Archive pour juin, 2016

BRANO BIBLICO SCELTO – LUCA 7,11-17

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BRANO BIBLICO SCELTO – LUCA 7,11-17 

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.   Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.  Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.   Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo».   Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

COMMENTO Luca 7,11-17 Risurrezione del figlio della vedova di Nain La «piccola aggiunta» lucana (6,20-8,3) comprende, dopo il discorso della pianura (6,12-49), il racconto di una serie di gesti di Gesù che, per il loro carattere straordinario, rappresentano una convalida e un’illustrazione del precedente discorso (7,1-8,3). Essi sono la guarigione del servo del centurione (7,1-10), la risurrezione del figlio della vedova di Nain (7,11-17) il racconto di Giovanni Battista che invia due dei suoi discepoli per domandargli se è lui quello che deve venire o se devono aspettare un altro (7,18-35), l’episodio della peccatrice perdonata (7,36-50) e a conclusione un accenno al seguito femminile di Gesù (8,1-3). Luca, che desume questo materiale dalla fonte Q e da una sua fonte personale, se ne serve per chiarire il significato autentico della missione di Gesù: contrariamente alle attese dei giudei, questa consiste nella rivelazione della bontà immensa di Dio che si manifesta nell’accoglienza dei peccatori, nella guarigione dei malati, nella risurrezione dei morti. In questa raccolta, la risurrezione del figlio della vedova di Naim si colloca al secondo posto dopo la guarigione del servo del centurione e prima dell’arrivo della delegazione di Giovanni il Battista. Questa posizione non è casuale: dopo il suo intervento a favore di un uomo, ora Gesù ne fa uno ancora più strepitoso per una donna. Inoltre Luca vuole rendere credibile l’inciso «i morti risuscitano» che Gesù, secondo la fonte Q, avrebbe inserito nella risposta ai discepoli del Battista (cfr. Lc 7,22). Il racconto non si trova negli altri vangeli, per cui è chiaro che lo ha attinto da una tradizione propria, la cui attendibilità storica è inferiore rispetto alle tradizioni condivise con Marco e con Matteo. Ciò è confermato dal fatto che il narratore si è servito come modello dei racconti di due risurrezioni attribuite rispettivamente a Elia (IRe 17,8-24) e a Eliseo (2Re 4,18-37), che riguardano due figli unici di donne vedove. Sono significativi anche i contatti di questo brano con il Benedictus (cfr. Lc 1,68-79). Dopo aver guarito a Cafarnao il servo di un centurione, Gesù, accompagnato dai suoi discepoli e da una grande folla, si reca in un villaggio chiamato Nain (v. 11). Nain è un piccolo centro situato nella pianura di Izreel, non lontano da Sunem, il paese dove Eliseo avrebbe compiuto un analogo miracolo; esso si trova appena una decina di chilomentri a sud­est di Nazaret. Quando è vicino alla porta della città, il gruppo d Gesù si incontra con una folla che  portava alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova. Vedendola, il Signore è preso da grande compassione per lei e le dice: «Non piangere!» (vv. 12-13). Per la prima volta Luca attribuisce qui a Gesù il titolo postpasquale di Kyrios (Signore) in senso assoluto, conferendogli così una dignità che lo mette sullo stesso piano di JHWH, il cui nome nei LXX è reso appuno con Kyrios. Inoltre è l’unica volta in cui Luca dice che Gesù si è commosso (esplanchnisthê): questo termine traduce un termine della radice ebraica raham, che indica l’amore quasi materno che spinge JHWH a scegliere Israele come sue popolo, a guidarlo e a perdonarlo quando pecca (cfr. Dt 30,3). Normalmente Luca non ne fa uso a proposito di Gesù perché non è propenso a descrivere i suoi sentimenti umani. Però nel Benedictus Zaccaria attribuisce la salvezza «alle viscere di misericordia» (splanchna eleous) del nostro Dio, per cui ci visiterà dall’alto (un sole) che sorge» (Lc 1,78). Vedendo il corteo, Gesù si avvicina alla bara e la tocca, mentre i portatori si fermarono. Poi dice: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si siede e comincia a parlare. Gesù allora lo restituisce a sua madre (vv. 14-15). Secondo l’usanza, la bara che conteneva il cadavere era aperta. Gesù risuscita il fanciullo con la potenza della sua parola. Ma il fatto di toccare la bara rappresenta una contestazione delle leggi di purità, in base alle quali un giudeo che toccava un morto era affetto da impurità. L’espressione «lo diede a sua madre», che rappresenta un tocco di attenzione verso una donna affranta, è desunta dal racconto della risurrezione compiuta da Elia (1 Re 17,23). Infine l’evangelista registra gli effetti della risurrezione del ragazzo: tutti sono presi da timore e glorificano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e «Dio ha visitato il suo popolo». La fama di lui si diffunde così per tutta la Giudea e la regione circostante (vv. 16-17). Di fronte al miracolo compiuto da Gesù, la folla lo esalta con il titolo di «profeta», che qualifica con l’attributo di «grande». Non si tratta quindi di un profeta qualsiasi, ma di quello che era atteso alla fine dei tempi per preparare la venuta di JHWH in mezzo al suo popolo. La sua apparizione è dunque un segno che «Dio ha visitato il suo popolo», cioè che sono venuti ormai gli ultimi tempi in cui Dio interviene per restaurare il suo popolo. Questa acclamazione richiama un motivo che Luca ha inserito nel cantico di Zaccaria: «Benedetto il Signore, … poiché ha visitato … il suo popolo» (Lc 1,68). La misericordia del Padre, proclamata da Gesù nel discorso della pianura (Lc 6,36) e proposta all’imitazione dei discepoli, ora si manifesta concretamente nell’azione compassionevole di Gesù in favore di una povera vedova. Nel Benedictus però il titolo di profeta escatologico è attribuito a Giovanni il Battista. Per questo non si addice a Gesù, il quale, per Luca, è il «Signore», come egli ha precedentemente sottolineato (cfr. v. 13). L’immediata diffusione della notizia di quanto è capitato rientra nel genere letterario dei racconti di miracolo. La Giudea e la regione circostante è una circonlocuzione per indicare tutta la Palestina.

