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1 GENNAIO 2017 | SANTA MARIA MADRE DI DIO – A | OMELIA
Maria SS. Madre di Dio
Per cominciare
Iniziamo un nuovo anno. Ogni data del calendario è un po’ una convenzione, perché in realtà questo è un giorno come un altro. Ma è una data carica di simboli. La chiesa inizia il nuovo anno nel nome della vergine Maria, la Madre di Dio. Una maternità che ci riguarda da vicino. Il primo giorno dell’anno è anche la giornata della pace. Chiediamo la benedizione di Dio, che è garanzia di pace e di prosperità.
La parola di Dio
Numeri, 6, 22-27. È la formula di benedizione sacerdotale, che invoca il nome di Dio sul popolo. Il Signore promette di rendersi presente, di venire in aiuto. È una benedizione antica che risale a migliaia di anni fa. Oggi quelle parole non hanno perso la loro freschezza e il loro significato: si chiede a Dio di benedire i giorni che ci stanno davanti, in questo inizio di un nuovo anno
Galati 4,4-7. Gesù nasce al tempo stabilito, « nella pienezza dei tempi »: realizza le Scritture e colma le attese dei giusti d’Israele. Gesù, dice Paolo, « nasce da donna ». Ed è l’unico accenno dell’apostolo a Maria. Lo scrive per ricordare che Gesù ha assunto fino in fondo la nostra condizione umana e si è radicato in un popolo, accettandone le usanze e la legge mosaica. È così che Gesù ci ha riscattati e resi figli di Dio.
Luca 2,16-21. Nel breve brano, la descrizione dello stato d’animo di Maria, che riflette su ciò che avviene attorno alla grotta: la presenza dei pastori, le parole degli angeli. Infine la circoncisione: un rito antico e pieno di significato per gli ebrei che attendevano il messia. È adesso che san Giuseppe impone al bambino il nome di Gesù, che si inserisce con questo rito nel popolo ebraico.
Riflettere
La fine di un anno e l’inizio di un nuovo anno rappresentano un momento di bilancio dei giorni trascorsi: è doveroso chiedere perdono e ringraziare; ma è anche l’occasione per chiedere la benedizione di Dio e di progettare i 365 giorni che ci troviamo davanti.
È la prima lettura che ci invita a chiedere la benedizione di Dio. La benedizione presso gli ebrei era il segno della fedeltà al Dio dell’alleanza. È un gesto solenne, ricorrente, promessa di prosperità e di pace. È stato così per Noè, Abramo, Giacobbe… Alla fedeltà di Dio risponde la nostra fedeltà.
Il primo giorno dell’anno è una giornata dedicata alla pace. È Dio il Signore della pace e la sua benedizione che oggi chiediamo di ricevere è un augurio di felicità che timbra ogni foglio del nuovo calendario.
Gesù nasce nella pienezza dei tempi e noi contiamo il tempo e i giorni a partire da lui. Gesù colma le attese di Israele, dice Paolo, che scrive ai Galati che « quando venne la pienezza del tempo (to pl?roma tou chronou) Dio mandò il suo Figlio, nato da donna » (Gal 4,4). In realtà è con lui che il tempo acquista il senso pieno e prende un nuovo corso. Come dice Lutero nel suo commento alla lettera ai Galati non fu la pienezza del tempo a far giungere il Figlio; al contrario, fu l’invio del Figlio a rendere pieno il tempo.
Al figlio di Maria viene imposto il nome Gesù, un nome che ha riempito la storia dei nostri duemila anni. Un nome che ci è familiare e caro.
La circoncisione inserisce Gesù pienamente nel popolo ebraico. « Nato da donna » ha preso su di sé senza sconti l’umanità della gente del suo tempo. Attraverso Giuseppe, Gesù è discendente di Davide.
Maria è la benedetta che partecipa a tutti questi eventi a occhi aperti, consapevole e attiva. Medita nel suo cuore, aderisce, collabora.
Attualizzare
L’anno nuovo che cosa ci riserverà? Alcuni anni fa il settimanale Time è uscito con l’immagine di un vecchio che se ne va, simbolo dell’anno passato, e di un piccolo uomo vecchio che viene, simbolo dell’anno nuovo. Quasi a dire che l’anno nuovo non ci riserverà nulla di nuovo.
