Archive pour juillet, 2016

Angel from 12th century Byzantine Mosaic on Cupola of the Martorana Church in Palermo

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Publié dans:immagini sacre |on 25 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

LINGUAGGIO MISTICO E POESIA

http://www.mistica.info/unpoesia.htm#INEFFABILITÀ

LINGUAGGIO MISTICO E POESIA

Introduzione  

Secondo una definizione ormai consolidata, appartenente al mondo della filosofia e della psicologia, il linguaggio è: «un insieme di codici che permettono di trasmettere, conservare ed elaborare informazioni tramite segni intersoggettivi in grado di significare altro da sé. Il linguaggio umano è in massima parte appreso e si evolve nel corso della vita dell’individuo e della specie e può riferirsi a oggetti astratti mediante l’impiego di simboli che sono portatori di un significato tramite il riferimento a qualcosa di altro da sé, e di concetti, che si riferiscono non a un singolo oggetto, ma a una classe» (Umberto Galimberti, Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Torino 1999). L’esperienza mistica riguarda il rapporto della persona con Dio. Il concetto di esperienza in realtà è di alquanto difficile definizione, come è stato sottolineato in altre pagine (ad es., nella pagina dei CONCETTI FONDAMENTALI RELATIVI ALLA MISTICA). Se è vero che l’esperienza del divino produce nella persona un’esperienza passiva dell’azione di Dio sull’anima, è altrettanto doveroso ricordare come non sia essenziale per parlare di stato mistico (cfr. purificazione passiva, notte dell’anima). Pertanto, la passività, per quanto fondamentale, non è assoluta e non è per sempre: l’anima, si è detto, reagisce in modo vitale sotto la mozione dello Spirito Santo, consente la volontà cooperando alla sua divina azione in una maniera libera e volontaria. Questa premessa serve per evidenziare come il linguaggio, che appartiene a regole fissate e apprese, oltretutto modificabili nel corso del tempo e della storia, sia un modo credibile per raccontare l’esperienza mistica, che non è assoluta o assolutamente ineffabile, e che non è per sempre nell’anima. Come scrive Teresa d’Avila: «Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra, è una pazzia; ordinariamente, invece, il pensiero ha bisogno d’appoggio, benché talvolta l’anima esca così fuori di sé, e molte altre volte sia così piena di Dio, da non aver bisogno, per raccogliersi, di alcuna cosa creata. Ma questo non avviene molto di frequente». Con i piedi per terra, dunque, si ritorna dopo l’estasi e si può tentare di raccontare l’esperienza vissuta.    Ineffabilità Il linguaggio narra dunque di questa esperienza particolare, atipica che è l’esperienza mistica. Ma quello che i mistici hanno affermato, riguardo alla loro esperienza, è che il rapporto con Dio, il totalmente Altro, rimane ineffabile, che l’esperienza dell’estasi è spesso indicibile, che le visioni rimangono inesprimibili. L’ineffabilità è il tipico segno dell’esperienza mistica dell’anima. Il contenuto dell’esperienza è talmente particolare che non trova espressione attraverso la normalità del linguaggio comune, ossia del linguaggio frutto della convenzione degli uomini, relativo a quel tempo e a quella storia precisa in cui ci si colloca. Il linguaggio appare dunque subito inappropriato e inadeguato per parlare di ciò il mistico esperisce. Tale concetto di ineffabilità in realtà può essere considerato secondo due aspetti: ineffabilità assoluta: ovviamente, l’esperienza mistica propriamente detta significa un’esperienza con il divino che non può che essere un incontro con l’assoluto e come tale indescrivibile. La stessa esperienza non solo non può essere detta, riferita con un linguaggio condivisibile, ma difficilmente ha modo di essere compresa anche dal soggetto stesso se non nei riverberi, negli echi che lascia. Dinanzi a questo concetto di assoluto, non si può che tacere: il silenzio appare la via eminente per poter rispettare quanto esperito; ineffabilità relativa: non è un concetto che testimonia un’inespressività assoluta, ossia un « non linguistico » o di indescrivibilità: è possibile infatti che, all’interno dell’esperienza mistica ci siano margini di consapevolezza e quindi di riflessione e che sia possibile, dunque, raccontare, verbalizzare o comunque comunicare in modo comprensibile anche ad altri quello che si è vissuto. Mi sembra che sia giusto pensare all’esperienza mistica come un insieme di queste due componenti: se da un lato è impossibile esprimere ciò che ha catturato l’anima, e per cui l’anima è rimasta totalmente passiva, d’altro canto la nostra natura, che rimane terrena, come ricordava Teresa d’Avila, ritornando « con i piedi per terra » non può non tentare di descrivere con parole quello che ha provato.   Il linguaggio mistico Scrive Massimo Baldini che: «per il mistico le parole non sono domestiche, né addomesticabili, esse rimangono per lui sempre allo stato selvaggio. Ecco, quindi, che il suo parlare non è mai un parlare ozioso e routiniero, un inoffensivo esercizio domenicale, bensì è un gesto di grande impertinenza verbale, di grande trasgressività linguistica. I mistici, scrive Massignon, ci fanno « dimenticare la prigione delle regole metriche e retoriche »m i loro scritti « liberano il pensiero dalle regole sintattiche abituali ». Al mistico il linguaggio spesso si impunta, talora egli non fa altro che ripetere a singhiozzi un alfabeto, la parola è sempre una barriera che egli riesce difficile superare». Inoltre, il mistico sembra che aspiri a fabbricare una lingua nuova (glossopoiesi) o a parlarne una (glossolalia). Così il linguaggio, per il mistico, rimane una sorta di battaglia, spesso scandalosa per i più. Scrive ancora Baldini: «Gli scandali linguistici dei mistici, le loro trasgressioni categoriali, le loro innovazioni semantiche, ma soprattutto quel loro mettere a dura prova il vocabolario con cui il teologo lavora, furono a lungo fortemente combattuti dalle istituzioni ecclesiastiche sul finire del sedicesimo e per tutti il diciassettesimo secolo». Ma in realtà, più che creare una lingua nuova, il mistico si accingeva a lavorare su quella esistente. Lo stile del mistico è stilisticamente strano, lessicalmente scorretto. Il linguaggio del mistico «è un linguaggio che vela più cose di quelle che sveli, che ci dice con i suoi eccessi lessicali, con una fastosa abbondanza di parole che il mistero non può essere reso udibile nel linguaggio. Ogni errore grammaticale, dunque, è un segno di questa impossibilità e, nel contempo, afferma Michel de Certeau, « indica un punto miracolato del corpo del linguaggio; è una stimmate. La frase mistica è un artefatto del silenzio che produce silenzio nel rumore delle parole. Attraverso il