Linee interpretative La risurrezione del ragazzo di Naim ha poche probabilità di essere un fatto storicamente avvenuto, dal momento che gli altri due sinottici non ne parlano: una svista riguardante un fatto così portentoso è difficilmente immaginabile. È probabile invece che Luca abbia preso questo racconto da qualche tradizione popolare  che aveva lo scopo di rappresentare Gesù sul modello di Elia e di Eliseo, quale profeta degli ultimi tempi, che prepara la venuta finale di Dio in mezzo al suo popolo. Luca però vuole fare capire che il profeta degli ultimi tempi è quel Giovanni che subito dopo entrerà in scena inviando da Gesù due dei suoi discepoli, mentre Gesù è il Signore, cioè il Messia promessa da Dio al suo popolo.  In questo racconto Gesù è presentato come il Salvatore misericordioso, l’ultimo inviato di un Dio il cui modo di essere è la misericordia verso il suo popolo. Nel gesto di Gesù che risuscita il ragazzo di Naim appare il suo potere sovrano sulla vita e sulla morte: con un semplice tocco della bara e con un comando categorico risuscita il fanciullo. Egli agisce con l’autorità che gli viene da Dio, senza bisogno di preghiere prolungate, come facevano i guaritori di professione. Al tempo stesso egli, toccando la bara, indica il superamento delle norme di purità che tanta parte avevano nella spiritualità giudaica del suo tempo: così facendo egli dichiara che il rapporto con Dio si basa non su di esse ma sulla misericordia che deve permeare i rapporti intepersonali.  

5 GIUGNO 2016 | 10A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | OMELIA

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5 GIUGNO 2016 | 10A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | OMELIA

Per cominciare Gesù è vincitore anche della morte e alcuni miracoli anticipano la sua risurrezione. Ma nella guarigione del figlio della vedova di Naim emerge anche l’umanità di Gesù, che si commuove di fronte al dolore di una madre.

La parola di Dio 1 Re 17,17-24. Il profeta Elia compie un grande miracolo riportando alla vita il figlio di una vedova. Essa lo aveva ospitato, ma aveva visto quella morte come un castigo di Dio. Ora dovrà ricredersi. Galati 1,11-19. Continua la lettera ai Galati. Paolo, per confermare la bontà della sua predicazione, racconta la storia della sua conversione e di come abbia ricevuto il vangelo per iniziativa del Cristo. Luca 7,11-17. Gesù riporta in vita il figlio della vedova di Naim. La gente esprime il suo stupore e interpreta questo fatto come una visita di Dio tra il popolo e la conferma della grandezza di Gesù.

