Exodus 16:13-22: God provides quail and Manna to the Israelites.

http://www.gliscritti.it/approf/2005/conferenze/martini01.htm
BRANI DI DIFFICILE INTERPRETAZIONE DELLA BIBBIA, XVI,
COSA È IL REGNO DI DIO ANNUNZIATO DA GESÙ DEL CARD.CARLO MARIA MARTINI
Il presente testo è tratto da una meditazione tenuta dal card. C.M.Martini ai preti del settore Sud di Roma, su invito di S.E.mons. Paolo Schiavon, nella Quaresima 2005, il 24 febbraio. Il titolo della meditazione era: Regno di Dio ed eucarestia. Il testo è stato trascritto da mons.Luciano Pascucci, che ringraziamo, e non è stato rivisto dall’autore.
L’Areopago
In ogni Eucaristia noi citiamo il Regno, per esempio recitando il Padre nostro: Padre nostro, venga il tuo Regno! E al termine della preghiera eucaristica proclamiamo: “Tuo è il Regno, tua la potenza e la gloria nei secoli!”. E questo Regno è il tema fondamentale della predicazione di Gesù fin dall’inizio. Da quando, cioè, Gesù, dopo che Giovanni fu arrestato, fu trasferito da Nazaret a Cafarnao. Dicono i vangeli che Gesù cominciò allora a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino!” (Mt 4,17). Questa è il tema fondamentale della predicazione di Gesù. In Mt 4,23 troviamo questa frase sintetica: “Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattia e di infermità nel popolo”. Notiamo anche la differenza tra i verbi: insegnando (didàschein); predicando, proclamando il Regno (Kerissèin) e curando i malati. Le tre cose fanno come una unità.
Gesù, dunque, parla molto spesso del Regno di Dio, soprattutto nei sinottici; l’espressione non ricorre quasi mai in Giovanni; mentre nei sinottici è l’espressione corrente. Tuttavia sappiamo anche che non è facile definire il Regno, perché Gesù non conchiude mai in una definizione teorica che cosa è il Regno. Si contenta di alludervi con paragoni e con parabole. Il Regno è come un seme, è simile ad una rete, è simile ad una perla preziosa, è simile a un tesoro nascosto in un campo… Sono paragoni che descrivono alcuni aspetti del Regno, senza che mai se ne dia una definizione precisa e completa.
E qui c’è qualcosa di misterioso, tanto è vero che lo stesso Gesù in Mc 4,11, parla di “mistero del Regno”. Non dice ai discepoli: “A voi è stato dato il Regno!”, ma “A voi è stato dato il mistero del Regno!”. C’è quindi un mistero in questa parola “Regno”, almeno come è pronunciata agli inizi del ministero di Gesù, che lo rende necessariamente, da una parte affascinante e dall’altra un po’ enigmatico. E non poteva che essere enigmatico fino allo svelamento che avverrà appunto con la morte e la risurrezione di Gesù.
Ma noi possiamo cercare di domandarci: che cosa potevano intendere i primi uditori di Gesù in Galilea, quando sentivano che parlava del Regno di Dio? Una tale espressione era ben nota ai lettori della Bibbia ebraica. Essi sapevano perfettamente che Dio è Re da sempre; per esempio il salmo 29, dice: Il Signore siede re per sempre! Quindi era un termine acquisito. Salmo 96: Dite tra i popoli: il Signore regna! Ancora Salmo 97: Il Signore regna; esulti la terra!… Non era di per sé neanche necessaria la proclamazione di Gesù per far imparare alla gente che il Signore regna. Per esempio un inno molto antico, come il cantico di Mosè, diceva, alla fine, concludendo: Il Signore regna in eterno e per sempre! Da secoli, da millenni si tramandava l’idea della regalità di Dio. E un altro inno successivo, che si trova nel primo libro delle Cronache (cap. 29), cantava: Tuo è il Regno, Signore, tu ti innalzi sovrano su ogni cosa! (1 Cr 29,11). Quindi Gesù apparentemente non parla per dire una cosa nuova, dicendo che Dio è Re e suo è il Regno!
Però i lettori della Bibbia ebraica sapevano pure che il peccato oppone resistenza al Regno, sia il peccato individuale, sia il peccato sociale; per cui Dio regna di diritto, ma di fatto si ha spesso l’impressione che a condurre il gioco siano i malvagi, quelli che non si sottomettono a Dio. La Bibbia è piena di tali amare constatazioni e in particolare la disobbedienza a Dio che pure è re eterno sfocia in particolare nell’oppressione del popolo e, ad un certo punto, nella dipendenza del popolo dallo straniero, adoratore degli idoli e nemico del Dio di Israele. In tale contesto, dunque, il Regno c’è, ma non si vede.
E allora il venire del Regno significa che Dio viene a mettere le cose a posto, viene a mettere ordine, a sconfiggere i nemici, a punire i peccatori, a instaurare di fatto quel potere sulla storia che era da sempre suo di diritto. Ed era questa anche l’attesa degli ebrei devoti, che credevano e speravano in Dio, attesa che si trova in molti salmi e in molte altre pagine della Bibbia, per esempio il salmo 9, 18: Tornino gli empi negli inferi, tutti i popoli che dimenticano Dio. Cioè, la regalità di Dio spazzi via i nemici! Ancora salmo 9: Hai minacciato le nazioni, hai sterminato l’empio! Quindi ti dimostri veramente re! Il loro nome hai cancellato in eterno, per sempre! Hanno sfidato la tua regalità e sono stati schiacciati. E termina dicendo, presentando la regalità di Dio: Il Signore sta assiso in giudizio; erige per il giudizio il suo trono e da questo trono come re giudica il mondo. Ancora un altro salmo, il salmo 102, dice così: Il Signore si è affacciato dall’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra e che cosa ha ascoltato? Il gemito del prigioniero, del suo popolo prigioniero. Quindi ha guardato la terra per ascoltare il gemito del prigioniero, per liberare i condannati a morti, perché sia annunziato in Sion il nome del Signore, la sua lode in Gerusalemme.
Segno di questa liberazione è appunto la libera proclamazione della gloria di Dio in Sion e in Gerusalemme. Si attendeva, perciò, che Dio regnasse, condannando tutti i nemici, distruggendo tutti i peccatori, eliminando tutti i malvagi, così che il popolo potesse vivere tranquillo nella sua casa, nella sua terra, nella sua città di Gerusalemme. Ma noi sappiamo che le cose non sono così semplici. Gesù nella sua rivelazione progressiva del Regno, non rivela come un semplice giudizio di condanna e di distruzione dei malvagi; anzi, a poco a poco, fa capire, in maniera anche un po’ enigmatica, che il regnare di Dio non significa che Dio voglia schiacciare i peccatori, ma che Dio intende piuttosto perdonarli e salvarli. Questo è certamente un fatto nuovo e perciò Gesù comincia con il prendere su di sé il male del mondo: questa è la novità assoluta della rivelazione di Gesù. Già lo faceva intuire Matteo, al capitolo ottavo, citando Isaia 53, là dove dice: Egli ha preso su di sé le nostre infermità, s’è addossato le nostre malattie. Di per sé immediatamente il brano si riferisce alle guarigioni di Gesù, però con questa frase misteriosa – “se le è prese su di sé, se le è addossate” – Gesù si rivela sempre più chiaramente come colui che assume su di sé il peccato del mondo. E questo diventa sempre più chiaro nel percorso di Gesù verso Gerusalemme, soprattutto come previsione della passione o con espressioni come quelle che troviamo in Marco 10,45: Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti. Così egli chiarisce a poco a poco il senso di come egli intende l’esercizio della regalità di Dio: non schiacciare i nemici, ma dare la sua vita per il perdono dei nemici, per il riscatto di molti. E anche poi nella passione, con parole come quelle del Getsemani: “Padre, non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu! E anche con l’affermazione dopo la cattura nell’orto degli ulivi: Tutto questo è avvenuto, perché si adempissero le Scritture dei profeti.
Gesù fa capire che questo – il suo prendere su di sé il male del mondo – è il disegno nel quale si rivela la regalità di Dio. Gesù attua dunque il Regno, anzitutto nella prima parte della sua vita, sconfiggendo le malattie, le infermità, ma facendo intuire misteriosamente che egli vuole a un certo punto assumersele. Le infermità e le malattie sono conseguenze e immagine del peccato; Gesù perdona i peccati, ma soprattutto offre in debolezza, in povertà, in infermità la sua vita per noi, nella morte in croce e risorge per darci la certezza del perdono di Dio. Ecco dunque come il Regno si svela a poco a poco. Per cui il Regno non è come una macchina già fatta che viene dall’alto e si instaura sulla terra; il Regno è qualcosa che si manifesta progressivamente nella vita di Gesù. Possiamo dire: è Gesù il Regno che viene, è lui! E in noi il Regno si attua qui attraverso un processo, un processo di rigenerazione che parte dal cuore dell’uomo, dall’interno dell’uomo, che ha inizio con la nascita – il Battesimo – che va verso la crescita, verso la pienezza della manifestazione definitiva di Gesù nella nostra umanità salvata. Dunque, il Regno lo incontriamo anzitutto in Gesù che è il Regno per eccellenza. Il regno si attua nella sua vita, morte e risurrezione. Il Regno si attua in tutta la sua vita, dall’annunciazione all’ascensione, si attua nella sua morte, si attua nella sua risurrezione. E poi il Regno si attua gradualmente in tutti noi, in tutti coloro che entrano negli atteggiamenti e nelle relazioni di Gesù, vivendo come lui ha vissuto, offrendo la propria vita come lui l’ha offerta.
