verso coloro che sono più sfortunati di noi. In questo passo della Lettera ai Romani, però, l’Apostolo Paolo ci sorprende, in quanto per ben due volte ci esorta a vantarci. Di cosa allora è giusto vantarsi? Perché se lui esorta a vantarsi, di qualcosa è giusto vantarsi. E come è possibile fare questo, senza offendere gli altri, senza escludere qualcuno?
Nel primo caso, siamo invitati a vantarci dell’abbondanza della grazia di cui siamo pervasi in Gesù Cristo, per mezzo della fede. Paolo vuole farci capire che, se impariamo a leggere ogni cosa con la luce dello Spirito Santo, ci accorgiamo che tutto è grazia! Tutto è dono! Se facciamo attenzione, infatti, ad agire – nella storia, come nella nostra vita – non siamo solo noi, ma è anzitutto Dio. È Lui il protagonista assoluto, che crea ogni cosa come un dono d’amore, che tesse la trama del suo disegno di salvezza e che lo porta a compimento per noi, mediante il suo Figlio Gesù. A noi è richiesto di riconoscere tutto questo, di accoglierlo con gratitudine e di farlo diventare motivo di lode, di benedizione e di grande gioia. Se facciamo questo, siamo in pace con Dio e facciamo esperienza della libertà. E questa pace si estende poi a tutti gli ambiti e a tutte le relazioni della nostra vita: siamo in pace con noi stessi, siamo in pace in famiglia, nella nostra comunità, al lavoro e con le persone che incontriamo ogni giorno sul nostro cammino.
Paolo però esorta a vantarci anche nelle tribolazioni. Questo non è facile da capire. Questo ci risulta più difficile e può sembrare che non abbia niente a che fare con la condizione di pace appena descritta. Invece ne costituisce il presupposto più autentico, più vero. Infatti, la pace che ci offre e ci garantisce il Signore non va intesa come l’assenza di preoccupazioni, di delusioni, di mancanze, di motivi di sofferenza. Se fosse così, nel caso in cui riuscissimo a stare in pace, quel momento finirebbe presto e cadremmo inevitabilmente nello sconforto. La pace che scaturisce dalla fede è invece un dono: è la grazia di sperimentare che Dio ci ama e che ci è sempre accanto, non ci lascia soli nemmeno un attimo della nostra vita. E questo, come afferma l’Apostolo, genera la pazienza, perché sappiamo che, anche nei momenti più duri e sconvolgenti, la misericordia e la bontà del Signore sono più grandi di ogni cosa e nulla ci strapperà dalle sue mani e dalla comunione con Lui.
Ecco allora perché la speranza cristiana è solida, ecco perché non delude. Mai, delude. La speranza non delude! Non è fondata su quello che noi possiamo fare o essere, e nemmeno su ciò in cui noi possiamo credere. Il suo fondamento, cioè il fondamento della speranza cristiana, è ciò che di più fedele e sicuro possa esserci, vale a dire l’amore che Dio stesso nutre per ciascuno di noi. E’ facile dire: Dio ci ama. Tutti lo diciamo. Ma pensate un po’: ognuno di noi è capace di dire: sono sicuro che Dio mi ama? Non è tanto facile dirlo. Ma è vero. E’ un buon esercizio, questo, dire a se stessi: Dio mi ama. Questa è la radice della nostra sicurezza, la radice della speranza. E il Signore ha effuso abbondantemente nei nostri cuori lo Spirito – che è l’amore di Dio – come artefice, come garante, proprio perché possa alimentare dentro di noi la fede e mantenere viva questa speranza. E questa sicurezza: Dio mi ama. “Ma in questo momento brutto?” – Dio mi ama. “E a me, che ho fatto questa cosa brutta e cattiva?” – Dio mi ama. Quella sicurezza non ce la toglie nessuno. E dobbiamo ripeterlo come preghiera: Dio mi ama. Sono sicuro che Dio mi ama. Sono sicura che Dio mi ama.
Adesso comprendiamo perché l’Apostolo Paolo ci esorta a vantarci sempre di tutto questo. Io mi vanto dell’amore di Dio, perché mi ama. La speranza che ci è stata donata non ci separa dagli altri, né tanto meno ci porta a screditarli o emarginarli. Si tratta invece di un dono straordinario del quale siamo chiamati a farci “canali”, con umiltà e semplicità, per tutti. E allora il nostro vanto più grande sarà quello di avere come Padre un Dio che non fa preferenze, che non esclude nessuno, ma che apre la sua casa a tutti gli esseri umani, a cominciare dagli ultimi e dai lontani, perché come suoi figli impariamo a consolarci e a sostenerci gli uni gli altri. E non dimenticatevi: la speranza non delude.

