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PAPA FRANCESCO -18. IL PADRE MISERICORDIOSO (CFR LC 15,11-32)

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PAPA FRANCESCO -18. IL PADRE MISERICORDIOSO (CFR LC 15,11-32)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 11 maggio 2016

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi questa udienza di sviluppa in due posti: siccome c’era pericolo di pioggia, gli ammalati sono nell’Aula Paolo VI e collegati con noi con il maxischermo; due posti ma una sola udienza. Salutiamo gli ammalati che sono nell’Aula Paolo VI. Vogliamo riflettere oggi sulla parabola del Padre misericordioso. Essa parla di un padre e dei suoi due figli, e ci fa conoscere la misericordia infinita di Dio. Partiamo dalla fine, cioè dalla gioia del cuore del Padre, che dice: «Facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (vv. 23-24). Con queste parole il padre ha interrotto il figlio minore nel momento in cui stava confessando la sua colpa: «Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio…» (v. 19). Ma questa espressione è insopportabile per il cuore del padre, che invece si affretta a restituire al figlio i segni della sua dignità: il vestito bello, l’anello, i calzari. Gesù non descrive un padre offeso e risentito, un padre che, ad esempio, dice al figlio: “Me la pagherai”: no, il padre lo abbraccia, lo aspetta con amore.  Al contrario, l’unica cosa che il padre ha a cuore è che questo figlio sia davanti a lui sano e salvo e questo lo fa felice e fa festa. L’accoglienza del figlio che ritorna è descritta in modo commovente: «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (v. 20). Quanta tenerezza; lo vide da lontano: cosa significa questo? Che il padre saliva sul terrazzo continuamente per guardare la strada e vedere se il figlio tornava; quel figlio che aveva combinato di tutto, ma il padre lo aspettava. Che cosa bella la tenerezza del padre! La misericordia del padre è traboccante, incondizionata, e si manifesta ancor prima che il figlio parli. Certo, il figlio sa di avere sbagliato e lo riconosce: «Ho peccato … trattami come uno dei tuoi salariati» (v. 19). Ma queste parole si dissolvono davanti al perdono del padre. L’abbraccio e il bacio di suo papà gli fanno capire che è stato sempre considerato figlio, nonostante tutto. E’ importante questo insegnamento di Gesù: la nostra condizione di figli di Dio è frutto dell’amore del cuore del Padre; non dipende dai nostri meriti o dalle nostre azioni, e quindi nessuno può togliercela, neppure il diavolo! Nessuno può toglierci questa dignità. Questa parola di Gesù ci incoraggia a non disperare mai. Penso alle mamme e ai papà in apprensione quando vedono i figli allontanarsi imboccando strade pericolose. Penso ai parroci e catechisti che a volte si domandano se il loro lavoro è stato vano. Ma penso anche a chi si trova in carcere, e gli sembra che la sua vita sia finita; a quanti hanno compiuto scelte sbagliate e non riescono a guardare al futuro; a tutti coloro che hanno fame di misericordia e di perdono e credono di non meritarlo… In qualunque situazione della vita, non devo dimenticare che non smetterò mai di essere figlio di Dio, essere figlio di un Padre che mi ama e attende il mio ritorno. Anche nella situazione più brutta della vita, Dio mi attende, Dio vuole abbracciarmi, Dio mi aspetta. Nella parabola c’è un altro figlio, il maggiore; anche lui ha bisogno di scoprire la misericordia del padre. Lui è sempre rimasto a casa, ma è così diverso dal padre! Le sue parole mancano di tenerezza: «Ecco io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando… ma ora che è tornato questo tuo figlio…» (vv. 29-30). Vediamo il disprezzo: non dice mai “padre”, non dice mai “fratello”, pensa soltanto a sé stesso, si vanta di essere rimasto sempre accanto al padre e di averlo servito; eppure non ha mai vissuto con gioia questa vicinanza. E adesso accusa il padre di non avergli mai dato un capretto per fare festa. Povero padre! Un figlio se n’era andato, e l’altro non gli è mai stato davvero vicino! La sofferenza del padre è come la sofferenza di Dio, la sofferenza di Gesù quando noi ci allontaniamo o perché andiamo lontano o perché siamo vicini ma senza essere vicini. Il figlio maggiore, anche lui ha bisogno di misericordia. I giusti, quelli che si credono giusti, hanno anche loro bisogno di misericordia. Questo figlio rappresenta noi quando ci domandiamo se valga la pena faticare tanto se poi non riceviamo nulla in cambio. Gesù ci ricorda che nella casa del Padre non si rimane per avere un compenso, ma perché si ha la dignità di figli corresponsabili. Non si tratta di “barattare” con Dio, ma di stare alla sequela di Gesù che ha donato sé stesso sulla croce senza misura. «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, ma bisognava far festa e rallegrarsi» (v. 31). Così dice il Padre al figlio maggiore. La sua logica è quella della misericordia! Il figlio minore pensava di meritare un castigo a causa dei propri peccati, il figlio maggiore si aspettava una ricompensa per i suoi servizi. I due fratelli non parlano fra di loro, vivono storie differenti, ma ragionano entrambi secondo una logica estranea a Gesù: se fai bene ricevi un premio, se fai male vieni punito; e questa non è la logica di Gesù, non lo è! Questa logica viene sovvertita dalle parole del padre: «Bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 31). Il padre ha recuperato il figlio perduto, e ora può anche restituirlo a suo fratello! Senza il minore, anche il figlio maggiore smette di essere un “fratello”. La gioia più grande per il padre è vedere che i suoi figli si riconoscano fratelli. I figli possono decidere se unirsi alla gioia del padre o rifiutare. Devono interrogarsi sui propri desideri e sulla visione che hanno della vita. La parabola termina lasciando il finale sospeso: non sappiamo cosa abbia deciso di fare il figlio maggiore. E questo è uno stimolo per noi. Questo Vangelo ci insegna che tutti abbiamo bisogno di entrare nella casa del Padre e partecipare alla sua gioia, alla sua festa della misericordia e della fraternità. Fratelli e sorelle, apriamo il nostro cuore, per essere “misericordiosi come il Padre”!

Church of the Savior, St Petersburg

Church of the Savior, St Petersburg dans immagini sacre The-Cathedral-of-the-Resurrection-of-Christ-aka-The-Church-of-the-Savior-on-Spilled-Blood-in-st-petersburg-russia-2

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IL SITO NICODEMO – COLOSSESI 3,1-5.9-11

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IL SITO NICODEMO – COLOSSESI 3,1-5.9-11

Fratelli, 1 se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; 2 pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. 3 Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! 4 Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. 5 Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria. 9 Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni 10 e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. 11 Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti.

