Archive pour le 7 février, 2017

IL SOGNO DI MARTIN LUTHER KING – « I HAVE A DREAM » (2013)

http://w2.vatican.va/content/osservatore-romano/it/comments/2013/documents/195q01b1.html

Cinquant’anni dopo, le parole « I have a dream » dello storico discorso a Washington continuano ad essere vive

IL SOGNO DI MARTIN LUTHER KING – « I HAVE A DREAM » (2013)

I cinquant’anni del grido I have a dream di Martin Luther King vengono ricordati dal cardinale arcivescovo di Washington in un articolo pubblicato sul « National Catholic Reporter », di cui riportiamo il testo integrale.

di Donald William Wuerl
I manifestanti, circa un milione, provenivano da tutti gli Stati Uniti e da ogni angolo di Washington. In quella indimenticabile giornata del 28 agosto 1963, i partecipanti alla marcia su Washington ascoltarono le storiche parole del reverendo Martin Luther King Jr.: « Ho un sogno ».
Questo sogno continua a essere vivo anche dopo cinquant’anni. La maestosa statua di King, nel nuovo memoriale a Washington, ci ricorda il suo imponente impegno nel guidare la nostra nazione verso la piena consapevolezza dell’uguaglianza di tutte le persone dinanzi a Dio. Il suo sogno, profondamente radicato nella preghiera e nella sacra Scrittura, continua a incoraggiarci a vederci gli uni gli altri come fratelli e sorelle, figli dello stesso Dio amorevole.
E rivolgendosi alla folla proveniente da ambienti, esperienze di vita e tradizioni religiose diverse, King aggiunse: « Non possiamo camminare soli ». Con lui, nel Lincoln Memorial, c’era monsignor Patrick O’Boyle, mio predecessore come arcivescovo di Washington, che pronunciò l’invocazione, pregando affinché « gli ideali della libertà, benedetti sia dalla nostra fede religiosa, sia dalla nostra eredità democratica, prevalgano nel nostro Paese ».
O’Boyle aveva incoraggiato i gruppi cattolici locali, le parrocchie e le università a partecipare alla marcia, offrendo ospitalità a quanti venivano da fuori e facendo sfilare striscioni con i nomi delle rispettive parrocchie e organizzazioni. Impegnarsi per la giustizia razziale e sociale era naturale per O’ Boyle, creato cardinale nel 1967. Poco dopo aver ricevuto il pastorale come primo arcivescovo residenziale di Washington nel 1948, aveva iniziato a lavorare per l’integrazione nelle parrocchie e nelle scuole cattoliche, molti anni prima che la sentenza della Corte Suprema Brown v. Board of Education (1954) dichiarasse illegali le strutture educative segregazioniste. Si unì anche ai leader religiosi della città domandando uguali opportunità in tema di alloggi, lavoro e istruzione pubblica. Al concilio Vaticano II esortò i padri conciliari a emanare una esplicita dichiarazione di condanna verso i pregiudizi razziali.
Nel suo discorso, King lanciò un fervido appello affinché fosse costruita una società giusta per i bambini di tutte le razze e di ogni ambiente. « Ora è il momento di fare della giustizia una realtà per tutti i figli di Dio », disse esortando la folla e l’America tutta. Come persone di fede e come americani non possiamo restare indolenti o compiacenti quando ci troviamo dinanzi al peccato del razzismo o a qualsiasi forma di ingiustizia. King chiese una risposta alla « urgenza impetuosa del momento presente ».
Rendiamo onore alle eredità di King e di O’Boyle proseguendo il loro lavoro. Un impegno questo che oggi implica anche fornire opportunità educative a tutti i bambini, e in particolare a quelli che altrimenti sarebbero destinati a scuole troppo spesso definite « scarse ». Le 96 scuole cattoliche nell’arcidiocesi di Washington servono quasi 30.000 bambini della capitale e del Maryland. Molti di questi studenti appartengono alle minoranze e non sono cattolici. Per il prossimo anno accademico 2013-2014 l’arcidiocesi ha stanziato 5,5 milioni di dollari quale contributo alle tasse scolastiche, cifra che è quasi sestuplicata negli ultimi anni. I bambini che frequentano le scuole cattoliche, nelle vie della città, nelle zone periferiche e nelle aree rurali, provengono da tutti gli ambienti e, attraverso programmi accademici impegnativi radicati nei valori cristiani, imparano a essere i futuri leader della nostra Chiesa, delle nostre comunità, della nostra nazione e del nostro mondo.