Riflettere I miracoli di Elia. Il profeta sembra comportarsi come un mago e un guaritore. In realtà è un uomo in fuga perché fedele al vero Dio ed è perseguitato. Il racconto presenta un doppio miracolo: quello della farina, che non viene più a mancare alla famigliola, e il richiamo in vita del figlio della vedova. Al di là della storicità del racconto, c’è la certezza che Dio non abbandona quella vedova generosa, né Elia che ha il coraggio di correre dei rischi per essergli fedele. Dio è il Dio dei vivi e non dei morti, affermano i due racconti. Sia il miracolo di Elia che quello di Gesù celebrano il trionfo della vita. Il richiamo in vita del figlio della vedova di Naim è un segno preciso che si compiono in Gesù i tempi messianici. A Giovanni che è in prigione e manda a chiedergli: « Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro? », Gesù risponde: « Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il vangelo » (Mt 11, 2-5). Sarà però la sua risurrezione il fondamento della salvezza, non solo come segno, ma come realtà definitiva, vittoria di Dio e dell’uomo sulla morte. Gesù compie questo miracolo anche per compassione verso quella vedova. Quale sarebbe stato il destino di quella donna, senza il sostegno del figlio e di un uomo? È noto che le vedove al tempo di Gesù vivevano in profondo disagio. Ma la legge ebraica era solidale verso le vedove. I profeti le mettono tra le categorie per le quali Iahvè aveva un’attenzione speciale: « Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per defraudare gli orfani (Is 10,1-2). « Lascia i tuoi orfani, io li farò vivere, le tue vedove confidino in me! » (Ger 49,11). Ma Gesù dovrà apertamente accusare i farisei di « divorare le case delle vedove » (Lc 20,47). Con la stessa sensibilità di Gesù, la chiesa primitiva e lo stesso apostolo Paolo si occuperanno della situazione delle vedove, pronti a soccorrerle, perché nel caso di una morte improvvisa del capo famiglia finivano abbandonate a se stesse. L’apostolo Giacomo invita a « visitare gli orfani e le vedove… » (Gc 1,27). Così il papa san Leone Magno alla chiesa dei primi secoli: « Ecco come tu dovrai praticare il digiuno: durante il giorno di digiuno tu mangerai solo pane e acqua; poi calcolerai quanto avresti speso per il tuo cibo durante quel giorno e tu offrirai questo denaro a una vedova, a un orfano… ». Gesù è toccato dal dolore di quella mamma. Così come in altre circostanze si lascia prendere dal cuore e appare profondamente umano: sta con i bambini, piange sulla tomba di Lazzaro, mangia con i peccatori, parla con le persone poco raccomandabili… Gesù tocca la bara: non ha paura di diventare legalmente impuro. E, a differenza di Elia (Gesù è più grande di Elia), compie il miracolo con semplicità, senza tanti gesti. Dice soltanto: « Ragazzo, dico a te, alzati! ». Gesù è potente, ha la stessa potenza di Dio: comanda al vento e al mare, alla malattia e alla stessa morte, e sconfigge le forze del male.

Attualizzare La folla segue Gesù, insieme agli apostoli. È una folla indistinta che partecipa insieme a Gesù al dolore di quella vedova per la morte del figlio. Al termine dell’episodio, l’evangelista Luca sottolinea che quella folla è diventata un popolo, il popolo dei salvati. Il discorso della comunità è importantissimo quando si tratta di lottare contro la sofferenza e di lenire un dolore. È la comunità che può creare la giusta solidarietà e fare da sostegno a chi viene colpito da una prova. Il ragazzo, appena ritornato in vita, si mette a parlare. È questo il primo segno della gioia restituita, del reinserimento tra gli altri di chi era perduto. Paolo (seconda lettura) è passato anche lui da una vita di violenza e di morte, a una vita nuova, attraverso un periodo di cecità e di deserto. La sua predicazione nascerà da questa sofferenza, da questo passaggio, che gli ha permesso l’incontro con il Dio della vita. La morte di un giovane è sempre qualcosa di tragico. I giovani vivono così spesso nella spensieratezza e riflettono poco sul senso della vita. Ecco la testimonianza di un ragazzo tedesco che ha visto la morte da vicino: « Ho avuto un terribile incidente stradale, in ospedale mi hanno rianimato il cuore. La morte è spaventosa. Ma non è che abbia avuto paura. Non ho avuto tempo. E stato come scoprire me stesso in un istante. Ho sentito un desiderio grande di continuare a vivere. Adesso anche le piccole cose mi sembrano piene di significato ». Ma oggi ci sono tanti giovani che giocano con la morte e che rifiutano la vita. « Se uno sfogliasse i quotidiani con puntigliosa pazienza, otterrebbe dell’Italia un quadro da lasciare senza fiato », scrive Alberto Bevilacqa sul Corriere Magazine. E tra i titoli legge: « Mille tentativi di suicidio tra i ragazzi ». Per l’esattezza 1300 ragazzini ogni anno, un dato che si riferirebbe alla sola città di Milano. E commenta: « Davvero brutta storia, questa. Centinaia di casi nascosti. È la seconda causa di morte fra i giovani ». Tristemente si tratta però di un fenomeno mondiale, che altrove è vissuto anche con maggior tragicità, magari nel contesto di un gioco collettivo su Facebook. È il caso degli aspiranti alla morte volontaria, che da anni affligge il Giappone. A Takashima cinque giovani attorno ai 20 anni si sono dati appuntamento con la morte su internet e sono stati trovati senza vita su un’auto. Gesù che salva dalla morte, ci invita a scoprire il dovere di vivere in pienezza i nostri giorni, ad accogliere la vita, che non ci è data per un gioco assurdo, ma per farne un capolavoro per noi e per Dio. Ci ricorda il valore decisivo del presente e il modo con cui lo viviamo, perché il cerchio si chiude e le vicende della vita non si ripropongono all’infinito.