Publié dans:PAPA FRANCESCO CATECHESI, San Paolo |on 15 février, 2017 |Pas de commentaires »

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Publié dans:immagini sacre |on 14 février, 2017 |Pas de commentaires »

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Publié dans:immagini |on 13 février, 2017 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – LA STORIA DI CAINO E ABELE

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PAPA FRANCESCO – LA STORIA DI CAINO E ABELE

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

La storia di Caino e Abele

Lunedì, 13 febbraio 2017

Per un missionario speciale, che mercoledì partirà alla volta dell’oriente, Papa Francesco ha voluto offrire la messa celebrata lunedì mattina, 13 febbraio, nella cappella di Santa Marta. «Un pensiero di famiglia» ha sottolineato il Pontefice, perché il missionario è padre Adolfo Nicolás Pachón, già preposito generale della Compagnia di Gesù. «Che il Signore retribuisca tutto il bene fatto e lo accompagni nella nuova missione: grazie, padre Nicolás» ha detto Francesco rivolgendosi al religioso che ha concelebrato con lui.

Riferendosi poi alla prima lettura, tratta dal libro della Genesi (4, 1-15.25), il Papa all’omelia ha fatto notare che «è la prima volta che nella Bibbia si dice la parola fratello». Quella di Caino e Abele, ha spiegato, «è la storia di una fratellanza che doveva crescere, essere bella» ma invece «finisce distrutta». E «la storia, l’abbiamo sentito, incominciò con una piccola gelosia: Caino, quando ha visto che il suo sacrificio non è stato accettato, fu molto irritato e incominciò a cuocere quel sentimento dentro».
«Quell’irritazione — ha spiegato Francesco — non era solo nell’anima, anche nel corpo: il suo volto era abbattuto». Ed ecco che «il Signore, come Padre, gli parla: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il tuo istinto”».
Alla fine, ha affermato il Papa, «Caino preferì l’istinto, preferì lasciar cuocere dentro di sé questo sentimento, ingrandirlo, lasciarlo crescere. Questo peccato che farà dopo, che è accovacciato dietro il sentimento, cresce». Proprio «così — ha proseguito il Pontefice — crescono le inimicizie fra di noi: cominciano con una piccola cosa, una gelosia, un’invidia e poi questo cresce e noi vediamo la vita soltanto da quel punto e quella pagliuzza diventa per noi una trave: Ma la trave l’abbiamo noi, è là». Tanto che poi «la nostra vita gira intorno a quello, e quello distrugge il legame di fratellanza, distrugge la fraternità». Anche quando «siamo sotto questo istinto rannicchiato, nel nostro cuore, diventiamo con lo spirito giallo, come si dice: il fiele, come se non avessimo sangue, avessimo fiele, è così». A tal punto che «quello che conta è soltanto quella persona, quello che ha fatto male». Siamo «ossessionati, perseguitati da quello, e così cresce l’inimicizia e finisce male, sempre».
Insomma, ha aggiunto Francesco, finisce che «io mi distacco da mio fratello: “Questo non è mio fratello, questo è un nemico, questo dev’essere distrutto, cacciato via!”». Ed è proprio così che «si distrugge la gente, così le inimicizie distruggono famiglie, popoli, tutto». È «quel rodersi il fegato, sempre ossessionato con quello». Proprio «questo è accaduto a Caino e, alla fine, ha fatto fuori il fratello: “No, non c’è fratello, sono io soltanto; non c’è fratellanza, sono io soltanto!”».
Ciò che «è successo all’inizio — ha messo in guardia Francesco — può accadere a tutti noi, è una possibilità». Per questa ragione è un «processo» che «dev’essere fermato subito, all’inizio, alla prima amarezza». Bisogna fermarlo, perché «l’amarezza non è cristiana: il dolore sì, l’amarezza no». Anche «il risentimento non è cristiano: il dolore sì, il risentimento no». Invece «quante inimicizie, quante spaccature» ci sono.
