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CAMMINARE CON CRISTO NELLA STORIA / 2: IN ATTESA DELLO SPIRITO

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CAMMINARE CON CRISTO NELLA STORIA / 2: IN ATTESA DELLO SPIRITO

Iniziamo le nostre meditazioni sugli Atti, tenendo presente che Luca non perde mai di vista Gesù. gli sa che la vita cristiana e quella comunitaria sono essenzialmente una vita di relazione con il Signore-Risorto, che trasforma con il suo Spirito e rende Suoi testimoni. L’azione dello Spirito, tuttavia ha una premessa. Gli Apostoli come si sono preparati a ricevere l’investitura dello Spirito? Gli Atti raccontano che essi dopo che Gesù fu assunto in cielo, “ritornarono a Gerusalemme dal monte degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato” (At 1,11-12). Il verbo “ritornare” già dice che sono in atteggiamento di ubbidienza a Gesù che ha loro detto di “non allontanarsi dalla città fino a quando non saranno rivestiti di forza dall’alto”, mentre la ripetizione del nome della città dice quanto sia importante che la loro missione inizi dove Gesù ha concluso la sua, mediante il Mistero della sua morte e Risurrezione. Ma c’è qualcosa di più nel testo citato. Solo da questo testo, infatti, conosciamo il luogo dell’ultimo incontro con Gesù: è il monte degli Ulivi, una località assai evocativa. È qui, infatti, secondo Ez 11,23, che si posa la “gloria del Signore” che lascia Gerusalemme per recarsi tra i deportati ed essere “un santuario in mezzo a loro” (Ez 11,16); ed è ancora su questo monte che il Signore poserà i suoi piedi alla fine dei tempi (Zac 14,4). Anche Gesù un giorno ritornerà. Il fatto poi che si affermi che la distanza tra il monte degli Ulivi e Gerusalemme sia “il cammino permesso in un sabato”, vuole certamente indicarci che la prima comunità era composta da persone che osservavano la Legge di Mosè e, forse, che quel giorno era sabato. Però non è solo questo che la qualifica. La prima comunità, infatti, è… Una comunità-comunione (1,12-14)

È un tema assai caro a Luca che ora caratterizza la comunità dicendo: “erano tutti perseveranti e concordi nella preghiera” (1,14). Si tratta di una preghiera compiuta nella più perfetta intimità e di un modo di vivere che non tiene conto né dei vincoli di parentela né dei ruoli sociali o qualifiche culturali. Ciò che conta è l’adesione a Gesù e al suo progetto di vita. Questo è il vero e unico fondamento di una comunità-comunione. Ed è solo questo che ancora oggi deve caratterizzare ogni comunità cristiana. Ma perché gli Apostoli sono in preghiera? Per imitare Gesù! Ecco un’altra caratteristica della vita cristiana, anzi la più importante. Per questo non si può mai perdere di vista Gesù. La situazione concreta che la comunità sta vivendo è di attesa del dono dello Spirito Santo. Perciò si comporta come Gesù, che dopo essere stato battezzato, con semplice acqua, da Giovanni, si raccolse in preghiera e su di Lui scese lo Spirito Santo che lo qualificò, come uomo, per la sua missione messianica. Per questo, anche la prima comunità è ora in preghiera, perché come ha loro detto Gesù “fra non molti giorni sarete battezzati in Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni, iniziando da Gerusalemme”. Ma chi sono questi testimoni? Innanzitutto gli Apostoli: “Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota, Giuda di Giacomo e …” (1,13). È la seconda volta che Luca offre la lista degli Apostoli, dei testimoni oculari della vita di Gesù. La prima volta (Lc 6,14-15) però erano “Dodici”, ora invece come indicano i puntini finali, ne manca uno: sono solo “Undici”, c’è un posto vuoto, manca il nome di Giuda, di colui che tradì il Maestro. Può forse rimanere vuoto il suo posto? No! Perché, secondo Gesù, sono Dodici quelli che debbono sedere in trono nel suo regno “per giudicare le dodici tribù d’Israele” (Lc 22,36). Il posto vuoto suscita quindi un problema che sarà presto risolto. Gli Apostoli non erano soli: con loro c’era “Maria, la madre di Gesù”. E non poteva mancare perché è colei che, “adombrata dallo Spirito Santo, dalla Potenza dell’Altissimo” (Lc 1,35) ha dato alla luce il Messia; è colei che è “beata perché ha creduto…”, come disse Elisabetta (Lc 1,45): per questo ora siede tra i credenti; è colei che nel Magnificat ha cantato le grandi opere di Dio, come faranno tra poco i discepoli (At 2,11). Perciò, Essa, esperta di Spirito Santo, non poteva mancare nella prima comunità: è la madre di Gesù. Poi ci sono alcune donne, forse quelle che hanno accompagnato Gesù fin dalla Galilea (Lc 8,1-3); e infine i “fratelli”, cioè quelli della parentela di Gesù, una volta increduli (Gv 7,5), ora credenti.