La mamma di Carlos Carlos ha otto anni. Non va a scuola. Quasi tutte le sere è alla messa: per lui è un’attrazione quotidiana. Il momento più importante è il segno di pace. Vuole stringere il più gran numero possibile di mani. L’altro ieri, dopo otto giorni di mia assenza per un viaggio nel nord del Messico, alla fine della messa, quando la chiesa si è svuotata, Carlos è rimasto seduto sulla sua sedia. Mi aspettava. Sono andato da lui. Mi ha salutato con un sorriso affettuoso e, improvvisamente, mi ha detto: « Padre, vorrei che benedicessi la terra dove hanno messo la mia mamma ». « Ma quale terra? Dov’è la tua mamma? ». « Al cimitero di lztapalapa, proprio in fondo al cimitero. morta quattro giorni fa… ». L’ho preso tra le braccia e l’ho stretto con tutto il mio affetto. Era la sola povera risposta che potevo dare alla sua infinita angoscia. E ho aggiunto: « Sì, Carlos, te lo prometto, verrò domani ». Non sono un fanatico delle benedizioni. Spesso penso che il popolo messicano dia eccessiva importanza a questi riti esteriori. Ma ieri, sabato, anche se avessi avuto quaranta di febbre, sarei ugualmente andato al cimitero di Iztapalapa per quella benedizione. In ginocchio sulla terra rimossa da poco abbiamo parlato a questa mamma, la cui assenza sarà tanto crudele… Vicino al papà… vicino a Carlos, vicino alla sua sorellina di sei anni, Anita, non potevo trattenermi dal chiedere spiegazioni a Dio: « Perché? Perché la morte può rapire un essere così indispensabile a bambini innocenti? ». Mentre mi tormentavo con questo terribile mistero, ho guardato i loro visi: risplendevano di pace, vivevano una presenza. Signore, perché a scuola mi hanno insegnato tante cose in libri così ben fatti? E perché mi hanno preparato così poco a leggere questo libro incomparabile d’amore che Dio scrive ogni giorno nella vita dei poveri? (da Il Vangelo della « Fossa dei porci », di Joseph Bouchaud).

Don Umberto DE VANNA sdb Fonte autorizzata in: Umberto DE VANNA: Giorno di Festa, Editrice Ancora, Milano

 

San Giustino martire

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Publié dans:immagini sacre |on 1 juin, 2016 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SAN GIUSTINO, FILOSOFO E MARTIRE (1 Giugno)

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BENEDETTO XVI – SAN GIUSTINO, FILOSOFO E MARTIRE (1 Giugno)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 21 marzo 2007