COMMENTO Colossesi 3,1-11 La risurrezione anticipata dei credenti L’esordio dello scritto ai Colossesi (Col 1,1-23) termina con una enunciazione dei temi che l’autore intende trattare. Essi sono: l’opera di Cristo per la santità dei credenti, la fedeltà al vangelo ricevuto, il vangelo annunziato da Paolo (cfr. 1,21-23). L’ultimo di questi temi è quello trattato per primo (1,24 – 2,5). Successivamente l’autore affronta il secondo tema, che riguarda la fedeltà al vangelo (2,6-23) e infine si concentra sull’opera di Cristo a vantaggio dei credenti (3,1 – 4,1). Il testo liturgico riprende la prima parte di questo terzo sviluppo. Esso si divide in tre parti: l’opera di Cristo nei credenti (vv. 1-4); ammonizioni (vv. 5-9a); invito a rivestirsi dell’uomo nuovo (vv. 9b-11).

L’opera di Cristo nei credenti (vv. 1-4) Nella parte precedente della lettera l’autore ha criticato le teorie che mettono a rischio la fedeltà al vangelo, esortando i suoi lettori ad abbandonare le false dottrine che vengono loro proposte. Esse inculcano la sottomissione gli elementi di questo mondo, ai quali i colossesi devono ritenersi ormai morti. Questa morte però prelude a una vita nuova, che essi hanno già ottenuto: «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio;  rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (vv. 1-2). La risurrezione dai morti non è più vista da questo autore come un evento escatologico, collegato con il ritorno di Gesù, ma come una realtà già realizzata. Con Cristo, anche i credenti in lui sono già risorti, godono la stessa vita nuova di cui egli è entrato in possesso mediante la sua risurrezione e ascensione al cielo. È questa una convinzione tipica della seconda generazione cristiana, per la quale la parusia è vista ormai come un evento che si perde nella notte dei tempi, ma che ha già avuto una realizzazione anticipata mediante l’associazione del credente a Cristo. Proprio per questo motivo i credenti devono considerarsi come già risorti con Cristo e sono invitati a cercare anche loro le cose di lassù, cioè quelle che stanno a cuore a Cristo nella sua nuova situazione di Messia intronizzato alla destra del Padre. Su di esse essi devono concentrare il loro pensiero, non sulle cose della terra. La situazione di morte e di vita tipica dei credenti in Cristo viene poi ulteriormente specificata con queste parole: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!» (v. 3). Ciò che è visibile per il momento è solo la loro morte, perché la loro nuova vita, in quanto partecipazione alla vita di Cristo in Dio, non è visibile agli occhi del corpo. Ma «quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (v. 4). L’utore ha già spiegato che la risurrezione dei morti non avrà luogo al momento del ritorno di Gesù, ma è già avvenuta. Tuttavia egli sottolinea che solo quando egli verrà, la loro nuova vita sarà manifestata, in quanto anch’essi parteciperanno alla sua gloria.

Ammonizioni (vv. 5-9a) Nonostante siano già morti e risuscitati con Cristo, i credenti devono ancora portare a termine il loro passaggio attraverso la morte, senza del quale non possono ottenere pienamente la nuova vita in Cristo. L’ammonizione viene divisa in due parti, separate da un inciso riguardante il passato dei colossesi. Anzitutto l’autore scrive: «Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono» (vv. 5-6). In contrasto con le cose di lassù, le cose che appartengono alla terra si identificano con una serie di cinque vizi che rappresentano altrettante disobbedienze alla volontà di Dio e attirano la sua ira su quelli che li praticano. In questo piccolo catalogo sono elencati soltanto atteggiamenti interiori. Il primo è l’impurità (porneia), cioè l’inclinazione a trasgredire la volontà di Dio in campo sessuale. Essa si accompagna con l’immoralità (akatharsia, che di per se indica l’impurità rituale), la passione (pathos), cioè l’impulso incontrollato verso il male, il desiderio (epithymia) cattivo, quello cioè proibito dall’ultimo comandamento del decalogo, e infine l’avarizia (pleonexia), che viene bollata come una forma di idolatria. Dopo questo primo elenco, l’autore si ferma per osservare che «anche voi un tempo eravate così, quando vivevate in questi vizi» (v. 7). Questi vizi fanno parte del tipo di vita che era proprio dei colossesi prima della loro adesione a Cristo. Naturalmente si tratta di un giudizio sommario, il cui scopo non è quello di squalificare la vita precedente dei colossesi, ma di fare apprezzare per contrasto la nuova vita data da Cristo. Riprende l’esortazione, che riguarda di nuovo una serie di vizi: «Ora invece gettate via anche voi tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni, che escono dalla vostra bocca. Non dite menzogne gli uni agli altri» (vv. 8-9). Anche questa volta si tratta di cinque vizi, ai quali è stato aggiunto un divieto. Diversamente dai precedenti però questi vizi riguardano non processi interiori, ma azioni esterne. La prima è l’ira (orghê), che indica la reazione violenta nei confronti degli altri. Viene poi l’animosità (thymon), la cattiveria (kakia), gli insulti (blasphêmia) e i discorsi osceni (aischrologia). Infine i colossesi vengono messi in guardia dal ricorso alla menzogna nei loro rapporti vicendevoli. È chiaro che si tratta di vizi che rendono impossibile la vita comunitaria, perché provocano reazioni violente e incontrollate verso gli altri membri della comunità.

Invito a rivestirsi dell’uomo nuovo (vv. 9b-11) Dopo l’esortazione a far morire le cose di quaggiù, l’autore ritorna a sottolineare quello che i credenti sono già diventati: «Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato (vv. 9b-10). L’uomo vecchio è quello che si lascia ancora trascinare dai vizi di cui l’autore ha appena parlato. I colossesi devono liberarsi da esso se vogliono essere uomini nuovi. Si suggerisce però che questo stato non è raggiunto una volta per tutte, ma deve continuamente  ricercato, puntando a una conoscenza sempre più approfondita di Dio per diventare simili a lui. La vita cristiana si distingue dunque per il suo dinamismo interno, che porta ad approfondire sempre più il rapporto con Dio. Questa crescita nella fede ha una conseguenza comunitaria: «Qui non vi è greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti» (v. 11). Questo testo è ricalcato su Gal 3,18, dal quale però si distingue per il fatto che è caduto il binomio uomo-donna e a esso è sostituito barbaro-scita, in cui la polarizzazione non è più evidente, in quanto gli sciti facevano parte dei barbari. La scomparsa del binomio uomo-donna mostra chiaramente che nella seconda generazione cristiana i rapporti di genere venivano ormai visti di nuovo alla luce dei costumi ambientali. Il fatto che Cristo sia tutto in tutti significa che l’uguaglianza raccomandata da questo testo riguarda direttamente la comunità e non la società civile.