Con l’anno nuovo si scatena la caccia all’oroscopo: e gli astrologi fanno affari d’oro. Si sa che molto di ciò che accadrà dipenderà da noi, dalla nostra libertà, responsabilità, generosità. Altre cose non dipenderanno da noi e bisogna prepararsi ad affrontarle, farsi forti e solidali.
Maria medita nel suo cuore su ciò che la coinvolge da vicino. È bello questo riferimento a Maria, ma è anche qualcosa che non dovrebbe sorprendere: ogni nascita infatti coinvolge sempre la madre di un bimbo che viene al mondo. Maria ha accettato questa nascita « scomoda »: l’umanità di Gesù la coinvolge profondamente nei piani di Dio e nella missione di Gesù.
Maria dà alla luce Gesù, il Figlio di Dio. È la Theotokos, come la chiamano i cristiani ortodossi. E vive questa straordinaria maternità nella normalità della sua vita di donna del popolo, nella difficoltà di accogliere, comprendere, accompagnare Gesù. Anche lei conobbe la fatica di credere e di crescere nella fede.
Giornata della pace. È bello che un nuovo anno cominci con questo proposito programmatico universale. Del resto è sempre più sentito e proclamato dal mondo cristiano il ripudio della guerra come soluzione non evangelica e non efficace ai problemi dell’umanità.
Il Gesù che assume fino in fondo la nostra umanità, ci impone di farci anche noi più umani (vedi il Messaggio per la Giornata mondiale della Pace). Lui lo ha fatto con assoluta simpatia verso ogni uomo. Non è entrato nel mondo per prenderne le distanze, per guardarlo con superiorità e disprezzo, o per servirsene, come spesso facciamo noi. È diventato apparentemente uno dei tanti, calandosi nell’esistenza umana come fratello tra fratelli, condividendo fino in fondo la nostra esperienza, eccetto il peccato.
Dicevamo che al termine di un anno è doveroso anche ringraziare. Ma dobbiamo farlo anche all’inizio di un nuovo anno, perché siamo ancora qui, immersi in questo mondo meraviglioso che è dono di Dio. Sono tante le cose belle che abbiamo ricevuto, cose quotidiane, cose a cui abbiamo fatto ormai l’abitudine, ma che vengono da lui, anche se non sempre ci pensiamo.
Buon anno a te
Buon anno a te,
che stai inchiodato su un letto,
che vedi il sole a scacchi,
che ti risvegli sulla panchina del parco pubblico,
più infreddolito del solito,
il Signore rivolga su di voi il suo volto e vi dia pace.
Buon te, anziano,
mamma in difficoltà,
famiglia separata,
giovane che cerchi la felicità nella droga,
bambino abbandonato,
fratello immigrato,
papà disoccupato…
il Signore rivolga su di voi
il suo volto e vi dia pace.
Buon anno anche a noi tutti,
discepoli del Signore Gesù:
il Signore rivolga su di noi il suo volto
e non ci dia pace fino a che
non capiremo che noi, oggi,
siamo la sua mano misericordiosa
che si prende cura delle membra ferite
della nostra umanità.
Il valore del tempo
Per capire il valore di un anno, chiedi a uno studente che ha perduto un anno di studio.
Per capire il valore di un mese, chiedi a una madre che ha partorito prematuramente.
Per capire il valore di una settimana, chiedi a un lavoratore che è in cassa integrazione da otto giorni.
Per capire il valore di un’ora, chiedi a due innamorati che attendono di incontrarsi.
Per capire il valore di un minuto, chiedi a qualcuno che ha appena perso il treno.
Per capire il valore di un secondo, chiedi a qualcuno che ha appena evitato un incidente.
Per capire il valore di un milionesimo di secondo, chiedi a un atleta che ha vinto la medaglia d’argento (e ha perso quella d’oro) alle Olimpiadi.
Dai valore a ogni momento che vivi. E condividilo con altri.
Finisce un anno: perché dire grazie
Due pesciolini nella loro vaschetta. Hanno tanto tempo e filosofeggiano.
« E tu, credi in Dio? », chiede uno all’altro.
« Certo. Chi ci cambia l’acqua ogni mattina? ».
