St. Catherine in Braintree, Atlanta, Georgia

Omelie dei padri della chiesa sulla Santa Croce
SAN GREGORIO DI NISSA, GRANDE CATECHESI. 32, 2
Che la croce nasconda un significato assai profondo, se ne sono accorti coloro che hanno conosciuto gli arcani misteri. La tradizione ci insegna questo: nel Vangelo ogni cosa è detta o fatta in funzione di una vita più elevata e divina, mentre in ogni occasione si manifesta chiaramente una mescolanza di umanità e divinità, giacché, la voce e l’azione pratica appartengono alla sfera umana, mentre il significato recondito inerisce alla dimensione divina; ora, stando così le cose, non sarebbe giusto soffermarsi unicamente su di un aspetto, trascurando l’altro, ma occorre, invece, considerare l’elemento mortale in quello immortale, esaminando accuratamente, peraltro,, anche la componente più propriamente divina presente nell’uomo. E proprio della sostanza divina, infatti, permeare di sé, ogni cosa, raggiungendo, in ogni direzione, tutto ciò che esiste… Del che siam resi edotti proprio in virtù della croce: questa, infatti, è divisa in quattro parti, in maniera che, a partire dal suo punto centrale, si contano quattro bracci ad esso congiunti; ora, colui che fu disteso sulla croce perché, ci facesse dono della sua morte, nell’attirare a sé e nel plasmare tutte le cose, le unifica, nonostante le loro diverse nature, nel segno di un accordo e di un’armonia universali. Ogni cosa, infatti, può esser considerata nella sua parte superiore come in quella inferiore come anche da un punto di vista trasversale. Se, dunque, ti soffermi a riflettere sulla struttura del cielo o su quella della terra ovvero su ciò che entrambe le trascende il tuo pensiero s’incontrerà ogni volta con la divinità, l’unica ad esser contemplata in tutto ciò che esiste ed a contenere, nella sua essenza, ogni cosa. Se, poi, questa divinità debba esser chiamata natura o ragione o virtù e potenza o sapienza o con qualcun’altra di queste sublimi definizioni che possa mostrare con maggior eloquenza le qualità di colui che è sommo ed eminentissimo, la nostra fede non suscita alcun problema a, questo riguardo, né per l’espressione né per il nome né per il significato dei termini. Giacché, allora, l’intera creazione guarda a lui, dispiegandoglisi intorno, e, in virtù del suo tramite, perviene alla propria intrinseca unità, mentre ciò che si trova al di sopra si salda con ciò che sta al di sotto e le cose che si trovano di traverso si congiungono, grazie a lui, le une con le altre; stando così le cose, dicevo, occorreva che noi non fossimo indotti soltanto per sentito dire alla considerazione della divinità, ma che la nostra stessa vista divenisse maestra di più sublimi pensieri. In seguito ad un’esperienza del genere, il grande Paolo si senti spinto ad istruire nei misteri la comunità di Efeso, conferendo ad essa, attraverso la propria dottrina, la capacità di conoscere che cosa siano la profondità, la larghezza, la lunghezza e l’altezza (cf. Ef. 3, 18). Ebbene, l’Apostolo, così facendo, chiama con il nome che lo compete ciascuno dei bracci della croce. L’altezza, infatti, è la parte che va al di sopra; la profondità, quella che si protende verso il basso, per larghezza e lunghezza, infine, son da intendersi i bracci trasversali. Altrove, rivolgendosi ai Filippesi, Paolo rende conto con maggior chiarezza, credo, di questo significato, allorché dice: Nel nome di Gesù Cristo ogni ginocchio si pieghi, nel cielo, sulla terra e negli inferi (Fil. 2, 10). Qui egli comprende sotto un’unica denominazione il braccio trasversale, dal momento che considera terrestre tutto ciò che si trova fra il cielo e gl’inferi.