linguaggio del mistico, linguaggio che è destinato non a dire qualcosa, ma a condurre verso il nulla del pensabile »». Juan Martín Velasco, nell’opera citata in Bibliografia afferma (cfr. p.51ss.): «I tratti generali che caratterizzano questo linguaggio [mistico] sono gli stessi che caratterizzano in generale il linguaggio religioso, di cui quello mistico è una parte eminente. La prima caratteristica del linguaggio mistico sta nella sua condizione di linguaggio di un’esperienza. [...] Il mistico non parla semplicemente di Dio come il teologo; parla di Dio che gli si è manifestato in un’esperienza. Da qui la sua concretezza, in contrasto con l’astrazione propria di altri registri del linguaggio, come nel caso della teologia Da questo deriva l’abbondante contenuto teologico e affetto della maggior arte dei testi mistici, perfino negli autori più speculativi, come Meister Eckhart.» «La proprietà nella quale più vistosamente si manifesta la peculiarità dell’esperienza di chi lo usa o lo crea è quella che, in modo generico e vivido, si è chiamata « trasgressione » del linguaggio mistico. Essa consiste nel togliere il significato primo dei vocaboli fino al limite della loro capacità significativa e nell’utilizzazione simbolica degli stessi. La realizzazione di queste trasgressioni presenta modi svariati e numerosi. Appare soprattutto col ricorso continuo alle metafore più ardite e vivaci, nelle quali si attua nella maniera più perfetta quello che Ricoeur ha detto a proposito della « metafora viva »: « È molto più di una figura stilistica; comporta un’innovazione semantica [...] una testimonianza in favore della virtù creativa del discorso ». La funzione centrale del simbolo nel linguaggio mistico gli conferisce un’indubbia affinità col linguaggio poetico. Affinità che portò H. Bremond a considerare l’attività poetica un abbozzo naturale e profano dell’attività mistica e, esagerando, a chiamare il poeta « un mistico evanescente » o « un mistico mancato ».»   Mistica e poesia  Il linguaggio più adatto ad esprimere ciò che è di per sé inesprimibile, ineffabile (appunto come l’esperienza mistica), è sicuramente il linguaggio poetico, fatto di detto e non detto, di parole e silenzi, entrambi significativi. Scrive Massimo Baldini (op.cit., pagg.44-45) che: «il linguaggio della poesia, come quello della mistica, è un linguaggio intessuto di paradossi. La paradossia risveglia l’attenzione della mente dalla letargia delle comode abitudini linguistiche, crea stupore, sorpresa, pone in nuova luce ciò che il linguaggio ordinario (o quello teologico) avevano opacizzato. Tanto il mistico quanto il poeta tendono ad essere dei sovversivi sul piano della lingua, creano il loro linguaggio via via che procedono. Anche il mistico compie a livello linguistico ciò che Eliot diceva essere tipico del poeta, e cioè « deviare il linguaggio rendendolo significativo », e per entrambi vale ciò che Paul Valéry affermava essere proprio del « vero scrittore », e cioè l’essere « un uomo che non trova le parole ». Il mistico ha bisogno di una lingua giovane, per questo è vittima di una crisi linguistica che lo può spingere sino a cercare di uccidere il linguaggio. Il mistico ama le antitesi, i paradossi, gli ossimori, i termini superlativi. Egli non ascolta il consiglio di Cicerone per il quale la metafora doveva essere riservata (pudens) e non ardita, infatti mostra di prediligere le metafore assolute, audaci, vive. La sua è una metaforicità tanto ardita da essere talora ebbra.» torna all’indice   Come leggere le fonti spirituali Federico Ruiz, nell’opera citata in Bibliografia, afferma che «lo studio, la valutazione e lo sfruttamento delle fonti spirituali richiedono una prospettiva adeguata e una speciale sensibilità.» Occorre pertanto accennare ad alcune modalità: Lettura in chiave spirituale: i documenti e i fatti che la spiritualità considera sue fonti hanno significato e valore in molte altre prospettive differenti, ossia linguistica, psicologica, letteraria, filosofia, storica. Così, di mistica, preghiera e ascesi si occupa la psicologia; alcuni scritti sono opere letterarie di alta qualità. Per questo non basta entrare in contatto con i documenti, ma bisogna saperli leggere spiritualmente, vale a dire con la loro prospettiva e con una specifica sensibilità. Non si tratta comunque di un esercizio ascetico, ma occorre soltanto avere il riguardo di relazionarsi col testo sapendo che si tratta di un’opera di tipo spirituale. Continuità fra passato e presente: occorre saper integrare nella visione autori antichi e moderni, recependo la ricchezza di tutti gli autori e non soffermandosi su uno soltanto come fonte di verità assoluta. Lo Spirito, d’altronde, distribuisce i suoi carismi lungo la storia e molti di essi non si ripetono. Ogni epoca ha le sue luci speciali e le sue congenite cecità, dovute al limite proprio della « coscienza spirituale ». Questa si mostra sensibile a certi valori e insensibile o disattenta ad altri di uguale importanza. Quindi, non ci si deve limitare, nella lettura, all’ultimo testo di spiritualità pubblicato, ma tener in giusto conto tutte le opere precedenti (i cosiddetti « classici della spiritualità »). Ecumenismo storico: occorre contestualizzare, comprendere, rispettare ogni epoca. L’atteggiamento ecumenico, che consiste nel rispetto, nel dialogo, nella comprensione e nella tolleranza con altre chiese e culture religiose, deve estendersi anche alle epoche religiose anteriori alla nostra, che hanno idee e condotte molto diverse da quelle attuali. Occorre quindi saper comprendere il pensiero e l’esperienza all’interno del loro contesto salvifico e culturale. Fra le fonti spirituali troviamo: Storia della spiritualità: fatti di vita, iniziative di persone e gruppi, con i loro insegnamenti. Esperienze personali: narrazione in forma autobiografica e relazioni, come anche biografi e agiografie. Le autobiografie non sono le fonti supreme della spiritualità o della mistica. Esperienza elaborata: la maggior parte delle fonti si presentano in forma dottrinale. In questa funzione pedagogica o mistagogica trasmettono esperienza e dottrina, propria e altrui [la mistagogia è un'iniziazione graduale del credente ai misteri della fede, trasmessa e assimilata per via di esperienza interiore e di prassi impegnata, con l'aiuto di un maestro esperto]. Esposizioni dottrinali: si tratta della produzione più abbondante e riguarda corsi, trattati, temi sviluppati monograficamente. Classici della spiritualità: formano una categoria speciale, che è formata per la propria solidità e continuità, per il riconoscimento e l’uso generalizzato. Conservano (se non aumentano) il loro valore spirituale nel tempo. Sono resi attuali dal loro vigore e dalla loro profondità.

