Archive pour mai, 2016

IL TEMPO DELLE «SETTE PASQUE»

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IL TEMPO DELLE «SETTE PASQUE»

di Antonio Tarzia  

Ogni religione che si richiami ad Abramo, ogni confessione cristiana ha la sua pasqua: tutte simili e tutte diverse, legate al filo rosso della tradizione biblica, dove c’è un agnello da sacrificare, pane azzimo, erbe amare, coppe di vino, preghiere e canti di antiche liturgie. Ne I Vangeli di Pasqua (editi nel 1993 dalla Periodici San Paolo) monsignor Gianfranco Ravasi presenta con accurata e affascinante documentazione almeno «sette pasque» diverse. Da quella sobria e un po’ laica dei fratelli evangelici, «Pasqua dei protestanti» tutta racchiusa nella celebrazione della Parola e del canto (come non ricordare l’oratorio musicale di Johann Sebastian Bach, capolavoro e vertice di spiritualità!) a quella più antica dei figli del deserto, «Pasqua dei nomadi», che si celebra ancora oggi sotto la tenda dei beduini. All’arrivo della primavera si festeggia la partenza verso i nuovi pascoli mangiando pane azzimo ed erbe del deserto. L’agnello già sacrificato è appeso al palo. Molti sono gli agnelli che si sacrificano sul monte Garizim (a 5 chilometri da Nablus). Qui si celebra, chiaramente legata ai dettami del Pentateuco, la «Pasqua dei samaritani» popolo di antica eresia che troviamo citato più volte nell’Antico Testamento e in quasi tutti i Vangeli. Gesù fa di alcuni samaritani i protagonisti delle sue parabole. In Terra Santa come in ogni casa di ebrei sparsa per il mondo, la settimana dopo il plenilunio di marzo si celebra ogni anno la «Pasqua giudaica» con il complesso e solenne rito descritto nell’Esodo, con il canto dell’haggadah (narrazione dialogata tra padre e figlio, fonte e trasmissione della tradizione religiosa) e dell’hallel (salmi 114-118). Quindi il pane azzimo, le coppe di vino e le benedizioni. Gesù nell’ultima cena celebrò questa Pasqua che elevò a sacramento con l’istituzione dell’Eucaristia. «Pasqua di Gesù e dei cristiani»: i cattolici in tutto il mondo celebrano secondo il Vangelo la loro Pasqua di morte e di resurrezione del Signore che va dalla Domenica delle palme fino al « gloria » di Pasqua. Memoriale ed evento di salvezza nella storia dell’uomo. Cresciuta su radici bibliche ma legata alle prescrizioni coraniche è la «Pasqua araba». L’agnello che si immola non è un richiamo a quello della notte dell’Esodo ma fa memoria del sacrificio di Abramo che, secondo il Corano (Sûra 37,99-113), porta sul monte Mòria per offrirlo a Dio il giovane Ismaele. Se sono simili i riti e le preghiere pasquali, non è ancora comune la data della celebrazione. Anche tra i cristiani c’è un diverso calendario secondo le confessioni. Nel 2010 coincidono la festività cattolica con la «Pasqua ortodossa». I fratelli ortodossi cominciano con i riti del «grande Giovedì» (istituzione dell’Eucaristia, lavanda dei piedi e tradimento di Giuda) per culminare con il grido del mattino di Pasqua «Gesù Cristo vince!» (Iesus Christòs nikà!). Intanto i fedeli nelle chiese si scambiano tre baci esclamando: «Cristo è risorto!» e rispondendo «Veramente è risorto!».