C’èra un posto vuoto (1,15-26) Non poteva rimanere vuoto, ma come colmarlo? Luca ne approfitta per continuare il tema “comunità”. Quando una comunità cristiana o un cristiano è di fronte a un problema cruciale, deve raccogliersi nell’ascolto della Parola di Dio e nella preghiera. Qui l’iniziativa dell’ascolto la prende Pietro che, alzatosi in mezzo ai “fratelli” (tali sono i cristiani), dice: “È necessario che si compia ciò che fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda che fece da guida a quelli che arrestarono Gesù”. Ci si aspetterebbe subito la citazione della Scrittura e invece ecco Pietro che aiuta i “fratelli” a riflettere, quasi a farsi un esame di coscienza pensando a Giuda: “Era uno dei nostri e ha avuto la sua parte nel nostro servizio”. Cioè: era uno dei Dodici che ha fatto arrestare Gesù; uno di noi che ha tradito Gesù. Forse pensa al pericolo in cui tutti si sono trovati “durante la Passione”: la tentazione di abbandonare il Maestro è stata forte. La meditazione continua con la mano di Luca che parla della triste fine di Giuda. Lo fa citando una leggenda “nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme”, ma ce n’erano molte assai diverse. Luca ne sceglie una e non gli interessa che sia vero o no quello che racconta; a lui interessa infondere nel lettore un senso di orrore in modo che senta quanto sia orribile la sorte di un traditore, di un uomo iniquo, di uno che abbandonò il ruolo che Gesù gli aveva affidato nella sua Chiesa: non ha più voluto essere uno dei “Dodici”. Ebbene è questo evento che realizza quanto dice lo Spirito Santo nella Scrittura: “La sua dimora diventi deserta” (Sal 69,25). Il salmo dice : “la loro dimora”, perché parla di tutti gli iniqui; ora però lo Spirito Santo intende riferirsi al solo Giuda e perciò dice “la sua dimora”. Solo che ha lasciato vuoto un posto importante nella comunità, un posto che non può rimanere vuoto e perciò, citando un altro salmo, si dice (traduciamo con più aderenza il testo): “Un altro subentri nel suo incarico di supervisore”; traslitterando: “nell’episcopato”. “Un altro”, ma chi può assumersi un tale compito? Pietro ne enuncia con chiarezza i criteri: dev’essere uno che “è stato con Gesù dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui fu tolto a noi ed elevato in cielo”. Cioè, solo un testimone oculare della vita terrena di Gesù e di Gesù-Risorto può diventare testimone della sua Risurrezione. Tra i presenti (circa 120) ce n’erano due: “Giuseppe, soprannominato Giusto, e Mattia”. La parola “Giusto” direbbe: è questo che dev’essere scelto! Ma i discepoli non se la sentono di essere loro a scegliere. Essi, gli Undici, sono stati scelti dal Signore; è quindi logico che anche il “Dodicesimo” lo sia. Perciò eccoli affidarsi alla preghiera: “Tu, Signore, mostraci quale di questi due hai scelto”. Gettarono la sorte e questa cadde su Mattia che subito fu aggregato agli Undici.

Pentecoste (2,1-13) “Finalmente giunse al suo compimento il cinquantesimo (= pentecoste) giorno”. Lasciateci tradurre così, e anche dire: “Finalmente giunse quel giorno”. C’è forse un modo migliore per esprimere che la parola “compimento” implica il senso di un’intensa attesa? Di una lunga attesa, iniziata con il profeta Ezechiele (36,27)? E per i discepoli di un’imminente attesa? Sono ancora lì, tutti riuniti insieme e ora sentono che è giunto il giorno promesso da Gesù, il giorno in cui saranno battezzati in Spirito Santo, il giorno che li renderà suoi testimoni e che darà loro la possibilità di confrontarsi con le “dodici tribù d’Israele”. È il giorno in cui ha inizio la Chiesa. Se la Pentecoste ebraica ricordava a Israele il giorno in cui fu data la legge (Es 19,16-19; 20,1-17), la Pentecoste cristiana ricorda il giorno in cui viene data la “legge dello Spirito”, della “Nuova Alleanza” (Ger 31,31). Per questo i cristiani continuano a vivere la loro esistenza facendo memoria di questo inizio storico e rileggendo con gioia quello che avvenne quel giorno: “Si trovavano tutti insieme quando all’improvviso venne dal cielo un rombo come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”. La terminologia riecheggia la teofania del Sinai (Es 19,8.16-18). Là e qui si afferma che erano tutti insieme, cioè uniti e concordi senza discriminazioni o esclusivismi, tutti affascinati e sbigottiti dall’azione sovrana e potente di Dio che si visibilizza loro con i simboli del vento e del fuoco. Il vento rappresenta la forza dello Spirito che soffia dove vuole (Gv 3,8); il fuoco indica la forza trasformante dello Spirito che si visibilizza in tante lingue di fuoco. Lingue diversificate perché lo Spirito abilita gli apostoli a parlare “altre lingue”, le lingue dei popoli a cui si deve annunciare la salvezza. Una cosa simile avvenne anche al Sinai. Secondo la tradizione giudaica, però, non ci fu solo un “tuono” (= voce di Dio), ma dei “tuoni” perché la voce di Dio si divise in più lingue, 70, in modo che tutte le nazioni potessero comprendere. Meditando ci accorgiamo che un senso di universalità pervade tutto il testo, subito confermato dalla lunga lista dei popoli appartenenti a “ogni nazione che è sotto il cielo” (v. 5). C’era gente di ogni nazione quel giorno a Gerusalemme e tutti, appena udirono il fragore del vento, si radunarono e furono sbigottiti perché ciascuno sentiva gli apostoli parlare nella propria lingua e annunziare nel suo dialetto “le grandi opere di Dio”. Chi legge sente che il racconto sprigiona un entusiasmo indescrivibile e forse è così perché Luca a cinquant’anni di distanza sente che quel giorno “il seme della Parola di salvezza” è stato seminato nei cuori di tanti che poi l’hanno portato lontano e l’hanno fatto fruttificare, riunendo gente di ogni nazione in Cristo e in comunione tra loro. La parola dell’annuncio, infatti, si adatta e si incultura in ogni popolo e annulla per sempre quanto è avvenuto a Babele. Anche oggi, alcuni vogliono standardizzare la vita dei popoli, e annullare ogni diversità. Lo Spirito invece è una forza unificatrice e rispettosa di ogni cultura e di ogni differenza. Significativo è il fatto che i popoli siano indicati con il nome del loro territorio, con una variante: “visitatori di Roma che risiedono qui, sia giudei sia convertiti al giudaismo”. Con questa espressione Luca vuole indicare che il cristianesimo, forse, è giunto a Roma prima ancora che arrivasse un Apostolo, grazie a questi romani presenti a Gerusalemme. Ma osserviamo attentamente l’atteggiamento dei presenti. Il testo dice che “tutti udivano gli Apostoli annunciare le grandi opere di Dio”. Ma come reagiscono all’annuncio? Alcuni dicendo: “Che significa questo?”, altri invece ridendo, esclamano: “Sono pieni di vino dolce”, cioè: sono cose incomprensibili. Ebbene queste espressioni dicono che non basta l’annuncio: è necessaria la catechesi. Ed è quello che Pietro sta per fare e che noi continueremo a costatare negli Atti e che possiamo costatare nella storia della Chiesa: il bisogno di una catechesi che evidenzi l’azione dello Spirito distruttore di ogni “Babele” e creatore di comunione in ogni comunità e tra i popoli.