Perciò il Regno viene, non in astratto, ma nella misura in cui ciascuno di noi entra nel progetto di Gesù e si fa in qualche modo uno con Gesù e instaura nella sua vita le relazioni con i fratelli e le cose del mondo, secondo il mandato e l’esempio di Gesù. E questo avviene non solo individualmente, ma collettivamente, anzitutto nella chiesa visibile e poi in tutte quelle situazioni nelle quali si rivive e si mette in pratica l’insegnamento e il modo di vivere di Gesù. L’insieme di coloro che vivono così e che attuano il Regno diviene, secondo la parola di Gesù, sale della terra, luce del mondo. E porta gli uomini a lodare il Padre che è nei cieli.
A questo punto possiamo anche comprendere perché il Regno nel Nuovo Testamento, al di là dei sinottici, non viene più espresso con la sola formula, un po’ enigmatica “il Regno di Dio”, ma con molte altre formule, anche se queste formule non citano espressamente il vocabolo “Regno”. Così formule come “Cristo è risorto!”, “il Crocifisso è risorto”, “Gesù è stato crocifisso per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione”, o formule come: “Io sono la via, la verità e la vita”, oppure formule come quelle paoline: “Vivo io, ma non più io, Cristo vive in me!”, sono formule brevi che esprimono la realtà del Regno. E di queste formule è pieno il Nuovo Testamento! Sappiamo poi che vi sono formule anche più lunghe, come – per esempio – l’inizio della lettera agli Efesini, ai Colossesi, il capitolo 2 della lettera ai Filippesi, che descrivono i vari momenti della venuta del Regno, esprimendo appunto la “carriera” di Gesù, il suo venire dal Padre, nell’umiltà della passione, della morte, del suo risorgere, della gloria, del riversare il suo Spirito nella chiesa. Tutto questo è il Regno di Dio che sta venendo in pienezza.
PAPA FRANCESCO – SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica di Santa Sabina
Mercoledì, 18 febbraio 2015
Come popolo di Dio incominciamo il cammino della Quaresima, tempo in cui cerchiamo di unirci più strettamente al Signore, per condividere il mistero della sua passione e della sua risurrezione.
La liturgia di oggi ci propone anzitutto il passo del profeta Gioele, inviato da Dio a chiamare il popolo alla penitenza e alla conversione, a causa di una calamità (un’invasione di cavallette) che devasta la Giudea. Solo il Signore può salvare dal flagello e bisogna quindi supplicarlo con preghiere e digiuni, confessando il proprio peccato.
Il profeta insiste sulla conversione interiore: «Ritornate a me con tutto il cuore» (2,12).
Ritornare al Signore “con tutto il cuore” significa intraprendere il cammino di una conversione non superficiale e transitoria, bensì un itinerario spirituale che riguarda il luogo più intimo della nostra persona. Il cuore, infatti, è la sede dei nostri sentimenti, il centro in cui maturano le nostre scelte, i nostri atteggiamenti. Quel “ritornate a me con tutto il cuore” non coinvolge solamente i singoli, ma si estende all’intera comunità, è una convocazione rivolta a tutti: «Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (v. 16).
Il profeta si sofferma in particolare sulla preghiera dei sacerdoti, facendo osservare che va accompagnata dalle lacrime. Ci farà bene, a tutti, ma specialmente a noi sacerdoti, all’inizio di questa Quaresima, chiedere il dono delle lacrime, così da rendere la nostra preghiera e il nostro cammino di conversione sempre più autentici e senza ipocrisia. Ci farà bene farci la domanda: “Io piango? Il Papa piange? I cardinali piangono? I vescovi piangono? I consacrati piangono? I sacerdoti piangono? Il pianto è nelle nostre preghiere?”. E proprio questo è il messaggio del Vangelo odierno. Nel brano di Matteo, Gesù rilegge le tre opere di pietà previste nella legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. E distingue, il fatto esterno dal fatto interno, da quel piangere dal cuore. Nel corso del tempo, queste prescrizioni erano state intaccate dalla ruggine del formalismo esteriore, o addirittura si erano mutate in un segno di superiorità sociale. Gesù mette in evidenza una tentazione comune in queste tre opere, che si può riassumere proprio nell’ipocrisia (la nomina per ben tre volte): «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro…Quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti…Quando pregate, non siate simili agli ipocriti, che…amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. … E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti» (Mt 6,1.2.5.16). Sapete, fratelli, che gli ipocriti non sanno piangere, hanno dimenticato come si piange, non chiedono il dono delle lacrime.
Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce in noi il desiderio di essere stimati e ammirati per questa buona azione, per ricavarne una soddisfazione. Gesù ci invita a compiere queste opere senza alcuna ostentazione, e a confidare unicamente nella ricompensa del Padre «che vede nel segreto» (Mt 6,4.6.18).
Cari fratelli e sorelle, il Signore non si stanca mai di avere misericordia di noi, e vuole offrirci ancora una volta il suo perdono – tutti ne abbiamo bisogno – , invitandoci a tornare a Lui con un cuore nuovo, purificato dal male, purificato dalle lacrime, per prendere parte alla sua gioia. Come accogliere questo invito? Ce lo suggerisce san Paolo: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor5,20). Questo sforzo di conversione non è soltanto un’opera umana, è lasciarsi riconciliare. La riconciliazione tra noi e Dio è possibile grazie alla misericordia del Padre che, per amore verso di noi, non ha esitato a sacrificare il suo Figlio unigenito. Infatti il Cristo, che era giusto e senza peccato, per noi fu fatto peccato (v. 21) quando sulla croce fu caricato dei nostri peccati, e così ci ha riscattati e giustificati davanti a Dio. «In Lui» noi possiamo diventare giusti, in Lui possiamo cambiare, se accogliamo la grazia di Dio e non lasciamo passare invano questo «momento favorevole» (6,2). Per favore, fermiamoci, fermiamoci un po’ e lasciamoci riconciliare con Dio.
Con questa consapevolezza, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Maria Madre Immacolata, senza peccato, sostenga il nostro combattimento spirituale contro il peccato, ci accompagni in questo momento favorevole, perché possiamo giungere a cantare insieme l’esultanza della vittoria nel giorno della Pasqua. E come segno della volontà di lasciarci riconciliare con Dio, oltre alle lacrime che saranno “nel segreto”, in pubblico compiremo il gesto dell’imposizione delle ceneri sul capo. Il celebrante pronuncia queste parole: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» (cfr Gen 3,19), oppure ripete l’esortazione di Gesù: «Convertitevi e credete al Vangelo» (cfr Mc 1,15). Entrambe le formule costituiscono un richiamo alla verità dell’esistenza umana: siamo creature limitate, peccatori sempre bisognosi di penitenza e di conversione. Quanto è importante ascoltare ed accogliere tale richiamo in questo nostro tempo! L’invito alla conversione è allora una spinta a tornare, come fece il figlio della parabola, tra le braccia di Dio, Padre tenero e misericordioso, a piangere in quell’abbraccio, a fidarsi di Lui e ad affidarsi a Lui.
http://camcris.altervista.org/sabato.html
IL GIORNO DI CULTO: DI DOMENICA O DI SABATO?
Nell’Antico Testamento, Dio dichiarò al popolo d’Israele: « Ricòrdati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa’ tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al Signore Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita nella tua città » (Esodo 20:8-10).
Era pratica comune degli ebrei riunirsi di sabato, smettere qualsiasi lavoro, e adorare Dio. Anche Gesù andò di sabato alla sinagoga per insegnare (vedere Matteo 12:9 e Giovanni 18:20), così come fece l’apostolo Paolo (Atti 17:2, 18:4).
Allora, se nell’Antico Testamento è comandato di onorare il sabato e nel Nuovo Testamento vediamo il popolo ebraico, Gesù, e gli apostoli, fare la stessa cosa, come mai adoriamo il Signore di domenica?
Prima di tutto, dei 10 comandamenti elencati in Esodo 20:1-17 (sotto la legge), solo 9 ci sono stati ripetuti nel Nuovo Testamento (sotto la grazia). Manca, infatti, quello relativo al dovere di osservare il sabato. Gesù, anzi, disse che Egli è Signore del sabato (Matteo 12:8).