Umberto DE VANNA sdb
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/30655.html
OMELIA – NEL LABIRINTO TRA COMPIMENTO E PROFEZIA
don Luciano Cantini
Fuggi in Egitto
Storia di ordinaria amministrazione del genere umano: davanti ad un pericolo si fugge, si cerca un posto più sicuro. Per Israele l’Egitto è stato un rifugio scappando dalla carestia ed è diventato col tempo luogo inospitale e di schiavitù da cui fuggire nella ricerca di una terra promessa. Ogni luogo non è mai definitivo. C’è sempre una terra promessa per chi fugge, una speranza, forse una illusione.
Perché tutto questo movimento? Non si potrebbe aiutarli a rimanere a casa loro? Cosa ci vuole? Bastano due spiccioli, qualche aiuto internazionale tanto per smaltire le eccedenze o scaricare quello che è incommerciabile in occidente e inutile laggiù?
Il Padreterno entra ancora una volta nel sogno di Giuseppe e lo spedisce in Egitto. Non poteva forse risolvere il problema alla radice scorciando la vita a Erode? O infilandosi nel suo cervello per ammansirlo, o dare forza ai suoi consiglieri per farlo desistere? Potrebbe il Dio creatore della storia intervenire con la sua onnipotenza per cambiare cuore e atteggiamenti dell’uomo?
Dio non interviene con forza, non violenta il genere umano. La storia va avanti tra peccati e bontà, tra tragedie e solidarietà, tra presente e futuro!
Perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta
L’evangelista vede nella fuga il compimento della Scrittura e cita Osea (11,1), perché la storia non solo va vissuta con le sue evenienze e contraddizioni, ma va anche saputa « leggere » interpretare come una Parola che Dio ancora ci rivolge in questo nostro tempo. La storia è un segno da riconoscere (Mt 16,3) perché è sempre compimento di una promessa e profezia per il futuro. Dio ci rivela la sua onnipotenza nella sua piccolezza-debolezza-fragilità; sembra una contraddizione ma non è così: la potenza di Dio è nella Croce e la Fuga ne è annuncio. La grandezza di questo racconto sta proprio nel riconoscere un Dio piccolo, povero e fragile che consola la povertà e la fragilità dell’esistenza umana.
Da questa considerazione sorge una molteplicità di domande sul tempo che stiamo vivendo, sulle fughe di cui siamo testimoni, sulle libertà agognate e le prigionie nuove che si fanno incontro; gli sconquassi economici, la politica che annaspa, i ricchi sempre più tali e la povertà che cresce… possibile che tutte le vicissitudini di oggi proprio non ci dicano niente, non siano profezie a tal punto che nulla debba cambiare nello stile di vita e nella quotidianità delle scelte?
Egli si alzò, prese il bambino e sua madre
Giuseppe da uomo giusto, sensibile alla Parola di Dio e ai suoi segni, semplici e fragili come un sogno, si assume la sua responsabilità. Perché la storia di Dio è anche la storia di uomini e l’una passa attraverso la responsabilità dell’altra. Giuseppe prende il bambino e la madre se ne assume la responsabilità nell’andare e nell’entrare.
Il Vangelo non parla di « ritorno » perché la storia non ritorna su i suoi passi, così l’uomo è chiamato sempre verso un futuro, una promessa che non è mai chiusa in se stessa ma si apre a nuovi futuri e nuove promesse (Gen 12,1), è sempre compimento e profezia. E il suo è un andare fragile, incerto: Giuseppe « ebbe paura ». È proprio l’incertezza e il timore di non essere all’altezza del compito che ci rende strumenti nelle mani di Dio ci tiene aperti a nuove promesse e nuovi compimenti.
«Sarà chiamato Nazareno».
Non c’è traccia di questa espressione, l’evangelista dà la paternità della frase ai profeti (al plurale) in modo indefinito perché tutta la Bibbia ha profetato di quel bambino e « Nazoreo » è una parola dalle interpretazioni diverse: dall’ebraico « nétzer » (virgulto) perché « Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici » (Is 11,1), ma anche da « nazir » che significa consacrato, oppure dal verbo « nasar », che vuol dire « proteggere »; Matteo lo lega alla cittadina di Nazareth in Galilea, periferia della nazione, luogo di incontri di mescolanze, indefinito. Ecco quel bambino entra nel nascondimento, di una città degli uomini, periferica rispetto ai poteri, segnato dalla quotidianità della storia degli uomini, dalla famiglia, dal lavoro, la vita di comunità, perché in questo labirinto di circostanze cresca la salvezza per tutti gli uomini.
PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 4. ABRAMO, PADRE NELLA FEDE E NELLA SPERANZA
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 28 dicembre 2016
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
San Paolo, nella Lettera ai Romani, ci ricorda la grande figura di Abramo, per indicarci la via della fede e della speranza. Di lui l’apostolo scrive: «Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli» (Rm 4,18); “saldo nella speranza contro ogni speranza”. Questo concetto è forte: anche quando non c’è speranza, io spero. È così il nostro padre Abramo. San Paolo si sta riferendo alla fede con cui Abramo credette alla parola di Dio che gli prometteva un figlio. Ma era davvero un fidarsi sperando “contro ogni speranza”, tanto era inverosimile quello che il Signore gli stava annunciando, perché egli era anziano – aveva quasi cento anni – e sua moglie era sterile. Non ci è riuscita! Ma lo ha detto Dio, e lui credette. Non c’era speranza umana perché lui era anziano e la moglie sterile: e lui credette.
Confidando in questa promessa, Abramo si mette in cammino, accetta di lasciare la sua terra e diventare straniero, sperando in questo “impossibile” figlio che Dio avrebbe dovuto donargli nonostante il grembo di Sara fosse ormai come morto. Abramo crede, la sua fede si apre a una speranza in apparenza irragionevole; essa è la capacità di andare al di là dei ragionamenti umani, della saggezza e della prudenza del mondo, al di là di ciò che è normalmente ritenuto buonsenso, per credere nell’impossibile. La speranza apre nuovi orizzonti, rende capaci di sognare ciò che non è neppure immaginabile. La speranza fa entrare nel buio di un futuro incerto per camminare nella luce. È bella la virtù della speranza; ci dà tanta forza per camminare nella vita.
Ma è un cammino difficile. E viene il momento, anche per Abramo, della crisi di sconforto. Si è fidato, ha lasciato la sua casa, la sua terra, i suoi amici, … Tutto. È partito, è arrivato nel paese che Dio gli aveva indicato, il tempo è passato. In quel tempo fare un viaggio così non era come oggi, con gli aerei – in poche ore si fa – ; ci volevano mesi, anni! Il tempo è passato, ma il figlio non viene, il grembo di Sara rimane chiuso nella sua sterilità.
E Abramo, non dico che perda la pazienza, ma si lamenta con il Signore. Anche questo impariamo dal nostro padre Abramo: lamentarsi con il Signore è un modo di pregare. Alle volte sento, quando confesso: “Mi sono lamentato con il Signore …”, ed [io rispondo]: “Ma no! Lamentati, Lui è padre!”. E questo è un modo di pregare: lamentati con il Signore, questo è buono. Abramo si lamenta con il Signore dicendo: «“Signore Dio, […] io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco” (Elièzer era quello che reggeva tutte le cose). Soggiunse Abram: “Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio servo sarà mio erede”. Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: “Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede”. Poi lo fa uscire fuori, lo condusse e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”; e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. E Abramo un’altra volta credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gen 15,2-6).
La scena si svolge di notte, fuori è buio, ma anche nel cuore di Abramo c’è il buio della delusione, dello scoraggiamento, della difficoltà nel continuare a sperare in qualcosa di impossibile. Ormai il patriarca è troppo avanti negli anni, sembra non ci sia più tempo per un figlio, e sarà un servo a subentrare ereditando tutto.
Abramo si sta rivolgendo al Signore, ma Dio, anche se è lì presente e parla con lui, è come se ormai si fosse allontanato, come se non avesse tenuto fede alla sua parola. Abramo si sente solo, è vecchio e stanco, la morte incombe. Come continuare a fidarsi?
Eppure, già questo suo lamentarsi è una forma di fede, è una preghiera. Nonostante tutto, Abramo continua a credere in Dio e a sperare che qualcosa ancora potrebbe accadere. Altrimenti, perché interpellare il Signore, lagnarsi con Lui, richiamarlo alle sue promesse? La fede non è solo silenzio che tutto accetta senza replicare, la speranza non è certezza che ti mette al sicuro dal dubbio e dalla perplessità. Ma tante volte, la speranza è buio; ma è lì la speranza … che ti porta avanti. Fede è anche lottare con Dio, mostrargli la nostra amarezza, senza “pie” finzioni. “Mi sono arrabbiato con Dio e gli ho detto questo, questo, questo, …”. Ma Lui è padre, Lui ti ha capito: vai in pace! Bisogna avere questo coraggio! E questo è la speranza. E speranza è anche non avere paura di vedere la realtà per quello che è e accettarne le contraddizioni.