«Oggi ci sono i nuovi parroci» ha detto ancora il Papa riferendosi ai sacerdoti presenti e facendo notare: «Anche nei nostri presbiteri, nei nostri collegi episcopali, quante spaccature incominciano così!». E magari ci si chiede: «Perché a questo hanno dato quella sede e non a me? E perché questo?». Così, con «piccole cosine, spaccature, si distrugge la fratellanza».
Davanti a questo atteggiamento dell’uomo «cosa fa il Signore?». Il passo della Genesi suggerisce che egli, come a Caino, «ci domanda: “dov’è Abele, tuo fratello?”». Per il Pontefice «la risposta di Caino è ironica: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”». Ma viene da ribattere: «Sì, tu sei il custode di tuo fratello». Da parte sua «Caino avrebbe potuto rispondere: “Sì, io so dov’è Abele, ma non so dov’è mio fratello, perché Abele non è mio fratello: ho distrutto quella fratellanza”». Come a dire: «Io so dov’è quello o quella o questi o questi: lo so, ma non so dove sono i miei fratelli». In effetti, «quando si cade in questo processo che finisce nella distruzione della fratellanza — ha spiegato il Pontefice — si può dire questo: io so, sì, dov’è questo o quella, ma non so dov’è mio fratello, mia sorella perché per me questo o quella non sono fratelli e sorelle».
Su questo punto, continua la Genesi, «il Signore è forte: “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo”». È vero, ha proseguito Francesco, che «ognuno di noi può dire: “Padre, io non mai ho ucciso nessuno, mai!”». Però «pensiamo al Vangelo di ieri: se tu hai un sentimento cattivo verso tuo fratello, lo hai ucciso; se tu insulti tuo fratello, lo hai ucciso nel tuo cuore». Perché «l’uccisione è un processo che incomincia dal piccolo, come qui». Ognuno di noi — «almeno io mi iscrivo nella lista» ha precisato il Papa — «pensi: quante volte ho lasciato questo da parte, ho avuto gelosia, questo l’ho staccato di qua, di là, di là». E ancora: «Quante volte, per dire la verità, ho detto al Signore: “Io so dov’è questo o quello, ma non so dov’è mio fratello”». Proprio «questa è la parola di Dio per noi» e «non per conoscere un pezzo di storia o di teologia biblica».
«Anche oggi — ha affermato il Pontefice — la voce di Dio, non solo a ognuno di noi, ma a tutta l’umanità, domanda: “Dov’è tuo fratello? Dov’è tua sorella?”». E la nostra risposta è: «Io so dove sono quelli che sono bombardati là, che sono cacciati via da lì, ma questi non sono fratelli, ho distrutto il legame». Allo stesso modo, «quanti potenti della terra possono dire: “A me interessa questo territorio, a me interessa questo pezzo di terra, questo altro, se la bomba cade e uccide duecento bambini non è colpa mia: è colpa della bomba; a me interessa il territorio”».
Dunque, ha aggiunto Francesco, «tutto incomincia da quel sentimento che ti porta a staccarti, a dire a l’altro: “Questo è tizio, questo è così, ma non è fratello”». E «finisce nella guerra che uccide». Ma, ha osservato il Papa, «tu hai ucciso all’inizio: questo è il processo del sangue e oggi il sangue di tanta gente nel mondo grida a Dio dal suolo». Ed «è tutto collegato: quel sangue là ha un rapporto — forse un piccolo goccetto di sangue — che con la mia invidia, la mia gelosia, ho fatto uscire io quando ho distrutto una fratellanza: non è il numero che distrugge la fratellanza, è quello che esce dal cuore di ognuno di noi».
«Il Signore oggi — è stato l’auspicio del Papa — ci aiuti a ripete questa sua parola: “Dov’è tuo fratello?”». E «ognuno di noi» — ha suggerito in conclusione Francesco come esame di coscienza — pensi «a tutti questi che abbiamo staccati, a tutti questi dei quali sparliamo quando ci incontriamo, o distruggiamo con la lingua». E «pensiamo anche a tutti quelli che nel mondo sono trattati come cose e non come fratelli, perché è più importante un pezzo di terra che il legame della fratellanza».