 

Publié dans:BIBBIA, STORIA - STUDI VARI |on 16 mai, 2016 |Pas de commentaires »

UN PRESENTE ETERNO TRA PASSATO E FUTURO

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UN PRESENTE ETERNO TRA PASSATO E FUTURO

di Roberto Morozzo della Rocca

Il mondo cattolico è stato al tempo stesso intransigente nel rifiuto della modernità e transigente nel modificare i suoi costumi nel lungo periodo. Il Sillabo (1864) è una condanna apparentemente irrevocabile della modernità. Ma esiste il definitivo nel fluire storico? Peraltro il cattolicesimo è stato disponibile alla modernità tecnica che facilitava la vita quotidiana e l’economia. Inoltre c’è stato il graduale accoglimento del pensiero politico moderno. La democrazia, avversata nell’Ottocento, nel secolo successivo è stata approvata, rivendicandone l’origine al cristianesimo. Senza cedere però su punti ritenuti essenziali alla propria identità. Infatti la Chiesa cattolica ha appoggiato i partiti democratici d’ispirazione cristiana, ma non è diventata essa stessa una democrazia. Si regge sulla comunione, non sul consenso democratico. Tanto meno la Chiesa cattolica ha assunto le sembianze di un’agenzia umanitaria internazionale. Non ha confuso il suo profilo religioso con messianismi terreni. Si è qualificata come pilastro dell’Occidente mantenendo però una dimensione universale che l’ha immunizzata dal mito del progresso risolutore presente nell’Occidente. Ha conservato formule comunitarie per vivere la fede senza concessioni eccessive all’individualismo. Nel cuore del Novecento Emmanuel Mounier definiva la Chiesa cattolica « personalista e comunitaria » al tempo stesso. Mentre eruditi patrologi dimostravano come la Chiesa antica considerasse la salvezza realtà prettamente comunitaria, connessa non all’individuo isolato, ma all’unità del genere umano, corpo mistico di Cristo, essendo tutti gli uomini costituiti e ordinati a uguale immagine di Dio. Daniele Menozzi vede « contrapposizione tra cattolicesimo e modernità – stemperata da una modernizzazione che, pur estrinsecandosi in una parziale ricezione dei diritti dell’uomo, non si è mai risolta nella piena accettazione dell’autonomia dell’uomo nel fabbricare la sua città ». Questa contrapposizione c’è stata. Dalla Rivoluzione francese sino al Vaticano II la Chiesa cattolica si è opposta alla modernità, anche se ne accettava il mero progresso tecnico. Occorre tener presente che la modernità ha tentato di dominare la Chiesa oppure di svuotarla attraverso la secolarizzazione. Roma non ha mai accettato di essere dominata da prìncipi e imperatori. e in anni recenti non ha gradito la supremazia incontrastata degli imperialismi. Che la sua agenda potesse essere dettata dalla modernità la inorridiva. Il conflitto tra cattolicesimo e modernità è stato alimentato da entrambe le parti. L’uno ha difeso gelosamente la Tradizione, comprensiva di un antico monopolio della verità. L’altra ha visto il nemico nella religione. Fino a trent’anni fa, in Occidente, più modernità significava meno religione, e si pensava che la storia andasse verso una universale secolarizzazione. Per altro verso, quanto Menozzi intende come negativo è visto invece come un valore dal cattolicesimo romano non intenzionato a mutare la sua concezione dell’uomo secondo le idee correnti. Il cattolicesimo non accetta che l’uomo moderno sia essenzialmente diverso dall’uomo antico. E non si prefigge di colmare fossati e di recuperare terreni perduti, né di apparire attuale rivendicando, alla maniera dei protestanti, primogeniture nei processi