L’invito di King si realizza anche nel nostro Consorzio di Accademie Cattoliche, un gruppo di scuole cattoliche che servono i bambini più poveri nel Distretto di Columbia, offrendo un faro di speranza alle famiglie nelle aree difficili di Washington. [anche nella Sacred Heart School, con il suo programma bilingue in inglese e spagnolo. Queste porte dell'opportunità si aprono anche nella Archbishop Carroll High School, in centro, con il suo numero elevato di iscrizioni di studenti appartenenti alle minoranze e il suo programma di maturità internazionale, e attraverso l'innovativo programma di studio lavoro della Don Bosco Cristo Rey High School a Takoma Park, Md.. La St. Francis International School di Silver Spring, Md., propone un programma di apprendimento globale per bambini che hanno radici in oltre cinquanta paesi.]
La nostra arcidiocesi ha sostenuto altri sforzi innovativi per ampliare le opportunità educative. Nel 2004, alcuni leader del Congresso, rappresentanti diversi partiti e punti di vista, si sono riuniti per istituire il D.C. Opportunity Scholarship Program, che ha assegnato circa 6.000 borse di studio per i bambini della città, il 98 percento dei quali appartiene alle minoranze e avrebbe dunque ricevuto un’istruzione carente. [Lo scorso anno, il 97 percento degli studenti della 12a classe che hanno usufruito di questa borsa di studio si sono diplomati - e la percentuale di quanti avevano scelto scuole cattoliche è stata persino più alta - rispetto al 60 percento registrato nelle scuole pubbliche del Distretto di Columbia]. Uno di questi diplomati, una immigrante etiope, ha tenuto il discorso di commiato della sua classe della Archbishop Carroll High School, e sogna di diventare medico e di servire i poveri. Un altro che ha usufruito della borsa, uno studente di origine salvadoregna, ha ricevuto un riconoscimento dall’amministrazione Obama ed è stato nominato White House Champion of Change.
Come arcivescovo di Washington, sono stato testimone del sogno di King di vedere gli americani pregare e marciare insieme per la giustizia. Ogni anno, durante le marce, i raduni e le messe per la vita, centinaia di migliaia di persone provenienti da tutto il Paese si riuniscono per pregare e marciare insieme in difesa della dignità della vita umana in ogni sua fase.
La nostra fede non potrà mai essere relegata a quell’ora in chiesa la domenica. Come ci ha invitato a fare Papa Francesco, dobbiamo « uscire » e portare l’amore e la speranza di Cristo alle nostre comunità e al mondo. È per questo che i programmi delle Catholic Charities e gli ospedali cattolici continuano a portare l’amore e la speranza di Cristo a tutti coloro che ne hanno bisogno, a prescindere da razza, religione, sesso, nazionalità o orientamento sessuale. Per questo dobbiamo continuare a sostenere la dignità della vita umana, la libertà religiosa e la giustizia per gli immigranti. La nuova enciclica del nostro Papa, Lumen fidei, ci ricorda che la fede è la luce che dovrebbe guidare la nostra vita. Certamente lo è stata per King.
Parlando dai gradini dell’Islamic Center a Washinton durante un incontro interconfessionale nel 2006, ho invitato le persone ad affidarsi alla luce della loro fede per dissipare il buio, le paure e l’odio nel mondo, e a costruire insieme ponti di solidarietà e di pace. È questa l’unità che King non solo ha sognato, ma che ha creduto sarebbe diventata realtà.
« Con questa fede potremo trasformare il suono dissonante della nostra nazione in un armoniosa sinfonia di fraternità », disse. Verrà il giorno « in cui tutti i figli di Dio, uomo negro e uomo bianco, ebreo e cristiano, Protestante e Cattolico, potremo unire le nostre mani a cantare le parole del vecchio spiritual Negro: Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo finalmente liberi ».