Nella creazione, Dio « si riposò » il settimo giorno. Ciò non significa che l’Iddio onnipotente si « stancò » per l’opera che aveva fatto, Egli non ha bisogno di riposarsi come un uomo. Allora perché leggiamo che si riposò? La ragione è semplice: in Marco 2:27 Gesù dice: « Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato ». In altre parole, anticamente Dio aveva stabilito il sabato come giorno di riposo per il suo popolo, non perché Egli avesse bisogno di riposarsi, ma piuttosto perché Egli sa che siamo esseri mortali e abbiamo bisogno di un periodo di riposo per poterci dedicare più pienamente a Dio. Nel fare questo, sia nostri spiriti che i nostri corpi possono riedificarsi.
Nell’Antico Testamento, la legge mosaica stabiliva il dovere di osservare il sabato come parte di un sistema morale, legale, e sacrificale, in cui il popolo ebraico soddisfava alle prescrizioni di Dio sul comportamento, il governo, e il perdono dei peccati. Il sabato era parte della legge in questo senso. Per « restare » in comunione con Dio, bisognava anche osservare il sabato; chi trasgrediva commetteva peccato, e spesso ne subiva la condanna (Rom. 6:23; Lev. 20:2; Num. 35:31; ecc).
Ma con il sacrificio di Gesù, non siamo più sotto la legge, ma siamo sotto la grazia (Romani 6:14-15). Il sabato è adempiuto in Gesù. Egli è il nostro riposo. È il riposo che Dio ha dato per grazia a quanti credono in Lui: « Infatti chi entra nel riposo di Dio si riposa anche lui dalle opere proprie, come Dio si riposò dalle sue » (Ebrei 4:10).
Dunque, non siamo più sotto l’obbligo della legge mosaica, e dunque neppure sotto l’obbligo di osservare uno specifico giorno, il sabato, per adorare. Se quest’obbligo restasse, significherebbe che siamo ancora sotto la legge, tenuti ad osservarla in ogni sua parte, e privi della grazia di Gesù. Nessun uomo, infatti, può osservarla: « mediante le opere della legge nessuno sarà giustificato davanti a Lui; infatti la legge dà soltanto la conoscenza del peccato » (Romani 3:20); « perché se la giustizia si ottenesse per mezzo della legge, Cristo sarebbe dunque morto inutilmente » (Galati 2:21).
Non siamo dunque più sotto la legge, ma sotto la grazia. Ogni comandamento dell’Antico Testamento che non è ripetuto nel Nuovo Testamento, non è per noi che siamo in Cristo, sotto la grazia.
Dimostrazioni nel Nuovo Testamento
Nel Nuovo Testamento vi è ampia evidenza che l’osservanza del settimo giorno, il sabato ebraico, come giorno specifico non è più un obbligo.
Romani 14:5-6: « Uno stima un giorno più di un altro; l’altro stima tutti i giorni uguali; sia ciascuno pienamente convinto nella propria mente. Chi ha riguardo al giorno, lo fa per il Signore; e chi mangia di tutto, lo fa per il Signore, poiché ringrazia Dio; e chi non mangia di tutto fa così per il Signore, e ringrazia Dio. »
L’intera sezione di Romani 14:1-12 merita di essere studiata con particolare attenzione dai credenti. Nondimeno, le istruzioni che riceviamo qui sono che ogni individuo deve essere pienamente convito nella propria mente riguardo alla necessità o meno di osservare un giorno specifico per l’adorazione. Dunque, se l’osservanza del sabato fosse una necessità imposta da Dio, la scelta non sarebbe lasciata agli uomini, ma ci sarebbe comandata da Dio.
Colossesi 2:16-17: « Nessuno dunque vi giudichi quanto al mangiare o al bere, o rispetto a feste, a noviluni, a sabati, che sono l’ombra di cose che dovevano avvenire; ma il corpo è di Cristo. »
Notiamo qui la sequenza temporale che viene usata. Le feste ebraiche cui si fa riferimento sono annuali. I noviluni sono mensili. Il sabato è settimanale. Nessuno deve giudicarci in merito a queste cose. Il sabato è definito come « un’ombra », la realtà è Gesù, Egli è il vero riposo che Dio ci dà. Gesù è il nostro sabato.
Atti 20:7: « Il primo giorno della settimana, mentre eravamo riuniti per spezzare il pane, Paolo, dovendo partire il giorno seguente, parlava ai discepoli, e prolungò il discorso fino a mezzanotte. »
Il « primo giorno della settimana » è la domenica (il settimo è il sabato), e questo era il giorno in cui quei credenti si riunivano. In questo passaggio possiamo dunque facilmente vedere come la chiesa primitiva si riuniva di domenica.
Riconosciamo anche due importanti funzioni della chiesa: lo spezzare il pane (comunione), e un messaggio (predicazione). Inoltre, Luca non usa il sistema ebraico per contare i giorni: da tramonto a tramonto. No, egli usa il sistema romano: da mezzanotte a mezzanotte. È una sfumatura importante che ci aiuta a stabilire che il sistema del sabato ebraico non era utilizzato da Luca.
1 Corinzi 16:1-2: « Quanto poi alla colletta per i santi, come ho ordinato alle chiese di Galazia, così fate anche voi. Ogni primo giorno della settimana ciascuno di voi, a casa, metta da parte quello che potrà secondo la prosperità concessagli, affinché, quando verrò, non ci siano più collette da fare. »
Notiamo che qui Paolo sta dicendo alle chiese di incontrarsi il primo giorno di ogni settimana per fare delle collette, come si usa fare quando ci si riunisce. Anche qui, vediamo che il giorno per l’incontro dei primi credenti era la domenica.
Apocalisse 1:10-11: « Fui rapito dallo Spirito nel giorno del Signore, e udii dietro a me una voce potente come il suono di una tromba, che diceva: Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea. »
Il New Bible Dictionary, riguardo al termine « giorno del Signore » usato in questo verso, spiega: « Questo è il primo uso nella letteratura cristiana di heµ kyriakeµ heµmera. La costruzione aggettivale suggerisce che si tratti di una designazione formale del giorno di culto della chiesa. Così appare certamente nel secondo secolo (Ignazio, Epistola ai Magnesi, I, 67).
In molte chiese oggi, il termine « giorno del Signore » è usato per indicare la domenica, proprio come si faceva nel secondo secolo.
Confido che queste prove bastino a dimostrarvi che la Scrittura non ci chiede di adorare in giorno di sabato.
Gesù Cristo ci ha dato libertà (Romani 14:1-12) di adorare nel giorno che noi decidiamo, e nessuno dovrebbe giudicare gli altri in merito al giorno in cui si rende il culto a Dio. Soprattutto, ricordiamo sempre che la nostra comunione personale col Signore, la lode, la preghiera, la testimonianza e la lettura della Sua Parola, non devono essere limitate a un giorno della settimana, ma sono una realtà quotidiana per tutti i veri credenti che camminano con il Signore.
26 FEBBRAIO 2017 | 8A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO A | OMELIA
Non potete servire a due padroni…
Per cominciare
Non attaccatevi avidamente al denaro, dice Gesù, ma abbiate un solo Signore, un solo Dio, che è vostro Padre. Impegnatevi prima di tutto a conoscere e a costruire il regno di Dio, e siate sicuri che non vi mancherà ciò di cui avete bisogno per vivere.
La parola di Dio
Isaia 49,14-15. In questo breve passaggio, Isaia presenta un testo efficacissimo per descrivere l’intensità dell’amore di Dio per le sue creature. Si parla della tenerezza di Dio, e ricorda a chi si sente abbandonato, che il suo amore è più grande di quello di una madre per il suo bambino.
1 Corinzi 4,1-5. Di fronte agli esigenti abitanti di Corinto Paolo sente il bisogno di dichiarare la sua retta intenzione e la sua coscienza tranquilla. Colloca se stesso e gli apostoli tra gli iperetai, servi di infima categoria, ma afferma di essere al servizio di Cristo e sarà il Signore a giudicare il comportamento di ciascuno.
Matteo 6,24-34. Gesù dice ai discepoli di avere un grande senso di fiducia nella provvidenza di Dio, il quale ci ha già dato tanto – basta guardasi attorno – e conosce meglio di noi ciò di cui abbiamo bisogno.
Riflettere
Dopo aver proclamato le beatitudini, Gesù fa alcuni esempi molto concreti, quasi per far notare le conseguenze di novità che esse rappresentano. Parla dell’adulterio e del divorzio, del giuramento, della vendetta e del perdono, dell’amore per i nemici, della preghiera e della ricchezza.