di modernità. Il sensus fidelium non lo permetterebbe. Perché affannarsi quando la modernità è stata anche rivoluzioni distruttive, terrore e violenza, totalitarismi genocidari, razzismo e antisemitismo, stragi d’innocenti, lager e gulag, Cambogia e Ruanda? Aggiornamento sì, secolarismo no:  così il concilio Vaticano II che ha comunque rappresentato una cesura, non della continuità della Tradizione ma di un’attitudine di diffidenza verso le realtà terrene per sospingere i cattolici a inedita cordiale simpatia innanzi all’umanesimo contemporaneo e alla città dell’uomo. Come affermava Paolo VI nel discorso di chiusura del Vaticano II:  « L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (…) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo ». Dopo il concilio Vaticano II, la modernità è accettata dalla Chiesa cattolica. Ma con una doppia riserva. Che non venga ad alterarne la struttura interna e la dottrina. Che sia sottoposta, in ciascuna delle sue manifestazioni, a una verifica etica. Giovanni XXIII citava volentieri un pensiero di Bergson, le corps aggrandi attend un supplément d’âme, trovandolo « bene applicato al progresso della scienza. Questa pone problemi non solo scientifici, ma giuridici, filosofici, morali, religiosi:  e se la sua potenza si accresce occorre che il dotto accresca la sua sapientia:  quella che è norma di vita, legge morale, e riconoscimento di valori superiori ». Analogamente Benedetto XVI:  « Penso che il vero problema della nostra situazione storica sia lo squilibrio fra la crescita incredibilmente rapida del nostro potere tecnico, del sapere, del know-how, e quella della nostra capacità morale, che non è cresciuta in modo proporzionale ». Papa Ratzinger rileva un senso etico insufficiente « ad usare correttamente la tecnica, che pure ci vuole ». Come scrive nella Spe salvi:  « È necessaria un’autocritica dell’età moderna (…) Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo ». Benedetto XVI non crede nel progresso per se stesso, svincolato dal discernimento etico dell’uomo. Ragione e libertà dell’uomo – pilastri del progresso e della modernità – hanno valore soltanto se conducono a discernere tra il bene e il male:  « in caso contrario la situazione dell’uomo, nello squilibrio tra capacità materiale e mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato ». La fede nel progresso umano, che connota la modernità, incorrerebbe in un errore fondamentale, quello di scambiare il progresso materiale, addizionabile entro i limiti consentiti dalle leggi fisiche della natura, con il progresso dell’uomo come essere vivente, che non è addizionabile, in quanto connesso all’esercizio di ragione e libertà nelle scelte etiche, le quali sono sempre nuove e sempre fragili. Per la Chiesa cattolica dei nostri giorni è un dato certo:  il progresso, il nuovo, la modernità non rivestono a priori un significato positivo e neppure negativo. Non hanno una valenza neutra, possono causare il male, ma possono  anche  essere  orientati al bene. Non producono il paradiso in terra, che è irrealizzabile, ma possono concorrere al bene sulla terra. Certo l’evangelico Regno di Dio è altro. Ma la modernità è oggetto di dialogo da parte della Chiesa. Paolo VI fece del dialogo con la modernità quasi la cifra del suo pontificato, nello spirito del Vaticano II. La Chiesa cattolica resta fedele a una duplice visione della storia. C’è un momento del passato che racchiude già tutta la storia, ed è la passione, morte e resurrezione di Cristo, evento che esaurisce la storia e al tempo stesso la