Linee interpretative In questo testo, come in altri dello stesso scritto, si può percepire l’intento di convincere i lettori che non è più necessario aspettare con impazienza la realizzazione degli eventi escatologici. Infatti la risurrezione, che avrebbe dovuto realizzarsi con il ritorno di Gesù, si è già attuata per coloro che, mediante la partecipazione alla morte e alla risurrezione di Gesù, sono diventati un’unica cosa con lui. Negli ultimi tempi ci sarà solo la piena manifestazione della vita nuova già conseguita dal credente. Ciò comporta che ciascuno deve essere fin d’ora quello che un giorno apparirà in tutta la sua gloria. In questa prospettiva l’impegno a vivere una vita santa è subordinato all’accettazione del dono di Dio. Per questo si dice che l’indicativo precede l’imperativo. Sullo sfondo del brano si percepisce una forte esperienza comunitaria, che si basa però su un cammino sincero di crescita personale. I vizi nei confronti dei quali il credente viene messo in guardia sono anzitutto atteggiamenti interiori di egoismo e di desideri terreni. Ma il superamento di questi impulsi è in funzione dei rapporti con gli altri, che presuppongono il l’eliminazione dell’ira e di tutto quanto implica una mancanza di rispetto nei loro confronti. Nella comunità, l’ideale da raggiungere è l’unità, che presuppone la rimozione di tutte le barriere che dividono le persone in vista di una vera uguaglianza. Questa unità sarà un giorno la prerogativa dell’umanità rinnovata. Essa però deve essere anticipata nella vita della comunità, che diventa così un segno efficace della potenza di Dio che opera nella storia umana.

 

LA VITA ETERNA DOPO LA MORTE: MA L’ETERNITÀ NON SARÀ NOIOSA?

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/La-vita-eterna-dopo-la-morte-ma-l-eternita-non-sara-noiosa

LA VITA ETERNA DOPO LA MORTE: MA L’ETERNITÀ NON SARÀ NOIOSA?

Parole chiave: paradiso (2), risponde il teologo   Quello che ci aspetta dopo la morte è la vita eterna, ma cos’è questa  «eternità»? Il concetto terreno che abbiamo di eterno è di cosa che non ha principio né fine, cioè di cosa che dura indefinitamente. Sembra, perciò, che tutto sia immobile. Come può essere così anche nell’eternità celeste, diventerebbe noioso. Io penso che ci sia una attività anche in cielo e lo dimostra il fatto che ci sono stati e ci sono continuamente, interventi nella storia degli uomini (vedi per tutti: l’Incarnazione). La vita eterna non è statica, è dinamica anche perchè dovremo crescere nell’amore di Dio.

Piergiorgio Castellucci

RISPONDE PADRE ATHOS TURCHI, DOCENTE DI FILOSOFIA Parlare di cosa succeda nella vita eterna dopo la morte è sempre problematico perché non abbiamo documentazione e neppure testimonianze dirette, e dobbiamo sempre rifarci alle parole evangeliche, a San Paolo, alla tradizione magisteriale. Prima di tutto «eterno» non è solo ciò che non ha principio né fine (ossia il necessario), ma anche ciò che una volta venuto all’esistenza più non ne esce (come il contingente). E gli uomini sono di questo secondo aspetto. Quanto non ritorna nel nulla è eterno, e questa è la rivelazione e la promessa di Gesù agli uomini, quando dice che va a preparare i posti per i suoi discepoli, perché siano anch’essi dove lui è (Gv 14,3). Che cos’è dunque la «vita eterna»? Non è un luogo dove siamo tutti raccolti insieme a giocare, banchettare, a sorriderci. La vita eterna è uno «stato» di comunione, un «contatto» dell’uomo con Dio, visto faccia a faccia, come esso è (1Gv). La persona umana entra nel vivo dell’essere di Dio e ne viene travolto dall’amore e dalla gioia senza fine. L’amore divino e umano, che si fondono, producono nell’uomo un effetto talmente grande di gioia e piacere, che nessuno se ne vorrà più privare. È la testimonianza di quasi tutti i santi, che sostengono che il momento più tragico per l’anima è al termine dell’estasi, ossia dal contatto con Dio. S.Teresa diceva: muoio perché non muoio. In altri termini, l’amore non è uno stato in cui i due amanti si scambiano di tanto in tanto un sorrisino. L’amore è la più grande, la più elevata, la più dignitosa attività che un uomo possa fare, amare significa conoscere l’altro nella sua pienezza e nel mentre l’altro viene conosciuto come altro, uno impara a conoscere se stesso. I santi dicono che quando s’incontra Dio, nella luce di Dio, vedono se stessi e si rendono conto di chi sono, dei peccati e di quanta distanza c’è tra essi e Dio, al punto che la luce divina, mentre li fa brillare di conoscenza, disvela anche tutti i difetti dell’anima, che diventa trasparente all’amore divino. Bello è l’esempio di s.Giovanni della Croce che a contatto di Dio la sua anima disvelava tutti i minimi difetti, come quando un bicchiere d’acqua apparentemente cristallina sotto l’azione di una luce brillante disvela la presenza di infinite scorie. Ecco perché non ci si annonia ad amare Dio per l’eternità: la nostra conoscenza non potrà mai percorrere il suo essere totalmente, e amandolo sempre più profondamente noi lo scopriamo nella ricchezza della sua vita trinitaria, e questa intimità con Dio è l’attività più elevata dell’uomo, quello che l’uomo aspira e brama, e che mai viene meno, perché il piacere (sia spirituale che fisico, quando riavremo il nostro corpo) sarà talmente elevato che nessuno oserebbe rinunciarci. E questo in un certo senso è visibile nell’amore che abbiamo verso noi stessi, che non cessa, non viene meno nel tempo, e così amare Dio è l’amore più grande che possiamo esprimere per noi stessi. Amare è dunque l’attività, il lavoro, l’azione, l’impegno più oneroso che la vita eterna comporta, perché l’ingresso nella vita divina è un’attività infinita. L’uomo storico, forse condizionato dalla presenza del «peccato», ha ridotto l’amore a un dominio sull’altro, a un possesso, facendo dell’altro un « oggetto per sé stessi », per questo si è incapaci di sentire e capire la valenza eterna dell’amore. Dovremmo perciò educarci ad amare gli altri, ad esprimere il massimo amore verso chiunque, essendo questa l’unica via per voler bene a se stessi, per riuscire a conoscerci e per comprendere quale ruolo nella vita abbiamo. E se il lettore ci pensa, questi sono i problemi più grossi che agitano il cuore dei giovani, che non sanno per qual motivo sono nel mondo e che ruolo in esso debbono avere, problemi che si risolvono solo in ragione di una comprensione piena dell’amore nella loro vita. Una riflessione sulla vita eterna ci illumina sull’ordine logico della nostre attività terrene: primo è amare, secondo è il lavoro che fluisce come conseguenza di quella attività. Infatti un uomo è tale qualsiasi lavoro faccia, ma se non ama abbrutisce se stesso e si rinnega come essere umano. Dunque l’amore verso gli altri è il necessario, ed è la ragione della vita eterna. Le altre attività sono secondarie e non necessarie. Eppure noi vediamo che si passono anni e anni per imparare un mestiere, e non ci sono insegnamenti per imparare ed educarsi ad amare. La vita eterna ci dice infine che nella luce divina, noi siamo aperti sugli altri. Nell’amare Dio non solo siamo in relazione con lui, ma anche con tutti gli altri esseri umani che finalmente saremo capaci di amare, di apprezzare e di valorizzare, cose queste che forse nella nostra vita terrena non siamo stati in grado di praticare. Dunque mi sembra che di cose da fare ne avremo nonostante l’eternità, anche perché l’eterno non ha un prima e un dopo (=tempo), ma è una vita vissuta nell’attimo (tota simul) e in piena perfezione (perfecta possessio).