Publié dans:MISTICA |on 25 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

Depiction of God the Father (detail), Pieter de Grebber, 1654.

Depiction of God the Father (detail), Pieter de Grebber, 1654. dans immagini sacre GodInvitingChristDetail

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Publié dans:immagini sacre |on 23 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

BRANO BIBLICO SCELTO – COLOSSESI 2,12-14

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Colossesi%202,12-14

BRANO BIBLICO SCELTO – COLOSSESI 2,12-14

Fratelli, 12 con Cristo siete stati sepolti nel battesimo, in lui siete anche stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.  13 Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati e per l’incirconcisione della vostra carne, perdonandoci tutti i peccati, 14 annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.

COMMENTO Colossesi 2,12-14

Battesimo e perdono dei peccati L’esordio dello scritto ai Colossesi (Col 1,1-23) termina con una enunciazione dei temi che l’autore intende trattare. Essi sono: l’opera di Cristo per la santità dei credenti, la fedeltà al vangelo ricevuto, il vangelo annunziato da Paolo (cfr. 1,21-23). L’ultimo di questi temi è quello trattato per primo (1,24 – 2,5). Successivamente l’autore affronta il secondo tema, che riguarda la fedeltà al vangelo (2,6-23) e infine si concentra sull’opera di Cristo per la santità dei credenti (3,1 – 4,1). Al centro del secondo di questi tre sviluppi Paolo pone alcuni spunti cristologici, riguardanti il rapporto che i credenti hanno con Cristo (2,9-15). Nel testo liturgico è ripresa la parte finale di questo brano. Il pensiero in esso contenuto si sviluppa in due momenti: il battesimo con Cristo (v. 12); il perdono dei peccati (vv. 13-14).

Il battesimo con Cristo (v. 12) Prima di parlare del battesimo, l’autore si rivolge ai suoi interlocutori in seconda persona plurale. Ciò significa che egli suppone di avere di fronte un pubblico di gentili diventati cristiani. Egli afferma che in Gesù abita tutta la pienezza della divinità ed essi hanno avuto parte alla sua pienezza, che fa di lui il capo di ogni principato e di ogni potestà (Col 2,9-10). Egli continua, sempre  usando la seconda persona plurale, sottolineando che in lui essi hanno ricevuto non una circoncisione fatta da mano di uomo mediante la spogliazione del corpo di carne, cioè la circoncisione fisica, ma la vera circoncisione di Cristo (Col 2,11; cfr. Ef 2,11). Egli spiega poi in che cosa consiste la circoncisione di Cristo: «Con lui infatti siete stati sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti» (v. 12). Diversamente dalla circoncisione fisica, la «circoncisione di Cristo» ha luogo in rapporto con Cristo e in unione con lui. Essa consiste nel battesimo, che è presentato da Paolo, nella polemica contro i giudaizzanti, come la vera circoncisione (cfr. Fil 3,3). L’autore di Colossesi riprende questa immagine definendo il battesimo come un essere sepolti con Cristo, cioè come una partecipazione alla sua morte, e come una risurrezione con lui. È chiara l’allusione al rito del battesimo come immersione nella morte e risurrezione di Cristo di cui parla Paolo in Rm 6,3-4. L’autore di Colossesi sottolinea che ciò è avvenuto per mezzo della fede, non direttamente in Cristo, come avrebbe detto Paolo, ma nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. La risurrezione, sia di Cristo che dei credenti, è dunque opera della potenza di Dio. Inoltre la risurrezione del credente viene presentata come un evento ormai realizzato (cfr. Col 3,1-4), mentre per Paolo era ancora un evento futuro (cfr. Rm 6,5). Nel contesto della crisi determinata dal ritardo della parusia, cioè del ritorno di Cristo, si tende a presentare la partecipazione alla risurrezione di Cristo come una realtà che non riguarda un futuro non precisabile, ma che è già presente e operante. I gentili diventati cristiani non hanno dunque bisogno del rito della circoncisione, che i falsi dottori di ispirazione giudaizzante volevano imporre loro, perché hanno il battesimo, che fin d’ora li fa partecipi della vita gloriosa di Cristo risorto.