Publié dans:PAPA FRANCESCO: OMELIE QUOTIDIANE |on 13 février, 2017 |Pas de commentaires »

VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – UFFICIO DELLE LETTURE

http://www.maranatha.it/Ore/ord/LetDom/06DOMpage.htm

VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – UFFICIO DELLE LETTURE

INVITATORIO
V. Signore, apri le mie labbra
R. e la mia bocca proclami la tua lode.

Antifona
Venite, adoriamo il Signore,
pastore e guida del suo popolo, alleluia.

SALMO 94 Invito a lodare Dio
( Il Salmo 94 può essere sostituito dal salmo 99 o 66 o 23 )
Esortandovi a vicenda ogni giorno, finché dura « quest’oggi » (Eb 3,13).

Si enunzia e si ripete l’antifona.

Venite, applaudiamo al Signore, *
acclamiamo alla roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie, *
a lui acclamiamo con canti di gioia (Ant.).

Poiché grande Dio è il Signore, *
grande re sopra tutti gli dèi.
Nella sua mano sono gli abissi della terra, *
sono sue le vette dei monti.
Suo è il mare, egli l’ha fatto, *
le sue mani hanno plasmato la terra (Ant.).

Venite, prostràti adoriamo, *
in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati.
Egli è il nostro Dio, e noi il popolo del suo pascolo, *
il gregge che egli conduce (Ant.).

Ascoltate oggi la sua voce: †
« Non indurite il cuore, *
come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto,

dove mi tentarono i vostri padri: *
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere (Ant.).

Per quarant’anni mi disgustai di quella generazione †
e dissi: Sono un popolo dal cuore traviato, *
non conoscono le mie vie;

perciò ho giurato nel mio sdegno: *
Non entreranno nel luogo del mio riposo » (Ant.).

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio, e ora e sempre, *
nei secoli dei secoli. Amen (Ant.).

Inno
Splende nel giorno ottavo
l’era nuova del mondo,
consacrata da Cristo,
primizia dei risorti.

O Gesù, re di gloria,
unisci i tuoi fedeli
al trionfo pasquale
sul male e sulla morte.

Fa’ che un giorno veniamo
incontro a te, Signore,
sulle nubi del cielo
nel regno dei beati.

Trasformàti a tua immagine,
noi vedremo il tuo volto;
e sarà gioia piena
nei secoli dei secoli. Amen.

1^ Antifona
Signore mio Dio,
come un manto ti avvolge la luce,
sei rivestito di maestà e di splendore, alleluia.

SALMO 103, 1-12 (I) Inno a Dio creatore
Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove (2 Cor 5, 17).

Benedici il Signore, anima mia, *
Signore, mio Dio, quanto sei grande!
Rivestito di maestà e di splendore, *
avvolto di luce come di un manto.

Tu stendi il cielo come una tenda, *
costruisci sulle acque la tua dimora,

fai delle nubi il tuo carro, *
cammini sulle ali del vento;

fai dei venti i tuoi messaggeri, *
delle fiamme guizzanti i tuoi ministri.

Hai fondato la terra sulle sue basi, *
mai potrà vacillare.

L’oceano l’avvolgeva come un manto, *
le acque coprivano le montagne.

Alla tua minaccia sono fuggite, *
al fragore del tuo tuono hanno tremato.

Emergono i monti, scendono le valli †
al luogo che hai loro assegnato.

Hai posto un limite alle acque:
non lo passeranno, *
non torneranno a coprire la terra.

Fai scaturire le sorgenti nelle valli *
e scorrono tra i monti;
ne bevono tutte le bestie selvatiche *
e gli ònagri estinguono la loro sete.