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/2002/documents/hf_jp-ii_aud_20020116.html
GIOVANNI PAOLO II – SALMO 41: DESIDERIO DEL SIGNORE E DEL SUO TEMPIO
UDIENZA GENERALE
Mercoledì 16 gennaio 2002
Lodi Lunedì 2a Settimana (Lettura: Sal 41, 2-3.11-12)
1. Una cerva assetata, con la gola riarsa, lancia il suo lamento davanti al deserto arido, anelando alle fresche acque di un ruscello. Questa celebre immagine apre il Salmo 41, che è stato poc’anzi cantato. Vi possiamo vedere quasi il simbolo della profonda spiritualità di questa composizione, vero gioiello di fede e di poesia. In realtà, secondo gli studiosi del Salterio, il nostro Salmo è da unire strettamente al successivo, il 42, dal quale fu diviso quando i Salmi furono messi in ordine per formare il libro di preghiera del Popolo di Dio. Infatti entrambi i Salmi – oltre ad essere uniti per tema e per sviluppo – sono scanditi dalla stessa antifona: « Perché ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio » (Sal 41, 6.12; 42, 5). Questo appello, ripetuto due volte nel nostro Salmo, e una terza volta nel Salmo successivo, è un invito rivolto dall’orante a se stesso in vista di respingere la malinconia per mezzo della fiducia in Dio, che certamente si manifesterà di nuovo come Salvatore.
2. Ma ritorniamo all’immagine di partenza del Salmo, che piacerebbe meditare col sottofondo musicale del canto gregoriano o di quel capolavoro polifonico che è il Sicut cervus di Pierluigi da Palestrina. La cerva assetata è, infatti, il simbolo dell’orante che tende con tutto se stesso, corpo e spirito, verso il Signore sentito come lontano e insieme necessario: « La mia anima ha sete di Dio, del Dio vivente »(Sal 41, 3). In ebraico una sola parola, nefesh, indica contemporaneamente l’ »anima » e la « gola ». Quindi possiamo dire che anima e corpo dell’orante sono coinvolti nel desiderio primario, spontaneo, sostanziale di Dio (cfr Sal 62, 2). Non per nulla, c’è una lunga tradizione che descrive la preghiera come « respiro »: essa è originaria, necessaria, fondamentale come l’alito vitale.
Origene, grande autore cristiano del terzo secolo, mostrava che la ricerca di Dio da parte dell’uomo è un’impresa mai terminata, perché nuovi progressi sono sempre possibili e necessari. In una delle sue Omelie sui Numeri egli scrive: « Coloro che percorrono la strada della ricerca della sapienza di Dio non costruiscono case stabili, ma tende mobili, perché vivono di viaggi continui progredendo sempre in avanti, e quanto più progrediscono, tanto più si apre il cammino davanti a loro, prospettando un orizzonte che si perde nell’immensità » (Omelia XVII, In Numeros, GCS VII, 159-160).
3. Cerchiamo ora di intuire la trama di questa supplica, che potremmo immaginare affidata a tre atti, due dei quali sono all’interno del nostro Salmo, mentre l’ultimo si aprirà nel Salmo successivo, il 42, che in seguito considereremo. La prima scena (cfr Sal 41, 2-6) esprime la profonda nostalgia suscitata dal ricordo di un passato reso felice da belle celebrazioni liturgiche ormai inaccessibili: « Questo io ricordo, e il mio cuore si strugge: attraverso la folla avanzavo tra i primi fino alla casa di Dio, in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa » (v. 5).
« La casa di Dio » con la sua liturgia è quel tempio di Gerusalemme che il fedele un tempo frequentava, ma è anche la sede dell’intimità con Dio, « sorgente d’acqua viva », come canta Geremia (2, 13). Ora l’unica acqua che affiora alle sue pupille è quella delle lacrime (Sal 41, 4) per la lontananza dalla fonte della vita. La preghiera festosa di allora, elevata al Signore durante il culto nel tempio, è sostituita adesso dal pianto, dal lamento, dall’implorazione.
4. Purtroppo, un presente triste si oppone a quel passato gioioso e sereno. Il Salmista si trova ora lontano da Sion: l’orizzonte che lo circonda è quello della Galilea, la regione settentrionale della Terra Santa, come suggerisce la menzione delle sorgenti del Giordano, della vetta dell’Ermon da cui sgorga questo fiume, e di un’altra montagna a noi ignota, il Mizar (cfr v. 7). Siamo, quindi, più o meno nell’area in cui si trovano le cateratte del Giordano, le cascatelle con le quali si avvia il percorso di questo fiume che attraversa tutta la Terra promessa. Queste acque, però, non sono dissetanti come quelle di Sion. Agli occhi del Salmista sono piuttosto simili alle acque caotiche del diluvio che tutto distruggono. Egli le sente piombare addosso come un torrente impetuoso che annienta la vita: « Tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati » (v. 8). Nella Bibbia, infatti, il caos e il male o lo stesso giudizio divino sono raffigurati come un diluvio che genera distruzione e morte (Gen 6, 5-8; Sal 68, 2-3).