Preghiamo O Padre, che hai effuso l’amore nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo, fa’ che io sappia ogni giorno unirmi alla preghiera della Chiesa che in ogni Eucaristia invoca la pienezza dello Spirito Santo perché formiamo un solo corpo e un solo spirito. Concedi che questa preghiera crei in noi l’impegno ad essere nella società portatori di riconciliazione e di pace. Aiutaci a collaborare con lo Spirito Santo che vuole formare di tutti i popoli una sola famiglia nel rispetto di ogni persona e cultura. Amen!

  Mario Galizzi SDB

The Ten Commandments by Lucas Cranach the Elder in the townhall of Wittenberg, (detail)

The Ten Commandments by Lucas Cranach the Elder in the townhall of Wittenberg, (detail) dans immagini sacre 1_Gebot_%28Lucas_Cranach_d_A%29

https://en.wikipedia.org/wiki/Ten_Commandments#/media/File:1_Gebot_(Lucas_Cranach_d_A).jpg

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ENZO BIANCHI – DESERTO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/bianchi_lessicointeriore2.htm

ENZO BIANCHI – DESERTO

LESSICO DELLA VITA INTERIORE

«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ ebraico biblico ha diversi nomi: caravah, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’ azione dell’ acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte (cfr. Salmo 121,6). Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b-5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’ opera creazionale (Genesi 2,8-15). E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1-2). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,1-14); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19-24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa-Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alleanza nuziale… Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’ esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione. Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Genesi 1 2,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11-12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico! Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni, quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’ occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). TI suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce. Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e così esso diviene cifra dell’ ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».

PAPA FRANCESCO – 7. LA PECORELLA SMARRITA (CFR LC 15,1-7)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2016/documents/papa-francesco_20160504_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – 7. LA PECORELLA SMARRITA (CFR LC 15,1-7)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 4 maggio 2016

