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LA SAPIENZA UMANA NEI DETTI DI GESÙ

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LA SAPIENZA UMANA NEI DETTI DI GESÙ

sintesi della relazione di Rinaldo Fabris

Verbania Pallanza, 7 dicembre 1996

La modalità più comune di sapere sapienziale è la piccola sentenza ritmica, nella forma del proverbio, espressione non tanto dell’erudizione quanto dell’amore intelligente. Gesù si colloca all’interno della tradizione popolare della sapienza. Appare estraneo alla sapienza colta, coltivata a corte o presso il tempio. L’immagine di un Gesù profeta apocalittico arrabbiato non corrisponde a quanto i vangeli ci trasmettono. Più veritiera è quella di saggio, sapiente, maestro.

Gesù « maestro » Marco ci presenta Gesù, dopo l’annuncio programmatico del Regno, come un maestro che insegna con autorità (Mc 1,21-22), un’autorità che non gli deriva da titoli di scuola conseguiti. Gesù è un autodidatta, un sapiente carismatico. Gesù è un terapeuta itinerante, ex falegname, che suscita lo stupore, la meraviglia e anche la reazione stizzita dei suoi compaesani (Mc 6,2-3). Gesù, al pari di ogni altro essere umano (una malintesa fede nella divinità di Gesù ha messo in ombra questo aspetto) compie tutto il percorso di formazione umana. Il suo sapere è legato alla sua esperienza. La cultura di Gesù è una cultura popolare, di carattere pratico e induttivo, propria di un artigiano che lavora con le mani. Gesù mostra una grande capacità di leggere in profondità le esperienze umane. Luca retroproietta nella vicenda storica delle origini la figura del maestro che insegna con autorità e sapienza (Lc 2,39-40; 46-47). proverbi e sentenze sapienziali Si trovano soprattutto nel discorso sul monte di Matteo e in quello più breve ambientato in pianura di Luca. armonia tra interno/esterno La trasparenza tra interno/esterno costituisce uno dei temi più affascinanti dei vangeli, con l’immagine dell’occhio e della luce o del parlare che viene dalla pienezza del cuore. Sulla stessa linea si colloca la critica alla purità rituale, esteriore, in favore di una purità interiore, della qualità delle relazioni con gli altri e con Dio. coerenza e sincerità Gesù colpisce per la sua libertà e coerenza. Critica i farisei che pretendono di guidare gli altri senza avere una luce interiore (ciechi guide di ciechi); critica chi scopre la pagliuzza nell’occhio del fratello ma non la trave nel proprio. Si tratta di sentenze che fanno riflettere. ascoltare e mettere in pratica Gesù invita a costruire la propria vita su un solido fondamento, come una casa costruita sulla roccia, nell’ascoltare e nel mettere in pratica le sue parole. valutazione e uso dei beni L’interesse per la salute, per il corpo, per l’uso dei beni è un problema sapienziale che ha a che fare con il senso del vivere. Gesù invita a riflettere sull’investimento affettivo: sul cuore che segue il luogo del tesoro e sulla dedizione totale a qualcuno (non si possono servire due padroni). Gesù invita non a disprezzare i beni (Mt 6,25.27-28) ma a disporli secondo una corretta gerarchia. I beni più importanti, come la salute o la vita, sono beni gratuiti. Vivendoli secondo questa prospettiva si fa esperienza religiosa, si coglie il senso del vivere: vivere con senso di gratitudine, senza crearsi inutili problemi (ad ogni giorno basta la sua pena). enigmi sapienziali L’enigma, una sentenza paradossale o oscura, è un invito a riflettere. La esperienza religiosa non si identifica con un semplice stato emotivo, ma neppure col ragionamento. La tradizione sapienziale privilegia la capacità di riflettere, fa appello alla ragione, ma immergendola in un clima affettivo. La sapienza non è la fredda filosofia o teologia, non è puro stato emotivo, ma è una riflessione partecipe della vita. Rispondendo alle critiche rivolte ai suoi discepoli perché non digiunano, Gesù afferma che in tempo di nozze si fa festa, che il vestito nuovo non ha bisogno di toppe, che il vino giovane ha bisogno di otri nuovi. È la chiara affermazione della novità di Gesù: gioia e festa non conciliabili con vecchi modi di pensare e di agire. Come i bambini che giocano alla festa di nozze o al funerale così è capricciosa la gente che critica Giovanni perché troppo severo e Gesù perché fa festa. Gesù, a chi lo critica perché non si è sposato, dice che ci sono eunuchi per il regno dei cieli. Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è concesso: la sapienza nasce dalla riflessione sulla vita, ma è anche dono di Dio, è lasciarsi illuminare da Dio che parla attraverso la vita. similitudini sapienziali L’esperienza religiosa deve essere vista per poter essere riconosciuta, come la lucerna deve essere messa in alto. Occorre stare attenti al vecchio rappresentato da Erode e dai farisei (il lievito che corrompe, Mc 8,15). L’immagine del cammello e della cruna sono usate per parlare della difficoltà di un ricco ad entrare nel regno dei cieli. detti e similitudini del quarto vangelo Anche nel quarto vangelo, disseminate qua e là, si trovano espressioni che mostrano il gusto di Gesù per la sentenza che fa riflettere sul senso del vivere, come quelle sul tempio ricostruito in tre giorni, sullo spirito che è come il vento (il modo libero dell’agire di Dio), sui tempi nuovi in cui addirittura chi semina fa tutt’uno con chi miete, sul chicco che deve morire per portare molto frutto, sul legame affettivo tra pastore e gregge, immagine di quello tra Gesù e i discepoli, sulla partenza e sulla morte premessa per una nuova e più profonda relazione (Gv 16,21-22). conclusione Gesù riflette sui fatti della vita per cogliere il senso della propria vita e missione, per fare intravedere l’agire di Dio: è un riflettere come un andare dentro le cose per coglierne il senso davanti a Dio. Il vangelo, la buona notizia del nuovo rapporto tra Dio e gli uomini, è amore intelligente, è sapienza.