muove e la motiva dinamicamente verso un cosmico atto finale, la Parusia. Così la Chiesa cattolica è a un tempo antimoderna e moderna. Da una parte, la croce e la resurrezione di Cristo sono fissate nel passato ormai remoto. Dall’altra, l’eternità, non il tempo storico, è il destino ultimo dell’uomo. Eppure, la storia ha per i cattolici uno svolgimento, un’intensità ontologica, una valenza salvifica nel presente. Il cristianesimo ha precipuo carattere storico, non è ritualità di gesti e pensieri, non è circolarità di eventi che si ripetono, non è dogma che imprigiona la creatività. E la storia ha un senso, una direzione, oltre che un’imprevedibilità dovuta al libero arbitrio dell’uomo. Si obietterà che il credente tutto vede sub specie aeternitatis, che la preghiera e la contemplazione sono fuga dal secolo e dalle opere della storia, che la fede disprezza le realtà temporali poiché non esiste storia dell’eterno. Henri de Lubac, che definisce la storia « interprete obbligato tra Dio e ciascuno di noi », risponderebbe che « per elevarsi fino all’eterno bisogna necessariamente appoggiarsi sul tempo e lavorare in esso. A questa legge essenziale s’è sottomesso il Verbo di Dio:  è venuto per liberarci dal tempo – ma per mezzo del tempo:  propter te factus est temporalis, ut tu fias aeternus. Legge d’incarnazione (…) Sull’esempio di Cristo ogni cristiano deve accettare la condizione d’essere impegnato nel tempo; condizione che lo fa solidale di tutta la storia, di maniera che il suo rapporto con l’eterno va di pari passo con un rapporto con un passato che sa immenso e con un avvenire la cui durata gli sfugge ». L’idea cattolica è che fede e storia stiano insieme. Ma anche il contrasto tra fede e scienza deriverebbe dall’equivoco che le vuole a competere nella stessa dimensione quando invece i lumi della fede e i lumi della scienza apparterrebbero a ordini diversi. Ma allora le secolari polemiche sull’oscurantismo cattolico? Il caso Galilei e l’atavico timore che la teologia non controlli più la scienza? O che la scienza divenuta autonoma metta in dubbio la teologia? E la condanna del modernismo in cui la teologia chiedeva aiuto alla scienza ormai emancipata? In realtà, la Chiesa cattolica è una complexio oppositorum in cui si va da un estremo all’altro. Per citare Yves Congar:  « La grandezza, secondo Pascal, è di tenere gli estremi e di riempire lo spazio tra loro. Il cattolicesimo è gerarchico e si rinnova a partire dalla base; si riversa nel pluralismo e abbonda in mistici; parla di sofferenza e di croce e, gioioso, preconizza lo sviluppo dei più alti valori umani; limita le pretese della ragione e ne rivendica le possibilità (…) Il cattolicesimo sarebbe questa complexio oppositorum (…) Il cattolicesimo è la pienezza, e, così come si è espresso nell’ultimo concilio, sintesi:  non il papa senza collegio, non il collegio senza il papa; non la Scrittura senza la Tradizione, non la Tradizione senza la Scrittura ». Nell’articolato organismo cattolico l’unità è fatta da Roma, dal papato, che in età contemporanea, da una parte, ha combattuto la modernità in quanto secolarizzazione, e dall’altra parte ha tenuto la modernità in debita considerazione perché rappresentava il presente dell’uomo cui annunciare il kèrygma cristiano. Mai che la modernità metta in discussione il dogma. Ma può esserci l’aggiornamento, la simpatia per la progrediente avventura umana, la valorizzazione dei segni dei tempi. Si vaglia il nuovo, per rigettarlo se insidia identità o dottrina, per sostenerlo se utile a salvare le anime.