Il perdono dei peccati (vv. 13-14) li effetti del battesimo vengono così descritti: «Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce» (vv. 13-14). Prima di diventare cristiani, i gentili erano morti a causa delle loro colpe e della loro incirconcisione. L’idea qui espressa si richiama chiaramente a Gal 2,15 dove Paolo definisce così la differenza tra giudei e gentili: «Noi che per natura siamo giudei, e non peccatori dalle genti…» (cfr. Ef 2,11): la circoncisione pone dunque in un mondo a parte, che contrasta con quello dei gentili dominati dal peccato, pur essendo fuori discussione che tutti, giudei e gentili, hanno bisogno di essere giustificati in Cristo. Perciò a questo punto l’autore della lettera passa dalla seconda alla prima persona plurale e afferma che noi tutti, giudei e gentili, abbiamo ricevuto in Cristo il perdono dei loro peccati. Egli descrive poi questo perdono simbolicamente come un annullare, cioè togliere valore, a un «documento scritto» (cheirographon), contenente delle «prescrizioni» (dogmata, clausole), il quale era contro di noi. E aggiunge che questo documento è stato inchiodato alla croce.  In questa frase non è chiaro che cosa l’autore intenda per «documento scritto». Normalmente si pensa che si tratti dell’elenco dei debiti, cioè delle colpe commesse, che stanno contro l’umanità non ancora giustificata come un atto d’accusa. Esse sarebbero state annullate per mezzo della croce di Cristo. Spesso si aggiunge che Cristo avrebbe annullato il nostro debito prendendo su di sé la pena che sarebbe spettata a noi. Ma è meglio ritenere che l’autore riprenda qui la polemica di Paolo nei confronti della legge, di cui i falsi dottori volevano forse imporre la pratica ai cristiani di Colosse. Alla luce delle argomentazioni paoline, egli presenta qui la legge come un documento scritto contenete precetti  che sono contro di noi, perché in quanto peccatori non siamo in grado di praticarli. Questa interpretazione è confermata dal confronto con la lettera sorella agli Efesini dove si dice che Cristo ha fatto di giudei e gentili un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, «annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti (dogmata)…» (Ef 2,15). Portando all’estremo il discorso di Paolo, egli affermerebbe allora che la legge è stata eliminata da Dio stesso mediante la croce di Cristo in quanto, a causa del perdono e della vita nuova che egli ci ha dato in lui, essa non è più necessaria per far sì che l’uomo compia la volontà di Dio. Al termine del brano, nell’ultima parte omessa dalla liturgia, l’autore afferma che, così facendo, Dio ha spogliato i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo. Questa frase deve essere collegata con l’affermazione, contenuta nell’inno cristologico (Col 1,16), secondo cui i principati e le potestà sono stati creati per mezzo di Cristo. Si tratta probabilmente di quelle potenze spirituali che si riteneva avessero un potere tutelare nei confronti della legge e si servissero di essa per esercitare il loro potere sull’umanità peccatrice. Una volta che la legge è stata eliminata, anch’esse perdono il loro potere e vengono trascinate nel corteo trionfale di Cristo, cioè sono assoggettate a lui. Probabilmente l’autore si riferisce qui ai colossesi che, in nome di queste potenze, venivano attirati all’adesione alla legge mosaica.

Linee interpretative

L’autore di questo brano riprende temi paolini in funzione di comunità formate da gentili divenuti cristiani, i quali subiscono forti pressioni per aderire a una forma di religione nella quale svolge ancora un ruolo determinante la circoncisione e l’osservanza della legge come mezzo per stabilire un rapporto autentico con Dio. Egli vuole far loro capire che la circoncisione, pur avendo caratterizzato il popolo di Dio, or non ha più nessun valore. È attraverso l’adesione a Cristo, significata nel battesimo, che il credente riceve la partecipazione alla vita nuova di Cristo, e di conseguenza i suoi peccati sono perdonati. Il perdono di Dio non è solo una realtà intellettuale, ma piuttosto fa scattare la molla dell’impegno per compiere la volontà di Dio. In questa prospettiva non ha più senso parlare di legge. Questa aveva importanza solo prima del battesimo, in quanto metteva come dei paletti oltre i quali non si poteva andare. Ma ormai questo ruolo, in gran parte inefficace, è finito. Con la sua morte in croce Gesù ha aperto nuove prospettive che non hanno più nulla a che fare con la legge e con il peccato. Questo discorso sul peccato e sul perdono mette in luce l’importanza della fede e del battesimo ai fini di condurre una vita santa. Per l’uomo peccatore l’esistenza di una legge fa sì che egli sia coinvolto nella spirale peccato – legge – castigo. Chi si trova in questo circolo vizioso è sottoposto ai poteri che dominano il mondo, primi fra tutti il potere economico e politico. La morte di Cristo in croce, provocando il perdono di quelli che credono in lui, vince anche i poteri che dominano la società. È vero, non si tratta ancora di una vittoria piena e definitiva. Ma è proprio mediante coloro che credono in lui che Gesù continua a mettere un limite ai poteri di questo mondo e, in prospettiva escatologica, li destina ad essere sottomessi a lui. Il Paolo storico avrebbe parlato piuttosto di una distruzione dei poteri (cfr. 1Cor 15,25-27)

 

24 LUGLIO 2016 | 17A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | OMELIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/2016/05-Ordinario_C/Omelie/17a-Domenica/12-17a-Domenica-C_2016-UD.htm

24 LUGLIO 2016 | 17A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | OMELIA

Per cominciare Ai discepoli che gli dicono: « Insegnaci a pregare », Gesù insegna il Padre nostro, la preghiera che ci è più famigliare. E poi li invita a darsi alla preghiera con assoluta fiducia, sapendo che Dio ci ama e ci ascolta, e dona lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono.

La parola di Dio Genesi 18,20-21.23-32. È la preghiera di Abramo, che in uno splendido dialogo con Dio intercede per Sodoma e Gomorra, destinate alla distruzione. Colpiscono sia l’altruismo pieno di bontà di Abramo, sia il clima di confidenza che Abramo dimostra di avere con Iahvè. Colossesi 2, 12-14. Continua la lettura di Paolo ai cristiani di Colosse, una città dell’Asia Minore, tra Efeso e Antiochia di Pisidia. Gesù, dice Paolo, ci ha coinvolti attraverso il battesimo nella sua morte e risurrezione, ci ha riscattati definitivamente dalla schiavitù dei nostri peccati inchiodando sulla croce il documento della nostra condanna. Luca 11, 1-13. Gesù insegna il Padre nostro, poi racconta due parabole per assicurare i suoi discepoli che Dio ci ascolta e ci esaudisce sempre.