5. Questa irruzione è definita successivamente nella sua valenza simbolica: sono i perversi, gli avversari dell’orante, forse anche i pagani che abitano in questa regione remota dove il fedele è relegato. Essi disprezzano il giusto e deridono la sua fede chiedendogli ironicamente: « Dov’è il tuo Dio? » (v. 11; cfr v. 4). Ed egli lancia a Dio la sua angosciosa domanda: « Perché mi hai dimenticato? » (v. 10). Il « perché? » rivolto al Signore, che sembra assente nel giorno della prova, è tipico delle suppliche bibliche.
Di fronte a queste labbra secche che urlano, di fronte a quest’anima tormentata, a questo volto che sta per essere sommerso da un mare di fango, Dio potrà restare muto? Certamente no! L’orante si anima quindi di nuovo alla speranza (cfr vv. 6.12). Il Terzo atto, racchiuso nel Salmo successivo, il 42, sarà una fiduciosa invocazione rivolta a Dio (Sal 42, 1.2a.3a.4b) e userà espressioni liete e riconoscenti: « Verrò all’altare di Dio, al Dio della mia gioia, del mio giubilo ».
PAPA FRANCESCO – DIO DELLE SORPRESE
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 13 ottobre 2014
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.234, Mar. 14/10/2014)
«Un cuore che ami la legge, perché la legge è di Dio», ma «che ami anche le sorprese di Dio», perché la sua «legge santa non è fine a se stessa»: è un cammino, «è una pedagogia che ci porta a Gesù Cristo». È quanto Papa Francesco ha invitato a chiedere al Signore nella preghiera, durante la messa celebrata stamattina, lunedì 13 ottobre, nella cappella di Santa Marta.
All’omelia il Pontefice si è soffermato soprattutto sul brano del Vangelo di Luca (11, 29-32) in cui Gesù apostrofa le folle che si accalcavano per ascoltarlo come «una generazione malvagia» perché «cerca un segno». Secondo il vescovo di Roma «è evidente che Gesù parla ai dottori della legge», che «parecchie volte nel Vangelo» gli chiedono «un segno». Essi, infatti, «non vedevano tanti segni di Gesù». Ma proprio per questo «Gesù li rimprovera» in diverse occasioni: «Voi siete incapaci di vedere i segni dei tempi», dice loro nel Vangelo di Matteo ricorrendo all’immagine dell’albero del fico: «Quando il suo ramo diventa tenero e germogliano le foglie è vicina l’estate; e voi non capite i segni dei tempi».
Papa Francesco ha esortato dunque a interrogarsi sul motivo per cui i dottori della legge non capivano i segni dei tempi, invocando un segno straordinario. E ha proposto alcune risposte: la prima è «perché erano chiusi. Erano chiusi nel loro sistema, avevano sistemato la legge benissimo, un capolavoro. Tutti gli ebrei sapevano che cosa si poteva fare, che cosa non si poteva fare, fino a dove si poteva andare. Era tutto sistemato». Ma Gesù li spiazza facendo «cose strane», come «andare con i peccatori, mangiare con i pubblicani». E questo ai dottori della legge «non piaceva, era pericoloso; era in pericolo la dottrina, che loro, i teologi, avevano fatto nei secoli».
In proposito il vescovo di Roma ha riconosciuto che si trattava di una legge «fatta per amore, per essere fedeli a Dio», ma era divenuta ormai un sistema normativo chiuso. Essi «semplicemente avevano dimenticato la storia. Avevano dimenticato che Dio è il Dio della legge», ma è anche «il Dio delle sorprese. E anche al suo popolo, Dio ha riservato sorprese tante volte»: basti pensare a «come li ha salvati» nel mar Rosso dalla schiavitù d’Egitto, ha ricordato il Papa.