(L’Osservatore Romano 3 ottobre 2009)

 

Pentecoste, discesa dello Spirito Santo

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Publié dans:immagini sacre |on 13 mai, 2016 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – OMELIA NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE (2010)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2010/documents/hf_ben-xvi_hom_20100523_pentecoste.html

CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana

Domenica, 23 maggio 2010

Cari fratelli e sorelle,

nella celebrazione solenne della Pentecoste siamo invitati a professare la nostra fede nella presenza e nell’azione dello Spirito Santo e a invocarne l’effusione su di noi, sulla Chiesa e sul mondo intero. Facciamo nostra, dunque, e con particolare intensità, l’invocazione della Chiesa stessa: Veni, Sancte Spiritus! Un’invocazione tanto semplice e immediata, ma insieme straordinariamente profonda, sgorgata prima di tutto dal cuore di Cristo. Lo Spirito Santo, infatti, è il dono che Gesù ha chiesto e continuamente chiede al Padre per i suoi amici; il primo e principale dono che ci ha ottenuto con la sua Risurrezione e Ascensione al Cielo. Di questa preghiera di Cristo ci parla il brano evangelico odierno, che ha come contesto l’Ultima Cena. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,15-16). Qui ci viene svelato il cuore orante di Gesù, il suo cuore filiale e fraterno. Questa preghiera raggiunge il suo vertice e il suo compimento sulla croce, dove l’invocazione di Cristo fa tutt’uno con il dono totale che Egli fa di se stesso, e così il suo pregare diventa per così dire il sigillo stesso del suo donarsi in pienezza per amore del Padre e dell’umanità: invocazione e donazione dello Spirito s’incontrano, si compenetrano, diventano un’unica realtà. «E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre». In realtà, la preghiera di Gesù – quella dell’Ultima Cena e quella sulla croce – è una preghiera che permane anche in Cielo, dove Cristo siede alla destra del Padre. Gesù, infatti, vive sempre il suo sacerdozio d’intercessione a favore del popolo di Dio e dell’umanità e quindi prega per tutti noi chiedendo al Padre il dono dello Spirito Santo. Il racconto della Pentecoste nel libro degli Atti degli Apostoli – lo abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr At 2,1-11) – presenta il “nuovo corso” dell’opera di Dio iniziato con la risurrezione di Cristo, opera che coinvolge l’uomo, la storia e il cosmo. Dal Figlio di Dio morto e risorto e ritornato al Padre spira ora sull’umanità, con inedita energia, il soffio divino, lo Spirito Santo. E cosa produce questa nuova e potente auto-comunicazione di Dio? Là dove ci sono lacerazioni ed estraneità, essa crea unità e comprensione. Si innesca un processo di riunificazione tra le parti della famiglia umana, divise e disperse; le persone, spesso ridotte a individui in competizione o in conflitto tra loro, raggiunte dallo Spirito di Cristo, si aprono all’esperienza della comunione, che può coinvolgerle a tal punto da fare di loro un nuovo organismo, un nuovo soggetto: la Chiesa. Questo è l’effetto dell’opera di Dio: l’unità; perciò l’unità è il segno di riconoscimento, il “biglietto da visita” della Chiesa nel corso della sua storia universale. Fin dall’inizio, dal giorno di Pentecoste, essa parla tutte le lingue. La Chiesa universale precede le Chiese particolari, e queste devono sempre conformarsi a quella, secondo un criterio di unità e universalità. La Chiesa non rimane mai prigioniera di confini politici, razziali e culturali; non si può confondere con gli Stati e neppure con le Federazioni di Stati, perché la sua unità è di genere diverso e aspira ad attraversare tutte le frontiere umane. Da questo, cari fratelli, deriva un criterio pratico di discernimento per la vita cristiana: quando una persona, o una comunità, si chiude nel proprio modo di pensare e di agire, è segno che si è allontanata dallo Spirito Santo. Il cammino dei cristiani e delle Chiese particolari deve sempre confrontarsi con quello della Chiesa una e cattolica, e armonizzarsi con esso. Ciò non significa che l’unità creata dallo Spirito Santo sia una specie di egualitarismo. Al contrario, questo è piuttosto il modello di Babele, cioè l’imposizione di una cultura dell’unità che potremmo definire “tecnica”. La Bibbia, infatti, ci dice (cfr Gen 11,1-9) che a Babele tutti parlavano una sola lingua. A Pentecoste, invece, gli Apostoli parlano lingue diverse in modo che ciascuno comprenda il messaggio nel proprio idioma. L’unità dello Spirito si manifesta nella pluralità della comprensione. La Chiesa è per sua natura una e molteplice, destinata com’è a vivere presso tutte le nazioni, tutti i popoli, e nei più diversi contesti sociali. Essa risponde alla sua vocazione, di essere segno e strumento di unità di tutto il genere umano (cfr Lumen gentium, 1), solo se rimane autonoma da ogni Stato e da ogni