Abramo dunque, nella fede, si rivolge a Dio perché lo aiuti a continuare a sperare. È curioso, non chiese un figlio. Chiese: “Aiutami a continuare a sperare”, la preghiera di avere speranza. E il Signore risponde insistendo con la sua inverosimile promessa: non sarà un servo l’erede, ma proprio un figlio, nato da Abramo, generato da lui. Niente è cambiato, da parte di Dio. Egli continua a ribadire quello che già aveva detto, e non offre appigli ad Abramo, per sentirsi rassicurato. La sua unica sicurezza è fidarsi della parola del Signore e continuare a sperare.
E quel segno che Dio dona ad Abramo è una richiesta di continuare a credere e a sperare: «Guarda in cielo e conta le stelle […] Tale sarà la tua discendenza» (Gen 15,5). È ancora una promessa, è ancora qualcosa da aspettare per il futuro. Dio porta fuori Abramo dalla tenda, in realtà dalle sue visioni ristrette, e gli mostra le stelle. Per credere, è necessario saper vedere con gli occhi della fede; sono solo stelle, che tutti possono vedere, ma per Abramo devono diventare il segno della fedeltà di Dio.
È questa la fede, questo il cammino della speranza che ognuno di noi deve percorrere. Se anche a noi rimane come unica possibilità quella di guardare le stelle, allora è tempo di fidarci di Dio. Non c’è cosa più bella. La speranza non delude. Grazie.
FESTA DI SANTO STEFANO PROTOMARTIRE – PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Piazza San Pietro
Lunedì, 26 dicembre 2016
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
La gioia del Natale riempie anche oggi i nostri cuori, mentre la liturgia ci fa celebrare il martirio di santo Stefano, il primo martire, invitandoci a raccogliere la testimonianza che con il suo sacrificio egli ci ha lasciato. È la testimonianza gloriosa propria del martirio cristiano, patito per amore di Gesù Cristo; martirio che continua ad essere presente nella storia della Chiesa, da Stefano fino ai nostri giorni.
Di questa testimonianza ci ha parlato il Vangelo di oggi (cfr Mt 10,17-22). Gesù preannuncia ai discepoli il rifiuto e la persecuzione che incontreranno: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (v. 22). Ma perché il mondo perseguita i cristiani? Il mondo odia i cristiani per la stessa ragione per cui ha odiato Gesù, perché Lui ha portato la luce di Dio e il mondo preferisce le tenebre per nascondere le sue opere malvage. Ricordiamo che Gesù stesso, nell’Ultima Cena, pregò il Padre perché ci difendesse dal cattivo spirito mondano. C’è opposizione tra la mentalità del Vangelo e quella mondana. Seguire Gesù vuol dire seguire la sua luce, che si è accesa nella notte di Betlemme, e abbandonare le tenebre del mondo.
Il protomartire Stefano, pieno di Spirito Santo, venne lapidato perché confessò la sua fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio. L’Unigenito che viene nel mondo invita ogni credente a scegliere la via della luce e della vita. È questo il significato della sua venuta tra noi. Amando il Signore e obbedendo alla sua voce, il diacono Stefano ha scelto Cristo, Vita e Luce per ogni uomo. Scegliendo la verità, egli è diventato nello stesso tempo vittima del mistero dell’iniquità presente nel mondo. Ma in Cristo, Stefano ha vinto!