 Q

Publié dans:CREDO, Teologia |on 10 mai, 2016 |Pas de commentaires »

GIACOMO LEOPARDI – DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA

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GIACOMO LEOPARDI – DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA

1824 – dalle Operette Morali

L’originale dialogo fra la Terra e la Luna composto da Leopardi si snoda entro un contesto e mediante immagini che tengono conto delle interazioni di ambito fisico-astronomico fra i due corpi celesti (attrazione Qmareale, reciproche eclissi, moti di rotazione e di rivoluzione). Come in altre opere leopardiane, il contesto dell’osservazione del cielo non è mai separato dai sentimenti di natura esistenziale che essa suscita. Al di là delle differenze di ambiente, di prospettive geometriche, di moti e di possibili abitatori, la Terra e la Luna condividono la medesima riflessione: la felicità non è facile da ottenere e nessun corpo celeste può assicurarla; gli uomini sulla terra la cercano avidamente ma si affannano in attività che non la procurano.
Terra. Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una persona; secondo che ho inteso molte volte da’ poeti: oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in quell’età ragionevolmente debbono essere acutissimi. Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono né più né meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci molti figliuoli: sicché non ti maraviglierai di sentirmi parlare. Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il numero, io non ti ho fatto mai parola insino adesso, perché le faccende mi hanno tenuta occupata in modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare. Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso dire che vanno co’ loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia: però fo conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi molto pensiero dei fatti tuoi; quando non abbia a essere con tua molestia.
Luna. Non dubitare di cotesto. Così la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura che tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; che quantunque amica del silenzio, come credo che tu sappi, io t’ascolterò e ti risponderò volentieri, per farti servigio.
Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?
Luna. A dirti il vero, io non sento nulla.
Terra. Né pur io sento nulla, fuorché lo strepito del vento che va da’ miei poli all’equatore, e dall’equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch’è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l’ottava corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l’odo.
Luna. Anch’io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l’odo: e non so di essere una corda.
Terra. Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei tu popolata veramente, come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto mi sforzi di allungare queste mie corna, che gli uomini chiamano monti e picchi; colla punta delle quali ti vengo mirando, a uso di lumacone; non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene odo che un cotal Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una volta certi, che spandevano un bucato al sole.
Luna. Delle tue corna io non so che dire. Fatto sta che io sono abitata.
Terra. Di che colore sono cotesti uomini?
Luna. Che uomini?
Terra. Quelli che tu contieni. Non dici tu d’essere abitata?
Luna. Sì, e per questo?
Terra. E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi.
Luna. Né bestie né uomini; che io non so che razze di creature si sieno né gli uni né l’altre. E già di parecchie cose che tu mi sei venuta accennando, in proposito, a quel che io stimo, degli uomini, io non ho compreso un’acca.
Terra. Ma che sorte di popoli sono coteste?
Luna. Moltissime e diversissime, che tu non conosci, come io non conosco le tue.
Terra. Cotesto mi riesce strano in modo, che se io non l’udissi da te medesima, io non lo crederei per nessuna cosa del mondo. Fosti tu mai conquistata da niuno de’ tuoi?
Luna. No, che io sappia. E come? e perché?
Terra. Per ambizione, per cupidigia dell’altrui, colle arti politiche, colle armi.
Luna. Io non so che voglia dire armi, ambizione, arti politiche, in somma niente di quel che tu dici.
Terra. Ma certo, se tu non conosci le armi, conosci pure la guerra: perché, poco dianzi, un fisico di quaggiù, con certi cannocchiali, che sono instrumenti fatti per vedere molto lontano, ha scoperto costì una bella fortezza, co’ suoi bastioni diritti; che è segno che le tue genti usano, se non altro, gli assedi e le battaglie murali.
Luna. Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. Io dico di essere abitata, e tu da questo conchiudi che gli abitatori miei debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e tu consentendo che sieno altre creature, non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de’ tuoi popoli; e mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli; che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che io non so dove me gli abbia.
Terra. Dunque non sarà né anche vero che le tue province sono fornite di strade larghe e nette; e che tu sei coltivata; cose che dalla parte della Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono chiaramente.
Luna. Se io sono coltivata, io non me ne accorgo, e le mie strade io non le veggo
Terra. Cara Luna, tu hai a sapere che io sono di grossa pasta e di cervello tondo; e non è maraviglia che gli uomini m’ingannino facilmente. Ma io ti so dire che se i tuoi non si curano di conquistarti, tu non fosti però sempre senza pericolo: perché in diversi tempi, molte persone di quaggiù si posero in animo di conquistarti esse; e a quest’effetto fecero molte preparazioni. Se non che, salite in luoghi altissimi, e levandosi sulle punte de’ piedi, e stendendo le braccia, non ti poterono arrivare. Oltre a questo, già da non pochi anni, io veggo spiare minutamente ogni tuo sito, ricavare le carte de’ tuoi paesi, misurare le altezze di cotesti monti, de’ quali sappiamo anche i nomi. Queste cose, per la buona volontà ch’io ti porto, mi è paruto bene di avvisartele, acciò che tu non manchi di provvederti per ogni caso. Ora, venendo ad altro, come sei molestata da’ cani che ti abbaiano contro? Che pensi di quelli che ti mostrano altrui nel pozzo? Sei tu femmina o maschio? perché anticamente ne fu varia opinione. È vero o no che gli Arcadi vennero al mondo prima di te? che le tue donne, o altrimenti che io le debba chiamare, sono ovipare; e che uno delle loro uova cadde quaggiù non so quando? che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno?che sei fatta, come affermano alcuni Inglesi, di cacio fresco? che Maometto un giorno, o una notte che fosse, ti spartì per mezzo, come un cocomero; e che un buon tocco del tuo corpo gli sdrucciolò dentro alla manica? Come stai volentieri in cima dei minareti? Che ti pare della festa del bairam?
Luna. Va pure avanti; che mentre seguiti così, non ho cagione di risponderti, e di mancare al silenzio mio solito. Se hai caro d’intrattenerti in ciance, e non trovi altre materie che queste; in cambio di voltarti a me, che non ti posso intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un altro pianeta da girartisi intorno, che sia composto e abitato alla tua maniera. Tu non sai parlare altro che d’uomini e di cani e di cose simili, delle quali ho tanta notizia, quanta di quel sole grande grande, intorno al quale odo che giri il nostro sole.
Terra. Veramente, più che io propongo, nel favellarti, di astenermi da toccare le cose proprie, meno mi vien fatto. Ma da ora innanzi ci avrò più cura. Dimmi: sei tu che ti pigli spasso a tirarmi l’acqua del mare in alto, e poi lasciarla cadere?
Luna. Può essere. Ma posto che io ti faccia cotesto o qualunque altro effetto, io non mi avveggo di fartelo: come tu similmente, per quello che io penso, non ti accorgi di molti effetti che fai qui; che debbono essere tanto maggiori de’ miei, quanto tu mi vinci di grandezza e di forza.
Terra. Di cotesti effetti veramente io non so altro se non che di tanto in tanto io levo a te la luce del sole, e a me la tua; come ancora, che io ti fo gran lume nelle tue notti, che in parte lo veggo alcune volte. Ma io mi dimenticava una cosa che importa più d’ogni altra. Io vorrei sapere se veramente, secondo che scrive l’Ariosto, tutto quello che ciascun uomo va perdendo; come a dire la gioventù, la bellezza, la sanità, le fatiche e spese che si mettono nei buoni studi per essere onorati dagli altri, nell’indirizzare i fanciulli ai buoni costumi, nel fare o promuovere le instituzioni utili; tutto sale e si raguna costà [si ammassa lì, ndr]: di modo che vi si trovano tutte le cose umane; fuori della pazzia, che non si parte dagli uomini. In caso che questo sia vero, io fo conto che tu debba essere così piena, che non ti avanzi più luogo; specialmente che, negli ultimi tempi, gli uomini hanno perduto moltissime cose (verbigrazia l’amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine), non già solo in parte, e l’uno o l’altro di loro, come per l’addietro, ma tutti e interamente. E certo che se elle non sono costì, non credo si possano trovare in altro luogo. Però vorrei che noi facessimo insieme una convenzione, per la quale tu mi rendessi di presente, e poi di mano in mano, tutte queste cose; donde io penso che tu medesima abbi caro di essere sgomberata, massime del senno, il quale intendo che occupa costì un grandissimo spazio; ed io ti farei pagare dagli uomini tutti gli anni una buona somma di danari.
Luna. Tu ritorni agli uomini; e, con tutto che la pazzia, come affermi, non si parta da’ tuoi confini, vuoi farmi impazzire a ogni modo, e levare il giudizio a me, cercando quello di coloro; il quale io non so dove si sia, né se vada o resti in nessuna parte del mondo; so bene che qui non si trova; come non ci si trovano le altre cose che tu chiedi.
Terra. Almeno mi saprai tu dire se costì sono in uso i vizi, i misfatti, gl’infortuni, i dolori, la vecchiezza, in conclusione i mali? intendi tu questi nomi?
Luna. Oh cotesti sì che gl’intendo; e non solo i nomi, ma le cose significate, le conosco a maraviglia: perché ne sono tutta piena, in vece di quelle altre che tu credevi.
Terra. Quali prevalgono ne’ tuoi popoli, i pregi o i difetti?
Luna. I difetti di gran lunga.
Terra. Di quali hai maggior copia, di beni o di mali?
Luna. Di mali senza comparazione.
Terra. E generalmente gli abitatori tuoi sono felici o infelici?
Luna. Tanto infelici, che io non mi scambierei col più fortunato di loro.
Terra. Il medesimo è qui. Di modo che io mi maraviglio come essendomi sì diversa nelle altre cose, in questa mi sei conforme.
Luna. Anche nella figura, e nell’aggirarmi, e nell’essere illustrata dal sole io ti sono conforme; e non è maggior maraviglia quella che questa: perché il male è cosa comune a tutti i pianeti dell’universo, o almeno di questo mondo solare, come la rotondità e le altre condizioni che ho detto, né più né meno. E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi udita da Urano o da Saturno, o da qualunque altro pianeta del nostro mondo; e gl’interrogassi se in loro abbia luogo l’infelicità, e se i beni prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti risponderebbe come ho fatto io. Dico questo per aver dimandato delle medesime cose Venere e Mercurio, ai quali pianeti di quando in quando io mi trovo più vicina di te; come anche ne ho chiesto ad alcune comete che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno risposto come ho detto. E penso che il sole medesimo, e ciascuna stella risponderebbero altrettanto.
Terra. Con tutto cotesto io spero bene: e oggi massimamente, gli uomini mi promettono per l’avvenire molte felicità.
Luna. Spera a tuo senno: e io ti prometto che potrai sperare in eterno.
Terra. Sai che è? questi uomini e queste bestie si mettono a romore: perché dalla parte della quale io ti favello, è notte, come tu vedi, o piuttosto non vedi; sicché tutti dormivano; e allo strepito che noi facciamo parlando, si destano con gran paura.
Luna. Ma qui da questa parte, come tu vedi, è giorno.
Terra. Ora io non voglio essere causa di spaventare la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il maggior bene che abbiano. Però ci riparleremo in altro tempo. Addio dunque; buon giorno.
Luna. Addio; buona notte.
Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di L. Felici ed E. Trevi, Newton – I Mammut, Roma 1997, pp. 516-519.