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Conosciamo tutti l’immagine del Buon Pastore che si carica sulle spalle la pecorella smarrita. Da sempre questa icona rappresenta la sollecitudine di Gesù verso i peccatori e la misericordia di Dio che non si rassegna a perdere alcuno. La parabola viene raccontata da Gesù per far comprendere che la sua vicinanza ai peccatori non deve scandalizzare, ma al contrario provocare in tutti una seria riflessione su come viviamo la nostra fede. Il racconto vede da una parte i peccatori che si avvicinano a Gesù per ascoltarlo e dall’altra parte i dottori della legge, gli scribi sospettosi che si discostano da Lui per questo suo comportamento. Si discostano perchè Gesù si avvicinava ai peccatori. Questi erano orgogliosi, erano superbi, si credevano giusti. La nostra parabola si snoda intorno a tre personaggi: il pastore, la pecora smarrita e il resto del gregge. Chi agisce però è solo il pastore, non le pecore. Il pastore quindi è l’unico vero protagonista e tutto dipende da lui. Una domanda introduce la parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» (v. 4). Si tratta di un paradosso che induce a dubitare dell’agire del pastore: è saggio abbandonare le novantanove per una pecora sola? E per di più non al sicuro di un ovile ma nel deserto? Secondo la tradizione biblica il deserto è luogo di morte dove è difficile trovare cibo e acqua, senza riparo e in balia delle fiere e dei ladri. Cosa possono fare novantanove pecore indifese? Il paradosso comunque continua dicendo che il pastore, ritrovata la pecora, «se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: Rallegratevi con me» (v. 6). Sembra quindi che il pastore non torni nel deserto a recuperare tutto il gregge! Proteso verso quell’unica pecora sembra dimenticare le altre novantanove. Ma in realtà non è così. L’insegnamento che Gesù vuole darci è piuttosto che nessuna pecora può andare perduta. Il Signore non può rassegnarsi al fatto che anche una sola persona possa perdersi. L’agire di Dio è quello di chi va in cerca dei figli perduti per poi fare festa e gioire con tutti per il loro ritrovamento. Si tratta di un desiderio irrefrenabile: neppure novantanove pecore possono fermare il pastore e tenerlo chiuso nell’ovile. Lui potrebbe ragionare così: “Faccio il bilancio: ne ho novantanove, ne ho persa una, ma non è una grande perdita”. Lui invece va a cercare quella, perchè ognuna è molto importante per lui e quella è la più bisognosa, la più abbandonata, la più scartata; e lui va a cercarla. Siamo tutti avvisati: la misericordia verso i peccatori è lo stile con cui agisce Dio e a tale misericordia Egli è assolutamente fedele: nulla e nessuno potrà distoglierlo dalla sua volontà di salvezza. Dio non conosce la nostra attuale cultura dello scarto, in Dio questo non c’entra. Dio non scarta nessuna persona; Dio ama tutti, cerca tutti: uno per uno! Lui non conosce questa parola “scartare la gente”, perchè è tutto amore e tutta misericordia. Il gregge del Signore è sempre in cammino: non possiede il Signore, non può illudersi di imprigionarlo nei nostri schemi e nelle nostre strategie. Il pastore sarà trovato là dove è la pecora perduta. Il Signore quindi va cercato là dove Lui vuole incontrarci, non dove noi pretendiamo di trovarlo! In nessun altro modo si potrà ricomporre il gregge se non seguendo la via tracciata dalla misericordia del pastore. Mentre ricerca la pecora perduta, egli provoca le novantanove perché partecipino alla riunificazione del gregge. Allora non solo la pecora portata sulle spalle, ma tutto il gregge seguirà il pastore fino alla sua casa per far festa con “amici e vicini”. Dovremmo riflettere spesso su questa parabola, perché nella comunità cristiana c’è sempre qualcuno che manca e se ne è andato lasciando il posto vuoto. A volte questo è scoraggiante e ci porta a credere che sia una perdita inevitabile, una malattia senza rimedio. E’ allora che corriamo il pericolo di rinchiuderci dentro un ovile, dove non ci sarà l’odore delle pecore, ma puzza di chiuso! E i cristiani? Non dobbiamo essere chiusi, perchè avremo la puzza delle cose chiuse. Mai! Bisogna uscire e non chiudersi in sè stessi, nelle piccole comunità, nella parrocchia, ritenendosi “i giusti”. Questo succede quando manca lo slancio missionario che ci porta ad incontrare gli altri. Nella visione di Gesù non ci sono pecore definitivamente perdute, ma solo pecore che vanno ritrovate. Questo dobbiamo capirlo bene: per Dio nessuno è definitivamente perduto. Mai! Fino all’ultimo momento, Dio ci cerca. Pensate al buon ladrone; ma solo nella visione di Gesù nessuno è definitivamente perduto. La prospettiva pertanto è tutta dinamica, aperta, stimolante e creativa. Ci spinge ad uscire in ricerca per intraprendere un cammino di fraternità. Nessuna distanza può tenere lontano il pastore; e nessun gregge può rinunciare a un fratello. Trovare chi si è perduto è la gioia del pastore e di Dio, ma è anche la gioia di tutto il gregge! Siamo tutti noi pecore ritrovate e raccolte dalla misericordia del Signore, chiamati a raccogliere insieme a Lui tutto il gregge!

Santi Filippo e Giacomo

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Publié dans:immagini sacre |on 3 mai, 2016 |Pas de commentaires »

SERMONI FESTIVI – FESTA DEI SANTI APOSTOLI FILIPPO E GIACOMO – I. L’ETERNITÀ DELLA DIMORA CELESTE

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SERMONI FESTIVI – FESTA DEI SANTI APOSTOLI FILIPPO E GIACOMO – I. L’ETERNITÀ DELLA DIMORA CELESTE