 

Publié dans:MARTIN LUTHER KING |on 7 février, 2017 |Pas de commentaires »

’UOMO PRIMITIVO E LA SUA SOMIGLIANZA CON NOI

http://www.gliscritti.it/preg_lett/antologia/primitivo.htm

L’UOMO PRIMITIVO E LA SUA SOMIGLIANZA CON NOI

da Archivi del Nord di M.Yourcenar (Einaudi, Torino, 1997, pagg.9-13)

Ma già compare, un po’ ovunque, l’uomo. L’uomo ancora sparso, furtivo, talora disturbato dalle ultime spinte dei ghiacciai incombenti, e che ha lasciato ben poche tracce in quella terra senza caverne e senza rocce. Il predatore-re, il massacratore di bestie e di alberi, il cacciatore che colloca le sue trappole in cui si strozzano gli uccelli, e i suoi pali in cui s’infilzano gli animali da pelliccia; il braccatore all’agguato delle grandi migrazioni stagionali per procurarsi la carne da seccare per i suoi inverni; l’architetto dei rami e tronchi scorticati, l’uomo-lupo, l’uomo volpe, l’uomo-castoro che riunisce in sé tutte le astuzie animali, colui del quale la tradizione rabbinica dice che la terra rifiutò a Dio una manciata del suo fango per dargli forma, e i racconti arabi narrano che gli animali tremarono alla vista di quel nudo verme.
L’uomo con i suoi poteri che, in qualunque modo li si valuti, costituiscono un’anomalia nell’insieme delle cose, con il suo temibile dono di andare più lontano nel bene e nel male di qualunque altra specie vivente a noi nota, con la sua terribile e sublime facoltà di scelta.
I disegni a fumetti e i manuali popolari di scienza ci mostrano questo Adamo senza gloria sotto l’aspetto di un bruto peloso che brandisce una clava: siamo lontani dalla leggenda giudeo-cristiana secondo la quale l’uomo delle origini vaga in pace nella penombra di un bel giardino e, se possibile, ancora più lontani dall’Adamo di Michelangelo che si sveglia nella sua perfezione al tocco del dito di Dio.
Un bruto certamente, l’uomo della pietra spaccata e della pietra levigata, poiché quel bruto è ancora in noi, ma quel Prometeo selvaggio ha inventato il fuoco, la cottura degli alimenti, il bastone spalmato di resina che illumina la notte. Meglio di noi ha saputo distinguere le piante commestibili da quelle che uccidono, e da quelle che invece di nutrire provocano strani sogni. Ha osservato che il sole d’estate tramonta più a nord, che certi astri girano in tondo attorno allo zenith e si muovono in processione regolare lungo lo zodiaco, mentre altri vanno e vengono, mossi da impulsi capricciosi che si ripetono dopo un certo numero di lunazioni o di stagioni; ha utilizzato queste conoscenze nei suoi viaggi diurni o notturni. Quei bruti hanno senza dubbio inventato il canto, compagno di lavoro, di piacere e di sofferenza fino all’epoca nostra, in cui l’uomo ha quasi completamente disimparato a cantare. Contemplando i ritmi grandiosi che essi esprimevano ai loro affreschi, ci sembra di poter indovinare le melopee delle loro preghiere o delle loro magie. L’analisi dei terreni in cui seppellivano i loro morti rivela che essi li coricavano su tappeti di fiori dai disegni complicati, forse non molto diversi da quelli che al tempo della mia infanzia le vecchie stendevano sul percorso delle processioni. Quei Pisanello o quei Degas della preistoria hanno conosciuto lo strano impulso dell’artista che consiste nel sovrapporre ai brulicanti aspetti del mondo reale una folla di raffigurazioni nate dal suo spirito, dal suo occhio e dalle sue mani.
Dopo appena un secolo di ricerche dei nostri etnologi cominciamo a sapere che esistono una mistica e una saggezza primitive, e che gli sciamani si avventurano su strade attraverso la notte. A causa della nostra superbia, che di continuo nega agli uomini del passato percezioni simili alle nostre, rifiutiamo di vedere negli affreschi delle caverne qualcosa di più che i frutti di una magia utilitaria: i rapporti fra l’uomo e la bestia da una parte, fra l’uomo e la sua arte dall’altra, sono più complessi e conducono più lontano. Le stesse formule riduttive avrebbero potute essere usate, e lo sono state, nei confronti delle cattedrali considerate come il prodotto di una colossale contrattazione con dio o come una corvè imposta da una pretaglia rapace e tirannica. Ma lasciamo a Homais queste semplificazioni. Nulla vieta di supporre che lo stregone della preistoria, davanti all’immagine di un bisonte trafitto da frecce, abbia provato in certi momenti la stessa angoscia e lo stesso fervore di un cristiano di fronte all’Agnello Sacrificale.