Facendo riferimento alle nostre preoccupazioni quotidiane, Gesù poi ci lancia un insieme di sentenze stupende, tra le più belle e consolanti di tutto il vangelo, per ricordarci la tenerezza di Dio nei nostri confronti, che è quella di un Padre, di uno sposo, di una madre. Gesù ci dice che nessuno ci ama come lui, che dobbiamo alimentare la nostra fede, per renderci conto di come interviene nella nostra vita, per accorgerci della sua bontà e sentirlo vicino.
È bello ciò che dice Gesù: nel suo amore provvidente il Padre pensa anche agli uccelli del cielo, « che non mietono, né raccolgono nei granai ». Nel vangelo di Luca Gesù parla degli umili passeri: « Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio… Non abbiate paura: valete più di molti passeri! » (12,6-7).
È questo il motivo per cui non dobbiamo preoccuparci. Oggi un po’ tutti siamo stressati e insoddisfatti, perché siamo preoccupati e ingordi. Che sarebbe della nostra società se tutti fossimo meno avidi di avere di più e di accumulare?
Nelle prime affermazioni di Gesù, si fa riferimento alla ricchezza e Gesù dice senza tanti giri di parole, che non si può nello stesso tempo mettersi a servizio di due padroni: « Non potete servire Dio e la ricchezza ». Gesù usa il termine aramaico « mammona », che è una personificazione del Denaro, potenza che assoggetta il mondo.
Presso il popolo ebraico per lungo tempo la ricchezza venne considerata una benedizione di Dio e la povertà un castigo. Anche quando si parlava dei tempi messianici, si attendeva una società di grande benessere materiale.
Di fatto però, coi passare dei secoli, la ricchezza fu sempre più accompagnata dall’arroganza e dalla ingiustizia, mentre la fedeltà a Dio e l’attesa del messia divenne una prerogativa delle classi più umili e povere.
Era il povero d’altra parte che si trovava a maggior ragione in diritto di attendere i tempi messianici, era lui ad avere le mani vuote, pronte a essere riempite. Molte preghiere dei giusti di Israele partono proprio da una situazione di miseria: « Il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri » (Is 49,13); « Signore, tendi l’orecchio, rispondimi, perché io sono povero e misero » (Sal 86,1); « Il Signore… mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati… per consolare tutti gli afflitti » (Is 61,1-3).
Gesù porterà a sua testimonianza, per dichiarare che con lui ci si trova nei tempi messianici, proprio per il fatto che egli annuncia il vangelo ai poveri. « Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito », dice ai discepoli del Battista, « i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia » (Lc 7,22; cf anche Mt 11,5).
I poveri sono amati e preferiti per la loro indigenza, non tanto perché siano in senso assoluto migliori dei ricchi. Essi si trovano nelle condizioni più giuste per accogliere con animo aperto la speranza messianica.
Il distacco dalla ricchezza è elogiato però quando è accompagnato dalla fede, dalla disponibilità, dall’abbandono fiducioso in Dio. Questi sono i poveri a cui Gesù si rivolgerà, i poveri « di spirito ». Quelli cioè che comprendono che la loro povertà è una grande occasione per essere più liberi per Dio e per le cose che contano.
È per questo motivo che Gesù invita i discepoli a farsi poveri, a vendere i propri beni per distribuirli ai bisognosi, liberandosi così dalla tentazione della ricchezza che rende sazi e chiude il cuore.
Attualizzare
Stress, frustrazioni, nevrosi: sono le malattie del nostro tempo. A cui si devono aggiungere gli affanni di un periodo di crisi, la mancanza di lavoro dei giovani, la precarietà, la cassa integrazione, le incognite sul domani. Si direbbe che avremmo tutti i motivi per dire con il profeta Isaia (prima lettura): « Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato ». Le parole di Matteo di quest’oggi invece ci mettono di fronte alla tenerezza di Dio, scendono come rassicuranti e ci dicono che Dio veglia su di noi come un padre. « Nel lezionario di oggi appare quasi una grande teofania, il volto amoroso di Dio padre e madre » (Gianfranco Ravasi). Dice Isaia che una donna non si dimentica del suo bambino, del figlio delle sue viscere; ma anche se questo dovesse capitare: « Io invece non ti dimenticherò mai ».
È questo il motivo per cui non dobbiamo preoccuparci. « Ma che vi andate crucciando per domani? », diceva il Cottolengo: « Se voi pensate a domani la Divina Provvidenza non ci pensa più, perché ci avete già pensato voi. Non guastate dunque l’opera sua e lasciatela fare ».
Ma se siamo stressati e insoddisfatti è forse anche perché siamo preoccupati e ingordi, preoccupati forse proprio perché ingordi. Che sarebbe della nostra società e di ciascuno di noi se tutti fossimo meno preoccupati di vivere nella totale sicurezza e di arricchire?
È inevitabile oggi domandarci se, in un mondo di ricercata abbondanza, di ricchezza, di benessere, le parole di Gesù abbiano ancora un senso.
Al tempo di Gesù le parole « beati i poveri » non suscitavano meno scandalo di oggi. Quando Gesù diceva queste parole, non si rivolgeva soltanto alla massa del popolo povera da sempre, ma anche a molta gente ricca di beni. Gli stessi apostoli del resto, che Gesù ha strappato dalle loro attività, non erano certamente dei mentecatti. Nella chiesa degli inizi non mancherà chi venderà i propri beni per condividerli con i più poveri e la comunità.
Ma il « beati i poveri » di Gesù, il « beati i poveri di spirito », era ed è un discorso duro anche per i poveri. Essi spesso guardano alla ricchezza come a un miraggio, come a un obiettivo che sperano sempre di raggiungere con un po’ di fortuna. Gesù getta invece una doccia fredda su questi pensieri. La povertà non va accolta lamentandosi: la ricchezza non può riempire il cuore di un uomo.
È quindi il ricco che probabilmente può comprendere anche meglio del povero il valore della povertà e la liberazione che può nascere dal distacco dalla ricchezza. A imitazione di Gesù, che essendo ricco più di ogni altro si è fatto povero, umile, ha assunto le sembianze di un uomo del popolo, accettando di non trovare posto in albergo per nascere, di non avere un posto fisso dove posare il capo, di vivere soltanto dello stretto necessario, di morire nudo sulla croce.
Diventare poveri oggi, o almeno sensibili ai problemi della povertà altrui, significa di fatto saper condividere. In un mondo in cui i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, in una società che nasconde le sue brutture, che mimetizza le baracche, che crea delle nuove necessità che di fatto non tutti potranno soddisfare, le reazioni diventano molteplici:
- C’è chi dice: « Si salvi chi può. Ognuno pensi a sé, alle sue cose, ai suoi. Occorre difendersi e trarre il massimo vantaggio da ogni situazione ».
- C’è chi dice: « Distruggiamo questa società; e nascono la contestazione arrabbiata, le rapine, la violenza. L’obiettivo è di mandare in crisi la società, di far tremare i ricchi, di creare loro dei problemi, di farli soffrire, di privarli dei loro soldi.
- C’è chi dice: « La colpa è dello stato: ci pensi lui. Se i poveri ci sono, basta trovare per loro un lavoro (e lavorino, senza fare gli schizzinosi!); basta organizzare meglio l’assistenza, aumentare le pensioni ».
- C’è chi dice: « Le grandi nazioni propongano delle soluzioni a largo respiro: ci sono l’Onu, la Fao, ci sono le Caritas… cosa aspettano a farsi sentire? ». È chiaro che è questa la strada decisiva per risolvere problemi di arretratezza mondiale che richiedono inter-venti di politica internazionale. Ciò che non quadra è invece l’animo da cui partono queste espressioni.
Il vangelo ci invita invece a condividere, a metterci nei panni degli altri, a cambiare prima di tutto il nostro atteggiamento mentale, la nostra disponibilità verso i poveri, ma anche la nostra mentalità di fronte alla ricchezza. Dobbiamo diventare tutti un po’ meno avidi, se vogliamo che un giorno scompaia la povertà attorno a noi e nel mondo, ma soprattutto se vogliamo salvare noi stessi.
Pensieri di san Giuseppe Benedetto Cottolengo sulla Provvidenza
« Vedi, mio caro, la Divina Provvidenza non manca, sai; se abbisognano miracoli, essa è buona a farne: ieri tra noi due non avevamo due scudi, ora tu hai diciotto mila franchi, e io non ho più il debito: spera nella Divina Provvidenza, e confida che non ci abbandonerà mai certamente ».
« Stiamo allegri, non ho più che tre centesimi;
con tutto questo stiamo allegri,
abbiamo fede nella Divina Provvidenza ».
« Distribuite pure il solito cibo agli ammalati e ai sani; perché se a quest’oggi che è quest’oggi la Divina Provvidenza ha già pensato, a domani che è domani la medesima Divina Provvidenza ci penserà ».