Nonostante ciò, comunque, essi «non capivano che Dio è sempre nuovo; mai rinnega se stesso, mai dice che quello che aveva detto era sbagliato, mai; ma sorprende sempre. E loro non capivano e si chiudevano in quel sistema fatto con tanta buona volontà; e chiedevano» a Gesù di dar loro «un segno», continuando a non capire invece «i tanti segni che faceva Gesù» e rimanendo in un atteggiamento di totale «chiusura».
La seconda risposta all’interrogativo iniziale, ha fatto notare il Pontefice, va ricondotta al fatto che essi «avevano dimenticato che erano un popolo in cammino. E quando quando uno è in cammino trova sempre cose nuove, cose che non conosce. E queste cose dovevano assumerle in un cuore fedele al Signore, nella legge». Ma, anche in questo caso, «un cammino non è assoluto in se stesso, è il cammino verso un punto: verso la manifestazione definitiva del Signore». Del resto, tutta «la vita è un cammino verso la pienezza di Gesù Cristo, quando verrà la seconda volta. È un cammino verso Gesù, che tornerà nella gloria, come avevano detto gli angeli agli apostoli il giorno dell’ascensione».
Insomma, ha ribadito Papa Francesco ripetendo le parole del brano evangelico, «questa generazione cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona»: ovvero — ha chiarito — «il segno della risurrezione, della gloria, di quella escatologia verso la quale andiamo in cammino». Però molti dei suoi contemporanei «erano chiusi in se stessi, non aperti al Dio delle sorprese»; erano uomini e donne che «non conoscevano il cammino e nemmeno questa escatologia, al punto tale che quando in Sinedrio, il sacerdote domanda a Gesù: “Ma di’, tu sei il Figlio dell’uomo?” e Gesù dice: “Sì, e vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza, venire sulle nubi del cielo”, questi si stracciarono le vesti, si scandalizzarono. “Ha bestemmiato! Bestemmia!”, gridavano». Il segno che Gesù dà per loro era una bestemmia.
Per questo motivo, ha spiegato il Papa, Gesù li definisce «generazione malvagia», in quanto «non hanno capito che la legge che loro custodivano e amavano era una pedagogia verso Gesù Cristo». Infatti «se la legge non porta a Gesù Cristo, non ci avvicina a Gesù Cristo, è morta». E per questo Gesù rimprovera i membri di quella generazione «di essere chiusi, di non essere capaci di conoscere i segni dei tempi, di non essere aperti al Dio delle sorprese, di non essere in cammino verso quel trionfo finale del Signore», al punto «che quando lui lo esplicita, essi credono che sia una bestemmia».
Da qui la consegna finale a riflettere su questo tema, a interrogarsi sui due aspetti, chiedendosi: «Io sono attaccato alle mie cose, alle mie idee, chiuso? O sono aperto al Dio delle sorprese?». E ancora: «Sono una persona ferma o una persona che cammina?». E in definitiva, ha concluso, «io credo in Gesù Cristo e in quello che ha fatto», cioè «è morto, risorto… credo che il cammino vada avanti verso la maturità, verso la manifestazione di gloria del Signore? Io sono capace di capire i segni dei tempi ed essere fedele alla voce del Signore che si manifesta in essi?».
13 NOVEMBRE 2016 | 33A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | OMELIA
Per cominciare
La liturgia di questa domenica è segnata dal tempo liturgico. La prossima domenica sarà la festa di Cristo Re e si concluderà l’anno liturgico. La parola di Dio fa riferimento al giudizio di Dio sulla storia e ai giorni difficili che aspettano i cristiani. Ma i giusti, dicono i profeti e lo stesso Gesù, non hanno nulla da temere, perché Dio è buono e sarà vicino nel momento della prova.
La parola di Dio
Malachia 3,19-20a. Malachia lancia il suo messaggio profetico e preannuncia il giorno del giudizio, rovente come un forno per condannare i malvagi, mentre per i giusti sorgerà come il sole la giustizia.
2 Tesalonicesi 3,7-12. Paolo propone se stesso come modello di vita esemplare. Egli che si è guadagnato il pane lavorando con fatica notte e giorno, esorta gli sfaticati e i bighelloni a non vivere nell’ozio.