2. «Non sia turbato il vostro cuore». Dice la Storia Naturale che il cuore è la sorgente e l’origine del sangue, e che è il primo organo che riceve il sangue; e che è anche la sorgente degli impulsi che riguardano le cose piacevoli e quelle spiacevoli e dannose; e in genere i moti dei sensi da esso partono e ad esso ritornano, e la sua azione influisce su tutte le membra del corpo. «Non si turbi dunque il vostro cuore», perché se si turba il cuore, si turbano anche tutte le altre membra.     Considera che i cuori si diversificano tra loro sia nella grandezza che nella piccolezza, nella delicatezza come nella durezza; infatti il cuore degli animali privi di sentimento è duro, mentre il cuore degli animali forniti di sentimento è tenero. Inoltre un animale che ha il cuore grande è timido, mentre quello che ha un cuore piuttosto piccolo è coraggioso. E i guai che capitano all’animale per la sua timidezza, a null’altro sono da attribuirsi se non al poco calore che ha nel cuore, insufficiente a riempirlo tutto, perché il poco calore in un cuore grande si disperde, e quindi il sangue diventa piuttosto freddo. Cuori grandi si riscontrano nelle lepri, nei cervi, negli asini, nei topi e in altri animali in cui si manifesta la timidezza. E come un piccolo fuoco scalda meno in una casa grande che in una casa piccola, così fa il calore in questi animali.     Cuore grande vuol dire cuore superbo; cuore piccolo vuol dire cuore umile; cuore tenero è il cuore misericordioso e compassionevole, e lo hanno coloro che partecipano alle sofferenze, alle necessità e alla miseria degli altri; cuore duro è il cuore avaro, e lo hanno coloro che sono privi di sentimento. Il cuore grande, cioè il cuore superbo, è timido, perché in esso il calore dell’amore di Dio e del prossimo è troppo poco, anzi si è raffreddato, e quindi sùbito si turba perché sùbito ha paura. Perché dunque il vostro cuore non si turbi, sia umile, e allora in esso sarà grande il calore dell’amore e grande l’energia per compiere le opere buone.     Osserva ancora che solo il cuore, tra tutti gli organi interni, non dev’essere soggetto a sofferenze o gravi infermità. E questo è giusto perché, se si deteriora il principio, a nulla giovano tutte le altre membra, o gli altri organi. Le altre membra ricevono la forza dal cuore, ma il cuore non ne riceve da esse. «Non si turbi dunque il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,27). Tra le varie cose che turbano maggiormente il cuore c’è la perdita una cosa cara. Cristo aveva predetto agli apostoli la sua passione; essi, che lo amavano in sommo grado, temevano di perderlo e quindi potevano essere presi dal turbamento. Ecco perciò che il Signore li conforta dicendo: «Non si turbi il vostro cuore e non abbia timore» a motivo della morte della mia carne, perché io sono Dio e la risusciterò. E aggiunge: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1), perché io sono Dio. Osserva che Gesù disse «abbiate fede in Dio», e non «credete Dio» o «credete a Dio». Anche «i demoni credono che Dio esiste, e tremano» (Gc 2,19). Crede a Dio colui che si limita a credere alle sue parole, ma non fa nulla di bene; invece crede in Dio colui che lo ama con tutto il cuore e fa di tutto per unirsi alle sue membra. 3 «Credete in Dio». Ecco il commento di Agostino: Affinché non temessero per la sua morte, reputandola la morte di un semplice uomo, e quindi ne restassero turbati, li conforta affermando di essere anche Dio. E perché di nuovo non si spaventassero pensando di essere da lui abbandonati alla rovina, vengono rassicurati che, dopo le prove, sarebbero stati sempre vicini a Dio, insieme con Cristo. Quindi continuò: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti» (Gv 14,2).     Ecco la melagrana, nella quale tutti i grani sono entro un’unica corteccia, ma dove tuttavia ogni grano ha la propria celletta. Nella gloria eterna ci sarà una sola casa, un solo denaro (una sola ricompensa), un’unica dimensione di vita; ma ognuno avrà per così dire la sua cella, perché anche nell’eternità le «dignità» e gli onori saranno diversi: perché altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle (cf. 1Cor 15,41). Tuttavia, nonostante la differenza di splendore, uguale sarà in tutti la felicità, perché io godrò tanto della tua felicità quanto della mia, e tu godrai della mia felicità quanto della tua.     Facciamo un esempio. Eccoci qui insieme: io ho in mano una rosa. La rosa è mia, però anche tu ti diletti della sua bellezza e godi del suo profumo, proprio come me. Così sarà anche nella vita eterna: la mia gloria sarà il tuo conforto e la tua felicità, e viceversa. E in quella luce, tanto sarà lo splendore dei corpi che io potrò ammirarmi nel tuo volto come in uno specchio, e tu ammirare il tuo volto nel mio: e da questo scaturirà un amore ineffabile. Perciò dice Agostino: Quale sarà l’amore quando ognuno di noi vedrà il suo volto in quello dell’altro come oggi vediamo ognuno il volto dell’altro? In quella luce tutto sarà chiaro e palese, niente sarà nascosto per nessuno, niente sarà oscuro.     Dice l’Apocalisse: «La città di Gerusalemme sarà di oro purissimo, simile a terso cristallo» (Ap 21,18). La Gerusalemme celeste è detta di oro purissimo a motivo dello splendore dei corpi glorificati, che sarà come lo splendore del più limpido cristallo; poiché come attraverso un cristallo perfetto tutto ciò che sta all’interno si vede perfettamente anche dall’esterno, così in quella visione di pace tutti i segreti dei cuori saranno palesi ad ognuno reciprocamente, e quindi arderanno anche d’inestinguibile ed ineffabile fiamma di reciproco amore. Al presente non ci amiamo a vicenda veramente come si dovrebbe, perché ci nascondiamo nelle tenebre, e nel segreto del cuore siamo divisi gli uni dagli altri: per questo si è raffreddato l’amore ed è dilagata l’iniquità (cf. Mt 24,12).     «Se no ve l’avrei detto» (Gv 14,2). Il significato dell’espressione è questo: Se non ci fossero molti posti nella casa del Padre mio, io ve l’avrei detto, cioè non ve l’avrei nascosto, anzi vi avrei detto chiaramente che non ci sono. Sappiate invece, sottintende, «che vado proprio per preparavi il posto» (Gv 14,2). Il padre prepara il posto al figlio, l’uccello prepara il nido ai suoi piccoli. Così Cristo ci ha preparato il posto e la pace della vita eterna, e prima ancora ci ha preparato la strada per la quale arrivarci.     Sia egli benedetto nei secoli. Amen.

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COSÌ RIDEVANO I PRIMI CRISTIANI..DI GIANFRANCO RAVASI

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COSÌ RIDEVANO I PRIMI CRISTIANI..DI GIANFRANCO RAVASI

È vero che la parola «ridere» occorre pochissime volte nelle Scritture e la tradizione vuole che Gesù non avesse mai sorriso. Ma gli studi curati da Clementina Mazzucco smentiscono la versione e indagano sull’umorismo biblico