Riflettere Nella prima lettura Abramo intercede per la sua gente. Lo fa con umiltà, ma anche con coraggio e confidenza. Fa leva sulla giustizia e la fedeltà di Dio, si direbbe che « mercanteggia con Dio alla maniera dei beduini » (Settimio Cipriani). Si può provare un senso di fastidio per il fatto che Abramo sembra presentarsi più buono e tollerante di Dio. In realtà qui si cerca di giustificare dal punto di vista teologico la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra, e prevale certamente l’idea di punizione a causa della generalizzata infedeltà, dal momento che non si trovano nemmeno dieci giusti tra la popolazione. Il vangelo ci presenta Gesù maestro di preghiera e lo è anzitutto con il suo esempio. Gli evangelisti riferiscono che Gesù si dà alla preghiera molte volte, specialmente di notte e all’alba. Gesù insegna qui il Padre Nostro, e traccia le linee della nostra preghiera. Il Padre Nostro è lode a Dio, ringraziamento e richiesta di aiuto. Gesù chiama Dio abbà, che è il modo di rivolgersi al padre da parte di un bambino. Dio è un padre che ci ama, è un amico, dice Gesù. In generale Gesù contesta la preghiera di chi si sente giusto ed è fiero della propria fedeltà, di chi prega con le labbra senza lasciarsi sfiorare dalla conversione. Quando Gesù prega si ritira in un luogo solitario e invita i discepoli a fare lo stesso. In altri brani Gesù parlerà di come non bisogna pregare (cf Lc 18,9-14), qui invece si trova la parte positiva della preghiera: ciò che bisogna chiedere e soprattutto lo stato d’animo che deve avere chi prega. Gesù assicura infatti che chi prega sarà esaudito. È un insegnamento che ritorna altre volte nel vangelo: « Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò ». « In verità, in verità io vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena » (Gv 14,14; 16,23-24). È un insegnamento che non concede spazio ai dubbi: Gesù ci assicura che il Padre ci ascolta, che saremo esauditi. La parabola dell’amico importuno e i paragoni che seguono, pur nella loro non totale comprensione, si muovono con questa certezza di fondo, che Dio è più buono di un amico, più buono di un padre. L’invito a essere insistenti nella preghiera non è fatto perché si usi un maggior numero di parole o perché si debba in qualche modo influire su Dio e fargli cambiare idea in nostro favore: l’insistenza è un invito a pregare meglio, ma soprattutto a riconoscere che la nostra realizzazione personale, di noi e dell’umanità, non la si raggiunge sganciandosi da Dio, ma riconoscendo la nostra dipendenza da lui. Non si prega però perché Dio risolva i nostri problemi e ci tolga dagli imbrogli al posto nostro. La preghiera ci responsabilizza. Dio però è più grande del nostro cuore, conosce ciò di cui abbiamo bisogno e non fa mancare lo Spirito Santo a chi glielo chiede.

Attualizzare In generale preghiamo poco, preghiamo male. Andrea Gasparino, fondatore della « Città dei ragazzi » di Cuneo, racconta che un giorno volle chiedersi: « Qual è il dono più grande che Dio mi ha fatto? ». Immediatamente gli sembrò che fosse quello di essere diventato sacerdote. Ma qualche tempo dopo, incontrando il suo vescovo morente, si era sentito dire: « Come sei fortunato tu che ti sei dato completamente ai poveri! Io invece sono soltanto un povero vescovo! ». Don Andrea allora pensò che il dono più grande che Dio gli aveva fatto era quello di essersi dato ai poveri. « Ma andando avanti negli anni – continua don Andrea – ho capito che c’era qualcosa di ancora più grande nella mia vita ». E ricorda che Frère Heric a Taizé, in una notte piena di stelle, gli aveva detto: « Sono impressionato da questo fatto: che Dio fa a pochi il dono della preghiera ». E si convinse che era quello il dono più grande: l’aver capito un poco che cos’era la preghiera. Se un ragazzo rientra alle due di notte, dopo aver ballato in discoteca tutta la serata, o se sta davanti alla televisione per cinque ore consecutive, nessuno si meraviglia. Se un cristiano, un giovane o un adulto, uomo o donna, si desse alla preghiera per un’ora o due ore, molti si stupirebbero. Non abbiamo l’abitudine della preghiera. Biascichiamo qualcosa, ma manca un rapporto serio con Dio. Durante un campo scuola interculturale, in cui c’erano ragazzi provenienti da vari paesi e di religioni diverse, uno dei partecipanti ricorda di aver notato due giovani che si davano appuntamento a mezzogiorno per un momento di preghiera. Uno era ortodosso, l’altro musulmano. Si stupì che a loro non fosse venuto in mente di invitare anche un cattolico. La preghiera è un atto di amore gratuito. È un momento di lode e di ammirazione che dovrebbe sgorgare spontaneamente dal nostro animo, così come il respiro. La preghiera cambia la nostra vita. Ci dà il coraggio delle scelte difficili, ci fa andare verso gli altri come chi ha gli occhi luminosi per aver parlato con Dio. La preghiera è anche obbedienza, disponibilità all’ascolto: « Che vuoi che io faccia? ». Mette Dio al centro della nostra vita, ci fa capire che non siamo autosufficienti, che siamo usciti dalle mani di Dio e dobbiamo vivere per lui. Pregare meglio significa prima di tutto prepararsi meglio alla preghiera, in modo da essere più consapevoli. Non si può passare facilmente da un supermercato, da un campo di calcio o dalla televisione alla chiesa. Anche la ricerca dell’ambiente è importante. Ognuno dovrebbe maturare delle esperienze al riguardo. C’è chi prega bene in chiesa; chi ha bisogno di uscire dalla città, alla ricerca di un clima di maggior silenzio. Si deve dare importanza anche alla posizione del corpo e probabilmente anche a certe tecniche utili (a pregare si impara, seguendo il modo di pregare di altri, usando certi sussidi…). Si dovrebbe pregare soprattutto, e con una intensità particolare, prima di assumere un impegno importante, prima di fare certe scelte che possono cambiare il corso della nostra vita. Nella preghiera si può far uso di formule fisse, di salmi; oppure si può ricorrere a preghiere spontanee. C’è chi rifiuta le preghiere tradizionali e di fatto non riesce più a pregare: non è sempre facile essere creativi. Chi si affida alle formule fisse dovrà comunque in qualche modo appropriarsene per renderle davvero espressione personale della propria interiorità, « trasformando il pregare in preghiera ». Scrive san Giovanni Crisostomo: « Non credere che la preghiera consista in parole. La preghiera è desiderio di Dio, amore profondo: non nasce dall’uomo, ma dalla grazia di Dio. Deve però trattarsi di una preghiera che viene dal cuore, e non solo fatta per abitudine. Se il Signore concede a qualcuno una tale preghiera, essa costituisce per lui una ricchezza che nessuno può rubare, e un cibo spirituale che sazia l’anima. Chi ha gustato la preghiera si è infiammato di un vivo desiderio di Dio che gli divampa dentro come un fuoco ardente ». Esiste anche una preghiera laica, di chi riconosce in qualche modo il mistero profondo dell’uomo e della sua finitezza. È anche la preghiera dei buddisti e di altre religioni naturali. Il pittore Umberto Saba al funerale della moglie disse il Padre Nostro, tra la commozione dei presenti. Non è possibile qui commentare in dettaglio il Padre Nostro. Ma è la preghiera più completa, che accompagna tutta la nostra vita.