Luca 21,5-19. Gesù si esprime come un profeta e preannuncia la fine di Gerusalemme, tra guerre, rivoluzioni e terribili persecuzioni. Ma i cristiani non hanno nulla da temere, perché « neanche un capello del loro capo perirà ».
Riflettere
Questa domenica in alcune diocesi viene sostituita dalla festa della dedicazione della cattedrale e la solennità della chiesa locale (vedi pag. 000). In molte parrocchie, anche in questo caso, si leggono le letture della domenica 33ª, tranne in circostanze di particolari solennità.
I temi che emergono dalle letture sono parecchi: ancora il tema del giudizio finale, soprattutto nel testo del profeta Malachia. L’argomento è già stato abbondantemente affrontato nella domenica 32ª, nella solennità dei santi e nella commemorazione dei defunti.
Si fa riferimento alla distruzione del tempio e agli avvenimenti tragici della conquista di Gerusalemme avvenuta nel 70 dopo Cristo per opera dei romani. Le espressioni e i riferimenti espliciti potrebbero essere di Luca, che ha vissuto di persona questi momenti. Oppure sono espressioni in qualche modo anticipatrici di Gesù, di tipo apocalittico.
Gesù ha presenti anche le difficoltà e i contrasti di ogni tipo a cui sarebbero andati incontro gli apostoli e i nuovi cristiani. Ma, assicura, non hanno nulla da temere, perché « nemmeno un capello del loro capo perirà » (Lc 21,18).
Paolo ai cristiani di Tessalonica, che sembrano aver preso troppo alla lettera le parole che lui ha scritto nella lettera precedente e pensano che siano imminenti la fine del mondo e il giudizio di Dio, e per questo rifiutano di impegnarsi e di lavorare, ricorda di seguire il suo esempio: lui non è mai vissuto nell’ozio, ma si è sempre guadagnato il pane lavorando con fatica notte e giorno. Anch’essi « si guadagnino il pane lavorando in tranquillità », e non vivano « senza far nulla e sempre in agitazione ».
Infine Gesù, senza tanti giri di parole, gela coloro che magnificano la bellezza del tempio di Gerusalemme, e preannuncia che di quella magnificenza ben presto non rimarrà « pietra su pietra ».
« Quando accadrà tutto questo? », gli domandano. Ma Gesù non dà particolari, anzi, afferma di non dare retta a chi è sempre lì pronto a stabilire tempi e modi della fine del mondo e del giudizio universale.
Quanto alle persecuzione di cui parla il vangelo, presenti nella chiesa primitiva, ma anche in quella ogni tempo, dobbiamo dire che ci sono tribolazioni che giungono improvvise e non cercate, ma ce ne sono altre che sono la conseguenza di scelte fatte. È regolarmente il prezzo da pagare per chi accetta di svolgere la missione difficile e poco gratificante del profeta.
Anche le persone più simpatiche, quando si fanno interpreti del messaggio evangelico, per quanto possa sembrare strano, possono diventare irritanti, fastidiose, insopportabili e venire emarginate.
Il profeta non è mai osannato a lungo dalle folle e meno ancora da chi detiene il potere, sia politico che religioso. In un primo momento può anche essere apprezzato per la sua preparazione, intelligenza, integrità morale, ma presto è guardato con sospetto, osteggiato e perseguitato.
Gesù non ha illuso i suoi discepoli, non ha promesso una vita facile, non ha assicurato l’approvazione e il consenso degli uomini. Con insistenza ha ripetuto che l’adesione a lui avrebbe comportato persecuzioni: « È sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia! » (Mt 10,24-25). « Anzi », ha aggiunto, « viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio » (Gv 16,2).
Attualizzare
L’orgoglio del tempio che avevano gli ebrei è a volte l’orgoglio che abbiamo noi per i nostri santuari (Pompei, Loreto, Oropa, Caravaggio…). Orgoglio legittimo, perché sono stati voluti e costruiti spesso dalla fede semplice di molti cristiani. A volte anche dall’ambizione di vescovi e potenti, ma la gente del popolo non ha mai sottilizzato troppo, vedendo piuttosto il prodotto finale come occasione per manifestare e vivere la propria fede.