Anche oggi la Chiesa, per rendere testimonianza alla luce e alla verità, sperimenta in diversi luoghi dure persecuzioni, fino alla suprema prova del martirio. Quanti nostri fratelli e sorelle nella fede subiscono soprusi, violenze e sono odiati a causa di Gesù! Io vi dico una cosa, i martiri di oggi sono in numero maggiore rispetto a quelli dei primi secoli. Quando noi leggiamo la storia dei primi secoli, qui, a Roma, leggiamo tanta crudeltà con i cristiani; io vi dico: la stessa crudeltà c’è oggi, e in numero maggiore, con i cristiani. Oggi vogliamo pensare a loro che soffrono persecuzione, ed essere vicini a loro con il nostro affetto, la nostra preghiera e anche il nostro pianto. Ieri, giorno di Natale, i cristiani perseguitati nell’Iraq hanno celebrato il Natale nella loro cattedrale distrutta: è un esempio di fedeltà al Vangelo. Nonostante le prove e i pericoli, essi testimoniano con coraggio la loro appartenenza a Cristo e vivono il Vangelo impegnandosi a favore degli ultimi, dei più trascurati, facendo del bene a tutti senza distinzione; testimoniano così la carità nella verità.
Nel fare spazio dentro il nostro cuore al Figlio di Dio che si dona a noi nel Natale, rinnoviamo la gioiosa e coraggiosa volontà di seguirlo fedelmente come unica guida, perseverando nel vivere secondo la mentalità evangelica e rifiutando la mentalità dei dominatori di questo mondo.
Alla Vergine Maria, Madre di Dio e Regina dei martiri, eleviamo la nostra preghiera, affinché ci guidi e ci sostenga sempre nel nostro cammino alla sequela di Gesù Cristo, che contempliamo nella grotta del presepe e che è il Testimone fedele di Dio Padre.
Dopo l’Angelus:
Esprimo vive condoglianze per la triste notizia dell’aereo russo precipitato nel Mar Nero. Il Signore consoli il caro popolo russo e i familiari dei passeggeri che erano a bordo: giornalisti, equipaggio e l’eccellente coro e orchestra delle Forze Armate. La Beata Vergine Maria sostenga le operazioni di ricerca attualmente in corso. Nel 2004, il Coro si esibì in Vaticano per il 26.mo di pontificato di San Giovanni Paolo II: preghiamo per loro.
Cari fratelli e sorelle,
nel clima di gioia cristiana che promana dal Natale di Gesù, vi saluto e vi ringrazio per la vostra presenza.
A tutti voi, venuti dall’Italia e da diverse Nazioni, rinnovo l’augurio di pace e di serenità: siano questi, per voi e per i vostri familiari, giorni di gioia e di fraternità. Saluto e invio gli auguri a tutte le persone che si chiamano Stefano o Stefania!
In queste settimane ho ricevuto tanti messaggi augurali da tutto il mondo. Non essendomi possibile rispondere a ciascuno, esprimo oggi a tutti il mio sentito ringraziamento, specialmente per il dono della preghiera. Grazie di cuore! Il Signore vi ricompensi con la sua generosità!
Buona festa! Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci.
SANTA MESSA DELLA NOTTE NATALE DEL SIGNORE – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
CAPPELLA PAPALE
Basilica Vaticana
Sabato, 24 dicembre 2016
«È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11). Le parole dell’apostolo Paolo rivelano il mistero di questa notte santa: è apparsa la grazia di Dio, il suo regalo gratuito; nel Bambino che ci è donato si fa concreto l’amore di Dio per noi.
È una notte di gloria, quella gloria proclamata dagli angeli a Betlemme e anche da noi in tutto il mondo. È una notte di gioia, perché da oggi e per sempre Dio, l’Eterno, l’Infinito, è Dio con noi: non è lontano, non dobbiamo cercarlo nelle orbite celesti o in qualche mistica idea; è vicino, si è fatto uomo e non si staccherà mai dalla nostra umanità, che ha fatto sua. È una notte di luce: quella luce, profetizzata da Isaia (cfr 9,1), che avrebbe illuminato chi cammina in terra tenebrosa, è apparsa e ha avvolto i pastori di Betlemme (cfr Lc 2,9).
I pastori scoprono semplicemente che «un bambino è nato per noi» (Is 9,5) e comprendono che tutta questa gloria, tutta questa gioia, tutta questa luce si concentrano in un punto solo, in quel segno che l’angelo ha loro indicato: «Troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12). Questo è il segno di sempre per trovare Gesù. Non solo allora, ma anche oggi. Se vogliamo festeggiare il vero Natale, contempliamo questo segno: la semplicità fragile di un piccolo neonato, la mitezza del suo essere adagiato, il tenero affetto delle fasce che lo avvolgono. Lì sta Dio.