Da (fonte autorizzata): Umberto DE VANNA sdb
http://www.monasterovirtuale.it/s-policarpo/martirio-di-s-policarpo.html?showall=1
MARTIRIO DI S. POLICARPO – MEMORIA 23 FEBBRAIO
Saluto
La Chiesa di Dio che dimora a Smirne alla Chiesa di Dio che è a Filomelio e a tutte le comunità della santa Chiesa cattolica di ogni luogo. La misericordia, la pace e la carità di Dio Padre e del Signore nostro Gesù Cristo abbondino.
L’argomento della lettera
I. 1. Vi scriviamo, fratelli, riguardo ai martiri e al beato Policarpo che sigillandola col suo martirio ha fatto cessare la persecuzione. Quasi tutti gli avvenimenti svolti accaddero perché il Signore ci mostrasse di nuovo un martirio secondo il Vangelo. 2. Infatti, come il Signore, egli attese di essere arrestato, perché anche noi divenissimo suoi imitatori, non preoccupandoci solo di noi, ma anche del prossimo. E’ della carità sincera e salda volere non solo salvare se stesso ma anche tutti i fratelli.
Contemplare con gli occhi del cuore
II, 1. Beati e generosi sono tutti i martìri che avvengono per volontà del Signore. Bisogna che noi siamo più religiosi per attribuire a Dio la potenza di tutte le cose. 2. Chi non si meraviglierebbe della loro generosità, della loro pazienza e del loro amore a Dio? Lacerati dai flagelli, al punto da lasciar vedere l’anatomia del corpo sino alle vene e alle arterie, rimanevano fermi, sebbene gli astanti, mossi a compassione, piangessero. Essi ebbero tale forza che nessuno emise un gemito o un sospiro dimostrando a tutti che, nel momento in cui venivano messi alla prova, i generosi martiri di Cristo non erano nel loro corpo, ma che il Signore stando vicino parlasse loro. 3. Presi dalla grazia di Cristo, disprezzavano i tormenti del mondo, acquistandosi, per un momento solo, la vita eterna. Il fuoco dei tormenti disumani era freddo per loro. Avevano davanti agli occhi, per sfuggirlo, quello eterno e che non si spegne mai. Con gli occhi del cuore contemplavano i beni riservati ai pazienti, che nè orecchio intese, nè occhio vide, nè cuore di uomo ha immaginato, additati loro dal Signore, perché non erano più uomini, ma angeli. 4. Similmente quelli che furono condannati alle fiere sopportarono tormenti orribili, stesi su conchiglie e straziati con altre forme di torture varie, perché si cercava, se fosse stato possibile, di indurli all’abiura.
Germanico
III, 1. Molto macchinò contro di loro il diavolo, ma grazie a Dio non prevalse in tutto. Il generosissimo Germanico con la sua costanza sostenne la loro debolezza e fu mirabile nella lotta contro le fiere. Il proconsole lo esortava dicendo di aver pietà della sua giovinezza, ma egli, aizzandola, attirava contro di sè la belva, desideroso di allontanarsi al più presto da questa vita ingiusta ed iniqua. 2. Per ciò tutta la folla meravigliata della elevatezza d’animo della razza pia e generosa dei cristiani ebbe a gridare: « Abbasso gli atei! Si cerchi Policarpo ».
Quinto
IV. Un frigio di nome Quinto, da poco venuto dalla Frigia, vedendo le fiere fu terrorizzato. Egli si era offerto spontaneamente e spingeva gli altri allo stesso passo. Il proconsole, dopo molte insistenze, lo persuase a giurare e a sacrificare. Perciò, fratelli, non approviamo coloro che si costituiscono, poiché il Vangelo non insegna così.
II rifugio
V, 1. Policarpo, uomo assai meraviglioso, a sentire ciò, non si scompose e volle rimanere in città, ma i più lo esortavano ad allontanarsi. Si ritirò in campagna, poco lontano dalla città e si trattenne con pochi. Non faceva altro giorno e notte che pregare per tutti e per le comunità cristiane del mondo, come era suo costume. 2. Mentre stava in preghiera, tre giorni prima di essere catturato, ebbe la visione del suo guanciale arso dalle fiamme. Rivoltosi a quelli che erano con lui disse: « Devo essere bruciato vivo ».
Il tradimento
VI, 1. Poiché quelli che lo cercavano non si fermavano, egli si trasferì in un’altra campagna e subito vi giunsero coloro che lo inseguivano. Non avendolo trovato, presero due giovani schiavi. Uno di essi torturato confessò. 2. (Ormai) gli era impossibile rimanere nascosto, perché anche i suoi lo tradivano. Il capo della polizia, che aveva avuto dalla sorte lo stesso nome di Erode, aveva premura di condurlo allo stadio, perché si fosse compiuto il suo destino divenendo simile a Cristo, e i traditori avessero ricevuto lo stesso castigo di Giuda.
La cattura
VII, 1. Di venerdì all’ora di pranzo, guardie e cavalieri con le consuete armi, conducendosi il giovane schiavo, partirono come se inseguissero un ladrone. Arrivando verso sera lo trovarono coricato in una casetta al piano superiore. Anche di là avrebbe potuto fuggire in un altro podere, ma non volle dicendo: « Sia fatta la volontà di Dio ». 2. Sentendo che erano arrivati, scese a parlare con loro, meravigliati della sua veneranda età, della sua calma e di tanta preoccupazione per catturare un uomo così vecchio. Subito ordinò di dar loro da mangiare e da bere quanto ne volevano e chiese che gli concedessero un’ora per pregare tranquillamente. 3. Lo concessero, e stando in piedi incominciò a pregare pieno di amore di Dio, tanto che per due ore non si poté interromperlo. Quelli che lo ascoltavano erano stupiti e molti si pentivano di essere venuti a prendere un sì degno e santo vegliardo.
Grande sabato
VIII, 1. Quando terminò la preghiera, ricordandosi di tutti quelli che aveva conosciuto, piccoli e grandi, illustri e oscuri e di tutta la Chiesa cattolica sparsa per la terra, e giunse l’ora di andare, facendolo sedere su un asino lo condussero in città. Era il giorno del grande sabato. 2. Il capo della polizia e il padre di costui, Niceta, gli vennero incontro. Lo fecero salire sul cocchio e sedendogli vicino cercavano di persuaderlo dicendo: « Che male c’è a dire: Cesare Signore, offrire incenso con tutto ciò che segue e salvarsi? ». Dapprima non rispose loro, poiché quelli insistevano disse: « Non voglio fare quello che mi consigliate ». 3. Essi, avendo perduto la speranza di persuaderlo, gli rivolsero parole crudeli e lo spinsero in fretta, tanto che nello scendere dal cocchio si sbucciò lo stinco. Ma lui senza voltarsi, come se nulla fosse successo, allegro si incamminò verso lo stadio. Vi era un tumulto tale che nessuno poteva farsi ascoltare.
Abbasso gli atei!
IX, 1. A Policarpo che entrava nello stadio scese una voce dal cielo: « Sii forte, Policarpo, e mostrati valoroso ». Nessuno vide chi aveva parlato, quelli dei nostri che erano presenti udirono la voce. Infine, mentre veniva tradotto, si elevò un grande clamore per la notizia che Policarpo era stato arrestato. 2. Portato davanti al proconsole, questi gli chiese se fosse Policarpo. Egli annuì e (il proconsole) cercò di persuaderlo a rinnegare dicendo: « Pensa alla tua età » e le altre cose di conseguenza come si usa: « Giura per la fortuna di Cesare, cambia pensiero e di’: Abbasso gli atei! ». Policarpo, invece, con volto severo guardò per lo stadio tutta la folla dei crudeli pagani, tese verso di essa la mano, sospirò e guardando il cielo disse: « Abbasso gli atei! ». 3. Il capo della polizia insistendo disse: « Giura e io ti libero. Maledici il Cristo ». Policarpo rispose: « Da ottantasei anni lo servo, e non mi ha fatto alcun male. Come potrei bestemmiare il mio re che mi ha salvato? ».
Sono cristiano
X, 1. Insistendo ancora gli disse: « Giura per la fortuna di Cesare! ». Policarpo rispose: « Se ti illudi che io giuri per la fortuna di Cesare, come tu dici, e simuli di non sapere chi io sono, sentilo chiaramente. Io sono cristiano. Se poi desideri conoscere la dottrina del cristianesimo, concedimi una giornata e ascoltami ». Rispose il proconsole: « Convinci il popolo ». 2. Policarpo di rimando: « Te solo ritengo adatto ad ascoltarmi. Ci è stato insegnato di dare alle autorità e ai magistrati stabiliti da Dio il rispetto come si conviene, ma senza che ci danneggi. Non ritengo gli altri capaci di ascoltare la mia difesa ».