cultura particolare. Sempre e in ogni luogo la Chiesa dev’essere veramente, cattolica e universale, la casa di tutti in cui ciascuno si può ritrovare. Il racconto degli Atti degli Apostoli ci offre anche un altro spunto molto concreto. L’universalità della Chiesa viene espressa dall’elenco dei popoli, secondo l’antica tradizione: “Siamo Parti, Medi, Elamiti…”, eccetera. Si può osservare qui che san Luca va oltre il numero 12, che già esprime sempre un’universalità. Egli guarda oltre gli orizzonti dell’Asia e dell’Africa nord-occidentale, e aggiunge altri tre elementi: i “Romani”, cioè il mondo occidentale; i “Giudei e prosèliti”, comprendendo in modo nuovo l’unità tra Israele e il mondo; e infine “Cretesi e Arabi”, che rappresentano Occidente e Oriente, isole e terra ferma. Questa apertura di orizzonti conferma ulteriormente la novità di Cristo nella dimensione dello spazio umano, della storia delle genti: lo Spirito Santo coinvolge uomini e popoli e, attraverso di essi, supera muri e barriere. A Pentecoste lo Spirito Santo si manifesta come fuoco. La sua fiamma è discesa sui discepoli riuniti, si è accesa in essi e ha donato loro il nuovo ardore di Dio. Si realizza così ciò che aveva predetto il Signore Gesù: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Gli Apostoli, insieme ai fedeli delle diverse comunità, hanno portato questa fiamma divina fino agli estremi confini della Terra; hanno aperto così una strada per l’umanità, una strada luminosa, e hanno collaborato con Dio che con il suo fuoco vuole rinnovare la faccia della terra. Com’è diverso questo fuoco da quello delle guerre e delle bombe! Com’è diverso l’incendio di Cristo, propagato dalla Chiesa, rispetto a quelli accesi dai dittatori di ogni epoca, anche del secolo scorso, che lasciano dietro di sé terra bruciata. Il fuoco di Dio, il fuoco dello Spirito Santo, è quello del roveto che divampa senza bruciare (cfr Es 3,2). E’ una fiamma che arde, ma non distrugge; che, anzi, divampando fa emergere la parte migliore e più vera dell’uomo, come in una fusione fa emergere la sua forma interiore, la sua vocazione alla verità e all’amore. Un Padre della Chiesa, Origene, in una delle sue Omelie su Geremia, riporta un detto attribuito a Gesù, non contenuto nelle Sacre Scritture ma forse autentico, che recita così: «Chi è presso di me è presso il fuoco» (Omelia su Geremia L. I [III]). In Cristo, infatti, abita la pienezza di Dio, che nella Bibbia è paragonato al fuoco. Abbiamo osservato poco fa che la fiamma dello Spirito Santo arde ma non brucia. E tuttavia essa opera una trasformazione, e perciò deve consumare qualcosa nell’uomo, le scorie che lo corrompono e lo ostacolano nelle sue relazioni con Dio e con il prossimo. Questo effetto del fuoco divino però ci spaventa, abbiamo paura di essere “scottati”, preferiremmo rimanere così come siamo. Ciò dipende dal fatto che molte volte la nostra vita è impostata secondo la logica dell’avere, del possedere e non del donarsi. Molte persone credono in Dio e ammirano la figura di Gesù Cristo, ma quando viene chiesto loro di perdere qualcosa di se stessi, allora si tirano indietro, hanno paura delle esigenze della fede. C’è il timore di dover rinunciare a qualcosa di bello, a cui siamo attaccati; il timore che seguire Cristo ci privi della libertà, di certe esperienze, di una parte di noi stessi. Da un lato vogliamo stare con Gesù, seguirlo da vicino, e dall’altro abbiamo paura delle conseguenze che ciò comporta. Cari fratelli e sorelle, abbiamo sempre bisogno di sentirci dire dal Signore Gesù quello che spesso ripeteva ai suoi amici: “Non abbiate paura”. Come Simon Pietro e gli altri, dobbiamo lasciare che la sua presenza e la sua grazia trasformino il nostro cuore, sempre soggetto alle debolezze umane. Dobbiamo saper riconoscere che perdere qualcosa, anzi, se stessi per il vero Dio, il Dio dell’amore e della vita, è in realtà guadagnare, ritrovarsi più pienamente. Chi si affida a Gesù sperimenta già in questa vita la pace e la gioia del cuore, che il mondo non può dare, e non può nemmeno togliere una volta che Dio ce le ha donate. Vale dunque la pena di lasciarsi toccare dal fuoco dello Spirito Santo! Il dolore che ci procura è necessario alla nostra trasformazione. E’ la realtà della croce: non per nulla nel linguaggio di Gesù il “fuoco” è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce, senza il quale non esiste cristianesimo. Perciò, illuminati e confortati da queste parole di vita, eleviamo la nostra invocazione: Vieni, Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! Sappiamo che questa è una preghiera audace, con la quale chiediamo di essere toccati dalla fiamma di Dio; ma sappiamo soprattutto che questa fiamma – e solo essa – ha il potere di salvarci. Non vogliamo, per difendere la nostra vita, perdere quella eterna che Dio ci vuole donare. Abbiamo bisogno del fuoco dello Spirito Santo, perché solo l’Amore redime. Amen.