Dominum numquam risisse, sed flevisse legimus: lapidario e sostanzialmente indiscutibile questo asserto sul Cristo che nei Vangeli piange ma non ride mai, asserto attribuito falsamente ad Agostino, ma di origine medievale (Patrologia Latina XL, 1290). Qualche secolo dopo, nella sua Disputatio de taedio et pavore Christi, Erasmo da Rotterdam ribadiva la tesi: «In tutta la vita di Gesù dopo la culla incontrerai parecchie testimonianze di dolcezza e di pazienza, nessuna di allegria ». Se si sta alla mera rilevazione statistica il « ridere » ( gheláo) e il « riso » ( ghélôs) totalizzano solo una triplice presenza evangelica: nelle « beatitudinimaledizioni » di Luca (6, 21.25) si dichiarano, infatti, beati coloro che piangono perché rideranno e, al contrario, nel Regno di Dio coloro che hanno riso saranno in lutto e piangeranno, mentre Giacomo nella sua Lettera ammonisce i cristiani ricchi e gaudenti che «il loro riso si trasformerà in lutto» (4, 9). Nel 2005, presso l’universitàdi Torino, Clementina Mazzucco ha organizzato un convegno proprio sul riso e la comicità nel cristianesimo antico e ora ne possiamo leggere, naturalmente con gusto, gli atti. In quelle pagine si deve riconoscere alla stessa curatrice la migliore trattazione finora apparsa sul riso, l’ironia e l’umorismo nel Nuovo Testamento. Certo, materia più abbondante è reperibile nell’Antico Testamento ove si ha persino lo sghignazzare di Dio (si veda, ad esempio, il Salmo 2, 4), seguendo i canoni di un robusto antropomorfismo. Tuttavia il saggio di Daniele Garrone, presente nel volume, assomiglia più a una raccolta di materiali di base che attendono ancora una vera e propria elaborazione tematica. L’analisi della Mazzucco riesce, invece, a convincerci che andando oltre la rigida gabbia lessicale e rivolgendo l’attenzione anche a detti, battute, dialoghi, situazioni, personaggi, scene e a termini periferici o di contorno si può ricostruire, nel Nuovo Testamento, un orizzonte decisamente più popolato di sorrisi, di gioia, di ironia (quest’ultima, talora, può diventare anche un sofisticato strumento teologico, come accade per il quarto evangelista Giovanni). È, quindi, probabile che il profilo di un Gesù serio, alla maniera del Vangelo secondo Matteo di Pasolini ma anche di un’inesausta tradizione iconografica, sia da connettere «con l’immagine di un Gesù fatto oggetto di scherni, soprattutto nella passione, e quindi con l’immagine, misteriosa e ostica da un punto di vista umano, di un Messia sof-ferente: un tratto non psicologico ma teologico». Non si deve, infatti, dimenticare senza voler allegare la messe suggestiva di dati elaborati dalla studiosa torinese che l’evangelista Luca evoca, ad esempio, la felicità messianica che avvolge la nascita di Gesù, ci ricorda che egli prega «esultando nello Spirito Santo» (10, 21) e, con gli altri evangelisti, esalta la gioia pasquale che pervade gli apostoli, a tal punto che, soprattutto nel Medio Evo, le celebrazioni della Risurrezione degeneravano talvolta in un’allegria fin sgangherata con mimi, scenette e interludi liturgici venati persino di oscenità (di questo ha scritto Maria Caterina Jacobelli nel suo Risus paschalis, Queriniana 1991). Non si può, per altro, dimenticare che fu assegnato all’annunzio e alla Scrittura neotestamentaria il titolo di « vangelo »,che in greco significa una notizia buona, bella, gioiosa. Il volume poderoso naturalmente riserva tanti altri percorsi testuali: essi partono sia dallo spazio comico pagano, sia dalla « dinamica del riso » che affiora nell’etimologia popolare biblica del nome stesso di « Isacco », il figlio della promessa divina (« il Signore ha riso », ridendo da ultimo nei confronti del riso scettico della madre del bimbo, Sara, in menopausa al momento della sua gestazione). La rete degli itinerari analitici è fitta: Clemente Alessandrino, Tertulliano, Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo («Voi ridete, a me invece viene da piangere!»), Ambrogio, Girolamo,l’Agostino vero,Gregorio Magno, Venanzio Fortunato con le curiose «confessioni di un vescovo goloso», Romano il Melodo, Gregorio di Tours e altri ancora. Ma si ha anche un’interessante incursione in una sorta di teatro comico sui vizi capitali, col monaco parassita o fanfarone o lussurioso o misogino e persino stercorario! Così come non si dimentica quella categoria sorprendente della spiritualità russa che presenta il « folle per Cristo » i cui albori sono da cercare nella miniera di detti e atti legati ai padri eremiti e ai monaci del deserto, ma che procederà fino all’Idiota dostoevskiano, quel principe Myakin spiritualmente superiore proprio per la sua disarmante e disarmata ingenuità e serenità. Un’opera corale, quindi, suggestiva che,pur nella paludata livrea dell’accademia, riserva un vero godimento, non di rado sconfinante nell’ilarità, come nel caso degli sberleffi destinati al diavolo beffato. Un teologo abbastanza serioso quale Karl Barth di cui celebriamo quest’anno il 40Údella morte non esitava a scrivere: «Un cristiano fa buona teologia quando, in fondo, è lieto, sì, quando si accosta alle cose con umorismo. Bisogna guardarsi dai teologi di cattivo umore e noiosi! Certo, lo so: siamocircondati da ogni parte da tanta tristezza e noi stessi siamo spesso compagni poco piacevoli. Ma dato che un cristiano non serve se stesso bensì il Padre di Gesù Cristo, può guardare al suo prossimo, amato da Dio, e a se stesso con gioia e speranza; può ridere, nonostante tutto, di cuore».