Publié dans:Letteratura italiana |on 9 mai, 2016 |Pas de commentaires »

L’INQUIETUDINE NE « I PROMESSI SPOSI » E IL PERSONAGGIO DI DON RODRIGO

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L’INQUIETUDINE NE « I PROMESSI SPOSI » E IL PERSONAGGIO DI DON RODRIGO

Romano Luperini

L’inquietudine di Manzoni

Per molto tempo l’immagine di un Manzoni serenamente composto e armoniosamente classico ha impedito di coglierne la modernità. Questa interpretazione rassicurante, d’altronde coerente con lo spirito tradizionalista della cultura italiana, è stata abbandonata solo dalla critica più recente; e basti qui ricordare, a scopo esemplare, solo i nomi di Raimondi o di Calvino Sta emergendo insomma l’immagine di un Manzoni diverso, assai più problematico, assai più inquieto di quanto un tempo si sospettasse. Personaggi come Gertrude o l’innominato, così complessi e tormentati, affondano radici robuste nella cultura e nella psicologia dell’autore. Non sarà certo un caso se Manzoni, parlando di Pascal nelleOsservazioni sulla morale cattolica, dichiari di ammirare nei suoi Pensieri «lo sguardo turbato e confuso della contemplazione dell’abisso umano». Anche quello di Manzoni è «uno sguardo turbato» volto a contemplare l’«abisso umano» di questi grandi personaggi. Persino don Rodrigo, troppo spesso dipinto semplicemente come un «briccone dozzinale» o, addirittura, «un bestione» (Russo), conosce turbamenti e sfumature che gli fanno assumere alla fine una dimensione tragica. Nel caso di don Rodrigo e soprattutto dell’innominato, inoltre, gioca un ruolo di spicco non solo l’interesse psicologico e morale per gli abissi del cuore umano, ma anche quello culturale e politico per la figura del tiranno. D’altronde la sfera psicologica ed etica e quella culturale e politica sono sempre strettamente connesse nell’immaginario manzoniano, come mostrano anche le riflessioni sulle grandi personalità e sul problema del potere che costellano la sua opera: da Adelchi, al Conte di Carmagnola al Napoleone del Cinque maggio sino alla figura di Riccardo II nella Lettre à Monsieur Chauvet o al padre di Gertrude nei Promessi Sposi. In tutti questi casi il personaggio dell’uomo dotato di un grande potere o addirittura del despota ha una sua grandiosa cupezza che esclude messaggi semplificatori e unidirezionali.

