http://www.mistica.info/unpoesia.htm#INEFFABILITÀ
LINGUAGGIO MISTICO E POESIA
Introduzione
Secondo una definizione ormai consolidata, appartenente al mondo della filosofia e della psicologia, il linguaggio è: «un insieme di codici che permettono di trasmettere, conservare ed elaborare informazioni tramite segni intersoggettivi in grado di significare altro da sé. Il linguaggio umano è in massima parte appreso e si evolve nel corso della vita dell’individuo e della specie e può riferirsi a oggetti astratti mediante l’impiego di simboli che sono portatori di un significato tramite il riferimento a qualcosa di altro da sé, e di concetti, che si riferiscono non a un singolo oggetto, ma a una classe» (Umberto Galimberti, Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Torino 1999). L’esperienza mistica riguarda il rapporto della persona con Dio. Il concetto di esperienza in realtà è di alquanto difficile definizione, come è stato sottolineato in altre pagine (ad es., nella pagina dei CONCETTI FONDAMENTALI RELATIVI ALLA MISTICA). Se è vero che l’esperienza del divino produce nella persona un’esperienza passiva dell’azione di Dio sull’anima, è altrettanto doveroso ricordare come non sia essenziale per parlare di stato mistico (cfr. purificazione passiva, notte dell’anima). Pertanto, la passività, per quanto fondamentale, non è assoluta e non è per sempre: l’anima, si è detto, reagisce in modo vitale sotto la mozione dello Spirito Santo, consente la volontà cooperando alla sua divina azione in una maniera libera e volontaria. Questa premessa serve per evidenziare come il linguaggio, che appartiene a regole fissate e apprese, oltretutto modificabili nel corso del tempo e della storia, sia un modo credibile per raccontare l’esperienza mistica, che non è assoluta o assolutamente ineffabile, e che non è per sempre nell’anima. Come scrive Teresa d’Avila: «Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra, è una pazzia; ordinariamente, invece, il pensiero ha bisogno d’appoggio, benché talvolta l’anima esca così fuori di sé, e molte altre volte sia così piena di Dio, da non aver bisogno, per raccogliersi, di alcuna cosa creata. Ma questo non avviene molto di frequente». Con i piedi per terra, dunque, si ritorna dopo l’estasi e si può tentare di raccontare l’esperienza vissuta. Ineffabilità Il linguaggio narra dunque di questa esperienza particolare, atipica che è l’esperienza mistica. Ma quello che i mistici hanno affermato, riguardo alla loro esperienza, è che il rapporto con Dio, il totalmente Altro, rimane ineffabile, che l’esperienza dell’estasi è spesso indicibile, che le visioni rimangono inesprimibili. L’ineffabilità è il tipico segno dell’esperienza mistica dell’anima. Il contenuto dell’esperienza è talmente particolare che non trova espressione attraverso la normalità del linguaggio comune, ossia del linguaggio frutto della convenzione degli uomini, relativo a quel tempo e a quella storia precisa in cui ci si colloca. Il linguaggio appare dunque subito inappropriato e inadeguato per parlare di ciò il mistico esperisce. Tale concetto di ineffabilità in realtà può essere considerato secondo due aspetti: ineffabilità assoluta: ovviamente, l’esperienza mistica propriamente detta significa un’esperienza con il divino che non può che essere un incontro con l’assoluto e come tale indescrivibile. La stessa esperienza non solo non può essere detta, riferita con un linguaggio condivisibile, ma difficilmente ha modo di essere compresa anche dal soggetto stesso se non nei riverberi, negli echi che lascia. Dinanzi a questo concetto di assoluto, non si può che tacere: il silenzio appare la via eminente per poter rispettare quanto esperito; ineffabilità relativa: non è un concetto che testimonia un’inespressività assoluta, ossia un « non linguistico » o di indescrivibilità: è possibile infatti che, all’interno dell’esperienza mistica ci siano margini di consapevolezza e quindi di riflessione e che sia possibile, dunque, raccontare, verbalizzare o comunque comunicare in modo comprensibile anche ad altri quello che si è vissuto. Mi sembra che sia giusto pensare all’esperienza mistica come un insieme di queste due componenti: se da un lato è impossibile esprimere ciò che ha catturato l’anima, e per cui l’anima è rimasta totalmente passiva, d’altro canto la nostra natura, che rimane terrena, come ricordava Teresa d’Avila, ritornando « con