Gesù dice del tempio di Gerusalemme, che era un’opera davvero grandiosa: « Non sarà lasciata pietra su pietra ». La sua distruzione segnerà la fine di un’epoca. Anche simbolicamente è l’inizio di qualcosa di profondamente nuovo che nasce dalle macerie del tempio: la fede nella risurrezione di Gesù, la chiesa, il cristianesimo.
Gli domandano: « Quando accadranno queste cose? », ma Gesù non risponde in modo diretto e non soddisfa la curiosità nostra e di tanti, che vorrebbero conoscere il futuro, i tempo del giudizio di Dio, della fine del mondo.
Sono le sette, i testimoni di Geova, le visioni private che hanno le informazioni più dettagliate al riguardo. Spesso sfiorano il ridicolo e l’ingenuità.
Il cristiano invece sa che è più importante vivere bene ed essere fedeli, che sentire l’ansia o la paura per ciò che ci attende nel futuro. Non mancherà infatti, anche di fronte alla persecuzione, l’assistenza di Dio, che darà « parola e sapienza » al momento opportuno.
È un fatto che la persecuzione è un dato costante nella storia del cristianesimo. Sin dalle origini della chiesa. Dal martirio dei primi secoli, alla vita dei santi, che spesso è costellata di contrasti senza fine e a volte inspiegabili, perché vissuti all’interno della stessa chiesa, della stessa comunità, della stessa famiglia.
Il vescovo Oscar Romero sapeva che gli squadroni della morte lo avrebbero fatto fuori, se avesse continuato a sostenere in San Salvador i diritti dei poveri, ma diceva: « Non posso fare altrimenti. Non posso rinunciare alla verità. Morire dobbiamo tutti, una volta o l’altra. Se questo accade per una buona causa, tanto meglio. Per uno che cade, ne vengono altri cento ». Fu ucciso il 24 marzo del 1980, mentre celebrava la messa.
Nessun privilegio dunque per il cristiano. A lui non sarà tolta alcuna difficoltà nella sua vita. Anzi, la difficoltà diventa proprio la prova del nove per giudicare della bontà di un’iniziativa o di un progetto di vita.
La fedeltà nel martirio quotidiano
Maggio 1977. mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo do San Salvador, celebra il funerale di un suo prete assassinato dagli squadroni della morte. Disse in quella circostanza: « Non tutti avranno l’onore di dare il loro sangue fisico, di essere uccisi per la fede, però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui lo spirito del martirio, cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore; noi, sì, siamo disponibili, in modo che quando arriva la nostra ora di rendere conto, possiamo dire: « Signore, io ero disposto a dare la mia vita per te. E l’ho data ». Perché dare la vita non significa solo essere uccisi: dare la vita, avere spirito di martirio, è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco. Come la dà la madre, senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio… ».
Don Umberto DE VANNA sdb
PAPA FRANCESCO – Servi liberi
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE
Martedì, 8 novembre 2016
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n.257, 09/11/2016)
Servo ma libero, figlio e non schiavo: è questo l’aspetto dell’identità del cristiano approfondito da Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta nella mattina di martedì 8 novembre.
Punto di partenza della riflessione è stato il brano del Vangelo di Luca (17, 7-10) nel quale Gesù afferma: «Siamo servi inutili». Ma cosa significa questa espressione?
Per aiutare la comprensione, il Pontefice ha attinto da un altro elemento della liturgia quotidiana, la preghiera della colletta, nella quale, ha ricordato, «abbiamo pregato chiedendo tre grazie», ovvero: «Allontana, Signore, ogni ostacolo nel nostro cammino verso di te, perché nella serenità del corpo e dello spirito possiamo dedicarci liberamente al tuo servizio». Un’orazione nella quale sono riassunti i passi necessari per raggiungere la giusta dimensione del servizio, che è quella di essere «servi inutili».