SANT’ ANTONIO DI PADOVA SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA

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SANT’ ANTONIO DI PADOVA SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA

13 GIUGNO

Lisbona, Portogallo, c. 1195 – Padova, 13 giugno 1231

Fernando di Buglione nasce a Lisbona. A 15 anni è novizio nel monastero di San Vincenzo, tra i Canonici Regolari di Sant’Agostino. Nel 1219, a 24 anni, viene ordinato prete. Nel 1220 giungono a Coimbra i corpi di cinque frati francescani decapitati in Marocco, dove si erano recati a predicare per ordine di Francesco d’Assisi. Ottenuto il permesso dal provinciale francescano di Spagna e dal priore agostiniano, Fernando entra nel romitorio dei Minori mutando il nome in Antonio. Invitato al Capitolo generale di Assisi, arriva con altri francescani a Santa Maria degli Angeli dove ha modo di ascoltare Francesco, ma non di conoscerlo personalmente. Per circa un anno e mezzo vive nell’eremo di Montepaolo. Su mandato dello stesso Francesco, inizierà poi a predicare in Romagna e poi nell’Italia settentrionale e in Francia. Nel 1227 diventa provinciale dell’Italia settentrionale proseguendo nell’opera di predicazione. Il 13 giugno 1231 si trova a Camposampiero e, sentondosi male, chiede di rientrare a Padova, dove vuole morire: spirerà nel convento dell’Arcella. (Avvenire)

Patronato: Affamati, oggetti smarriti, Poveri Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco Emblema: Giglio, Pesce

Martirologio Romano: Memoria di sant’Antonio, sacerdote e dottore della Chiesa, che, nato in Portogallo, già canonico regolare, entrò nell’Ordine dei Minori da poco fondato, per attendere alla diffusione della fede tra le popolazioni dell’Africa, ma esercitò con molto frutto il ministero della predicazione in Italia e in Francia, attirando molti alla vera dottrina; scrisse sermoni imbevuti di dottrina e di finezza di stile e su mandato di san Francesco insegnò la teologia ai suoi confratelli, finché a Padova fece ritorno al Signore.

Fernando di Buglione nasce a Lisbona da nobile famiglia portoghese discendente dal crociato Goffredo di Buglione. A quindici anni è novizio nel monastero di San Vincenzo a Lisbona, poi si trasferisce nel monastero di Santa Croce di Coimbra, il maggior centro culturale del Portogallo appartenente all’Ordine dei Canonici regolari di Sant’Agostino, dove studia scienze e teologia con ottimi maestri, preparandosi all’ordinazione sacerdotale che riceverà nel 1219, quando ha ventiquattro anni. Quando sembrava dover percorrere la carriera del teologo e del filosofo, decide di lasciare l’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino. Fernando, infatti, non sopporta i maneggi politici tra i canonici regolari agostiniani e re Alfonso II, in cuor suo anela ad una vita religiosamente più severa.Il suo desiderio si realizza allorché, nel 1220, giungono a Coimbra i corpi di cinque frati francescani decapitati in Marocco, dove si erano recati a predicare per ordine di Francesco d’Assisi. Quando i frati del convento di monte Olivares arrivano per accogliere le spoglie dei martiri, Fernando confida loro la sua aspirazione di vivere nello spirito del Vangelo. Ottenuto il permesso dal provinciale francescano di Spagna e dal priore agostiniano, Fernando entra nel romitorio dei Minori e fa subito professione religiosa, mutando il nome in Antonio in onore dell’abate, eremita egiziano. Anelando al martirio, subito chiede ed ottiene di partire missionario in Marocco. È verso la fine del 1220 che s’imbarca su un veliero diretto in Africa, ma durante il viaggio è colpito da febbre malarica e costretto a letto. La malattia si protrae e in primavera i compagni lo convincono a rientrare in patria per curarsi. Secondo altre versioni, Antonio non si fermò mai in Marocco: ammalatosi appena partito da Lisbona, la nave fu spinta da una tempesta direttamente a Messina, in Sicilia. Curato dai francescani della città, in due mesi guarisce. A Pentecoste è invitato al Capitolo generale di Assisi, arriva con altri francescani a Santa Maria degli Angeli dove ha modo di ascoltare Francesco, ma non di conoscerlo personalmente. Il ministro provinciale dell’ordine per l’Italia settentrionale gli propone di trasferirsi a Montepaolo, presso Forlì, dove serve un sacerdote che dica la messa per i sei frati residenti nell’eremo composto da una chiesolina, qualche cella e un orto. Per circa un anno e mezzo vive in contemplazione e penitenza, svolgendo per desiderio personale le mansioni più umili, finché deve scendere con i confratelli in città, per assistere nella chiesa di San Mercuriale all’ordinazione di nuovi sacerdoti dell’ordine e dove predica alla presenza di una vasta platea composta anche dai notabili. Ad Antonio è assegnato il ruolo di predicatore e insegnante dallo stesso Francesco, che gli scrive una lettera raccomandandogli, però, di non perdere lo spirito della santa orazione e della devozione. Comincia a predicare nella Romagna, prosegue nell’Italia settentrionale, usa la sua parola per combattere l’eresia (è chiamato anche il martello degli eretici), catara in Italia e albigese in Francia, dove arriverà nel 1225. Tra il 1223 e quest’ultima data pone le basi della scuola teologica francescana, insegnando nel convento bolognese di Santa Maria della Pugliola. Quando è in Francia, tra il 1225 e il 1227, assume un incarico di governo come custode di Limoges. Mentre si trova in visita ad Arles, si racconta gli sia apparso Francesco che aveva appena ricevuto le stigmate. Come custode partecipa nel 1227 al Capitolo generale di Assisi dove il nuovo ministro dell’Ordine, Francesco nel frattempo è morto, è Giovanni Parenti, quel provinciale di Spagna che lo accolse anni prima fra i Minori e che lo nomina provinciale dell’Italia settentrionale. Antonio apre nuove case, visita i conventi per conoscere personalmente tutti i frati, controlla le Clarisse e il Terz’ordine, va a Firenze, finché fissa la residenza a Padova e in due mesi scrive i Sermoni domenicali. A Padova ottiene la riforma del Codice statutario repubblicano grazie alla quale un debitore insolvente ma senza colpa, dopo aver ceduto tutti i beni non può essere anche incarcerato. Non solo, tiene testa ad Ezzelino da Romano, che era soprannominato il Feroce e che in un solo giorno fece massacrare undicimila padovani che gli erano ostili, perché liberi i capi guelfi incarcerati. Intanto scrive i Sermoni per le feste dei Santi, i suoi temi preferiti sono i precetti della fede, della morale e della virtù, l’amore di Dio e la pietà verso i poveri, la preghiera e l’umiltà, la mortificazione e si scaglia contro l’orgoglio e la lussuria, l’avarizia e l’usura di cui è acerrimo nemico. E’ mariologo, convinto assertore dell’assunzione della Vergine, su richiesta di papa Gregorio IX nel 1228 tiene le prediche della settimana di Quaresima e da questo papa è definito « arca del Testamento ». Si racconta che le prediche furono tenute davanti ad una folla cosmopolita e che ognuno lo sentì parlare nella propria lingua. Per tre anni viaggia senza risparmio, è stanco, soffre d’asma ed è gonfio per l’idropisia, torna a Padova e memorabili sono le sue prediche per la quaresima del 1231. Per riposarsi si ritira a Camposampiero, vicino Padova, dove il conte Tiso, che aveva regalato un eremo ai frati, gli fa allestire una stanzetta tra i rami di un grande albero di noce. Da qui Antonio predica, ma scende anche a confessare e la sera torna alla sua cella arborea. Una notte che si era recato a controllare come stesse Antonio, il conte Tiso è attirato da una grande luce che esce dal suo rifugio e assiste alla visita che Gesù Bambino fa al Santo. A mezzogiorno del 13 giugno, era un venerdì, Antonio si sente mancare e prega i confratelli di portarlo a Padova, dove vuole morire. Caricato su un carro trainato da buoi, alla periferia della città le sue condizioni si aggravano al punto che si decide di ricoverarlo nel vicino convento dell’Arcella dove muore in serata. Si racconta che mentre stava per spirare ebbe la visione del Signore e che al momento della sua morte, nella città di Padova frotte di bambini presero a correre e a gridare che il Santo era morto. Nei giorni seguenti la sua morte, si scatenano « guerre intestine » tra il convento dove era morto che voleva conservarne le spoglie e quello di Santa Maria Mater Domini, il suo convento, dove avrebbe voluto morire. Durante la disputa si verificano persino disordini popolari, infine il padre provinciale decide che la salma sia portata a MaterDomini. Non appena il corpo giunge a destinazione iniziano i miracoli, alcuni documentati da testimoni. Anche in vita Antonio aveva operato miracoli quali esorcismi, profezie, guarigioni, compreso il riattaccare una gamba, o un piede, recisa, fece ritrovare il cuore di un avaro in uno scrigno, ad una donna riattaccò i capelli che il marito geloso le aveva strappato, rese innocui cibi avvelenati, predicò ai pesci, costrinse una mula ad inginocchiarsi davanti all’Ostia, fu visto in più luoghi contemporaneamente, da qualcuno anche con Gesù Bambino in braccio. Poiché un marito accusava la moglie di adulterio, fece parlare il neonato « frutto del peccato » secondo l’uomo per testimoniare l’innocenza della donna. I suoi miracoli in vita e dopo la morte hanno ispirato molti artisti fra cui Tiziano e Donatello. Antonio fu canonizzato l’anno seguente la sua morte dal papa Gregorio IX. La grande Basilica a lui dedicata sorge vicino al convento di Santa Maria Mater Domini. Trentadue anni dopo la sua morte, durante la traslazione delle sue spoglie, San Bonaventura da Bagnoregio trovò la lingua di Antonio incorrotta, ed è conservata nella cappella del Tesoro presso la basilica della città patavina di cui è patrono. Nel 1946 Pio XII lo ha proclamato Dottore della Chiesa.