Al di sopra dimorano gli uccelli del cielo, *
cantano tra le fronde.

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen.

1^ Antifona
Signore mio Dio,
come un manto ti avvolge la luce,
sei rivestito di maestà e di splendore, alleluia.

2^ Antifona
Tu fai nascere il pane dalla terra
e il vino che allieta il cuore dell’uomo, alleluia.

SALMO 103, 13-23 (II) Inno a Dio creatore
Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove (2 Cor 5, 17).

Dalle tue alte dimore irrighi i monti, *
con il frutto delle tue opere sazi la terra.

Fai crescere il fieno per gli armenti †
e l’erba al servizio dell’uomo, *
perché tragga alimento dalla terra:

il vino che allieta il cuore dell’uomo; †
l’olio che fa brillare il suo volto *
e il pane che sostiene il suo vigore.

Si saziano gli alberi del Signore, *
i cedri del Libano da lui piantati.
Là gli uccelli fanno il loro nido *
e la cicogna sui cipressi ha la sua casa.

Per i camosci sono le alte montagne, *
le rocce sono rifugio per gli iràci.
Per segnare le stagioni hai fatto la luna *
e il sole che conosce il suo tramonto.

Stendi le tenebre e viene la notte *
e vagano tutte le bestie della foresta;
ruggiscono i leoncelli in cerca di preda *
e chiedono a Dio il loro cibo.

Sorge il sole, si ritirano *
e si accovacciano nelle tane.
Allora l’uomo esce al suo lavoro, *
per la sua fatica fino a sera.

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen.

2^ Antifona
Tu fai nascere il pane dalla terra
e il vino che allieta il cuore dell’uomo, alleluia.

3^ Antifona
Dio guardò la sua creazione:
ed era tutta buona, alleluia.

SALMO 103, 24-35 (III) Inno a Dio creatore
Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove (2 Cor 5, 17).

Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! †
Tutto hai fatto con saggezza, *
la terra è piena delle tue creature.

Ecco il mare spazioso e vasto: †
lì guizzano senza numero *
animali piccoli e grandi.

Lo solcano le navi, *
il Leviatàn che hai plasmato
perché in esso si diverta.

Tutti da te aspettano *
che tu dia loro il cibo in tempo opportuno.
Tu lo provvedi, essi lo raccolgono, *
tu apri la mano, si saziano di beni.

Se nascondi il tuo volto, vengono meno, †
togli loro il respiro, muoiono *
e ritornano nella loro polvere.

Mandi il tuo spirito, sono creati, *
e rinnovi la faccia della terra.

La gloria del Signore sia per sempre; *
gioisca il Signore delle sue opere.
Egli guarda la terra e la fa sussultare, *
tocca i monti ed essi fumano.

Voglio cantare al Signore finché ho vita, *
cantare al mio Dio finché esisto.
A lui sia gradito il mio canto; *
la mia gioia è nel Signore.

Scompaiano i peccatori dalla terra †
e più non esistano gli empi. *
Benedici il Signore, anima mia.

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen.

3^ Antifona
Dio guardò la sua creazione:
ed era tutta buona, alleluia.

Versetto
V. Beati i vostri occhi, che vedono il Cristo:
R. I vostri orecchi, che ascoltano la sua voce.