Cari fratelli e sorelle,

stiamo in queste catechesi riflettendo sulle grandi figure della Chiesa nascente. Oggi parliamo di san Giustino, filosofo e martire, il più importante tra i Padri apologisti del secondo secolo. La parola «apologisti» designa quegli antichi scrittori cristiani che si proponevano di difendere la nuova religione dalle pesanti accuse dei pagani e degli Ebrei, e di diffondere la dottrina cristiana in termini adatti alla cultura del proprio tempo. Così negli apologisti è presente una duplice sollecitudine: quella, più propriamente apologetica, di difendere il cristianesimo nascente (apologhía in greco significa appunto «difesa») e quella propositiva, «missionaria», di esporre i contenuti della fede in un linguaggio e con categorie di pensiero comprensibili ai contemporanei. Giustino era nato intorno all’anno 100 presso l’antica Sichem, in Samaria, in Terra Santa; egli cercò a lungo la verità, pellegrinando nelle varie scuole della tradizione filosofica greca. Finalmente – come egli stesso racconta nei primi capitoli del suo Dialogo con Trifone – un misterioso personaggio, un vegliardo incontrato lungo la spiaggia del mare, lo mise dapprima in crisi, dimostrandogli l’incapacità dell’uomo a soddisfare con le sole sue forze l’aspirazione al divino. Poi gli indicò negli antichi profeti le persone a cui rivolgersi per trovare la strada di Dio e la «vera filosofia». Nel congedarlo, l’anziano lo esortò alla preghiera, perché gli venissero aperte le porte della luce. Il racconto adombra l’episodio cruciale della vita di Giustino: al termine di un lungo itinerario filosofico di ricerca della verità, egli approdò alla fede cristiana. Fondò una scuola a Roma, dove gratuitamente iniziava gli allievi alla nuova religione, considerata come la vera filosofia. In essa, infatti, aveva trovato la verità e quindi l’arte di vivere in modo retto. Fu denunciato per questo motivo e venne decapitato intorno al 165, sotto il regno di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo a cui Giustino stesso aveva indirizzato una sua Apologia. Sono queste – le due Apologie e il Dialogo con  Trifone – le sole opere che di lui ci rimangono. In esse Giustino intende illustrare anzitutto il progetto divino della creazione e della salvezza che si compie in Gesù Cristo, il Logos, cioè il Verbo eterno, la Ragione eterna, la Ragione creatrice. Ogni uomo, in quanto creatura razionale, è partecipe del Logos, ne porta in sé un «seme», e può cogliere i barlumi della verità. Così lo stesso Logos, che si è rivelato come in figura profetica agli Ebrei nella Legge antica, si è manifestato parzialmente, come in «semi di verità», anche nella filosofia greca. Ora, conclude Giustino, poiché il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del Logos nella sua totalità, ne consegue che «tutto ciò che di bello è stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani» (2 Apol. 13,4). In questo modo Giustino, pur contestando alla filosofia greca le sue contraddizioni, orienta decisamente al Logos qualunque verità filosofica, motivando dal punto di vista razionale la singolare «pretesa» di verità e di universalità della religione cristiana. Se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura orienta verso la realtà significata, la filosofia greca mira anch’essa a Cristo e al Vangelo, come la parte tende a unirsi al tutto. E dice che queste due realtà, l’Antico Testamento e la filosofia greca, sono come le due strade che guidano a Cristo, al Logos. Ecco perché la filosofia greca non può opporsi alla verità evangelica, e i cristiani possono attingervi con fiducia, come a un bene proprio. Perciò il mio venerato Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, definì Giustino «pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento»: perché Giustino, «pur conservando anche dopo la conversione grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver trovato nel cristianesimo “l’unica sicura e proficua filosofia” (Dial. 8,1)» (Fides et ratio, 38). el complesso la figura e l’opera di Giustino segnano la decisa opzione della Chiesa antica per la filosofia, per la ragione, piuttosto che per la religione dei pagani. Con la religione pagana, infatti, i primi cristiani rifiutarono strenuamente ogni compromesso. La ritenevano idolatria, a costo di essere tacciati per questo di «empietà» e di «ateismo». In particolare Giustino, specialmente nella sua prima Apologia, condusse una critica implacabile nei confronti della religione pagana e dei suoi miti, considerati da lui come diabolici «depistaggi» nel cammino della verità. La filosofia rappresentò invece l’area privilegiata dell’incontro tra paganesimo, giudaismo e cristianesimo proprio sul piano della critica alla religione pagana e ai suoi falsi miti. «La nostra filosofia…»: così, nel modo più esplicito, giunse a definire la nuova religione un altro apologista contemporaneo di Giustino, il Vescovo Melitone di Sardi (citato in Eusebio, Storia Eccl. 4,26,7). Di fatto la religione pagana non batteva le vie del Logos, ma si ostinava su quelle del mito, anche se questo era riconosciuto dalla filosofia greca come privo di consistenza nella verità. Perciò il tramonto della religione pagana era inevitabile: esso fluiva come logica conseguenza del distacco della religione – ridotta a un artificioso insieme di cerimonie, convenzioni e consuetudini – dalla verità dell’essere. Giustino, e con lui gli altri apologisti, siglarono la presa di posizione netta della fede cristiana per il Dio dei filosofi contro i falsi dèi della religione pagana. Era la scelta per la verità dell’essere contro il mito della consuetudine. Qualche decennio dopo Giustino, Tertulliano definì la medesima opzione dei cristiani con una sentenza lapidaria e sempre valida: «Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem, cognominavit – Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine» (La velazione delle vergini 1,1). Si noti in proposito che il termine consuetudo, qui impiegato da Tertulliano in riferimento alla religione pagana, può essere tradotto nelle lingue moderne con le espressioni «moda culturale», «moda del tempo». In un’età come la nostra, segnata dal relativismo nel dibattito sui valori e sulla religione – come pure nel dialogo interreligioso –, è questa una lezione da non dimenticare. A tale scopo vi ripropongo – e così concludo – le ultime parole del misterioso vegliardo, incontrato dal filosofo Giustino sulla riva del mare: «Tu prega anzitutto che le porte della luce ti siano aperte, perché nessuno può vedere e comprendere, se Dio e il suo Cristo non gli concedono di capire» (Dial. 7,3).

L’ANGELO, LA LUCE E LA GLORIA – di GIANFRANCO RAVASI

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L’ANGELO, LA LUCE E LA GLORIA – di GIANFRANCO RAVASI

Pastori e pecore nella Scrittura dal sacrificio di Abele ai vangeli dell’Infanzia