Autore: Maurizio Valeriani

Publié dans:Sant'Antonio, Santi |on 13 juin, 2016 |Pas de commentaires »

La peccatrice perdonata

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Publié dans:immagini sacre |on 9 juin, 2016 |Pas de commentaires »

IL PROFUMO DELLA PECCATRICE ( LC 7, 36-50) – PAPA FRANCESCO

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IL PROFUMO DELLA PECCATRICE ( LC 7, 36-50) – PAPA FRANCESCO

Il Signore salva «solamente chi sa aprire il cuore e riconoscersi peccatore». È l’insegnamento che Papa Francesco ha tratto dal brano liturgico del Vangelo di Luca (7, 36-50) durante la messa celebrata giovedì mattina, 18 settembre, a Santa Marta. Si tratta del racconto della peccatrice che, durante un pranzo in casa di un fariseo, senza nemmeno essere invitata si avvicina a Cristo con «un vaso di profumo» e «stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo», comincia «a bagnarli di lacrime», poi li asciuga «con i suoi capelli», li bacia e li cosparge di profumo. Il Pontefice ha spiegato che proprio «riconoscere i peccati, la nostra miseria, riconoscere quello che siamo e che siamo capaci di fare o abbiamo fatto è la porta che si apre alla carezza di Gesù, al perdono di Gesù, alla parola di Gesù: Vai in pace, la tua fede ti salva, perché sei stato coraggioso, sei stata coraggiosa ad aprire il tuo cuore a colui che soltanto può salvarti». In proposito il Papa ha ripetuto un’espressione a lui particolarmente cara: «il posto privilegiato dell’incontro con Cristo sono i propri peccati». A un orecchio poco attento questa «sembrerebbe quasi un’eresia — ha commentato — ma lo diceva anche San Paolo» quando nella seconda Lettera ai Corinti (12, 9) affermava di vantarsi «di due cose soltanto: dei propri peccati e di Cristo Risorto che lo ha salvato». Colui «che aveva invitato Gesù a pranzo — ha fatto notare — era una persona di un certo livello, di cultura, forse un universitario. Voleva sentire la dottrina di Gesù, perché come buona persona di cultura era inquieto», cercava di «conoscere di più». E «non sembra che fosse una persona cattiva», come non lo sembrano neanche «gli altri che erano a tavola». Finché non irrompe nel banchetto una figura femminile: in fondo «una maleducata» che «entra proprio dove non era invitata. Una che non aveva cultura o se l’aveva, qui non l’ha mostrato». Difatti «entra e fa quello che vuol fare: senza chiedere scusa, senza chiedere permesso». E in tutto questo, ha osservato il Papa, «Gesù lascia fare». È allora che la realtà si svela dietro la facciata delle buone maniere, con il fariseo che comincia a pensare tra sé: «Se costui fosse un profeta saprebbe chi è e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice». Quest’uomo «non era cattivo», eppure «non riesce a capire quel gesto della donna. Non riesce a capire i gesti elementari della gente». Forse, ha sottolineato Francesco, «quest’uomo aveva dimenticato come si carezza un bambino, come si consola una nonna. Nelle sue teorie, nei suoi pensieri, nella sua vita di governo — perché forse era un consigliere dei farisei — aveva dimenticato i primi gesti della vita che noi tutti, appena nati, abbiamo incominciato a ricevere dai nostri genitori». Insomma, «era lontano dalla realtà». Solo così, ha proseguito il Papa, si spiega «l’accusa» mossa a Gesù: «Questo è un santone! Ci parla di cose belle, fa un po’ di magia; è un guaritore; ma alla fine non conosce la gente, perché se sapesse di che genere è questa avrebbe detto qualcosa». Ecco allora «due atteggiamenti» molto differenti tra loro: da una parte quello dell’«uomo che vede e qualifica», giudica; e dall’altro quello della «donna che piange e fa cose che sembrano pazzie», perché utilizza un profumo che «è caro, è costoso». In particolare il Pontefice si è soffermato sul fatto che nel Vangelo si utilizzi la parola «unzione» per significare che il «profumo della donna unge: ha la capacità di diventare un’unzione», al contrario delle parole del fariseo che «non arrivano al cuore, non arrivano al corpo, non arrivano alla realtà». In mezzo a queste due figure così antitetiche c’è Gesù, con «la sua pazienza, il suo amore», la sua «voglia di salvare tutti», che «lo porta a spiegare al fariseo cosa significa quello che fa questa donna» e a rimproverarlo, sia pure «con umiltà e tenerezza», per aver mancato di «cortesia» nei suoi confronti. «Sono entrato in casa tua — gli dice — e non mi hai dato l’acqua per i piedi; non mi hai dato un bacio; non hai unto con olio il mio capo. Invece lei fa tutto questo: con le sue lacrime, con i suoi capelli, col suo profumo». Il Vangelo non dice «com’è finita la storia per quest’uomo», ma dice chiaramente «come è finita per la donna: « I tuoi peccati sono perdonati! »». Una frase, questa, che scandalizza i commensali, i quali cominciano a confabulare tra loro chiedendosi: «Ma chi è costui che perdona i peccati?». Mentre Gesù prosegue dritto per la sua strada e «dice quella frase tanto ripetuta nel Vangelo: « Vai in pace, la tua fede ti ha salvata! »». Insomma, «a lei si dice che i peccati sono perdonati, agli altri Gesù fa vedere soltanto i gesti e spiega i gesti, anche i gesti non fatti, ossia quello che non hanno fatto con lui». È una differenza che Francesco ha voluto rimarcare: nel comportamento della donna «c’è molto, tanto amore», mentre riguardo a quello dei commensali Gesù «non dice che manca» l’amore, «ma lo fa capire». Di conseguenza «la parola salvezza — « La tua fede ti ha salvata! » — la dice soltanto alla donna, che è una peccatrice. E la dice perché lei è riuscita a piangere i suoi peccati, a confessare i suoi peccati, a dire: « Io sono una peccatrice »». Al contrario, «non la dice a quella gente», che pure «non era cattiva», anche perché queste persone «si credevano non peccatori». Per loro «i peccatori erano gli altri: i pubblicani, le prostitute». Ecco allora l’insegnamento del Vangelo: «La salvezza entra nel cuore soltanto quando noi apriamo il cuore nella verità dei nostri peccati». Certo, ha argomentato il vescovo di Roma, «nessuno di noi andrà a fare il gesto che ha fatto questa donna», perché si tratta di «un gesto culturale dell’epoca; ma tutti noi abbiamo la possibilità di piangere, tutti noi abbiamo la possibilità di aprirci e dire: Signore, salvami! Tutti noi abbiamo la possibilità di incontrarci col Signore». Anche perché, ha affermato, «a quell’altra gente, in questo passo del Vangelo, Gesù non dice niente. Ma in un altro passo dirà quella parola terribile: « Ipocriti, perché vi siete staccati dalla realtà, della verità! ». E ancora, riferendosi all’esempio di questa peccatrice, ammonirà: «Pensate bene, saranno le prostitute e i pubblicani che vi precederanno nel regno dei cieli!». Perché loro — ha concluso — «si sentono peccatori» e «aprono il loro cuore nella confessione dei peccati, all’incontro con Gesù, che ha dato il sangue per tutti noi».