Innanzitutto, ha detto il Papa, «la prima cosa che abbiamo chiesto è che il Signore allontani gli ostacoli, per servirlo bene, per servirlo liberamente, come figli». Dei tanti ostacoli che un cristiano può trovare sul suo cammino e che «impediscono di diventare servi», se ne possono ricordare almeno due. Uno è, sicuramente, «la voglia di potere». Una difficoltà comune, che si incontra facilmente nella vita quotidiana: quante volte, ha esemplificato Francesco, «forse a casa nostra» c’è chi dice: «Qui comando io!», o quante volte, anche «senza dirlo», abbiamo fatto sentire agli altri questa nostra «voglia di potere»? Invece Gesù «ci ha insegnato che colui che comanda diventi come colui che serve» e che «se uno vuole essere il primo, sia il servitore di tutti». Gesù, cioè, «capovolge i valori della mondanità, del mondo».
Ecco perché la voglia di potere «non è la strada per diventare un servo del Signore, anzi: è un ostacolo, uno di questi ostacoli che abbiamo pregato il Signore di allontanare da noi».
C’è poi un altro ostacolo, che si può riscontrare «anche nella vita della Chiesa», ed è «la slealtà». Lo incontriamo «quando qualcuno vuol servire il Signore ma anche serve altre cose che non sono il Signore». Eppure, ha ricordato il Pontefice, Gesù «ci ha detto che nessun servo può avere due padroni: o serve Dio o serve il denaro». E la slealtà, ha sottolineato, «non è lo stesso di essere peccatore». Infatti «tutti siamo peccatori, e ci pentiamo di questo», ma essere sleali è «come fare il doppio gioco». E questo «è un ostacolo». Quindi, «quello che ha voglia di potere e quello che è sleale, difficilmente può servire, diventare servo libero del Signore».
Proseguendo lungo il filo della meditazione, il Papa è passato alla seconda parte della colletta. Dopo aver chiesto al Signore di allontare gli ostacoli, la preghiera prosegue: «… perché — seconda domanda — nella serenità del corpo e dello spirito» possiamo dedicarci al servizio. La seconda parola chiave è, quindi, «serenità», cioè «servire il Signore in pace». Ha infatti spiegato Francesco: «Gli ostacoli — sia la voglia di potere, sia la slealtà — tolgono la pace e ti portano a quel prurito del cuore di non essere in pace, sempre ansioso, male… senza pace». Un’insoddisfazione «che ci porta a vivere in quella tensione della vanità mondana, vivere per apparire». Così si vede tanta gente che «vive soltanto per essere in vetrina, per apparire, perché dicano: “Ah, che buono che è…”, per la fama, fama mondana». Ma così «non si può servire il Signore». Ecco dunque che «chiediamo al Signore di togliere gli ostacoli perché nella serenità, sia del corpo sia dello spirito» — e qui passiamo al terzo elemento — possiamo «dedicarci liberamente al suo servizio».
È «libertà» la terza parola chiave. Perché, ha detto il Papa, «il servizio di Dio è libero: noi siamo figli, non schiavi. E servire Dio in pace, con serenità, quando lui stesso ha tolto da noi gli ostacoli che tolgono la pace e la serenità, è servirlo con libertà». Non a caso, ha aggiunto, «quando noi serviamo il Signore con libertà, sentiamo quella pace ancora più profonda». Ed è come risentire la voce del Signore che dice: «Vieni, vieni, vieni, servo buono e fedele!». Per far questo, però, «abbiamo bisogno della sua grazia: da soli, non possiamo». Ma, ha precisato il Pontefice, non è che quando «noi arriviamo a questo stato di servizio libero, di figli, con il Padre, possiamo dire: “Siamo buoni servitori del Signore”». Piuttosto va detto semplicemente «servi inutili». Espressione che vuole indicare «l’inutilità del nostro lavoro: da soli, non possiamo». Perciò, ha spiegato Papa Francesco, dobbiamo soltanto «chiedere e fare spazio» affinché Dio «ci trasformi in servi liberi, in figli, non in schiavi».
Da qui la preghiera conclusiva: «Che il Signore ci aiuti ad aprire il cuore e a lasciare lavorare lo Spirito Santo, perché tolga da noi questi ostacoli, soprattutto la voglia di potere che fa tanto male, e la slealtà, la doppia faccia», e ancora «ci dia questa serenità, questa pace per poterlo servire come figlio libero che alla fine, con tanto amore» dice al Signore: «Padre, grazie, ma tu sai: sono un servo inutile».