La pace viene dalla preghiera Io non sono un uomo di lettere o di scienze, cerco semplicemente di essere un uomo di preghiera. È la preghiera che ha salvato la mia vita. Senza di essa avrei perso la ragione. Se non ho perso la pace dell’anima, nonostante tutte le prove, è perché questa pace viene dalla preghiera. Si può vivere qualche giorno senza mangiare ma non senza pregare… La preghiera è la chiave del mattino e il chiavistello della sera; è un’alleanza sacra tra Dio e gli uomini (Mahatma Gandhi).

Cambia il mondo In un centro di spiritualità, un ecclesiastico si compiace con il monaco che segue gli ospiti: « Hanno tanto bisogno di pregare… Se pregano, siamo a posto! ». « Eh, no! », risponde il monaco. « Se pregano non siamo più a posto. Se pregano succede il finimondo. Con la preghiera tutto cambia, non c’è più niente, non c’è più nessuno che stia al proprio posto. La preghiera è pericolosa, sovversiva. Cambia il mondo » (Alessandro Pronzato).

La preghiera dei semplici Un sacerdote della diocesi di Torino raccontava che quando era ragazzo aveva detto a suo padre, socialista convinto e radicale, che voleva entrare in seminario per farsi prete. Il padre, facendo a modo suo un ragionamento profondamente teologico aveva detto: « Ecco i frutti dei rosari di nonna Nina! ».

Don Umberto DE VANNA sdb

CAILLAUD AMOUR COSMIQUE

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CORRERE NELLA VIA DELLA SALVEZZA – SAN SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO

http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/insegnamenti/correresalvezzasimeone.htm

CORRERE NELLA VIA DELLA SALVEZZA – SAN SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO

Catechesi XXVIII              

Fratelli e padri, fate attenzione come ascoltate. Il Cristo Dio dice infatti: “Scrutate le Scritture” (Giovanni 5, 39). E perché dice questo? Per prima cosa perché noi siamo istruiti sulla via che conduce alla salvezza; poi, perché camminando senza distrarci, con la pratica dei comandamenti, arriviamo fino alla salvezza delle nostre anime. E che cos’è dunque la nostra salvezza? Gesù, il Cristo, come l’Angelo, drizzandosi davanti ai pastori, disse loro: “Ecco che vi annuncio una Buona Notizia, una grande gioia: vi è nato oggi un Salvatore, che è il Cristo Signore, nella città di David” (Luca 2, 10-11). Affrettiamoci, dunque, tutti e ciascuno, miei cari, corriamo con forza, senza caricarci di nulla di pesante, di mondano, di ingombrante, che rischierebbe di farci rallentare il passo e di impedirci di arrivare e di entrare nella città di David. Vi prego, per la grazia che opera in voi, non trascurate la vostra salvezza, ma presto! Ponendo fine a questa specie di sonno della cattiva presunzione e della negligenza, non arrestiamoci, non sediamoci: fino a che, usciti dal mondo, troviamo e vediamo là in alto il nostro Salvatore e Dio, per prostrarci e cadere ai suoi piedi. Ed allora, non fermiamoci fino a quando anche lui ci dica: “Voi, voi non siete del mondo, ma sono io che vi ho scelto dal mondo” (Giovanni 15, 19).             Come dunque si arriva a non essere del mondo? Crocifiggendoti per il mondo, ed il mondo per te, come ha già detto Paolo: “Per me il mondo è stato crocifisso ed io per il mondo” (Galati 6, 14). “E qual è il rapporto, tu chiedi, di queste parole con le precedenti?”. Risposta: “Altre sono le parole, ma unico e identico è il senso delle une e delle altre”. Come infatti colui che è al di fuori della casa non vede quelli che sono chiusi all’interno, così chi è crocifisso per il mondo e mortificato non ha davanti alle cose del mondo alcuna sensazione. Ed ancora come il corpo morto né davanti ai corpi viventi né davanti ai corpi che giacciono con lui, non prova la minima sensazione, così chi nello Spirito divino è uscito dal mondo, essendo in compagnia di Dio, non può provare alcuna sensazione davanti al mondo ed alle cose del mondo.             È così, di conseguenza, fratelli, che si produce, prima della morte e prima della resurrezione dei corpi, la resurrezione delle anime, in opera, in potenza, in esperienza ed in verità. Infatti, essendo eliminati i sentimenti mortali dall’intelligenza immortale e la mortalità cacciata dalla vita, l’anima allora, come resuscitata dai morti, vede se stessa, senza dubbio possibile, come si vedono quelli che si svegliano dal sonno, e riconosce colui che l’ha resuscitata, Dio, e, comprendendo e rendendogli grazie, adora e glorifica la sua infinita bontà. Il corpo, al contrario, in rapporto ai suoi propri desideri, non ha il minimo soffio, movimento o ricordo, ma si trova in simile caso del tutto morto ed inanimato. Capiterà frequentemente in queste condizioni che l’uomo dimentichi per così dire persino le sue facoltà naturali, poiché la sua anima ha un’esistenza tutta intellettuale è al di sopra della natura. Ed è normale: “Camminate con lo Spirito, dice infatti la Scrittura, e non realizzate il desiderio della carne” (Galati 5, 16). Infatti morta, come ho detto, per la venuta dello Spirito, la carne ci lascerà ormai senza noie e vivrete senza inciampi, poiché “la legge non è fatta per il giusto” (1 Timoteo 1, 9), secondo il divino apostolo, cioè per colui che ha una condotta al di sopra della legge. “Là infatti – dice – dove è lo Spirito del Signore, là anche è la libertà” (2 Corinti 3, 17), libertà sicuramente dalla schiavitù della legge. Giacché la legge è una guida, un pedagogo, un conduttore ed un maestro di giustizia, poiché dice: “Tu farai questo e quello” ed al contrario: “Questo e quello tu non lo farai”. Ma per la grazia e per la verità, non è così. Ma come, allora? “Farai e dirai tutto secondo la grazia che ti è stata donata e che parla in te, come è scritto: ‘E saranno tutti istruiti da Dio’, poiché non apprenderanno il bene dalle lettere e dai caratteri, ma si istruiranno nel Santo Spirito, e non nella parola solamente, ma nella luce della parola e nella parola della luce, misticamente iniziati alle cose divine. Ed allora infatti che per voi stessi come per il prossimo, è detto, voi sarete maestri”, e più ancora: la luce del mondo, il sale della terra (Matteo 5, 14; 13).             Quelli dunque che vivevano prima della grazia, poiché erano sotto la legge, si trovano ugualmente sotto la sua ombra; ma quelli che sono arrivati dopo la grazia e la luce, sono stati liberati dall’ombra o schiavitù della legge, cioè sono innalzati al di sopra di essa, come per una scala – la vita evangelica – trasportati nelle altezze e partecipando alla vita del legislatore, sono legislatori essi stessi piuttosto che osservanti della legge.   Trad. di C. R. L.  