 

12 GIUGNO 2016 | 11A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | OMELIA

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12 GIUGNO 2016 | 11A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | OMELIA

Per cominciare Gesù si trova tra due fronti, da una parte i rigorosi farisei, che lo contestano; dall’altra una peccatrice pubblica, che si presenta davanti a lui a sorpresa. Ma Gesù perdona la peccatrice « poiché ha molto amato ». Molti secoli prima, Iahvè perdona Davide, nonostante il suo terribile peccato. Agli occhi di Dio è sempre possibile rifarsi una vita, pentirsi, ricominciare a vivere e ad amare.

La parola di Dio 2 Samuele 12,7-10.13. Davide si è macchiato di adulterio, e nella necessità di nasconderlo, si rende traditore e assassino. Eppure, nonostante l’abisso di peccato in cui è caduto, spinto dalle dure parole del profeta Natan che lo accusa a nome di Dio, si pente e ottiene il perdono. Galati 2,16.19-21. Non è la legge che giustifica l’uomo, ma la fede in Gesù Cristo. È questo uno dei messaggi centrali della predicazione di Paolo: se fosse bastata l’osservanza della legge a salvare l’uomo, non c’era bisogno della croce di Gesù. Luca 7,36 8,3. Gesù fa riflettere un fariseo che lo invita a pranzo, e che lo osserva con una certa diffidenza, soprattutto quando vede che Gesù accoglie e perdona una peccatrice.

Riflettere Davide si prende Betsabea con l’autorità di un sovrano a cui tutto è lecito. E poi pensa di dover difendere la propria onorabilità pubblica commettendo un atroce delitto contro un uomo fedele e indifeso. Davide ha tutto, ma non gli basta. Si prende quella donna e si sbarazza con violenza e cinismo del marito. Com’è diverso ora da quell’umile e coraggioso pastorello che Samuele ha consacrato per servire il suo popolo! Ma il « Miserere », che è uno dei salmi penitenziali più significativi, tuttora in uso nella preghiera della chiesa, ci parla della sincerità del suo pentimento e della fragilità dell’uomo, anche di chi si è reso glorioso per le sue imprese. Salomone, il figlio del peccato, succederà a Davide e renderà stabile la sua discendenza. Paolo nel brano della sua lettera ai Galati sembra già anticipare il tema di questa domenica e rispondere al fariseo che ha ospitato Gesù. Non è il formalismo di una legge accolta e osservata con scrupolo, ma senza amore, che salva l’uomo. Solo la capacità di accogliere l’altro e le situazioni con amore, apertura e disponibilità salva e dà un senso pieno alla vita. L’episodio è uno dei più belli, se si possono fare delle classificazioni sul vangelo, ed è dedicato proprio per quelle persone maledettamente « per bene » come il fariseo, abituate a condotte di vita irreprensibili, ma che si rivelano chiuse nei confronti di persone e situazioni problematiche. Chi è questa donna? Il vangelo dice che « era una peccatrice di quella città ». Forse il suo animo era stato colpito nel profondo dalla predicazione di Gesù, dalle sue parole e dal suo sguardo buono e accogliente. Ha capito il cuore di Gesù e si prende la libertà di entrare non invitata nella casa di un fariseo osservante per incontrarlo e manifestargli il suo amore e il suo pentimento. Il fariseo ha avuto certamente una buona dose di coraggio ad accogliere Gesù. Non ha temuto di staccarsi dal gruppo di chi andava ad ascoltare Gesù solo per poterlo accusare e trovarlo in errore. Ma cerca di non sbilanciarsi troppo, e sorride ironico, quando vede Gesù che sembra non capire chi è la donna che lo avvicina. Una donna che verso Gesù si direbbe che compia i gesti tipici di una prostituta: bacia i suoi piedi, li cosparge di profumo, li asciuga con i suoi capelli. Ma versa anche tante lacrime, lacrime di pentimento. Un altro avrebbe provato sicuramente imbarazzo di fronte a questi gesti, forse addirittura ribrezzo; ma non Gesù, che distingue il peccato dal peccatore. « Chi è senza peccato, scagli la prima pietra », aveva detto in un’altra circostanza, ricordando a quei farisei la situazione di peccato che ci accomuna tutti. Quella donna versa lacrime di pentimento e di dolore per la sua vita sbagliata. « Ho conosciuto persone che avevano solcato il loro viso di lacrime, avevano scavato solchi nelle loro guance a forza di piangere », dice sant’Ambrogio, sottolineando che il dono delle lacrime è importante per trasformare in profondità un peccatore, per indicare la sincerità del loro pentimento. Certo questa donna non poteva rendere la scena più imbarazzante e più trasparente il solco che divideva i rigidi farisei, difensori strenui della legge, da lei, una peccatrice pubblica, e il suo mondo. Gesù aiuta però il fariseo a riflettere sul senso del perdono. A chi molto è stato perdonato, molto ama, dice. L’amore cancella una moltitudine di peccati, trasforma in profondità una persona dal suo passato di errori, e le restituisce piena la dignità. Questa donna di fede riprende la sua esistenza come se uscisse ancora una volta dalle mani del Creatore. Gesù ripete per lei le parole: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza ». La donna ha ferito profondamente la sua umanità, è stata vinta dalla sua debolezza, ma ora vive con gioia questo nuovo inizio: « La tua fede ti ha salvata », dice Gesù: « Ti sono rimessi i tuoi peccati ».