Prima Lettura
Dal libro dei Proverbi 1, 1-7. 20-32

Esortazione a ricercare la sapienza
Proverbi di Salomone, figlio di Davide, re d’Israele,
per conoscere la sapienza e la disciplina,
per capire i detti profondi,
per acquistare un’istruzione illuminata,
equità, giustizia e rettitudine,
per dare agli inesperti l’accortezza,
ai giovani conoscenza e riflessione.
Ascolti il saggio e aumenterà il sapere,
e l’uomo accorto acquisterà il dono del consiglio,
per comprendere proverbi e allegorie,
le massime dei saggi e i loro enigmi.
Il timore del Signore è il principio della scienza;
gli stolti disprezzano la sapienza e l’istruzione.
La sapienza grida per le strade
nelle piazze fa udire la voce;
dall’alto delle mura essa chiama,
pronunzia i suoi detti alle porte della città:
«Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza
e i beffardi si compiaceranno delle loro beffe
e gli sciocchi avranno in odio la scienza?
Volgetevi alle mie esortazioni:
ecco, io effonderò il mio spirito su di voi
e vi manifesterò le mie parole.
Poiché vi ho chiamato e avete rifiutato,
ho steso la mano e nessuno ci ha fatto attenzione;
avete trascurato ogni mio consiglio
e la mia esortazione non avete accolto;
anch’io riderò delle vostre sventure,
mi farò beffe quando su di voi verrà la paura,
quando come una tempesta
vi piomberà addosso il terrore,
quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano,
quando vi colpirà l’angoscia e la tribolazione.
Allora mi invocheranno, ma io non risponderò,
mi cercheranno, ma non mi troveranno.
Poiché hanno odiato la sapienza
e non hanno amato il timore del Signore;
non hanno accettato il mio consiglio
e hanno disprezzato tutte le mie esortazioni;
mangeranno il frutto della loro condotta
e si sazieranno dei risultati delle loro decisioni.
Sì, lo sbandamento degli inesperti li ucciderà
e la spensieratezza degli sciocchi li farà perire;
ma chi ascolta me vivrà tranquillo
e sicuro dal timore del male».

Responsorio Cfr. 1 Cor 3, 18-19; 1, 23. 24
R. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente. * la sapienza del mondo è stoltezza davanti a Dio.
V. Noi predichiamo Cristo crocifisso, potenza di Dio e sapienza di Dio:
R. la sapienza del mondo è stoltezza davanti a Dio.

Seconda Lettura
Dai «Commenti dal Diatessaron» di sant’Efrem, diacono
(1, 18-19; SC 121, 52-53)

La parola di Dio è sorgente inesauribile di vita
Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? E’ molto più ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono ad una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla.
La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi mangiarono, dice l’Apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale (cfr. 1 Cor 10, 2).
Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre ciò che egli ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una sola cosa fra molte altre. Dopo essersi arricchito della parola, non creda che questa venga da ciò impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per la immensità di essa. Rallegrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. E` meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, ricevilo in altri momenti con la tua perseveranza. Non avere l’impudenza di voler prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a più riprese, e non allontanarti da ciò che potresti ricevere solo un po’ alla volta.

Responsorio Cfr. 1 Pt 1, 25; Bar 4, 1
R. La parola del Signore rimane in eterno: * è questo il vangelo che vi è stato annunziato.
V. Questo è il libro dei decreti di Dio, la legge che sussiste nei secoli; quanti si attengono ad essa avranno la vita:
R. è questo il vangelo che vi è stato annunziato.

Inno TE DEUM
Noi ti lodiamo, Dio *
ti proclamiamo Signore.
O eterno Padre, *
tutta la terra ti adora.

A te cantano gli angeli *
e tutte le potenze dei cieli:
Santo, Santo, Santo *
il Signore Dio dell’universo.

I cieli e la terra *
sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli *
e la candida schiera dei martiri;

le voci dei profeti si uniscono nella tua lode; *
la santa Chiesa proclama la tua gloria,
adora il tuo unico Figlio, *
e lo Spirito Santo Paraclito.

O Cristo, re della gloria, *
eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre *
per la salvezza dell’uomo.

Vincitore della morte, *
hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. *
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.

Soccorri i tuoi figli, Signore, *
che hai redento col tuo sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria *
nell’assemblea dei santi.

[*] Salva il tuo popolo, Signore, *
guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, *
lodiamo il tuo nome per sempre.

Degnati oggi, Signore, *
di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: *
in te abbiamo sperato.

Pietà di noi, Signore, *
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza, *
non saremo confusi in eterno.

[*] Quest’ultima parte dell’inno si può omettere.

Orazione
O Dio che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora. Per il nostro Signore.

R. Amen.
Benediciamo il Signore.
R. Rendiamo grazie a Dio.

The Evangelist Matthew inspired by an angel

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Publié dans:immagini sacre |on 10 février, 2017 |Pas de commentaires »
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