« Il gregge avanzava dietro un maschio adulto; a un certo punto una pecora gravida si fece inquieta, si arrestò, rimase indietro, colta dalle doglie. Il pastore le passò accanto indifferente. Sapeva che il parto sarebbe stato veloce e che, trattandosi di un animale gregario, la pecora si sarebbe affrettata a rientrare velocemente nel gruppo. Appena partorito, infatti, la pecora leccò il nuovo nato, poi fece un balzo e si mise a correre trascinandoselo dietro. Solo allora il pastore tornò sui suoi passi, prese con sé l’agnello tremante e lo portò vicino a un fuoco per riscaldarlo ». Leggiamo questa strana scenetta di vita pastorale tra gli appunti di Jacob Becker, un ebreo di Odessa rifugiatosi in Palestina agli inizi del secolo scorso per sfuggire a un pogrom zarista: giunto a Hebron, la città dei patriarchi biblici, si era offerto come aiuto-pastore a un beduino. Da quelle pagine affiorano ricordi duri e la rappresentazione del mondo dei beduini (termine arabo che significa « nomadi ») è disincantata, aspra, segnata dalla miseria, dalla sete, da micidiali calure e da notti gelide. Per questi uomini, che spesso distano spazialmente da Gerusalemme una decina di chilometri, ma secoli per usi e tradizioni, la patria, laalt vita, la casa sono tutte in quel deserto che costituisce ampie porzioni di Israele, ma soprattutto della Giordania e in particolare del Sinai. In questa steppa pietrosa, che a primavera per pochi giorni è avvolta da un velo di verde ma che è anche punteggiata da oasi quasi miracolose come quella di Gerico (5 chilometri di diametro), i pastori nomadi si spostano rispettando catasti territoriali solo « orali », tramandati nei secoli. La migrazione, a partire dalla grande transumanza di primavera, non ha mai percorsi casuali ma segue fili misteriosi eppure precisi, sotto cieli tersissimi che lasciano piovere un calore e una luce abbagliante (la temperatura diurna estiva può oscillare tra i 40° e i 50° all’ombra). Cieli che solo d’inverno lasciano cadere acqua, ma che offrono al pastore gli orologi cosmici della luna e delle stelle. Il ritratto più suggestivo del nomade e del suo gregge è comunque in quella deliziosa lirica orante che è il Salmo 23: il pastore « su pascoli erbosi fa riposare il suo gregge, ad acque tranquille lo conduce, rinfranca, guida per il giusto cammino. Se il gregge dovesse percorrere una valle oscura, non temerebbe alcun male perché con lui è il pastore. Il suo bastone e il suo vincastro danno sicurezza ». Ma se la Bibbia – come vedremo – esalta la vita pastorale in modo nostalgico, memore delle sue radici nomadiche tipizzate nei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe ma anche in Mosè e Davide, è altrettanto vero che i pastori sono stati sempre visti con disprezzo e terrore dai sedentari, un po’ come da noi oggi sono considerati gli zingari. Così, nella letteratura accadica i pastori sono chiamati « il nulla che viene dalla steppa »; quella sumerica ci ha lasciato questa fisionomia del nomade: « Hanno apparenza di uomini ma la loro voce è quella del cane della prateria »; gli Sciti li chiamavano « i draghi dei monti », mentre altre culture li comparavano a briganti affamati o a cavallette insaziabili. Degli Egiziani, che furono conquistati e sottomessi attorno al 1700 antecedente l’era cristiana dai nomadi Hyksos, la Bibbia ricorda la ripulsa a pranzare coi pastori: « Per loro questo è un abominio » (Genesi, 43,32). Anzi, la stessa Bibbia in una delle sue pagine d’apertura narra il tragico odio di un sedentario, l’agricoltore Caino, nei confronti del pastore beduino Abele (Genesi, 4). Tre sono i tesori del pastore. Il primo è la tenda che nella lingua accadica è detta « casa della steppa » e in arabo « casa di pelo ». Quando l’umanità costruì quella che forse è la prima città della storia tra il 9000 e il 7000 prima dell’era cristiana, proprio nell’oasi di Gerico, modellò la casa sulla tenda circolare dei pastori. Inoltre, quando Israele progettò il suo primo tempio, l’arca dell’alleanza, il santuario mobile dell’Esodo, lo delineò secondo lo schema della tenda dei pastori. Infatti la descrizione dell’arca offerta dal libro dell’Esodo corrisponde visivamente proprio all’espressione principale con cui la si definiva: la « tenda dell’incontro » tra Dio e il suo popolo. Il secondo tesoro è l’acqua dei pozzi (possono raccogliere fino a 13.000 litri d’acqua sorgiva), che erano il centro sociale, culturale, « diplomatico » delle tribù nomadiche, come è spesso attestato anche dalla Bibbia, che, tra l’altro, ci conserva un antichissimo canto degli scavatori di pozzi: « Sgorga, o pozzo, cantatelo! Pozzo che i principi hanno scavato, che i nobili del popolo hanno perforato con lo scettro, coi loro bastoni » (Numeri, 21,17-18). C’è, però, anche quel piccolo pozzo portatile che è l’otre, ove l’acqua è conservata quasi fosse una perla nello scrigno. Stupenda è l’immagine nomadica del Salmo 56: « I passi del mio