Attualizzare Il fariseo sembra offrire a Gesù un’ospitalità sincera, ma poi non vuole sbilanciarsi troppo, evita i gesti tradizionali dell’ospitalità e lo osserva come per giudicarlo. D’altra parte si sente giusto, non cerca il perdono. È un arrivato, fa parte di una categoria di fedelissimi, di chi fa dell’osservanza della legge la propria bandiera. L’improvvisa e non prevista comparsa della donna scombussola le cose, e rivela l’animo dei due. Gesù fa l’elogio di quella donna e della sua trasformazione (quante volte Luca parla bene delle donne nel suo vangelo e negli Atti!). Molti di noi, presenti alla messa della domenica e che forse collaboriamo in parrocchia, siamo sicuramente persone per bene, oneste, magari irreprensibili. Eppure oggi siamo chiamati (o costretti) a un severo esame di coscienza, per chiederci quanto fariseismo ci può essere nella nostra vita. Perché è quasi inevitabile classificare le persone per categorie, magari considerare persone di secondo livello quelli che non vengono a messa, tenere per bene le distanze con chi si comporta in modo discutibile e fa scelte che non sono le nostre. Mentre sarebbe nostro compito comportarci come Gesù (ci diciamo cristiani per questo!) aprirci alla misericordia, all’accoglienza, al perdono. Ma qui si può aprire una finestra sul sacramento della riconciliazione. Perché anche noi abbiamo peccato, anche noi abbiamo bisogno di essere accolti per rifarci l’anima. Per questo quella donna perdonata da Gesù in qualche modo ci rappresenta tutti. Abbiamo tutti bisogno di comunicare a qualcuno il nostro peccato e il nostro pentimento, e di incontrare chi sia in grado di liberarci. Lungo i secoli la chiesa ha usato modi diversi di donare il perdono a nome di Gesù. Da molti secoli amministra il sacramento attraverso la mediazione del sacerdote. Ma quando sono ben disposto, il sacerdote praticamente riconosce un perdono che è già scattato tra me e Dio, e l’assoluzione sancisce un perdono già avvenuto. Prende atto del mio pentimento. Vede che l’amore mi ha già profondamente rinnovato e reso nuovo.

Anche il testa rapata ha un cuore Metropolitana. Non è l’ora di punta, ma quasi. Le facce sono chiuse, distratte, indifferenti. Sale un ragazzo che inizia una tiritera sul suo paese in guerra, i fratelli, la mancanza di lavoro, la fame. Poi allunga la mano e comincia girare chiedendo l’elemosina. « Di nuovo », « Non è possibile », « È il terzo oggi », « Finché trovano qualcuno che gli dà qualcosa non la smetteranno mai! ». L’aria è piena di questo brusio iroso e ostile. Il ragazzo è ormai a metà vettura e non ha raccolto praticamente nulla. Si ferma davanti a una testa rapata, un duro, occhi di ghiaccio, giubbotto, calzoni e stivaletti neri. Penso che sia meglio che si tolga di lì, altrimenti si becca una spinta o peggio. Ma il ragazzo ha fegato, resta fermo e con la mano aperta aspetta, guardando l’altro negli occhi. Nella vettura non vola una mosca. Lentamente, senza mai staccare lo sguardo dal ragazzo, il testa rapata cerca in tasca una moneta e gliela mette in mano.

Don Umberto DE VANNA sdb

PAPA FRANCESCO – 22. IL PRIMO SEGNO DELLA MISERICORDIA: CANA (GV 2,1-11)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2016/documents/papa-francesco_20160608_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – 22. IL PRIMO SEGNO DELLA MISERICORDIA: CANA (GV 2,1-11)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 8 giugno 2016

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Prima di incominciare la catechesi, vorrei salutare un gruppo di coppie, che celebrano il cinquantesimo di matrimonio. Quello si che è “il vino buono” della famiglia! La vostra è una testimonianza che gli sposi novelli – che saluterò dopo – e i giovani devono imparare. È una bella tetimonianza. Grazie per la vostra testimonianza. Dopo aver commentato alcune parabole della misericordia, oggi ci soffermiamo sul primo dei miracoli di Gesù, che l’evangelista Giovanni chiama “segni”, perché Gesù non li fece per suscitare meraviglia, ma per rivelare l’amore del Padre. Il primo di questi segni prodigiosi è raccontato proprio da Giovanni (2,1-11) e si compie a Cana di Galilea. Si tratta di una sorta di “portale d’ingresso”, in cui sono scolpite parole ed espressioni che illuminano l’intero mistero di Cristo e aprono il cuore dei discepoli alla fede. Vediamone alcune. Nell’introduzione troviamo l’espressione «Gesù con i suoi discepoli» (v. 2). Coloro che Gesù ha chiamato a seguirlo li ha legati a sé in una comunità e ora, come un’unica famiglia, sono invitati tutti alle nozze. Dando avvio al suo ministero pubblico nelle nozze di Cana, Gesù si manifesta come lo sposo del popolo di Dio, annunciato dai profeti, e ci rivela la profondità della relazione che ci unisce a Lui: è una nuova Alleanza di amore. Cosa c’è a fondamento della nostra fede? Un atto di misericordia con cui Gesù ci ha legati a sé. E la vita cristiana è la risposta a questo amore, è come la storia di due innamorati. Dio e l’uomo si incontrano, si cercano, si trovano, si celebrano e si amano: proprio come l’amato e l’amata nel Cantico dei Cantici. Tutto il resto viene come conseguenza di questa relazione. La Chiesa è la famiglia di Gesù in cui si riversa il suo amore; è questo amore che la Chiesa custodisce e vuole donare a tutti. Nel contesto dell’Alleanza si comprende anche l’osservazione della Madonna: «Non hanno vino» (v. 3). Come è possibile celebrare le nozze e fare festa se manca quello che i profeti indicavano come un elemento tipico del banchetto messianico (cfr Am 9,13-14; Gl 2,24; Is 25,6)? L’acqua è necessaria per vivere, ma il vino esprime l’abbondanza del banchetto e la gioia della festa. È una festa di nozze nella quale manca il vino; i novelli sposi provano vergogna di questo. Ma immaginate voi finire una festa di nozze bevendo thé; sarebbe una vergogna. Il vino è necessario per la festa. Trasformando in vino l’acqua delle anfore utilizzate «per la purificazione rituale dei Giudei» (v. 6), Gesù compie un segno eloquente: trasforma la Legge di Mosè in Vangelo, portatore di gioia. Come dice altrove lo stesso Giovanni: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (1,17). Le parole che Maria rivolge ai servitori vengono a coronare il quadro sponsale di Cana: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (v. 5). È curioso: sono le ultime sue parole riportate dai Vangeli: sono la sua eredità che consegna a tutti noi. Anche oggi la Madonna dice a noi tutti: “Qualsiasi cosa vi dica – Gesù vi dica -, fatela”. È l’eredità che ci ha lasciato: è bello! Si tratta di un’espressione che richiama la formula di fede utilizzata dal popolo di Israele al Sinai in risposta alle promesse dell’alleanza: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8). E in effetti a Cana i servitori ubbidiscono. «Gesù disse loro: Riempite d’acqua le anfore. E le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto. Ed essi gliene portarono» (vv. 7-8). In queste nozze, davvero viene stipulata una Nuova Alleanza e ai servitori del Signore, cioè a tutta la Chiesa, è affidata la nuova missione: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela!». Servire il Signore significa ascoltare e mettere in pratica la sua Parola. E’ la raccomandazione semplice ma essenziale della Madre di Gesù ed è il programma di vita del cristiano. Per ognuno di noi, attingere dall’anfora equivale ad affidarsi alla Parola di Dio  per sperimentare la sua efficacia nella vita. Allora, insieme al capo del banchetto che ha assaggiato l’acqua diventata vino, anche noi possiamo esclamare: “Tu hai tenuto da parte il vino buono finora” (v. 10). Sì, il Signore continua a riservare quel vino buono per la nostra salvezza, così come continua a sgorgare dal costato trafitto del Signore. La conclusione del racconto suona come una sentenza: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (v. 11). Le nozze di Cana sono molto più che il semplice racconto del primo miracolo di Gesù. Come uno scrigno, Egli custodisce il segreto della sua persona e lo scopo della sua venuta: l’atteso Sposo dà avvio alle nozze che si compiono nel Mistero pasquale. In queste nozze Gesù lega a sé i suoi discepoli con una Alleanza nuova e definitiva. A Cana i discepoli di Gesù diventano la sua famiglia e a Cana nasce la fede della Chiesa. A quelle nozze tutti noi siamo invitati, perché il vino nuovo non viene più a mancare!