1 «Riso e comicità nel cristianesimo antico. Atti del Convegno di Torino, 14-16 febbraio 2005 e altri studi», a cura di C. Mazzucco, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pagg. 860,

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Church of the Holy Sepulchre

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GIOVANNI PAOLO II (catechesi sugli angeli)

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1986/documents/hf_jp-ii_aud_19860723.html

GIOVANNI PAOLO II (catechesi sugli angeli)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 23 luglio 1986

1. Proseguiamo oggi la nostra catechesi sugli angeli la cui esistenza, voluta da un atto dell’amore eterno di Dio, professiamo con le parole del simbolo niceno-costantinopolitano: “Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili”. Nella perfezione della loro natura spirituale gli angeli sono chiamati fin dall’inizio, in virtù della loro intelligenza, a conoscere la verità e ad amare il bene che conoscono nella verità in modo molto più pieno e perfetto di quanto non sia possibile all’uomo. Questo amore è l’atto di una volontà libera, per cui anche per gli angeli la libertà significa possibilità di operare una scelta a favore o contro il Bene che essi conoscono, cioè Dio stesso. Bisogna qui ripetere ciò che già abbiamo ricordato a suo tempo a proposito dell’uomo: creando gli esseri liberi, Dio volle che nel mondo si realizzasse quell’amore vero che è possibile solamente sulla base della libertà. Egli volle dunque che la creatura, costituita a immagine e somiglianza del suo Creatore, potesse nel modo più pieno possibile rendersi simile a lui, Dio, che “è amore” (1 Gv 4, 16). Creando gli spiriti puri come esseri liberi, Dio nella sua Provvidenza non poteva non prevedere anche la possibilità del peccato degli angeli. Ma proprio perché la Provvidenza è eterna sapienza che ama, Dio avrebbe saputo trarre dalla storia di questo peccato, incomparabilmente più radicale in quanto peccato di uno spirito puro, il definitivo bene di tutto il cosmo creato. 2. Di fatto, come dice chiaramente la rivelazione, il mondo degli spiriti puri appare diviso in buoni e cattivi. Ebbene, questa divisione non si è operata per creazione di Dio, ma in base alla libertà propria della natura spirituale di ciascuno di essi. Si è operata mediante la scelta che per gli esseri puramente spirituali possiede un carattere incomparabilmente più radicale di quella dell’uomo ed è irreversibile dato il grado di intuitività e di penetrazione del bene di cui è dotata la loro intelligenza. A questo riguardo si deve dire anche che gli spiriti puri sono stati sottoposti a una prova di carattere morale. Fu una scelta decisiva riguardante prima di tutto Dio stesso, un Dio conosciuto in modo più essenziale e diretto di quanto è possibile all’uomo, un Dio che a questi esseri spirituali aveva fatto dono, prima che all’uomo, di partecipare alla sua natura divina. 3. Nel caso dei puri spiriti la scelta decisiva riguardava prima di tutto Dio stesso, primo e supremo Bene, accettato o respinto in modo più essenziale e diretto di quanto possa avvenire nel raggio d’azione della libera volontà dell’uomo. Gli spiriti puri hanno una conoscenza di Dio incomparabilmente più perfetta dell’uomo, perché con la potenza del loro intelletto, non condizionato né limitato dalla mediazione della conoscenza sensibile, vedono fino in fondo la grandezza dell’Essere infinito, della prima Verità, del sommo Bene. A questa sublime capacità di conoscenza degli spiriti puri Dio offrì il mistero della sua divinità, rendendoli così partecipi, mediante la grazia, della sua infinita gloria. Proprio perché esseri di natura spirituale, vi era nel loro intelletto la capacità, il desiderio di questa elevazione soprannaturale a cui Dio li aveva chiamati, per fare di essi, ben prima dell’uomo, dei “consorti della natura divina” (cf. 2 Pt 1, 4), partecipi della vita intima di Colui che è Padre, Figlio e Spirito Santo, di Colui che nella comunione delle tre divine Persone “è Amore” (1 Gv 4, 16). Dio aveva ammesso tutti gli spiriti puri, prima e più dell’uomo, all’eterna comunione dell’amore. 4. La scelta operata sulla base della verità su Dio, conosciuta in forma superiore in base alla lucidità delle loro intelligenze, ha diviso anche il mondo dei puri spiriti in buoni e cattivi. I buoni hanno scelto Dio come Bene supremo e definitivo, conosciuto alla luce dell’intelletto illuminato dalla rivelazione. Avere scelto Dio significa che si sono rivolti a lui con tutta la forza interiore della loro libertà, forza che è amore. Dio è divenuto il totale e definitivo scopo della loro esistenza spirituale. Gli altri invece hanno voltato le spalle a Dio contro la verità della conoscenza che indicava in lui il bene totale e definitivo. Hanno scelto contro la rivelazione del mistero di Dio, contro la sua grazia che li rendeva partecipi della Trinità e dell’eterna amicizia con Dio nella comunione con lui mediante l’amore. In base alla loro libertà creata hanno operato una scelta radicale e irreversibile al pari di quella degli angeli buoni, ma diametralmente opposta: invece di un’accettazione di Dio piena di amore, gli hanno opposto un rifiuto ispirato da un falso senso di autosufficienza, di avversione e persino di odio che si è tramutato in ribellione. 5. Come comprendere una tale opposizione e ribellione a Dio in esseri dotati di così viva intelligenza e arricchiti di tanta luce? Quale può essere il motivo di tale radicale e irreversibile scelta contro Dio? Di un odio tanto profondo da poter apparire unicamente frutto di follia? I Padri della Chiesa e i teologi non esitano a parlare di “accecamento” prodotto dalla sopravvalutazione della perfezione del proprio essere, spinta fino al punto di velare la supremazia di Dio, che esigeva invece un atto di docile e obbediente sottomissione. Tutto ciò sembra espresso in modo conciso nelle parole: “Non ti servirò!” (Ger 2, 20), che manifestano il radicale e irreversibile rifiuto di prendere parte all’edificazione del regno di Dio nel mondo creato. “Satana” lo spirito ribelle, vuole il proprio regno, non quello di Dio, e si erge a primo “avversario” del Creatore, a oppositore della Provvidenza, ad antagonista della sapienza amorevole di Dio. Dalla ribellione e dal peccato di Satana, come anche da quello dell’uomo, dobbiamo concludere accogliendo la saggia esperienza della Scrittura che afferma: “L’orgoglio è causa di rovina” (Tb 4, 13).