i piedi per terra » non può non tentare di descrivere con parole quello che ha provato. Il linguaggio mistico Scrive Massimo Baldini che: «per il mistico le parole non sono domestiche, né addomesticabili, esse rimangono per lui sempre allo stato selvaggio. Ecco, quindi, che il suo parlare non è mai un parlare ozioso e routiniero, un inoffensivo esercizio domenicale, bensì è un gesto di grande impertinenza verbale, di grande trasgressività linguistica. I mistici, scrive Massignon, ci fanno « dimenticare la prigione delle regole metriche e retoriche »m i loro scritti « liberano il pensiero dalle regole sintattiche abituali ». Al mistico il linguaggio spesso si impunta, talora egli non fa altro che ripetere a singhiozzi un alfabeto, la parola è sempre una barriera che egli riesce difficile superare». Inoltre, il mistico sembra che aspiri a fabbricare una lingua nuova (glossopoiesi) o a parlarne una (glossolalia). Così il linguaggio, per il mistico, rimane una sorta di battaglia, spesso scandalosa per i più. Scrive ancora Baldini: «Gli scandali linguistici dei mistici, le loro trasgressioni categoriali, le loro innovazioni semantiche, ma soprattutto quel loro mettere a dura prova il vocabolario con cui il teologo lavora, furono a lungo fortemente combattuti dalle istituzioni ecclesiastiche sul finire del sedicesimo e per tutti il diciassettesimo secolo». Ma in realtà, più che creare una lingua nuova, il mistico si accingeva a lavorare su quella esistente. Lo stile del mistico è stilisticamente strano, lessicalmente scorretto. Il linguaggio del mistico «è un linguaggio che vela più cose di quelle che sveli, che ci dice con i suoi eccessi lessicali, con una fastosa abbondanza di parole che il mistero non può essere reso udibile nel linguaggio. Ogni errore grammaticale, dunque, è un segno di questa impossibilità e, nel contempo, afferma Michel de Certeau, « indica un punto miracolato del corpo del linguaggio; è una stimmate. La frase mistica è un artefatto del silenzio che produce silenzio nel rumore delle parole. Attraverso il linguaggio del mistico, linguaggio che è destinato non a dire qualcosa, ma a condurre verso il nulla del pensabile »». Juan Martín Velasco, nell’opera citata in Bibliografia afferma (cfr. p.51ss.): «I tratti generali che caratterizzano questo linguaggio [mistico] sono gli stessi che caratterizzano in generale il linguaggio religioso, di cui quello mistico è una parte eminente. La prima caratteristica del linguaggio mistico sta nella sua condizione di linguaggio di un’esperienza. [...] Il mistico non parla semplicemente di Dio come il teologo; parla di Dio che gli si è manifestato in un’esperienza. Da qui la sua concretezza, in contrasto con l’astrazione propria di altri registri del linguaggio, come nel caso della teologia Da questo deriva l’abbondante contenuto teologico e affetto della maggior arte dei testi mistici, perfino negli autori più speculativi, come Meister Eckhart.» «La proprietà nella quale più vistosamente si manifesta la peculiarità dell’esperienza di chi lo usa o lo crea è quella che, in modo generico e vivido, si è chiamata « trasgressione » del linguaggio mistico. Essa consiste nel togliere il significato primo dei vocaboli fino al limite della loro capacità significativa e nell’utilizzazione simbolica degli stessi. La realizzazione di queste trasgressioni presenta modi svariati e numerosi. Appare soprattutto col ricorso continuo alle metafore più ardite e vivaci, nelle quali si attua nella maniera più perfetta quello che Ricoeur ha detto a proposito della « metafora viva »: « È molto più di una figura stilistica; comporta un’innovazione semantica [...] una testimonianza in favore della virtù creativa del discorso ». La funzione centrale del simbolo nel linguaggio mistico gli conferisce un’indubbia affinità col linguaggio poetico. Affinità che portò H. Bremond a considerare l’attività poetica un abbozzo naturale e profano dell’attività mistica e, esagerando, a chiamare il poeta « un mistico evanescente » o « un mistico mancato ».» Mistica e poesia Il linguaggio più adatto ad esprimere ciò che è di per sé inesprimibile, ineffabile (appunto come l’esperienza mistica), è sicuramente il linguaggio poetico, fatto di detto e non detto, di parole e silenzi, entrambi significativi. Scrive Massimo Baldini (op.cit., pagg.44-45) che: «il linguaggio della poesia, come quello della mistica, è un