Moses strikes the rock with his staff, painting by Pieter de Grebber, c.1630

Moses strikes the rock with his staff, painting by Pieter de Grebber, c.1630 dans immagini sacre 800px-MosesStrikingTheRock_GREBBER

https://en.wikipedia.org/wiki/Staff_of_Moses

Publié dans:immagini sacre |on 7 juin, 2016 |Pas de commentaires »

L’OTTIMISMO DELLA FEDE IN GESÙ

http://www.ilcristiano.it/articolo.asp?id=330

L’OTTIMISMO DELLA FEDE IN GESÙ

La precarietà della vita presente, le poche speranze di miglioramento per il futuro, l’impotenza davanti ai tanti problemi della vita quotidiana, il progressivo smarrimento di valori ed ideali… tante sono le cause del profondo senso di pessimismo e di delusione che caratterizza la vita di milioni di persone oggi. È possibile, in questo difficile contesto, essere ottimisti? E, se sì, come? Viviamo un’epoca connotata da pessimismo. Anche chi non ha vissuto i favolosi anni sessanta, perché nato successivamente, oppure perché – come per me – sono solo un vago ricordo d’infanzia, non può non riconoscere il differente stato d’animo di chi ha vissuto quegli anni di boom economico e di rivoluzione culturale, che portava soprattutto le generazioni più giovani a proiettarsi con ottimismo entusiasta verso il futuro. In fondo basta dare una rapida occhiata a vecchi programmi televisivi che ogni tanto la RAI rimanda in onda, per osservare uomini e donne che, pur suscitando in noi un bonario sorriso di sufficienza per quell’apparente ingenuità, ci lasciano al tempo stesso un senso d’amaro in bocca, un sottile sentimento d’invidia, per quell’aria fiduciosa nel domani che comunque traspare da quegli occhi e da quei volti in bianco e nero. Se c’è una cosa che al contrario caratterizza il momento attuale che stiamo attraversando, soprattutto nella nostra Italia, è il pessimismo.    Le radici del pessimismo: precarietà, delusione e senso d’impotenza Varie sono le cause che si possono additare per comprenderne le radici, e tra queste certamente la crisi economica è probabilmente la principale, con tutte le inevitabili ricadute sociali legate alla precarietà della vita, l’impossibilità di programmare il proprio futuro e dunque di guardare al domani con l’entusiasmo di chi s’immagina di poter costruire qualcosa, piuttosto che invece vivere nell’ansia di preservare quel poco che gli resta.  Ma a questa innegabile fonte di pessimismo io aggiungerei anche il senso di delusione. Delusione conseguente alla caduta delle maggiori ideologie del secolo appena trascorso. Al di là dei giudizi di merito che possiamo darne, è innegabile che l’abbracciare un’ideologia proietti la persona verso un futuro in cui possa veder realizzato l’ideale perseguito. Il fallimento storico di quelle ideologie ha dunque portato con sé anche l’abbandono di quella propensione verso un domani migliore da costruire, lasciando solo l’aspirazione al godimento del presente. Occorre poi sottolineare che, soprattutto nel nostro Paese, non sono cadute solo delle astratte ideologie, ma un’intera classe dirigente, lasciando una diffusa delusione e sfiducia verso qualsiasi istituzione o forza politica a cui poter affidare speranze di cambiamento: tutti, indistintamente, sono accusati di perseguire solo ed esclusivamente i propri interessi, in quanto accomunati dall’appartenenza alla casta dei privilegiati e dei corrotti. Precarietà della vita e delusione verso uomini o ideali che possano migliorare la nostra condizione sono già di per sé due fattori dirompenti in grado di sgretolare qualsiasi slancio di ottimismo, ma a sancire il definitivo stato di pessimismo della nostra epoca troviamo il senso d’impotenza, la percezione cioè di non poter fare noi stessi nulla per cambiare direzione. Sarà forse la disponibilità d’informazioni in tempo reale da tutto il mondo, che ci bombarda continuamente con notizie di guerre, catastrofi e tragedie, e che fa sentire noi così insignificanti, e le nostre azioni individuali così ininfluenti, o forse invece si tratta semplicemente del prodotto inevitabile della delusione detta prima, fatto sta che la società di oggi sembra aver perso la speranza di poter fare scelte personali in grado di cambiare il corso della Storia. Quelle parole del cantautore Francesco De Gregori, “… la Storia siamo noi, nessuno si senta escluso …”, suonano così ingenue, oggi che l’idea dominante è invece quella delcomplotto della finanza mondiale, dei poteri forti che hanno già deciso tutto, per cui le cose andranno come andranno indipendentemente da ciò che oggi io m’illudo di voler cambiare. A pensarci bene una convinzione, quest’ultima, liberatoria, perché ci deresponsabilizza, aprendo le porte a un cinico pessimismo egoista e auto-assolutorio.     