Il fuoco del giudizio futuro
XI, 1. Il proconsole disse: « Ho le belve e ad esse ti getterò se non cambi parere… ». L’altro rispose: « Chiamale, è impossibile per noi il cambiamento dal meglio al peggio; è bene invece passare dal male alla giustizia ». 2. Di nuovo l’altro gli disse: « Ti farò consumare dal fuoco, poiché disprezzi le belve, se non cambi parere…! ». Policarpo rispose: « Tu minacci il fuoco che brucia per un’ora e dopo poco si spegne e ignori invece il fuoco del giudizio futuro e della pena eterna, riservato agli empi. Ma perché indugi? Fa’ quello che vuoi! ».
Policarpo ha confessato di essere cristiano
XII, 1. Nel dire queste ed altre cose era pieno di coraggio e di allegrezza e il suo volto splendeva di gioia. Egli non solo non si lasciò abbattere dalle minacce rivoltegli, ma lo stesso proconsole ne rimase sconcertato e mandò in mezzo allo stadio il suo araldo a gridare tre volte: « Policarpo ha confessato di essere cristiano ». 2. Dopo questo proclama dell’araldo, tutta la moltitudine dei pagani e dei giudei abitanti a Smirne con furore incontenibile e a gran voce gridò: « Questo è il maestro d’Asia, il padre dei cristiani, il distruttore dei nostri dei che insegna a molti a non fare sacrifici e a non adorare ». Gridavano queste cose chiedendo all’asiarca Filippo che lanciasse un leone contro Policarpo. Egli, invece, rispose che non gli era lecito, poiché il combattimento contro le fiere era terminato. 3. Allora concordemente si misero a gridare che Policarpo fosse arso vivo. Doveva compiersi la visione del guanciale, che gli era apparso quando in preghiera l’aveva visto in fiamme, e volto ai fedeli che erano con lui profeticamente disse: « Devo essere bruciato vivo ».
Fermo sulla pira
XIII, 1. Questo fu più presto fatto che detto; subito la folla si mise a raccogliere legna e frasche dalle officine e dalle terme. Soprattutto i giudei con più zelo, come è loro costume, si diedero da fare in questo. 2. Quando il rogo fu pronto, deposte le vesti e sciolta la cintura incominciò a slegarsi i calzari, cosa che precedentemente non faceva, perché ogni fedele si affrettava a chi prima riuscisse a toccargli il corpo. Per la santità di vita era venerato prima del martirio. 3. Subito furono apprestati gli attrezzi necessari per il rogo. Mentre stavano per inchiodarlo egli disse: « Lasciatemi così. Chi mi da la forza di sopportare il fuoco mi concederà anche, senza la vostra difesa dei chiodi, di rimanere fermo sulla pira ».
La preghiera di Policarpo
XIV, 1. Non lo inchiodarono ma lo legarono. Con le mani dietro la schiena e legato come un capro scelto da un grande gregge per il sacrificio, gradita offerta preparata a Dio, guardando verso il cielo disse: « Signore, Dio onnipotente Padre di Gesù Cristo tuo amato e benedetto Figlio, per il cui mezzo abbiamo ricevuto la tua scienza, o Dio degli angeli e delle potenze di ogni creazione e di ogni genia dei giusti che vivono alla tua presenza. 2. Io ti benedico perché mi hai reso degno di questo giorno e di questa ora di prendere parte nel numero dei martiri al calice del tuo Cristo per la risurrezione alla vita eterna dell’anima e del corpo nella incorruttibilità dello Spirito Santo. In mezzo a loro possa io essere accolto al tuo cospetto in sacrificio pingue e gradito come prima l’avevi preparato, manifestato e realizzato, Dio senza menzogna e veritiero. 3. Per questo e per tutte le altre cose ti lodo, ti benedico e ti glorifico per mezzo dell’eterno e celeste gran sacerdote Gesù Cristo tuo amato Figlio, per il quale sia gloria a te con lui e lo Spirito Santo ora e nei secoli futuri. Amen ».
Un profumo come di incenso
XV, 1. Appena ebbe alzato il suo Amen e terminato la preghiera, gli uomini della pira appiccarono il fuoco. La fiamma divampò grande. Vedemmo un prodigio e a noi fu concesso di vederlo. Siamo sopravvissuti per narrare agli altri questi avvenimenti. 2. Il fuoco, facendo una specie di voluta, come vela di nave gonfiata dal vento, girò intorno al corpo del martire. Egli stava in mezzo, non come carne che brucia ma come pane che cuoce, o come oro e argento che brilla nella fornace. E noi ricevemmo un profumo come di incenso che si alzava, o di altri aromi preziosi.
Un maestro profetico
XVI, 1. Alla fine gli empi, vedendo che il corpo di lui non veniva consumato dal fuoco, ordinarono al confector di avvicinarsi e di finirlo con un pugnale. E fatto questo, zampillò molto sangue che spense il fuoco. Tutta la folla rimase meravigliata della grande differenza tra gli infedeli e gli eletti. 2. Tra questi fu il meraviglioso martire Policarpo, vescovo della Chiesa cattolica di Smirne, divenuto ai nostri giorni un maestro apostolico e profetico. Ogni parola che uscì dalla sua bocca si è compiuta e si compirà.
II martire discepolo e imitatore del Signore
XVII, 1. Ma l’invidioso, maligno e perverso, il tentatore della razza dei giusti vide la grandezza del suo martirio e la sua condotta irreprensibile sin dal principio, notandolo cinto della corona dell’immortalità, il premio conseguito che non si può contestare. Egli si adoperò perché il corpo di lui non fosse preso da noi, benché molti desiderassero di farlo, per possedere la sua santa carne. 2. Suggerì a Niceta, il padre di Erode, fratello di Alce, di andare dal governatore perché non consegnasse le spoglie. Lasciando da parte il crocifisso – egli disse – incominceranno a venerare lui. Avevano detto questo per le istigazioni e le insistenze dei giudei, che ci sorvegliavano se noi volessimo prenderlo dal rogo. Erano ignari che non potremo mai abbandonare Cristo che ha sofferto da innocente per i peccatori, per la salvezza di quelli che sono salvi in tutto il mondo, e adorare un altro. 3. Noi veneriamo lui che è Figlio di Dio, e degnamente onoriamo i martiri come discepoli e imitatori del Signore per l’amore immenso al loro re e maestro. Potessimo anche noi divenire loro compagni e condiscepoli!…
II giorno natalizio
XVIII, 1. Il centurione, avendo visto la contesa dei giudei, poste nel mezzo le spoglie le fece bruciare, come era d’uso. 2. Così noi più tardi, raccogliendo le sue ossa, più preziose delle gemme di gran costo e più stimate dell’oro, le ponemmo in un luogo più conveniente. 3. Appena possibile, ivi riunendoci nella serenità e nella gioia, il Signore ci concederà di celebrare il giorno natalizio del martire, per il ricordo di quelli che hanno combattuto prima e ad esercizio e coraggio di quelli che combatteranno.
Martirio secondo il vangelo di Cristo
XIX, 1. Questi i fatti intorno al beato Policarpo che con quelli di Filadelfia fu il dodicesimo a subire il martirio a Smirne. Egli solo è ricordato più di tutti e di lui si parla dovunque, anche tra i pagani. Non soltanto fu un maestro insigne, ma un martire celebre, e tutti desiderano imitare il suo martirio avvenuto secondo il vangelo di Cristo. 2. Con la sua pazienza ha trionfato sul governatore ingiusto, ha conseguito la corona dell’immortalità ed esulta con gli apostoli e tutti i giusti. Egli glorifica Dio Padre onnipotente e benedice il Signore nostro Gesù Cristo, salvatore delle nostre anime, guida dei nostri corpi e pastore della Chiesa cattolica nel mondo.
Darne notizia ai fratelli
XX, 1. Ci avete pregato di essere informati da noi ampiamente sui fatti accaduti. Per il momento li abbiamo riassunti in breve per mezzo di nostro fratello Marcione. Conosciute poi le cose, spedite la lettera ai fratelli più lontani, perché anche questi glorifichino il Signore che fa la scelta dei suoi servi. 2. A lui, che può condurre tutti noi, per sua grazia e suo dono nel regno eterno, mediante suo Figlio, l’unigenito Gesù Cristo, gloria, onore, potenza e grandezza per sempre. Salutate tutti i fedeli. Quelli che sono con noi vi salutano e con tutta la famiglia Evaristo che ha stilato la lettera.
Data del martirio
XXI. Il beato Policarpo ha testimoniato il secondo giorno di Santico, il settimo giorno prima delle calende di marzo, di grande sabato, all’ora ottava. Fu preso da Erode, pontefice Filippo di Tralli e proconsole Stazio Quadrato, re eterno nostro Signore Gesù Cristo. A lui gloria, onore, grandezza, trono eterno di generazione in generazione. Amen.