linguaggio intessuto di paradossi. La paradossia risveglia l’attenzione della mente dalla letargia delle comode abitudini linguistiche, crea stupore, sorpresa, pone in nuova luce ciò che il linguaggio ordinario (o quello teologico) avevano opacizzato. Tanto il mistico quanto il poeta tendono ad essere dei sovversivi sul piano della lingua, creano il loro linguaggio via via che procedono. Anche il mistico compie a livello linguistico ciò che Eliot diceva essere tipico del poeta, e cioè « deviare il linguaggio rendendolo significativo », e per entrambi vale ciò che Paul Valéry affermava essere proprio del « vero scrittore », e cioè l’essere « un uomo che non trova le parole ». Il mistico ha bisogno di una lingua giovane, per questo è vittima di una crisi linguistica che lo può spingere sino a cercare di uccidere il linguaggio. Il mistico ama le antitesi, i paradossi, gli ossimori, i termini superlativi. Egli non ascolta il consiglio di Cicerone per il quale la metafora doveva essere riservata (pudens) e non ardita, infatti mostra di prediligere le metafore assolute, audaci, vive. La sua è una metaforicità tanto ardita da essere talora ebbra.» torna all’indice Come leggere le fonti spirituali Federico Ruiz, nell’opera citata in Bibliografia, afferma che «lo studio, la valutazione e lo sfruttamento delle fonti spirituali richiedono una prospettiva adeguata e una speciale sensibilità.» Occorre pertanto accennare ad alcune modalità: Lettura in chiave spirituale: i documenti e i fatti che la spiritualità considera sue fonti hanno significato e valore in molte altre prospettive differenti, ossia linguistica, psicologica, letteraria, filosofia, storica. Così, di mistica, preghiera e ascesi si occupa la psicologia; alcuni scritti sono opere letterarie di alta qualità. Per questo non basta entrare in contatto con i documenti, ma bisogna saperli leggere spiritualmente, vale a dire con la loro prospettiva e con una specifica sensibilità. Non si tratta comunque di un esercizio ascetico, ma occorre soltanto avere il riguardo di relazionarsi col testo sapendo che si tratta di un’opera di tipo spirituale. Continuità fra passato e presente: occorre saper integrare nella visione autori antichi e moderni, recependo la ricchezza di tutti gli autori e non soffermandosi su uno soltanto come fonte di verità assoluta. Lo Spirito, d’altronde, distribuisce i suoi carismi lungo la storia e molti di essi non si ripetono. Ogni epoca ha le sue luci speciali e le sue congenite cecità, dovute al limite proprio della « coscienza spirituale ». Questa si mostra sensibile a certi valori e insensibile o disattenta ad altri di uguale importanza. Quindi, non ci si deve limitare, nella lettura, all’ultimo testo di spiritualità pubblicato, ma tener in giusto conto tutte le opere precedenti (i cosiddetti « classici della spiritualità »). Ecumenismo storico: occorre contestualizzare, comprendere, rispettare ogni epoca. L’atteggiamento ecumenico, che consiste nel rispetto, nel dialogo, nella comprensione e nella tolleranza con altre chiese e culture religiose, deve estendersi anche alle epoche religiose anteriori alla nostra, che hanno idee e condotte molto diverse da quelle attuali. Occorre quindi saper comprendere il pensiero e l’esperienza all’interno del loro contesto salvifico e culturale. Fra le fonti spirituali troviamo: Storia della spiritualità: fatti di vita, iniziative di persone e gruppi, con i loro insegnamenti. Esperienze personali: narrazione in forma autobiografica e relazioni, come anche biografi e agiografie. Le autobiografie non sono le fonti supreme della spiritualità o della mistica. Esperienza elaborata: la maggior parte delle fonti si presentano in forma dottrinale. In questa funzione pedagogica o mistagogica trasmettono esperienza e dottrina, propria e altrui [la mistagogia è un'iniziazione graduale del credente ai misteri della fede, trasmessa e assimilata per via di esperienza interiore e di prassi impegnata, con l'aiuto di un maestro esperto]. Esposizioni dottrinali: si tratta della produzione più abbondante e riguarda corsi, trattati, temi sviluppati monograficamente. Classici della spiritualità: formano una categoria speciale, che è formata per la propria solidità e continuità, per il riconoscimento e l’uso generalizzato. Conservano (se non aumentano) il loro valore spirituale nel tempo. Sono resi attuali dal loro vigore e dalla loro profondità.