L’inquietudine di don Rodrigo Rispetto a figure come queste don Rodrigo rischia senza dubbio di apparire un mediocre, un «tirannello» di paese. Su questo punto Manzoni è esplicito. Alla fine del cap. XIX infatti si legge:  “Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile.″ La contrapposizione rispetto all’innominato, autentico tiranno perché «salvatico», è evidente. D’altronde, nella Lettre à Monsieur Chauvet, Manzoni annota che in un’opera d’arte l’apparizione del male non va associata al sublime ma al mediocre. E tuttavia don Rodrigo non è amorale, cinico e spensierato come il conte Attilio, né organicamente malvagio e coerentemente immorale come Egidio. Pur nella sua rozzezza, è figura più complessa e turbata. Non manca in lui il tarlo di un senso di colpa per quanto sempre rimosso, di un oscuro timore acuito dal confronto con i ritratti degli antenati, dal sentimento di inferiorità o di impotenza, o addirittura di  castrazione come farebbe pensare il frequente ricorso alla spada come simbolo di un potere sadico-fallico e di una possibilità di risarcimento a esso connessa. Per questo, subito dopo il colloquiotempestoso non meno che perturbante con fra Cristiforo, l’arma viene da lui cercata e indossata per recarsi al “pubblico ridotto” – una casa da gioco o, più verosimilmente, stante il contesto psicologico, di malaffare – . L’ansia prodotta dal senso di colpa è avvertita da don Rodrigo come frustrazione di un bisogno di virilità e di potenza che dovrebbe escludere pentimenti e debolezze. Si tratta di un procedimento psicologico assai meno sfumato ma nella sostanza non molto diverso da quello dell’innominato nella notte della crisi esistenziale e religiosa quando il rimorso per l’ultimo crimine e la compassione per le lacrime di una donnicciuola vengono da lui inizialmente concepiti come una defaillance della propria virilità. L’incubo spaventoso provocato dalla febbre della peste – certo, uno dei più grandi sogni della letteratura italiana prima di Freud – è la traccia di un lavorìo dell’inconscio che al lettore moderno è impossibile sottovalutare. Anche don Rodrigo, dunque, è un tiranno inquieto? L’aggettivo non campare nei Promessi sposi, ma in Fermo e Lucia sì. All’inizio del cap. IX del quarto tomo don Rodrigo, ormai fuori di sé per la febbre, spia nel lazzaretto il ricongiungimento di Fermo, Lucia e fra Cristoforo. Vi si legge:  “Dal volto traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire”. È uno spunto bellissimo, uno dei non molti che fanno rimpiangere la redazione iniziale. È come se qui, nella infermità delirante della malattia giunta alla sua fase terminale, in questo spiare geloso e minaccioso ma anche implorante una solidarietà da cui si sente escluso, si rivelasse finalmente la verità di don Rodrigo, il lato incerto e inquieto del suo carattere, timoroso e aggressivo, egualmente disposto a fuggire e a inseguire, in una crisi di sicurezza e di identità che la stesura definitiva conferma ma in parte anche rimpiccolisce. __________________

NOTA Questo testo è stato concepito originariamente come relazione introduttiva al Congresso degli italianisti tedeschi, all’Università di Marburg, in Germania, tenuta il 29 febbraio 2008.

Publié dans:Letteratura italiana |on 9 mai, 2016 |Pas de commentaires »

THE HOLY TRANSFIGURATION OF OUR LORD,

THE HOLY TRANSFIGURATION OF OUR LORD, dans immagini sacre Preobrawenie

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Publié dans:immagini sacre |on 6 mai, 2016 |Pas de commentaires »

ALZIAMO LO SGUARDO E I SENSI VERSO LE PORTE CELESTI DI MANUEL NIN

http://fonte-culmine.over-blog.com/article-l-ascensione-del-signore-75488728.html

ALZIAMO LO SGUARDO E I SENSI VERSO LE PORTE CELESTI DI MANUEL NIN

fonte: (L’Osservatore Romano 2 giugno 2011)  

L’Ascensione, celebrata il quarantesimo giorno dopo la Risurrezione, è una delle grandi feste comuni a tutte le Chiese cristiane. Testimoniata già da Eusebio di Cesarea attorno al 325, nella tradizione bizantina si prolunga per una settimana nella sua ottava. Due tropari del mattutino sono dell’innografo Romano il Melode (+555) e appartengono al lungo kontàkion, inno che Romano compone per la festa e nel quale si snodano i diversi aspetti teologici della celebrazione, che porta nei libri liturgici bizantini il titolo di Ascensione del Signore e Dio e salvatore nostro Gesù Cristo. Romano parte dalla narrazione biblica dell’ascensione nel vangelo di Luca e negli Atti degli apostoli, e la sviluppa lungo le 18 strofe del poema, ognuna delle quali si conclude sempre con lo stesso versetto: « Non mi separo da voi. Io sono con voi e nessuno sarà contro di voi », che riprende tre testi biblici (Aggeo, 1, 8, Matteo, 28, 20 e soprattutto Romani, 8, 31). Tutta l’economia della salvezza portata a termine da Cristo è vista da Romano come la restaurazione della piena comunione tra il cielo e la terra, di cui l’Ascensione diventa il sigillo: « Compiuta l’economia a nostro favore, e congiunte a quelle celesti le realtà terrestri, sei asceso nella gloria, o Cristo Dio nostro, senza tuttavia separarti in alcun modo da quelli che ti amano; ma rimanendo inseparabile da loro, dichiari: Io sono con voi, e nessuno è contro di voi ». L’ascensione del Signore, inoltre, non è un allontanarsi dagli uomini, un lasciarli soli, bensì un pegno del suo amore, della sua consolazione: « Eleviamoci, leviamo in alto occhi e mente, alziamo lo sguardo e i sensi verso le porte celesti, pur essendo mortali; immaginiamo di andare al monte degli Ulivi e di vedere il Redentore portato da una nube: di là, lui che ama donare, ha distribuito doni ai suoi apostoli, consolandoli come un padre, guidandoli come figli e dicendo loro: Non mi separo da voi: io sono con voi e nessuno è contro di voi ». Romano si sofferma poi sulla protezione e la cura che il Signore ha avuto e ha dei discepoli e della Chiesa. Con un’immagine presa dal Deuteronomio (32, 11), Cristo sul monte dell’ascensione è paragonato all’aquila che dall’alto sorveglia e protegge la sua nidiata, immagine che la tradizione bizantina poi applica anche alla cura del vescovo verso la sua chiesa: « I discepoli, condotti sul monte degli Ulivi, circondavano il loro benefattore, e lui stendendo le mani come ali, coprì come un’aquila il nido affidato alle sue cure e disse ai suoi uccellini: Vi ho protetti da ogni male: amatevi dunque come io vi ho amati. Non mi separo da voi: io sono con voi e nessuno sarà contro di voi. Come Dio e Creatore dell’universo io stendo sopra di voi le mie mani, quelle legate e inchiodate sul legno. Nel chinare il vostro capo sotto queste mani voi riconoscete quel che faccio: io impongo su voi le mie mani come battezzandovi e vi mando pieni di luce e di saggezza ». L’ascensione provoca la tristezza e il lamento degli apostoli che presentano a Cristo l’elenco di ciò che ognuno di essi ha fatto e lasciato, quasi un modello delle condizioni richieste al cristiano: « Abbiamo rinunciato a tutta la nostra vita, siamo diventati stranieri e pellegrini sulla terra. Pietro, il primo tra di noi a farsi tuo seguace, si privò di tutti i suoi averi. Andrea suo fratello abbandonò i suoi beni terreni e si caricò sulle spalle la tua croce. Tu vuoi trascurare e disdegnare l’amore dei figli di Zebedeo? Essi ti anteposero perfino il loro padre. Noi amiamo te più di ogni altro ». Romano descrive ancora l’ascensione di Cristo con profusione di dettagli, servendosi di versetti dei Salmi letti in chiave cristologica: « Dio fece segno ai santi angeli che preparassero per i suoi santi piedi la salita, ed essi gridarono a tutti i principati celesti: Sollevate i cancelli e spalancate le gloriose porte celesti per il Signore della gloria! O nubi, distendetevi sotto colui che avanza. Signore, il tuo trono è pronto. Innalzati, vola sulle ali del vento ». È da notare ancora il collegamento tra la nube che copre e nasconde Cristo allo sguardo degli apostoli e Maria sua madre: « La nuvola discese ad accogliere colui che è il condottiero delle nubi, lo prese e lo sorresse: o piuttosto fu sorretta, poiché quello stesso che era portato portava colei che lo reggeva, come una volta Maria. La Scrittura allude a Maria chiamandola nuvola [cfr. Isaia 19, 1], ella che fu custodita da lui mentre dimorava in lei ».  