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BENEDETTO XVI – SALMO 144, 1-13 LODE ALLA MAESTÀ DIVINA

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060201.html

BENEDETTO XVI – SALMO 144, 1-13 LODE ALLA MAESTÀ DIVINA

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 1° febbraio 2006

Salmo 144, 1-13 Lode alla Maestà divina Vespri del Venerdì della 4a Settimana

1. Abbiamo ora fatto diventare nostra preghiera il Salmo 144, una gioiosa lode al Signore che è esaltato come un sovrano amoroso e tenero, preoccupato per tutte le sue creature. La Liturgia ci propone questo inno in due momenti distinti, che corrispondono anche ai due movimenti poetici e spirituali del Salmo stesso. Ora noi ci soffermeremo sulla prima parte, che corrisponde ai vv. 1-13. Il Salmo è innalzato al Signore invocato e descritto come « re » (cfr Sal 144, 1), una raffigurazione divina che domina altri inni salmici (cfr Sal 46; 92; 95-98). Anzi, il centro spirituale del nostro canto è costituito proprio da una celebrazione intensa e appassionata della regalità divina. In essa si ripete per quattro volte – quasi ad indicare i quattro punti cardinali dell’essere e della storia – la parola ebraica malkut, « regno » (cfr Sal 144, 11-13). Sappiamo che questa simbologia regale, che sarà centrale anche nella predicazione di Cristo, è l’espressione del progetto salvifico di Dio: egli non è indifferente riguardo alla storia umana, anzi ha nei suoi confronti il desiderio di attuare con noi e per noi un disegno di armonia e di pace. A compiere questo piano è convocata anche l’intera umanità, perché aderisca alla volontà salvifica divina, una volontà che si estende a tutti gli « uomini », a « ogni generazione » e a « tutti i secoli ». Un’azione universale, che strappa il male dal mondo e vi insedia la « gloria » del Signore, ossia la sua presenza personale efficace e trascendente. 2. Verso questo cuore del Salmo, posto proprio al centro della composizione, si indirizza la lode orante del Salmista, che si fa voce di tutti i fedeli e vorrebbe essere oggi la voce di tutti noi. La preghiera biblica più alta è, infatti, la celebrazione delle opere di salvezza che rivelano l’amore del Signore nei confronti delle sue creature. Si continua in questo Salmo a esaltare « il nome » divino, cioè la sua persona (cfr vv. 1-2), che si manifesta nel suo agire storico: si parla appunto di « opere », « meraviglie », « prodigi », « potenza », « grandezza », « giustizia », « pazienza », « misericordia », « grazia », « bontà » e « tenerezza ». È una sorta di preghiera litanica che proclama l’ingresso di Dio nelle vicende umane per portare tutta la realtà creata a una pienezza salvifica. Noi non siamo in balía di forze oscure, né siamo solitari con la nostra libertà, bensì siamo affidati all’azione del Signore potente e amoroso, che ha nei nostri confronti un disegno, un « regno » da instaurare (cfr v. 11). 3. Questo « regno » non è fatto di potenza e di dominio, di trionfo e di oppressione, come purtroppo spesso accade per i regni terreni, ma è la sede di una manifestazione di pietà, di tenerezza, di bontà, di grazia, di giustizia, come si ribadisce a più riprese nel flusso dei versetti che contengono la lode. La sintesi di questo ritratto divino è nel v. 8: il Signore è « lento all’ira e ricco di grazia ». Sono parole che rievocano l’auto-presentazione che Dio stesso aveva fatto di sé al Sinai, dove aveva detto: « Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà » (Es 34, 6). Abbiamo qui una preparazione della professione di fede di san Giovanni, l’Apostolo, nei confronti di Dio, dicendoci semplicemente che Egli è amore: « Deus caritas est » (cfr 1Gv 4, 8.16). 4. Oltre che su queste belle parole, che ci mostrano un Dio « lento all’ira, ricco di misericordia », sempre disponibile a perdonare e ad aiutare, la nostra attenzione si fissa anche sul successivo bellissimo versetto 9: « Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature ». Una parola da meditare, una parola di consolazione, una certezza che Egli porta alla nostra vita. A tale riguardo, san Pietro Crisologo (380 ca. – 450 ca.) così si esprime nel Secondo discorso sul digiuno: «  »Grandi sono le opere del Signore »: ma questa grandezza che vediamo nella grandezza della Creazione, questo potere è superato dalla grandezza della misericordia. Infatti, avendo detto il profeta: « Grandi sono le opere di Dio », in un altro passo aggiunse: « La sua misericordia è superiore a tutte le sue opere ». La misericordia, fratelli, riempie il cielo, riempie la terra… Ecco perché la grande, generosa, unica, misericordia di Cristo, che riservò ogni giudizio per un solo giorno, assegnò tutto il tempo dell’uomo alla tregua della penitenza… Ecco perché si precipita tutto verso la misericordia il profeta che non aveva fiducia nella propria giustizia: « Abbi pietà di me, o Dio – dice -, per la tua grande misericordia » (Sal 50, 3) » (42, 4-5: Sermoni 1-62bis, Scrittori dell’Area Santambrosiana, 1, Milano-Roma 1996, pp. 299.301).

E così diciamo anche noi al Signore: « Abbi pietà di me, o Dio, tu che sei grande nella misericordia ».

 

Luca (10,25-37)

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PAPA FRANCESCO: IGNORARE LA SOFFERENZA DELL’UOMO SIGNIFICA IGNORARE DIO

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PAPA FRANCESCO: IGNORARE LA SOFFERENZA DELL’UOMO SIGNIFICA IGNORARE DIO

Il buon samaritano soccorre, mentre il sacerdote e il levita passano oltre. Amare ha un’altra strada, occorre l’intelligenza, ma anche qualcosa di più…

di Alessandro Ginotta 27/04/2016

Prosegue in Piazza San Pietro il ciclo di Catechesi sulla Misericordia nel Vangelo. Papa Francesco ha commentato oggi la parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37) una delle icone del Giubileo della Misericordia.