I Appendice
XXII, 1. Noi vi auguriamo di star bene, fratelli, camminando secondo il Vangelo nella parola di Gesù Cristo, e con lui sia gloria a Dio Padre e allo Spirito Santo, per la salvezza dei santi eletti. Così testimoniò il beato Policarpo, sulle cui orme vorremmo trovarci nel regno di Gesù Cristo. 2. Ciò ha trascritto da Ireneo, discepolo di Policarpo, Gaio che era vissuto con Ireneo. Io, Socrate, ho scritto copiando da Gaio a Corinto. La grazia sia con tutti. 3. E io, Pionio, lo trascrivo ancora dall’esemplare già ricordato, avendolo cercato dopo una rivelazione del beato Policarpo, come dirò in seguito. Lo raccolsi che era quasi distrutto dal tempo, perché il Signore Gesù Cristo raccolga anche me tra i suoi eletti nel suo regno celeste. A lui sia gloria col Padre e col Santo Spirito nei secoli dei secoli. Amen.
Dal manoscritto di Mosca.
II Appendice
1. Ciò ha trascritto dalle opere di Ireneo Gaio, che era vissuto con Ireneo discepolo di Policarpo. 2. Questo Ireneo che all’epoca del martirio del vescovo Policarpo era a Roma, insegnò a molti. Di lui ci sono tramandate numerose opere molto belle ed ortodosse, nelle quali si ricorda di Policarpo che fu suo maestro, ed ebbe a confutare con forza ogni eresia e ci ha trasmesso la regola ecclesiastica e cattolica come l’aveva ricevuta dal santo. 3. Dice anche questo: un giorno Marcione, dal quale sono chiamati i Marcioniti, incontratosi con Policarpo gli disse: « Riconoscici, o Policarpo ». Egli rispose a Marcione: « Ti riconosco, ti riconosco quale primogenito di Satana ». 4. Anche questo si tramanda negli scritti di Ireneo. Nel giorno e nell’ora in cui Policarpo a Smirne subì il martirio, Ireneo, che era nella città di Roma, sentì una voce come di tromba che diceva: « Policarpo è stato martirizzato ». 5. Da queste opere di Ireneo, come si è detto, Gaio aveva trascritto, e da Gaio trascrisse Isocrate a Corinto. Io, Pionio, di nuovo ho trascritto da Isocrate, che ho ricercato dopo la rivelazione di san Policarpo. Lo raccolsi che era fatiscente per il tempo, perché mi raccolga il Signore Gesù Cristo con i suoi eletti nel suo regno celeste. A lui gloria col Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.
PAPA FRANCESCO – 12. NELLA SPERANZA CI RICONOSCIAMO TUTTI SALVATI (CFR RM 8,19-27)
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 22 febbraio 2017
La Speranza cristiana – 12. Nella speranza ci riconosciamo tutti salvati (cfr Rm 8,19-27)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Spesso siamo tentati di pensare che il creato sia una nostra proprietà, un possedimento che possiamo sfruttare a nostro piacimento e di cui non dobbiamo rendere conto a nessuno. Nel passo della Lettera ai Romani (8,19-27) di cui abbiamo appena ascoltato una parte, l’Apostolo Paolo ci ricorda invece che la creazione è un dono meraviglioso che Dio ha posto nelle nostre mani, perché possiamo entrare in relazione con Lui e possiamo riconoscervi l’impronta del suo disegno d’amore, alla cui realizzazione siamo chiamati tutti a collaborare, giorno dopo giorno.
Quando però si lascia prendere dall’egoismo, l’essere umano finisce per rovinare anche le cose più belle che gli sono state affidate. E così è successo anche per il creato. Pensiamo all’acqua. L’acqua è una cosa bellissima e tanto importante; l’acqua ci dà la vita, ci aiuta in tutto ma per sfruttare i minerali si contamina l’acqua, si sporca la creazione e si distrugge la creazione. Questo è un esempio soltanto. Ce ne sono tanti. Con l’esperienza tragica del peccato, rotta la comunione con Dio, abbiamo infranto l’originaria comunione con tutto quello che ci circonda e abbiamo finito per corrompere la creazione, rendendola così schiava, sottomessa alla nostra caducità. E purtroppo la conseguenza di tutto questo è drammaticamente sotto i nostri occhi, ogni giorno. Quando rompe la comunione con Dio, l’uomo perde la propria bellezza originaria e finisce per sfigurare attorno a sé ogni cosa; e dove tutto prima rimandava al Padre Creatore e al suo amore infinito, adesso porta il segno triste e desolato dell’orgoglio e della voracità umani. L’orgoglio umano, sfruttando il creato, distrugge.
Il Signore però non ci lascia soli e anche in questo quadro desolante ci offre una prospettiva nuova di liberazione, di salvezza universale. È quello che Paolo mette in evidenza con gioia, invitandoci a prestare ascolto ai gemiti dell’intero creato. Se facciamo attenzione, infatti, intorno a noi tutto geme: geme la creazione stessa, gemiamo noi esseri umani e geme lo Spirito dentro di noi, nel nostro cuore. Ora, questi gemiti non sono un lamento sterile, sconsolato, ma – come precisa l’Apostolo – sono i gemiti di una partoriente; sono i gemiti di chi soffre, ma sa che sta per venire alla luce una vita nuova. E nel nostro caso è davvero così. Noi siamo ancora alle prese con le conseguenze del nostro peccato e tutto, attorno a noi, porta ancora il segno delle nostre fatiche, delle nostre mancanze, delle nostre chiusure. Nello stesso tempo, però, sappiamo di essere stati salvati dal Signore e già ci è dato di contemplare e di pregustare in noi e in ciò che ci circonda i segni della Risurrezione, della Pasqua, che opera una nuova creazione.
Questo è il contenuto della nostra speranza. Il cristiano non vive fuori dal mondo, sa riconoscere nella propria vita e in ciò che lo circonda i segni del male, dell’egoismo e del peccato. È solidale con chi soffre, con chi piange, con chi è emarginato, con chi si sente disperato… Però, nello stesso tempo, il cristiano ha imparato a leggere tutto questo con gli occhi della Pasqua, con gli occhi del Cristo Risorto. E allora sa che stiamo vivendo il tempo dell’attesa, il tempo di un anelito che va oltre il presente, il tempo del compimento. Nella speranza sappiamo che il Signore vuole risanare definitivamente con la sua misericordia i cuori feriti e umiliati e tutto ciò che l’uomo ha deturpato nella sua empietà, e che in questo modo Egli rigenera un mondo nuovo e una umanità nuova, finalmente riconciliati nel suo amore.
Quante volte noi cristiani siamo tentati dalla delusione, dal pessimismo… A volte ci lasciamo andare al lamento inutile, oppure rimaniamo senza parole e non sappiamo nemmeno che cosa chiedere, che cosa sperare… Ancora una volta però ci viene in aiuto lo Spirito Santo, respiro della nostra speranza, il quale mantiene vivi il gemito e l’attesa del nostro cuore. Lo Spirito vede per noi oltre le apparenze negative del presente e ci rivela già ora i cieli nuovi e la terra nuova che il Signore sta preparando per l’umanità.
http://rosarioonline.altervista.org/libri/filotea/index.php?dn=3-29
LA FILOTEA DI SAN FRANCESCO DI SALES
CAPITOLO XXIX – LA MALDICENZA
Il giudizio temerario causa preoccupazione, disprezzo del prossimo, orgoglio e compiacimento in se stessi e cento altri effetti negativi, tra i quali il primo posto spetta alla maldicenza, vera peste delle conversazioni. Vorrei avere un carbone ardente del santo altare per passarlo sulle labbra degli uomini, per togliere loro la perversità e mondarli dal loro peccato, proprio come il Serafino fece sulla bocca di Isaia.
Se si riuscisse a togliere la maldicenza dal mondo, sparirebbero gran parte dei peccati e la cattiveria. A chi strappa ingiustamente il buon nome al prossimo, oltre al peccato di cui si grava, rimane l’obbligo di riparare in modo adeguato secondo il genere della maldicenza commessa. Nessuno può entrare in Cielo portando i beni degli altri; ora, tra tutti i beni esteriori, il più prezioso è il buon nome. La maldicenza è un vero omicidio, perché tre sono le nostre vite: la vita spirituale, con sede nella grazia di Dio; la vita corporale, con sede nell’anima; la vita civile che consiste nel buon nome. Il peccato ci sottrae la prima, la morte ci toglie la seconda, la maldicenza ci priva della terza. Il maldicente, con un sol colpo vibrato dalla lingua, compie tre delitti.- uccide spiritualmente la propria anima, quella di colui che ascolta e toglie la vita civile a colui del quale sparla. Dice S. Bernardo che sia colui che sparla come colui che ascolta il maldicente, hanno il diavolo addosso, uno sulla lingua e l’altro nell’orecchio. Davide, riferendosi ai maldicenti dice: Hanno affilato le loro lingue come quelle dei serpenti.
Il serpente ha la lingua biforcuta, a due punte, come dice Aristotele; tale e quale è quella del maldicente, che con un sol morso ferisce e avvelena l’orecchio di chi ascolta e il buon nome di colui di cui parla male.