vagare tu li registri, le mie lacrime nell’otre tuo raccogli ». Il Signore è raffigurato come un pastore che raccoglie nell’otre le lacrime degli uomini così che non ne vada persa neppure una. Il terzo tesoro, il più prezioso, è il gregge. Il pastore non è solo la guida delle pecore ma ne è soprattutto il compagno continuo, ne è quasi il padre; il gregge è parte della sua famiglia, le pecore ricevono dei nomi a cui rispondono, con esse il pastore sopporta il caldo e la sete più ardente, con esse si raccoglie a sera per superare le forti escursioni termiche notturne. A Nuzi, in Mesopotamia, è venuta alla luce una sacca di terracotta di 3.500 anni fa con questa iscrizione: « 48 pietre per pecore e capre: 21 pecore da latte, 6 agnelle, 8 agnelli adulti, 4 agnelli maschi, 6 capre da latte, 1 becco, 2 femmine. Sigillo (cioè firma) di Ziqarru, pastore ». In un sacco di pelle o di creta si tenevano quindi pietruzze diverse per la contabilità degli animali del gregge. Nella Bibbia questa prassi viene applicata a Dio, il « grande Pastore delle nostre anime », che può raccogliere nel suo scrigno la vita delle sue creature ma purtroppo anche i loro tradimenti: « Tu hai sigillato nel tuo sacchetto i miei errori », esclama Giobbe (14,17). Il pastore diventa, così, uno dei segni più comuni della vita del Vicino Oriente, una specie di simbolo globale a cui attingono anche i sedentari, forse per un certo senso di nostalgia nei confronti dei grandi spazi aperti e della vita povera, sì, ma libera. Così il dio solare Shamash di Babilonia è invocato come « pastore del popolo » e con lo stesso titolo il celebre re babilonese Hammurabi si presenta nel suo Codice. Persino Omero chiamava i re poimènes laòn, « pastori dei popoli ». Ma è soprattutto nella Bibbia che ci incontriamo con un vero e proprio repertorio di immagini pastorali. Il citato Salmo 23 è forse il vertice di questa simbologia applicata innanzitutto a Dio, « il Pastore » per eccellenza. Basta solo sfogliare l’Antico Testamento per imbattersi in frasi di questo genere: « Guidaci e sostienici sempre (…) Guidasti come gregge il tuo popolo (…)Fu loro pastore e li guidò con mano sapiente (…) Tu, pastore d’Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge (…) Noi siamo gregge del suo pascolo (…) Radunerò io stesso le mie pecore dalle regioni dove erano state cacciate e le farò tornare ai loro pascoli (…) Ricondurrò Israele nel suo pascolo, pascolerà sul Carmelo, e sui monti di Basan, di Efraim e di Galaad si sazierà ». Ma il passo più importante è l’intero capitolo 34 di Ezechiele in cui ai falsi pastori, cioè ai re, ai magistrati e ai sacerdoti d’Israele che hanno sfruttato il gregge di Dio e non l’hanno curato quando era ferito e sbandato, si oppone il nuovo e perfetto pastore, Davide, simbolo del Messia: « Susciterò loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo ». Anche un altro profeta, Zaccaria, nel capitolo 11 del suo libro verrà invitato da Dio a « sceneggiare » nella sua persona la figura del buon pastore e del pastore mercenario. In questo orizzonte segnato dalla luce si colloca soprattutto la figura del Cristo pastore, dipinta in una celebre pagina di Giovanni (10,1-21). Gesù sta parlando forse nel cortile ove si levano le monumentali costruzioni del Tempio erodiano, la sede del Pastore di Israele, il Signore. A fianco si erge la cosiddetta Porta delle Pecore (o Porta Probatica), attraverso la quale i fedeli, il gregge di Dio, accedono all’incontro cultuale col loro Pastore. Sulle labbra di Gesù affiorano quelle parole considerate blasfeme dai suoi ascoltatori: « Io sono il buon pastore (…) Io sono la Porta delle pecore (…) Le pecore mi seguono e conoscono la mia voce e io offro la mia vita per le pecore. Il mercenario, invece, quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge ». Appare, così, un ritratto di Gesù che già Matteo e Luca avevano abbozzato nella parabola della pecora smarrita (Matteo, 18,12-14 e Luca, 15,1-7). Su questo ritratto del « pastore grande delle pecore » (Ebrei, 13,20) si modella anche la fisionomia dei pastori da lui inviati. Agli apostoli Gesù dice: « Rivolgetevi alle pecore perdute della casa d’Israele ». A Pietro sul litorale del lago di Tiberiade per tre volte Gesù ripete: « Pasci le mie pecorelle » (Giovanni, 21,15-17). Nel testamento di Paolo ai responsabili della Chiesa di Efeso leggiamo: « Vegliate su tutto il gregge in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come custodi a pascere la Chiesa di Dio » (Atti, 20,28). E Pietro ai capi delle Chiese del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia Minore e della Bitinia scrive: « Pascete il gregge di Dio che vi è stato affidato (…) non spadroneggiando sulle persone a voi affidate ma facendovi modelli del gregge » (1Pietro, 5,2-3). È su questa base che il simbolo del Buon Pastore entra nell’arte cristiana: ben 120 affreschi dei cimiteri cristiani romani dei primi secoli e 150 