Le basi dell’ottimismo di chi pone fede in colui che ha cura di noi, che è fedele e che regna nella Storia  Questa è la descrizione triste e amara della realtà contemporanea: un’aura di pessimismo che si abbarbica nel nostro animo anche inconsapevolmente, quasi come una pianta parassita rampicante che lentamente soffoca alberi ben più imperiosi di lei, succhiandone l’energia vitale. Parlo in termini generalizzati perché anche noi credenti respiriamo quest’aria satura di pessimismo, per cui è opportuno domandarsi quanto ne siamo condizionati, permettendogli forse di soffocare in noi ogni aspettativa di fede nel Dio onnipotente che, mediante lo Spirito Santo, può agire nella nostra vita individuale e di chiesa, rinnovando slancio ed entusiasmo per la sua opera. Ma chi, piuttosto, può definirsi a pieno titolo un ottimista, se non colui che ha creduto nel Signore Gesù? Ottimismo che però non consiste certo in un vago pensiero positivo, in una fiducia fatalista nel fatto che ogni storia avrà comunque prima o poi un suo lieto fine, dettata da autoconvinzione o magari solo da una propria predisposizione caratteriale. Il credente è ottimista perché non vive nell’angoscia della precarietà del domani. Ha gettato sul suo Dio ogni sua preoccupazione, perché sa di avere un Padre celeste che conosce i suoi bisogni e ha promesso che si prenderà cura di lui (Mt 6:31-32; 1P 5:7). Chi ha creduto in Cristo Gesù è ottimista perché – è vero – l’uomo, le ideologie, prima o poi deludono, ma il suo Signore no. Lui non delude, perché è fedele e non viene meno alle sue promesse. Quando Davide afferma nel Salmo 119 (vv. 89-91) “Per sempre, SIGNORE, la tua parola è stabile nei cieli. La tua fedeltà dura per ogni generazione; tu hai fondato la terra ed essa sussiste. Tutto sussiste anche oggi secondo le tue leggi, perché ogni cosa è al tuo servizio”, ci esorta a guardare alla meraviglia della sua creazione, alle leggi immutabili che la governano, come a un chiaro e quotidiano riscontro della sua fedeltà, applicabile dunque a ogni altra promessa di cui ci ha reso partecipi attraverso quella stessa Parola stabile nei cieli: anche questa mattina il Sole è sorto su nel cielo, dunque non potrò mai essere deluso dal mio Signore.  Infine, chi ha posto la sua fede in Gesù Cristo è ottimista perché conosce molto bene la realtà del mondo in cui vive, e sa quanto sia tristemente vero che sia dominato dai poteri forti. Lo sa perché è proprio la Scrittura per prima ad aver affermato che il mondo giace sotto il potere del maligno (1Gv 5:19; Gv 14:30). Al tempo stesso, però, sa anche che, per ciò che lo riguarda, di autentici poteri forti ne esiste di fatto uno solo, ed è Cristo Gesù risorto, che adesso è seduto alla destra del Padre nel cielo, al di sopra di ogni principato, autorità, potenza, signoria e di ogni altro nome che si nomina non solo in questo mondo, ma anche in quello futuro. (Ef 1:20-21).  Questa consapevolezza gli permette di proiettarsi in uno slancio ottimistico verso il domani, perché il Signore Gesù regna, e sta portando a compimento la sua opera nella Storia in senso più ampio (1Co 15:24-26), così come nella sua piccola storia personale, quella con la “s” minuscola (Fl 1:6). È in lui infatti che abbiamo la certezza che, dimorando nel suo amore, Dio stesso farà sì che qualsiasi cosa ci riservi il futuro, essa sarà usata da lui per il nostro bene (Ro 8:28). In Gesù ciascuno, individualmente, può fare oggi scelte di obbedienza che cambieranno la sua storia personale, e perché no, magari anche la Storia in senso più ampio. Chi crede nel Signore Gesù non può essere altro che un inguaribile ottimista: perché ha fede in lui.   Vivere l’ottimismo della fede in Gesù: una testimonianza viva per il tempo presente in attesa del suo ritorno Perché invece molti credenti sono tristi, delusi, apatici, travolti essi stessi da questo cupo e dilagante pessimismo? Eppure proprio oggi noi credenti, circondati da gente stanca di cercare inutilmente un lavoro dignitoso, esasperata da periodici e vani proclami di uscita dal tunnel della crisi, abbrutita dal livore verso questo o quest’altro politico, resa cinicamente scettica di qualsiasi prospettiva di cambiamento, intimorita dalle continue notizie di guerre e catastrofi naturali, abbiamo una straordinaria opportunità di testimonianza della nostra fede in Cristo Gesù fatta senza grandi proclami, ma semplicemente mostrando gioia, entusiasmo, amore, fiducia, espressioni di riconoscenza e di apprezzamento, nonostante siamo noi stessi immersi nella stessa realtà di incertezza per il futuro.  Che dire poi delle nostre chiese? Per apatia e pessimismo sul futuro si tollerano liti, divisioni, freddezza e aridità spirituale. È poi paradossale il fatto che non di rado tutto questo si accompagni a parole che richiamano, o addirittura trovano una giustificazione, nella personale consapevolezza dell’imminente ritorno del Signore Gesù: “…eh sì, le cose vanno e andranno sempre più di male in peggio. Siamo oramai arrivati alla fine dei tempi!…”. Che brutto messaggio trasmettiamo soprattutto ai nostri giovani, loro – sì – già annichiliti da un futuro che si prospetta avaro di opportunità, e per di più spinti a vedere la chiesa come un treno oramai tristemente incamminato verso la pensione, reduce di glorie che però appartengono solo al passato. Quelle espressioni, in realtà, appaiono più un facile alibi alla nostra pigrizia e incredulità nell’opera di Dio, piuttosto che di beata speranza nella prossima apparizione del Signore Gesù (Ti 2:13).  Dimenticano infatti quelle parole, l’invito che Gesù stesso rivolse ai suoi discepoli in vista di quando si sarebbero resi conto dell’approssimarsi di quell’evento glorioso, di vivere cioè quei momenti con palpitante entusiasmo: “Ma quando queste cose cominceranno ad avvenire, rialzatevi, levate il capo, perché la vostra liberazione si avvicina” (Lu 21:28).  Dimenticano, quelle parole, che quando il Signore Gesù tornerà, ciò che si attende di trovare è dei discepoli impegnati con entusiasmo a servire: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà così occupato!” (Mt 24:46). Il Signore Gesù richiami ciascuno di noi, a cominciare da me, a strappare via dal nostro cuore i lacci del pessimismo e dell’apatia, per manifestare piuttosto l’ottimismo della fede in lui e nella sua opera, in attesa del Suo ritorno.