Ed ecco ora, separati da noi da trecento generazioni al massimo, gli ingegnosi, gli esperti, gli adattati del neolitico, presto incalzati dai tecnocrati del rame e del ferro, gli artigiani che compiono con destrezza certi gesti che l’uomo ha fatto e rifatto fino alla generazione che precede la nostra; i costruttori di capanne su palafitte e di muri a secco; gli incavatori di tronchi d’albero destinati a diventare barchette o bare; i produttori all’ingrosso di vasi e di ceste; i villici i cui cortili ospitano i cani, alveari e macine; i guardiani di mandrie che hanno concluso con l‘animale divenuto domestico un patto sempre infranto dalle condanne a morte; coloro per i quali il cavallo e la ruota sono scoperte di ieri sera o di domattina. La fame, la sconfitta, il gusto dell’avventura, gli stessi venti dell’est che soffieranno tra cinquanta secoli al tempo delle invasioni barbariche, li hanno probabilmente spinti fin qui, come i loro predecessori e i loro successori lo sono stati o lo saranno un giorno; una linea sottile fatta dei residui delle varie razze si forma periodicamente lungo quelle coste, come, dopo la tempesta, su quelle stesse dune, la frangia di alghe, conchiglie e frammenti di legno rigettati dal mare. Quelle genti ci somigliano: posti di fronte a loro, riconosceremmo nei loro tratti tutte le sfumature che vanno dalla stupidità al genio, dalla bruttezza alla beltà. L’uomo di Tollsund, contemporaneo dell’età del ferro danese, mummificato con la corda al collo in uno stagno dove i cittadini benpensanti dell’epoca gettavano, pare, i loro traditori veri o presunti, i loro disertori, i loro effeminati, in offerta a non si sa quale dea, ha uno dei visi più intelligenti che sia dato vedere: quel giustiziato ha certo guardato molto dall’alto quelli che lo giudicavano.
Poi, tutto ad un tratto, delle voci che parlano una lingua di cui restano qua e là dei vocaboli isolati, dei suoni, delle radici: bocche che pronunciano press’a poco come noi la parola dune, la parola bran, la parola meule. Schiamazzatori, boriosi, cercatori di fortuna e di liti, tagliatori di teste e soldatacci spacconi: i celti con i loro cappucci di lana, le loro casacche molto simili a quelle dei nostri contadini di ieri, i loro pantaloncini da sportivi e le ampie brache che torneranno di moda tra i sanculotti della rivoluzione. I celti, altrimenti detti galli (gli scrittori antichi usano indifferentemente i due termini), rivendicati a dritta e a manca dallo sciovinismo degli eruditi, fratelli nemici dei germani, e le cui liti in famiglia non sono ancora cessate dopo venticinque secoli. I ragazzoni fastosi e pezzenti, amanti dei bei bracciali, di bei cavalli, di belle donne e bei paggi, che barattavano i loro prigionieri di guerra con giare di vino italiano o greco. La leggenda antica vuole che durante una delle loro prime puntate sulle coste basse del mare del nord, quegli scalmanati abbiano marciato in armi contro le grandi maree che minacciavano il loro accampamento. Quel pugno di uomini che sfida l’avanzata delle onde mi ricorda la nostra eccitazione di bambini assediati nelle nostre fortezze di sabbia invase insidiosamente dall’acqua, su quelle stesse spiagge, sotto quello stesso cielo grigio, decisi a resistere fino all’ultimo, agitando le nostre bandiere da pochi soldi, totem di varie nazionalità, che qualche settimana più tardi sarebbero state nobilitate dall’atroce prestigio della Grande Guerra. I nostri libri di scuola ci ripetevano fino alla noia che quei galli dal grande cuore non temevano nulla se non che il cielo cadesse. Più coraggiosi o più disperati di loro, ci siamo abituati, dopo il 1945, ad aspettarci di vedere il cielo cadere.

 

Publié dans:L'uomo primitivo |on 7 février, 2017 |Pas de commentaires »

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