Publié dans:feste del Signore, Ortodossia |on 6 mai, 2016 |Pas de commentaires »

08 MAGGIO 2016 | 7A DOMENICA: ASCENSKIONE – ANNO C | OMELIA

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08 MAGGIO 2016 | 7A DOMENICA: ASCENSKIONE – ANNO C | OMELIA

Per cominciare Gesù sale al cielo. Gli apostoli ne sono testimoni e si fanno carico di annunciarlo a tutte le genti. Intanto si mettono in preghiera, in attesa dello Spirito Santo promesso da Gesù. È così che gli apostoli continueranno a rendere presente il racconto della sua vita e daranno vita alla chiesa.

La parola di Dio Atti 1,1-11. L’evangelista Luca riprende la narrazione dalla conclusione del suo vangelo. È l’inizio del libro degli Atti. I primi cinque versetti costituiscono il « prologo » e Luca si aggancia al racconto della risurrezione di Gesù. Prima di salire al cielo, Gesù si mostra vivo per 40 giorni. Gli altri versetti presentano il racconto dell’Ascensione di Gesù e la promessa dello Spirito Santo. Ebrei 9,24-28; 10,19-23. In questo brano della Lettera agli Ebrei l’autore paragona i sacerdoti ebraici e Gesù, i loro sacrifici e quello compiuto da Gesù. Il Figlio di Dio offre se stesso in sacrificio una volta sola, nella pienezza dei tempi e annulla il peccato di tutti. Quindi sale nella casa di Dio, alimentando così la nostra speranza di poter condividere la sua stessa gloria. Luca 24,46-53. Gesù spiega agli apostoli il senso delle Scritture, il significato della sua morte e risurrezione. Poi li benedice prima di salire in cielo, ricordando che nel suo nome verranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati. Promette loro lo Spirito Santo, essi, dopo essersi prostrati davanti a lui, ritornano a Gerusalemme pieni di gioia.

Riflettere

L’evangelista Luca apre gli Atti degli apostoli e dedica le ultime righe del suo vangelo al racconto dell’Ascensione. Gli Atti degli apostoli si direbbe che comincino con un dialogo deludente. Alcuni degli apostoli domandano: « È questo il tempo in cui ricostruirai il regno d’Israele? ». Domanda incredibile e scoraggiante. È sempre la stessa mentalità ebraica che salta fuori. Anche adesso. Anzi, proprio adesso che Gesù si è dimostrato più forte della morte, vincitore, nonostante la terribile prova della croce. Dunque gli apostoli non hanno veramente capito Gesù. Ma con l’Ascensione egli li costringe ad aprire gli occhi. L’Ascensione diventa per loro una nuova importante esperienza di fede, e li convince che il suo regno non è di questo mondo. Per Gesù l’Ascensione al cielo rappresenta la sua personale piena glorificazione. « Salire al cielo » è un modo simbolico di parlare, così come la nube che lo sottrae agli occhi degli apostoli e indica che Gesù entra nel « mondo di Dio » da dove è partito. Ora « siede alla destra del Padre », altra espressione simbolica, per indicare che per Gesù c’è una vera e propria « intronizzazione », un riprendere il posto che gli spetta, come persona uguale al Padre, Dio lui stesso. Ed è una glorificazione che passa attraverso la sua umanità fedele e la vittoria sulla morte. È infatti lo stesso Gesù, nata da Maria, che siede accanto al Padre. Quel corpo simile al nostro che ha conosciuto la fatica e le piaghe della passione, i chiodi della croce. « Uno di noi è Dio », ha scritto qualcuno. L’Ascensione di Gesù rappresenta anche la glorificazione piena della nostra umanità. Gesù è davvero uno di noi. Come dice il concilio: « Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo… ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato » (GS, 22). « Dio è disceso », scrivono due catecheti, i coniugi francesi Lagarde, « si è fatto carne e risale con la sua carne, lasciando vuota la tomba. Gesù è disceso fino alla croce, per risalire con la sua carne fino al cielo. Tutta la vita donata di Gesù fu una sequenza di piccole « discese », fino a quel grande abbassamento che fu la croce: egli discese nella morte! Alla discesa nell’abisso della passione, la grande Ascensione ». Gesù non abbandona la terra. La sua sarà una presenta diversa: nei sacramenti, nella chiesa, nei fratelli. « Tutto quello che vi era di visibile nel nostro redentore, con la sua Ascensione è passato nei riti sacramentali e nel magistero… », dice il papa Leone Magno. Gesù di là ci attende anche come giudice. Tornerà glorioso alla fine della storia e tutti saremo confrontati con lui. Prima di partire Gesù investe della sua missione gli apostoli. Dovranno responsabilizzarsi, fondare la chiesa, farsi testimoni di lui fino agli estremi confini della terra. Essi fissano i loro occhi al cielo, mentre Gesù se ne va, ma nel racconto degli Atti « due uomini in bianche vesti » li invitano ad attendere la seconda venuta finale di Gesù, alla fine dei tempi. Un’attesa destinata alla costruzione del suo regno. Gesù non li lascia soli, promette lo Spirito Santo. Sarà la loro luce, la loro forza. E dopo l’Ascensione si chiudono in preghiera nel cenacolo, in attesa della Pentecoste.