sculture adottano questa immagine. Ma questa simbologia pastorale lentamente ci ha portato lontano da quella vita dura che il pastore palestinese conduce e che abbiamo tratteggiato in apertura. Eppure nel Vangelo c’è un passo, l’unico del Nuovo Testamento, in cui di scena sono ancora pastori autentici e non pastori simbolici (Luca, 2,1-19). È quel celebre racconto che ascoltiamo ogni anno nella liturgia della notte di Natale. Un racconto notturno che la tradizione ha cercato di strappare al suo realismo quotidiano. L’ha infatti immerso in un’atmosfera tenera, sentimentale e oleografica; l’ha affidato alle statuine, ai muschi, alle stagnole di quel presepe che era sorto proprio in una fredda notte di Natale del 1223 a Greccio ad opera di Francesco, un uomo che era però realmente povero come quei pastori che raffigurava nel suo primo presepe. Questo racconto evangelico è stato anche avvolto nei fili musicali delle dolci « pastorali », spesso straordinarie come lo stupendo Concerto grosso n. 8 per la Notte di Natale di Corelli o la sinfonia dell’Oratorio di Natale di Bach (1734) o come la mirabile pagina natalizia del Messia di Haendel (1742) o ancora come la famosa pastorale di Couperin, oppure come l’ »adorazione dei pastori » presente nel Christus, oratorio di Liszt, o l’Enfance du Christ di Berlioz (1850-54) e soprattutto i mille e mille Gloria in excelsis delle messe cantate. Un racconto che è diventato pittura nelle infinite tele che nei secoli hanno riproposto l’adorazione dei pastori a Gesù bambino. In realtà, uno studio più accurato del contesto storico e culturale della vita d’Israele durante quegli anni cancellerebbe buona parte di questo alone pur suggestivo. Dal paragrafo 25b del trattato Sanhedrin del Talmud, il più famoso documento delle tradizioni giudaiche, apprendiamo, ad esempio, che i pastori non potevano essere eletti giudici e neppure potevano essere addotti come testimoni in un processo perché considerati impuri a causa della loro convivenza con animali e disonesti a causa delle loro violazioni dei confini territoriali. Le loro condizioni di vita erano molto meno « georgiche » e idilliache di quanto ci abbia abituato a pensare Virgilio; la loro esistenza era precaria e anche in quella notte decisiva per l’umanità è probabile che il gelo notturno fosse solo l’ultimo degli incubi di una giornata sempre dura. Ma cerchiamo per un istante di ricomporre l’orizzonte topografico di quella notte. Siamo nella campagna di Betlemme, la città del pastore Davide, posta a 777 metri di altezza e stretta attorno dal deserto di Giuda. « C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge », così scrive, in apertura al suo racconto, Luca (2,1-20). La tradizione cristiana attuale ci conduce a tre chilometri da Betlemme nel villaggio arabo di Bet-Sahur. L’archeologo francescano Virgilio Corbo ha messo in luce in questa località un monastero bizantino del IV-V secolo che aveva inglobato alcune grotte anticamente usate dai pastori per le loro veglie notturne. Ora, accanto ad esse, si erge una chiesa moderna, eretta nel 1953: in essa l’architetto Antonio Barluzzi, che ha edificato la maggior parte dei santuari francescani di Terrasanta, ha voluto imitare la forma della tenda del beduino e ha tracciato una cupola che lascia filtrare la luce del cielo quasi in un gioco di stelle. L’altare sorretto da quattro pastori oranti è opera di artisti cristiani betlemiti. Ritorniamo, però, alla pagina lucana. Si tratta di una narrazione raffinatamente costruita. Lo schema è quello, classico nella Bibbia, delle annunciazioni (nel primo capitolo del suo vangelo Luca aveva già introdotto due annunciazioni, quella a Zaccaria, il padre del Battista, e quella a Maria). Il primo elemento è rappresentato dall’apparizione angelica, segno di una rivelazione divina che squarcia quella povera quotidianità (v. 9). L’angelo, la luce, la gloria di Dio, il timore sono le componenti tipiche dell’incontro col mistero divino. Il messaggio (vv. 10-11) è il secondo dato. Luca nel testo originale greco lo chiama « evangelo », un termine particolarmente significativo per i connotati cristologici che evoca. È il cuore teologico della scena. Esso si apre con un « oggi », un presente che è cronologico ma che si apre alla salvezza permanentemente offerta da Dio all’umanità: « Oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore ». Del neonato si professano tre titoli che rappresentano una specie di piccolo Credo: Salvatore, Cristo (= Messia), Signore (= Dio). Anche Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, cita questo Credo: « Aspettiamo il Salvatore, il Signore Gesù Cristo » (3,20). Nel bambino si intravede già il glorioso « Signore » risorto, proclamato dalla fede pasquale della Chiesa.

(L’Osservatore Romano 25 dicembre 2011)

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 1 juin, 2016 |Pas de commentaires »
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