L’ENTUSIASMO DI STARE CON DIO: NON C’È SPAZIO PER EDUCATORI “MUSONI”

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L’ENTUSIASMO DI STARE CON DIO: NON C’È SPAZIO PER EDUCATORI “MUSONI”

La gioia, scriveva Bernanos, è il barometro dell’anima. È un indicatore, “una spia”, un segnale. Se manca, qualcosa non è a posto, qualcosa non va.   I musoni e i melanconici non hanno spazio tra i giovani. Come i pessimisti. Quelli che non credono nei giovani. Nei più “difficili”. Con loro non c’è più niente da fare! Ci vorrebbe lo psicologo! Lo psichiatra! Un’èquipe! E’ vero, spesso ci vogliono: le scienze umane sono un valore. Ma è altrettanto vero che grandi educatori del passato e del presente, hanno una marcia in più quando affermano che ogni persona è una “Storia sacra” da saper leggere, ascoltare, meditare (Jean Vanier), che in ogni ragazzo vi è “un segreto” da scoprire, per simpatizzare con loro e aprirsi a un dialogo, a una relazione educativa che salva entrambi.  «Don Bosco – disse una volta l’arcivescovo Montini, parlando ai ragazzi in S. Agostino a Milano – considerava i ragazzi come voi considerate un egnigma, un indovinello di quelli che bisogna decifrare. In ogni ragazzo vedeva qualche cosa di profondo, di misterioso, di difficile da interpretare e si era fatto un occhio straordinario, diremmo un occhio clinico, un occhio capace di penetrare subito».  L’occhio del cuore di chi ha dato la sua vita ai giovani! Di chi è stato con loro! Di chi non li ha osservati da lontano, sui libri! Di chi conosceva i ragazzi e i giovani nella loro voglia di allegria, di gioco, di senso: per chi vivo, per chi studio, per chi devo farmi buono!   La gioia, barometro dell’anima  L’allegria! Non banale, superficiale. Non l’allegria che si compra, che si vede, ma quella che nasce dalla gioia di essere vivo, di essere “se stessi” con la propria storia, i propri pregi e difetti. La gioia di appartenere a qualcuno! Di essere di qualcuno! Di avere qualcuno accanto, contento del suo ruolo, della sua esistenza di padre, di madre, di insegnante, di educatore! La gioia, scriveva Bernanos, è il barometro dell’anima. E’ un indicatore, “una spia”, un segnale.  Se manca, qualcosa non è a posto,qualcosa “non va”: «Il cristiano, sempre Bernanos che scrive, è un seminatore di gioia; è per questo che egli fa grandi cose. La gioia è una delle potenze irresistibili del mondo: essa placa, disarma, conquista; l’anima allegra è apostolo; attira a Dio gli uomini manifestando loro ciò che in lei produce la presenza di Dio». Non per nulla, le sfide più provocanti contro il cristianesimo le troviamo nel campo della gioia, assieme a quelle lanciate nel campo della carità, dell’amore, del servizio all’uomo, al povero, agli ultimi, agli sbandati, alle persone al margine, ai peccatori.  Nietsche non ha capito molto del cristianesimo, ma ha capito abbastanza per dire che se uno è cristiano deve essere un testimone della gioia: «Se la vostra fede vi rende felici, mostratevi tali. I vostri visi hanno sempre nociuto alla fede più dei vostri argomenti… Finisce la vita dove comincia il Regno di Dio”. Sant’Ambrogio affermava il contrario: «La vita è essere con Cristo: dov’è Cristo, lì è la vita, lì è il Regno”.   La gioia vera dei testimoni Respiravo questo clima di gioia, lunedì, a Carugate, durante la Tavola rotonda in occasione della Festa dei dieci anni di un’Associazione di famiglie, che lavorano per l’adozione e per l’affido familiare, “Genitori di cuore” di Pessano con Bornago. Non è stato difficile al conduttore, Fabio Pizzul, far emergere dai testimoni, la gioia vera, quella dell’accoglienza. Da don Alessandro Vavassori, la gioia dell’incontro con chi viene da oltre confine, non straniero, ma compagno, amico, fratello. Da suor Graziella che ha imparato dalle sue ragazze, che non ha mai chiamato “difficili”, la gioia dello stare con loro per ascoltarle,valorizzarle, con grande pazienza.  Da mamma Silvia, resa “famosa” dal figlio Mario, il Balotelli di cui tutti parlano a proposito e… a sproposito. A noi è apparsa grande nella semplicità del suo racconto, gli occhi che brillavano della gioia interiore di chi ha vissuto una grande avventura accanto a suo marito e ai suoi tre figli: tre affidi familiari e poi l’adozione di un bimbo di due anni e mezzo, “una vera bomba ad orologeria”, che non ha buttato all’aria la famiglia, l’ha solo messa alla prova con la sua vivacità, la sua “originalità”, la voglia di recuperare due anni e mezzo di abbandono. Gioia ed entusiasmo che hanno dato valore al mio intervento, che richiamava la fame e la sete che hanno tanti ragazzi e ragazze di essere “adottati” dagli stessi genitori, in fuga dall’educare.  L’entusiasmo! E’ l’altra spia della significatività della nostra vita! Scriveva un mio confratello, don Montani, che si muore la prima volta quando si perde l’entusiasmo! Si può morire a 20/30 anni, pur campando fino a novanta! Entusiasmo, diceva lui che sapeva di greco, nel senso etimologico del termine significa: essere immersi in Dio! Non ci avevo mai pensato ma è meraviglioso!  

Publié dans:meditazioni |on 2 mai, 2016 |Pas de commentaires »
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