Attualizzare

Con l’Ascensione Gesù disegna il nostro destino e risponde ai grandi interrogativi dell’uomo sull’aldilà. In forza della sua risurrezione e la testimonianza degli apostoli, noi siamo certi dell’attendibilità di ciò che lui ha detto e di ciò che ci aspetta: anche noi vivremo nell’eternità e faremo parte del mondo di Dio. È con l’Ascensione che cominciano a realizzarsi i sogni di Dio sull’umanità: la nascita della chiesa, l’inizio del regno di Dio, l’uomo che si lascia investire della responsabilità di continuare l’opera di Gesù. Per questo dobbiamo anche noi prendere atto di ciò che Gesù ha chiesto agli apostoli e sentirci i loro continuatori. La chiesa è la comunità che Gesù ha voluto per realizzare i progetti di Dio sul mondo. Il regno di Dio comincia qui. Trova nella chiesa le sue radici e i suoi germogli. Dovremmo sentirci gratificati da questo compito che Gesù ci affida. Come non parlare di lui, di ciò che lui ha detto e fatto? Come non magnificare attraverso la nostra testimonianza, la parola e la vita, la bontà e la grandezza di Dio? Pur rimanendo affidato ancora principalmente nelle mani di Dio, attraverso lo Spirito, il regno di Dio cammina con noi, per mezzo di noi. Ci si deve dunque anche chiedere quali parole un cristiano deve usare per giungere al cuore dell’uomo d’oggi. Quali mezzi e tecniche usare per far giungere all’uomo d’oggi il messaggio del risorto. Con la diffusione di nuovi mezzi tecnologici, soprattutto quelli digitali, aumenta la possibilità e anche la responsabilità dell’annuncio evangelico. In uno dei messaggi per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali, Benedetto XVI scrive che con la diffusione di nuovi mezzi tecnologici, soprattutto quelli digitali, aumenta la possibilità e anche la responsabilità dell’annuncio evangelico. E sottolinea che il mondo digitale mette a disposizione mezzi che rendono possibile una capacità di espressione pressoché illimitata. Attraverso il mondo digitale, dice il papa, il cristiano può far capire meglio che l’amore di Dio per noi « non è una cosa del passato e neppure una teoria erudita, ma una realtà del tutto concreta e attuale ».

Il cuore in Paradiso Del Beato Sebastiano Valfrè si diceva: « Quel prete ha negli occhi il Paradiso! ». Don Bosco diceva: « Camminate con i piedi per terra, ma con il cuore abitate nel cielo ». Don Bosco diceva anche, di fronte alle difficoltà: « Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto ».

« Gli atei vanno in paradiso? » Così si domanda una ragazza, che scrive su internet: « Io penso di essere atea. Comunque conosco molte persone, tra cui i miei genitori, che sono atee e non solo non credono che ci sia una vita dopo la morte, ma neanche la vorrebbero avere un’anima senza un corpo. A volte la chiesa ci dice che queste persone, se all’ultimo momento cercano Dio, vengono comunque salvate. In ogni caso non penso che meritino l’inferno. Voi che ne dite? ». Come si vede, il problema dell’aldilà coinvolge tutti, anche chi si dice o pensa di essere ateo

Don Umberto DE VANNA sdb

TRANSFIGURAZIONE DI GESÙ – NON E’ FACILE PARLARE DI UNA PERSONA

http://www.adonaj.it/782/chi-e-per-noi

TRANSFIGURAZIONE DI GESÙ – NON E’ FACILE PARLARE DI UNA PERSONA

Parlare di cose o oggetti non è poi tanto difficile. Le cose si possono descrivere: non reclamano e neppure protestano se ci inganniamo sul loro conto. Parlare di persone è già più difficile: possono protestare se giudicano la descrizione non corrispondente alla realtà. Inoltre, la persona umana con tutto il peso della sua vita, dei suoi sentimenti e dei suoi ideali assume dimensioni smisurate, che le nostre parole non possono contenere. Il cuore dell’uomo è sempre un mistero che nessuno riesce a sondare completamente. Si potrebbe anche pensare di conoscere bene l’altro, ma, quando meno ci si aspetta, questo altro dice e fa cose del tutto impreviste. Quante volte si finisce col dover dire (e questo accade molte volte nella esistenza di una persona):”Mi sono proprio sbagliato riguardo a quel tale!” (e questo sia nel bene e nel male). Ancora più difficile è parlare di una persona discussa dappertutto, a carico della quale esistono le più svariate opinioni e che, da parte sua, si presenta con esigenze e fa le sue critiche alla vita che conduciamo noi. Parlare di una persona del genere vuol dire compromettersi. In questo caso, non è possibile restare neutrali o esprimere un’opinione personale, senza prendere posizione. Si voglia o no, bisogna per forza fare una scelta, sia a favore che contro. Perciò è difficile parlare di una persona del genere. Si corre sempre il rischio di mescolare le nostre idee con la descrizione che facciamo di lei.

La difficoltà che nasce quando ci accingiamo a parlare di Gesù Cristo

Quando ci mettiamo a parlare di Gesù, succede spesso proprio così. Gesù non può essere contenuto dalle nostre parole e neppure dalle nostre idee. E, meno male! Egli è sempre più grande di tutto quanto possiamo pensare e dire di Lui. A volte crediamo di sapere per filo e per segno tutto quello che Gesù è e chiede da noi ma, all’improvviso, quando meno ci si aspetta, Egli fa irruzione nella nostra vita, mettendone in rilievo l’uno o l’altro aspetto, l’una o l’altra esigenza, fino a quel momento a noi sconosciuti. Gesù, infatti, non appartiene al passato, non è qualcuno che è stato. Continua ad essere vivo, tutt’oggi. Sta sempre là, a correggere le idee sbagliate e comodiste, che noi ci siamo fabbricate su di Lui. E, poi, viene con tale esigenza che, volere o no, ci si sente costretti a prendere posizione e a dire sì o no. Non è possibile scuotere le spalle e dire.”Non me ne importa niente”. La nostra più grande tentazione è quella di inquadrare Gesù negli schemi delle nostre idee, trasformandolo in una specie bestia da soma, per caricarlo di tutti i nostri desideri. Il che sarebbe possibile solo nella nostra fantasia. Gesù sfugge alla nostra sete di possesso. Anzi, lui stesso ha detto un giorno, che nessuno lo conosce se non il Padre e colui al quale il Padre lo vuol rivelare. Per tutte queste ragioni è così difficile parlare di Gesù. Gesù non è uno capitato qui per caso, e neppure uno che dice cose senza importanza. Si tratta della vita e della morte, della luce e delle tenebre, della verità e della menzogna, della salvezza e della perdizione. Si tratta, come possiamo ben comprendere, del senso della vita umana. Non è possibile trascurare la sua Parola, come se si trattasse di cose senza valore. Esse riguardano argomenti molto seri. Chi vuol davvero prendere sul serio la vita dovrà almeno essere così onesto da conoscere tutto ciò e verificarlo con sincerità. Da quando Gesù è venuto nel mondo e ha predicato la Buona Novella, qualsiasi tentativo di fare un discorso sul senso della vita, senza tenere conto di quello che la storia ha registrato fino ad oggi, è del tutto superato. Sarebbe come se uno si mettesse a parlare dell’illuminazione della città, senza sapere che cos’è l’energia elettrica; o se si mettesse a parlare della salute della gente, senza sapere che cosa ha scoperto e realizzato la medicina durante gli ultimi anni.

Publié dans:meditazioni |on 5 mai, 2016 |Pas de commentaires »
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