Un dottore della Legge mette alla prova Gesù con questa domanda: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” (v. 25). Gesù gli chiede di dare lui stesso la risposta, e quello la dà perfettamente: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso” (v. 27). Gesù allora conclude: “Fa’ questo e vivrai” (v. 28).

Chi è il mio prossimo? E’ questa un domanda molto preziosa per noi: “Chi è mio prossimo?” (v. 29). “I miei parenti? I miei connazionali? Quelli della mia religione?”. L’uomo che interroga Gesù vuole una regola chiara che gli permetta di classificare gli altri in “prossimo” e “non-prossimo”. Gesù risponde con una parabola, che mette in scena un sacerdote, un levita e un samaritano. I primi due sono figure legate al culto del tempio; il terzo, ha sottolineato il Papa: “è un ebreo scismatico, considerato come uno straniero, pagano e impuro, cioè il samaritano”. Sulla strada da Gerusalemme a Gerico il sacerdote e il levita si imbattono in un uomo moribondo, che i briganti hanno assalito, derubato e abbandonato. La Legge del Signore in situazioni simili prevedeva l’obbligo di soccorrerlo, ma entrambi passano oltre senza fermarsi. “Erano di fretta…”. Il sacerdote, “forse, ha guardato l’orologio” e ha detto: “Ma, arrivo tardi alla Messa… Devo dire Messa”. E l’altro ha detto: “Ma, non so se la Legge me lo permette, perché c’è il sangue lì e io sarò impuro…”. “Vanno per un’altra strada e non si avvicinano”.

Non è automatico… La parabola ci offre un primo insegnamento: Il sacerdote e il levita vedono, ma ignorano; guardano, ma non provvedono. Papa Francesco si è fatto serio ed ha osservato: “non è automatico che chi frequenta la casa di Dio e conosce la sua misericordia sappia amare il prossimo”. Non è automatico! “Tu puoi conoscere tutta la Bibbia, tu puoi conoscere tutte le rubriche liturgiche, tu puoi conoscere tutta la teologia, ma dal conoscere non è automatico l’amare: l’amare ha un’altra strada, occorre l’intelligenza, ma anche qualcosa di più…”. Il Papa è stato molto chiaro: Non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo. Di fronte alla sofferenza di così tanta gente sfinita dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori. “Ignorare la sofferenza dell’uomo, cosa significa? Significa ignorare Dio! Se io non mi avvicino a quell’uomo, a quella donna, a quel bambino, a quell’anziano o a quell’anziana che soffre, non mi avvicino a Dio”.

La compassione del samaritano Ma veniamo al centro della parabola: il samaritano, “cioè proprio quello disprezzato”, “quello sul quale nessuno avrebbe scommesso nulla”, e che comunque “aveva anche lui i suoi impegni e le sue cose da fare, quando vide l’uomo ferito, non passò oltre come gli altri due, che erano legati al Tempio, ma ne ebbe compassione (v. 33)”. Così dice il Vangelo: “Ne ebbe compassione”, cioè “il cuore, le viscere, si sono commosse! Ecco la differenza”. Gli altri due “videro”, ma “i loro cuori rimasero chiusi, freddi”. Invece “il cuore del samaritano era sintonizzato con il cuore stesso di Dio”. Infatti, la “compassione” è una caratteristica essenziale della misericordia di Dio. Dio ha compassione di noi. Cosa vuol dire? Patisce con noi, le nostre sofferenze Lui le sente. Le sue viscere si muovono e fremono alla vista del male dell’uomo.

Dio non ci abbandona mai Quella del buon samaritano è la stessa compassione con cui il Signore viene incontro a ciascuno di noi: “Lui non ci ignora, conosce i nostri dolori, sa quanto abbiamo bisogno di aiuto e di consolazione”. Ci viene vicino e non ci abbandona mai. A braccio il Papa ha aggiunto: “Ma possiamo, ognuno d noi, farci la domanda e rispondere nel cuore: – Io ci credo? Io credo che il Signore ha compassione di me, così come sono, peccatore, con tanti problemi e tanti cose? -. Pensare a quello e la risposta è: – Sì! -. Ma ognuno deve guardare nel cuore se ha la fede in questa compassione di Dio, di Dio buono che si avvicina, ci guarisce, ci carezza. E se noi lo rifiutiamo, Lui aspetta: è paziente! Sempre accanto a noi”.

Il vero significato dell’amore Il samaritano si comporta con vera misericordia: fascia le ferite di quell’uomo, lo trasporta in un albergo, se ne prende cura personalmente e provvede alla sua assistenza. “Tutto questo – ha commentato Papa Francesco – ci insegna che la compassione, l’amore, non è un sentimento vago, ma significa prendersi cura dell’altro fino a pagare di persona. Significa compromettersi compiendo tutti i passi necessari per avvicinarsi all’altro fino a immedesimarsi con lui: «amerai il tuo prossimo come te stesso». Ecco il Comandamento del Signore”.

Tu puoi diventare prossimo Conclusa la parabola, Gesù ribalta la domanda del dottore della Legge e gli chiede: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?” (v. 36). La risposta è finalmente inequivocabile: “Chi ha avuto compassione di lui” (v. 27). All’inizio della parabola per il sacerdote e il levita il prossimo era il moribondo; al termine il prossimo è il samaritano che si è fatto vicino. “Gesù ribalta la prospettiva: non stare a classificare gli altri per vedere chi è prossimo e chi no. Tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè se hai quella capacità di patire con l’altro”. “Questa parabola – ha concluso Francesco – è uno stupendo regalo per tutti noi, e anche un impegno!”. A ciascuno di noi Gesù ripete ciò che disse al dottore della Legge: “Va’ e anche tu fa’ così” (v. 37). “Siamo tutti chiamati a percorrere lo stesso cammino del buon samaritano, che è figura di Cristo: Gesù si è chinato su di noi, si è fatto nostro servo, e così ci ha salvati, perché anche noi possiamo amarci come Lui ci ha amato, allo stesso modo”.

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