 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, PENTECOSTE |on 13 mai, 2016 |Pas de commentaires »

15 MAGGIO 2016 | 8A DOMENICA DI PASQUA: PENTECOSTE – ANNO C | OMELIA

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15 MAGGIO 2016 | 8A DOMENICA DI PASQUA: PENTECOSTE – ANNO C | OMELIA

Per cominciare « Se uno mi ama, il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui », dice Gesù, assicurando un’intimità tra l’uomo e Dio finora impensabile. Paolo da parte sua precisa: « lo Spirito di Dio abita in voi… Spirito che attesta che siamo figli di Dio ». Amati da Dio, non siamo più schiavi, ma figli, eredi di Dio, coeredi di Cristo, per cui possiamo gridare « Abbà! Padre! ».

La parola di Dio Atti 2,1-11. Questa prima lettura, comune per i tre anni della liturgia, presenta il misterioso evento della Pentecoste, così come la descrive Luca. L’ »improvviso rombo da cielo, come di vento che si abbatte gagliardo », rimanda al Sinai, quando Dio strinse la prima alleanza con il suo popolo. Ma anche al superamento di Genesi 11: come la torre di Babele ha confuso le lingue e ha disperso le genti, così la Pentecoste crea comunicazione e comunione tra genti diverse per lingue e cultura. Romani 8,8-17. Lo Spirito è principio di vita nuova e di immortalità. Lo Spirito ha risuscitato Gesù dai morti e darà vita anche ai nostri corpi mortali. Figli di Dio nello Spirito, siamo anche noi partecipi della risurrezione di Cristo e coeredi con lui della vita eterna. Giovanni 14,15-16.23b-26. Quando amiamo e siamo fedeli, il Padre e il Figlio prendono dimora presso di noi, in un’intimità che non ha l’eguale in nessun rapporto umano. Sono parole che Gesù dice agli apostoli nel Cenacolo: ma essi le comprenderanno pienamente solo quando scenderà su di loro Spirito.

Riflettere Il dono dello Spirito scende sugli apostoli e la chiesa nascente proprio il giorno di Pentecoste, giorno in cui gli ebrei commemoravano il dono della legge ricevuta sul monte Sinai. Chiaro il significato: nel giorno in cui fu data la legge antica, era conveniente, come dicono i padri, che fosse data la grazia dello Spirito, la legge nuova. L’antico testamento, specialmente attraverso la voce dei profeti, parla dei tempi messianici come di un periodo di grande effusione dello Spirito di Dio. Soprattutto Geremia ed Ezechiele vedono lo Spirito che opera nel cuore di ognuno, principio di rinnovamento personale profondo, che rende capaci di osservare la legge, scrivendola nei loro cuori. È questa la liberazione dalla legge di cui parla molte volte Paolo nelle sue lettere. La legge infatti rivela all’uomo il suo peccato, ma anche la sua impotenza di potersene liberare. È lo Spirito che rende nuovo l’uomo, capace di amare di Dio e gli dà « per grazia » la capacità di essergli fedele. Lo Spirito infonde l’amore e l’amore rende possibile, facile, piacevole l’osservanza dei comandamenti. Anzi, chi è guidato dalla Spirito supera la legge, entrando nel cuore di ciò che viene comandato, realizzando il fine ultimo di ogni legge. Una legge nuova che è un dono dello Spirito. Non è data solo dalla parola di Gesù. « Se fosse bastato proclamare la nuova volontà di Dio attraverso il vangelo, non si spiegherebbe che bisogno c’era che Gesù morisse e che venisse lo Spirito Santo » (Raniero Cantalamessa). Ricordiamo che ancora alla vigilia dell’Ascensione di Gesù, le tante parole pubbliche e private ricevute in tre anni di vita insieme con lui sembravano non aver lasciato segno nella vita degli apostoli. Quando Gesù risorge, essi sono presi da paura, si disperdono, tornano a pescare. Era necessario lo Spirito, « doveva crescere anche la santità di vita degli apostoli, perché cessasse la loro incredulità » (mons. Giovanni Benedetti). Infatti quegli undici uomini, chiusi per la paura dentro il cenacolo, sono trasformati dall’effusione dello Spirito: scende il fuoco dal cielo, si spalancano le porte, vanno a convertire il mondo. Lo stesso Spirito, che ha rinnovato profondamente questa prima piccola comunità cristiana, è sempre all’opera e rinnova nei secoli la chiesa. Lo fa suscitando tra i cristiani nuovi carismi e ministeri, destinati lungo i secoli a portare aria nuova e fresca nelle comunità. Lo fa suscitando nuovi credenti, favorendo un continuo processo di conversione e di purificazione nella comunità. È la parola di Dio la fonte della nostra conoscenza intorno allo Spirito Santo. Conosciamo infatti lo Spirito indirettamente, attraverso i suoi interventi nella storia della salvezza. Ecco una spigolatura di espressioni che ci possono orientare per conoscerlo meglio. Lo Spirito opera attivamente nei momenti centrali della vicenda di Gesù. All’Annunciazione: « Le rispose l’angelo: lo Spirito Santo scenderà su di te… » (Lc 1,34); al battesimo: « Vidi aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui, come una colomba » (Mc 1,9). Lo Spirito anima la vita pubblica di Gesù: « Lo Spirito del Signore è sopra di me… » (Lc 4,18); « Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto… » (Lc 4,1); « Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo » (Lc 4,14). Lo Spirito scende sui nuovi cristiani: « Pietro disse: « Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo »" (At 2,37). Lo Spirito rende testimoni: « Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni fino agli estremo confini della terra » (At 1,8,ss); « Non preoccupatevi di ciò che dovrete dire, poiché non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo » (Mc 13,9). Lo Spirito dà alla chiesa il compito di perdonare i peccati: « Poi soffiò su di loro e disse: « Ricevete lo Spirito Santo. A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi non li perdonerete, non saranno perdonati »" (Gv 20,22). Lo Spirito è principio di vita nuova: « Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne » (Gal 5, 16); « Lo Spirito produce amore, gioia, pace, comprensione, cordialità, bontà, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé » (Gal 5,22). Lo Spirito guida alla preghiera: « Lo Spirito viene in auto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi » (Rm 8,26). Lo Spirito rivela il mistero dell’uomo e il mistero di Dio: « Lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio… Noi abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato » (1Cor 2, 9ss).