Per questo ti scongiuro, carissima Filotea, di non sparlare mai di alcuno, né direttamente, né indirettamente. Sta attenta a non attribuire delitti e peccati inesistenti al prossimo, a non svelare quelli rimasti segreti, a non gonfiare quelli conosciuti, a non interpretare in senso negativo il bene fatto, a non negare il bene che sai esistere in qualcuno, a non fingere di ignorarlo, tanto meno poi devi sminuirlo a parole; agendo in questo modo offenderesti seriamente Dio, soprattutto se dovessi accusare falsamente il prossimo o negassi la verità a lui favorevole; mentire e contemporaneamente nuocere al prossimo è doppio peccato.
Coloro che per seminare maldicenza fanno introduzioni onorifiche, e che la condiscono di piccole frasi gentili, o peggio di scherno, sono i maldicenti più sottili e più velenosi.
Protesto, dicono, che gli voglio bene e che per il resto è un galantuomo, ma, continuano, la verità va detta: ha avuto torto nel commettere quella perfidia; quella è una ragazza virtuosissima, ma si è lasciata sorprendere…, e simili piccole cornici!
Non capisci dov’è l’arte? Chi vuol scoccare una freccia, la tira più che può a sé, ma è soltanto per scagliarla con maggior forza: si può anche avere l’impressione che costoro tirino a sé la maldicenza, ma è soltanto per scoccarla con maggior sicurezza, per farla penetrare più a fondo nel cuore di coloro che ascoltano.
La maldicenza portata sotto forma di scherno è la più cattiva di tutte; fa pensare alla cicuta che, di per sé, non è un veleno molto forte, anzi ha un’azione lenta e facilmente vi si può porre rimedio, ma se viene ’1 vino, è senza scampo; lo stesso è di una presa con maldicenza che, di natura sua, secondo il detto, entrerebbe da un orecchio e uscirebbe dall’altro e che invece penetra fortemente nella mente degli ascoltatori quando è presentata in un contesto di parole sottili e gioviali.
Dice Davide: Hanno il veleno dell’aspide sotto le loro labbra. La puntura dell’aspide è quasi impercettibile, e il suo veleno dà sulle prime un prurito gradevole, che allarga così il cuore e le viscere e favorisce così l’assorbimento del veleno, contro il quale non ci sarà più nulla da fare.
Non dire mai: Il tale è un ubriacone, anche se l’hai visto ubriaco davvero; quello è un adultero, perché l’hai visto in adulterio; è incestuoso perché l’hai sorpreso in quella disgrazia; una sola azione non ti autorizza a classificare la gente. Il sole si fermò una volta per favorire la vittoria di Giosuè e si oscurò un’altra volta per la vittoria del Salvatore; a nessuno viene in mente per questo di dire che il sole è immobile e oscuro.
Noè si ubriacò una volta; e così anche Lot e questi, in più, commise anche un grave incesto: non per questo erano ubriaconi, e non si può dire che quest’ultimo fosse incestuoso. E non si può dire che S. Pietro fosse un sanguinario perché una volta ha versato sangue, né che fosse bestemmiatore perché ha bestemmiato una volta.
Per classificare uno vizioso o virtuoso bisogna che abbia fatto progressi e preso abitudini; è dunque una menzogna affermare che un uomo è collerico o ladro, perché l’abbiamo visto adirato o rubare una volta soltanto.
Anche se un uomo è stato vizioso per lungo tempo, sì rischia di mentire chiamandolo vizioso.
Simone il lebbroso chiamò Maddalena peccatrice, perché lo era stata prima; mentì, perché non lo era più, anzi era una santa penitente; e Nostro Signore la difese. Quell’altro Fariseo vanesio considerava grande peccatore il pubblicano, ingiusto, adultero, ladro; ma si ingannava, perché proprio in quel momento era giustificato.
Poiché la bontà di Dio è così grande che basta un momento per chiedere e ottenere la sua grazia, come facciamo a sapere che uno, che era peccatore ieri, lo sia anche oggi? Il giorno precedente non ci autorizza a giudicare quello presente, e il presente non ci autorizza a giudicare il passato. Solo l’ultimo li classificherà tutti.
Non potremo mai dire che un uomo è cattivo senza pericolo di mentire. In caso che sia necessario parlare possiamo dire che ha commesso tale o tal’altra azione cattiva, che ha condotto una vita disordinata in tale periodo, che agisce male al presente; ma non è lecito da ieri tirare delle conclusioni per oggi, né da oggi per ieri, e ancor meno da oggi per domani.
Se è vero che bisogna essere molto attenti a non parlare mai male del prossimo, però bisogna anche guardarsi dall’estremo opposto, in cui cadono alcuni, i quali, per paura di fare della maldicenza, lodano e dicono bene del vizio.
Se ti imbatti in un maldicente senza pudore, per scusarlo, non dire che è una persona libera e franca; di una persona apertamente vanesia, non dire che è generosa e senza complessi; le libertà pericolose non chiamarle semplicità e ingenuità; non camuffare la disobbedienza con il nome di zelo, l’arroganza con il nome di franchezza, la sensualità con il nome di amicizia.
Cara Filotea, per fuggire il vizio della maldicenza, non devi favorire, accarezzare, e nutrire gli altri vizi; ma con semplicità e franchezza, devi dire male del male e biasimare le cose da biasimare; solo se agiamo in questo modo diamo gloria a Dio.
Fa però attenzione ed attienti a quello che ora ti dirò.
Si possono lodevolmente biasimare i vizi degli altri, anzi è necessario e richiesto, quando lo esige il bene di colui di cui si parla o di chi ascolta.
Facciamo degli esempi: supponi che in presenza di ragazze vengano raccontate delle licenziosità commesse da Tizio e da Caia: è una cosa senz’altro pericolosa; oppure supponi che si parli della dissolutezza verbale di un tale o di una tale, sempre esemplificando; o ancora di una condotta oscena: se io non biasimo chiaramente quel male, o, peggio, tento di scusarlo, quelle tenere anime che ascoltano, avranno la scusa per lasciarsi andare a qualche cosa di simile; il loro bene esige che, con molta franchezza, biasimi all’istante quelle sconcezze. Potrei riservarmi di farlo in un altro momento soltanto se sapessi di ricavarne sicuramente un miglior risultato togliendo allo stesso tempo importanza ai colpevoli.
P, necessaria anche un’altra cosa: per parlare del soggetto devo averne l’autorità, o perché sono uno di quelli più in evidenza nel gruppo; nel qual caso se non parlo, avrò l’aria di approvare il vizio: se invece nel gruppo non godo di molta considerazione, devo guardarmi bene dal fare censure.
Più di tutto Poi è necessario che io sia ponderato ed esatto nelle parole, per non dirne una sola di troppo: per esempio. se devo riprendere le eccessive libertà di quel giovanotto e di quella ragazza, perché chiaramente esagerate e pericolose, devo saper conservare la misura per non gonfiare la cosa nemmeno di un soffio.
Se c’è soltanto qualche sospetto, dirò soltanto quello; se si tratta di sola imprudenza, non dirò di più; se non c’è né imprudenza, né sospetto di male, ma soltanto materia perché qualche spirito malizioso faccia della maldicenza, non dirò niente del tutto o dirò soltanto quello che è,
Quando parlo del prossimo, la mia bocca nel servirsi della lingua è da paragonarsi al chirurgo che maneggia il bisturi in un intervento delicato tra nervi e tendini: il colpo che vibro deve essere esattissimo nel non esprimere né di più né di meno della verità.
Un’ultima cosa: pur riprendendo il vizio, devi fare attenzione a non coinvolgere la persona che lo porta. Ti concedo di parlare liberamente soltanto dei peccatori infami, pubblici e conosciuti da tutti, ma anche in questo caso lo devi fare con spirito di carità e di compassione, non con arroganza e presunzione; tanto meno per godere del male altrui. farlo per quest’ultimo motivo è prova di un cuore vile e spregevole.
Faccio eccezione per i nemici dichiarati di Dio e della Chiesa; quelli vanno screditati il più possibile: ad esempio, le sette eretiche e scismatiche con i loro capi. E’ carità gridare al lupo quando si nasconde tra le pecore, non importa dove.
Tutti si prendono la libertà di giudicate e censurare i governanti e parlar male di intere reazioni, lasciandosi guidare dalla simpatia: Filotea, non commettere quest’errore. Tu, oltre all’offesa a Dio, corri il rischio di scatenare mille rimostranze.
Quando senti parlare male, se puoi farlo con fondatezza, metti in dubbio l’accusa; se non è possibile, dimostra compassione per il colpevole, cambia discorso, ricorda e richiama alla mente dei presenti che coloro i quali non sbagliano lo devono soltanto a Dio. Riporta in se stesso il maldicente con buone maniere; se sai qualche cosa di bene della persona attaccata, dilla.