E con questo segno il Vangelo ci svela un paradosso: parla dell’imperatore, del governatore, dei grandi di quel tempo, ma Dio non si fa presente lì; non appare nella sala nobile di un palazzo regale, ma nella povertà di una stalla; non nei fasti dell’apparenza, ma nella semplicità della vita; non nel potere, ma in una piccolezza che sorprende. E per incontrarlo bisogna andare lì, dove Egli sta: occorre chinarsi, abbassarsi, farsi piccoli. Il Bambino che nasce ci interpella: ci chiama a lasciare le illusioni dell’effimero per andare all’essenziale, a rinunciare alle nostre insaziabili pretese, ad abbandonare l’insoddisfazione perenne e la tristezza per qualche cosa che sempre ci mancherà. Ci farà bene lasciare queste cose per ritrovare nella semplicità di Dio-bambino la pace, la gioia, il senso luminoso della vita.
Lasciamoci interpellare dal Bambino nella mangiatoia, ma lasciamoci interpellare anche dai bambini che, oggi, non sono adagiati in una culla e accarezzati dall’affetto di una madre e di un padre, ma giacciono nelle squallide “mangiatoie di dignità”: nel rifugio sotterraneo per scampare ai bombardamenti, sul marciapiede di una grande città, sul fondo di un barcone sovraccarico di migranti. Lasciamoci interpellare dai bambini che non vengono lasciati nascere, da quelli che piangono perché nessuno sazia la loro fame, da quelli che non tengono in mano giocattoli, ma armi.
Il mistero del Natale, che è luce e gioia, interpella e scuote, perché è nello stesso tempo un mistero di speranza e di tristezza. Porta con sé un sapore di tristezza, in quanto l’amore non è accolto, la vita viene scartata. Così accadde a Giuseppe e Maria, che trovarono le porte chiuse e posero Gesù in una mangiatoia, «perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (v. 7). Gesù nasce rifiutato da alcuni e nell’indifferenza dei più. Anche oggi ci può essere la stessa indifferenza, quando Natale diventa una festa dove i protagonisti siamo noi, anziché Lui; quando le luci del commercio gettano nell’ombra la luce di Dio; quando ci affanniamo per i regali e restiamo insensibili a chi è emarginato. Questa mondanità ci ha preso in ostaggio il Natale: bisogna liberarlo!
Ma il Natale ha soprattutto un sapore di speranza perché, nonostante le nostre tenebre, la luce di Dio risplende. La sua luce gentile non fa paura; Dio, innamorato di noi, ci attira con la sua tenerezza, nascendo povero e fragile in mezzo a noi, come uno di noi. Nasce a Betlemme, che significa “casa del pane”. Sembra così volerci dire che nasce come pane per noi; viene alla vita per darci la sua vita; viene nel nostro mondo per portarci il suo amore. Non viene a divorare e a comandare, ma a nutrire e servire. Così c’è un filo diretto che collega la mangiatoia e la croce, dove Gesù sarà pane spezzato: è il filo diretto dell’amore che si dona e ci salva, che dà luce alla nostra vita, pace ai nostri cuori.
L’hanno capito, in quella notte, i pastori, che erano tra gli emarginati di allora. Ma nessuno è emarginato agli occhi di Dio e proprio loro furono gli invitati di Natale. Chi era sicuro di sé, autosufficiente, stava a casa tra le sue cose; i pastori invece «andarono, senza indugio» (cfr Lc 2,16). Anche noi lasciamoci interpellare e convocare stanotte da Gesù, andiamo a Lui con fiducia, a partire da quello in cui ci sentiamo emarginati, a partire dai nostri limiti, a partire dai nostri peccati. Lasciamoci toccare dalla tenerezza che salva. Avviciniamoci a Dio che si fa vicino, fermiamoci a guardare il presepe, immaginiamo la nascita di Gesù: la luce e la pace, la somma povertà e il rifiuto. Entriamo nel vero Natale con i pastori, portiamo a Gesù quello che siamo, le nostre emarginazioni, le nostre ferite non guarite, i nostri peccati. Così, in Gesù, assaporeremo lo spirito vero del Natale: la bellezza di essere amati da Dio. Con Maria e Giuseppe stiamo davanti alla mangiatoia, a Gesù che nasce come pane per la mia vita. Contemplando il suo amore umile e infinito, diciamogli semplicemente grazie: grazie, perché hai fatto tutto questo per me.