 

Publié dans:meditazioni |on 7 juin, 2016 |Pas de commentaires »

MARIA, LA DONNA PIÙ SENSUALE E SENSATA DELLA STORIA.

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=131840

MARIA, LA DONNA PIÙ SENSUALE E SENSATA DELLA STORIA.

C’era il profumo e il sospetto di una giornata qualsiasi quel mattino a Nazareth… Il giorno dopo Maria, donna feriale, riprese il lavoro quotidiano. S’intrufolò nella fila delle donne che andavano alla fontana, senza che alcun cenno lasciasse supporre alle compagne che nel suo seno tesseva l’Infinito.

Quella voce era stata simile ad un dolce arpeggio, come di perle gettate su un metallo prezioso: “Ave, Maria, straripante di grazia: il Signore è con te”. C’era profumo di pane e di bucato, di stoffe e di aromi mattutini, di letti da rifare e stoviglie da maneggiare. In quella casa stavano gli arnesi semplici di tutti i giorni: le stoffe sul lettuccio, i rotoli, il lume con la piccola brocca vicino, rami di pesco e rami di pero. C’era il profumo e il sospetto di una giornata qualsiasi quel mattino a Nazareth. Invece toccò a Maria, anonima donna di periferia, sperimentare in anteprima ciò che i discepoli sperimenteranno fra qualche anno: puoi anche sapere dove incontri Cristo ma non saprai mai dove Lui ti condurrà dopo averLo incontrato. L’unica cosa certa è che quella casa, modesta come chi vi abita, fra poco diventerà troppo piccola per contenere il gaudio di una promessa dilagante – “sarai madre dell’Altissimo” -; di una sorpresa che un piccolo cuore di donna, fosse anche quello della (Ma)donna, non può contenere. La sua ferialità intrigò pure l’Eterno che la Sua donna se la scelse proprio da là: dai rioni popolari, pieni di sudore e impregnati di concime. Dai quartieri bassi, dove i tuguri dei poveri, se rimangono ancora in piedi, è perchè si appoggiano a vicenda. L’ha scoperta lì, in mezzo alla gente, e se l’è fatta sua. Non c’erano trucchi spirituali! “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”: nessun Giusto aveva mai goduto di un simile saluto. E’ il più eclatante che sia mai stato indirizzato dal cielo alla terra: è sbalordimento completo per l’umile fidanzata del carpentiere Giuseppe. Tanto che deve intervenire direttamente il Cielo per reggerla: “non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio”. Ma come può una ragazza portare il peso di una tale scommessa senza subirne le vertigini? Tra l’altro i conti non Le tornano: “non conosco uomo. Com’è possibile?”. Ci sono giorni nei quali anche il Cielo prova le vertigini: non ci sta ad essere presa in giro, racconta a quell’Angelo di passaggio la sua fatica d’essere rimasta vergine, l’umile appartenenza al rango dei semplici di cuore. Quest’istante poteva bloccare lo scorrere dell’Eterno nel tempo. Non devono essere stati attimi di serenità per l’Eterno. La prima volta che Maria apre bocca, il Cielo trema: pronuncerà cinque frasi e una canzone (il Magnificat). Tanto basta per aver fatto di Lei la donna più sensuale e sensata della storia. L’Angelo ha consegnato tutto il suo messaggio: nulla più è in suo potere, anche lui deve aspettare. Mi piace pensare che in quell’istante Maria abbia udito salire le suppliche angosciate di un mondo che attendeva quest’ora da millenni. E Lei lì, tutta china nello scrutare questo strano itinerario propostole, a immaginare a fondo tutti gli obblighi annessi e connessi. Per poi intuire che il cumulo di sofferenze che l’aspetteranno sarà proporzionato alla grandezza del titolo e della missione. É la resa di Maria, l’esatto opposto della rassegnazione: chi si rassegna decide di morire, chi si arrende a Lui diventa Cielo. “Eccomi, sono la serva del Signore. Sia fatto di me secondo la tua parola”. Libera Donna in libero Cielo: questa splendida creatura non si è lasciata espropriare della sua libertà neppure dal Creatore. Ma dicendo “eccomi” si è abbandonata a Lui con una libertà così grande da far si che l’Angelo abbia fatto ritorno in cielo recando al Signore un annuncio non meno gioioso di quello che aveva portato sulla terra nel viaggio di andata. Nulla era più scontato di quel sì; nulla fu più materno di quel cenno di capo arrecato da una sconosciuta Donna di Periferia. La vergine è pallida e guarda il Bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo volto è uno stupore ansioso che è comparso una volta soltanto su un viso umano. Perchè il Cristo è suo Figlio, carne della sua carne e sangue delle sue viscere. L’ha portato in grembo per nove mesi, gli offrì il seno, e il suo latte diventerà il sangue di Dio. Qualche volta la tentazione è così forte da farle dimenticare che è Dio. Lo stringe tra le braccia e dice: “bambino mio”. Ma altri momenti rimane interdetta e pensa: “lì c’è Dio”. E viene presa da un religioso orrore per quel Dio muto, per quel bambino che incute timore. Tutte le madri in qualche momento si sono arrestate così di fronte a quel frammento ribelle della loro carne che è già il loro bambino, sentendosi in esilio davanti a quella vita nuova che è stata fatta con la loro vita e che è abitata da pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato strappato più crudelmente di questo da sua madre, perchè è Dio e supera in tutti i modi ciò che essa può immaginare. Ma penso che ci siano anche altri momenti, fuggevoli e veloci, in cui essa avverte nello stesso tempo che il Cristo è suo Figlio, il suo Bambino, è Dio. Lo guarda e pensa: “questo Dio è mio Figlio. Questa carne divina è mia carne. E’ fatto di me, ha i miei occhi, la forma della sua bocca è la forma della mia, mi assomiglia. E’ Dio che mi assomiglia”. Nessuna donna ha potuto avere il suo Dio per sé sola, un Dio bambino che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che ride. E’ uno di questi momenti che dipingerei, se fossi pittore, Maria. (J.P.Sarthre) Il giorno dopo Maria, donna feriale, riprese il lavoro quotidiano. S’intrufolò nella fila delle donne che andavano alla fontana, senza che alcun cenno lasciasse supporre alle compagne che nel suo seno tesseva l’Infinito. Forse solo il sorriso aveva una gravità che non si era mai vista. Fra poco l’attenderà la sua prima processione: direzione Ain-Karin, al civico di Zaccaria ed Elisabetta. Perchè quando tu apri la tua porta a Dio non avrai più nessuna casa. Solo Lui.   (Teologo Borèl) Gennaio 2014 – autore: Don Marco Pozza

Publié dans:Maria Vergine |on 7 juin, 2016 |Pas de commentaires »

CHRIST WITH THE SON OF THE WIDOW OF NAIN

CHRIST WITH THE SON OF THE WIDOW OF NAIN dans immagini sacre egallery5-14

http://www.catholictradition.org/Easter/gallery64.htm

Publié dans:immagini sacre |on 3 juin, 2016 |Pas de commentaires »
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