Attualizzare Lo Spirito Santo viene donato in pienezza nel giorno della cresima, che conferma il dono del battesimo ricevuto. Non basta aver celebrato il battesimo, come ricordava con decisione un esperto a un gruppo di catechisti: « Nessuno è davvero cristiano se non ha ricevuto anche la cresima e l’eucaristia, cioè se non ha completato l’iniziazione cristiana di base ». Il liturgista Ildebrando Scicolone afferma che chi non ha ricevuto la cresima non dovrebbe svolgere nessun ministero ecclesiale nemmeno piccolo, come quello di lettore, tanto meno sposarsi in chiesa, dal momento che i due sposi sono addirittura i ministri del sacramento, Oggi assistiamo a una diminuzione drastica del numero dei cresimandi. Si perde così anche l’ultima occasione di sentire parlare dello Spirito Santo con una certa ampiezza. « Ma perché non vogliono ricevere la cresima? », si domanda qualcuno. In realtà è da tempo che i ragazzi la ricevono come per saldare il conto con gli anni di catechismo vissuti senza entusiasmo. Tanti di loro pensano: « Va bene, ricevo ancora la cresima, ma dopo non mi vedrete più ». « Che cosa si può fare per cambiare questa tendenza? Che fare per chi non richiede più il sacramento? », si domandano gli operatori pastorali. « Dobbiamo prendere coscienza di una cosa molto facile a dirsi e molto difficile a farsi: che non basta più suonare le campane e invitare i ragazzi a venire da noi a catechismo », dice un parroco. Ma in concreto? Si deve fare la rivoluzione, quella animata dallo Spirito, che è vita e ci spinge a presentare con uno stile nuovo e dinamico la realtà dell’essere cristiani. Dire anche noi, con i fatti più che con le parole, che non si deve avere paura della fede, perché essa, come ha detto Benedetto XVI, « non toglie nulla, assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande ». Ogni cresimato viene invitato a unire la sua piccola fiamma a quella dello Spirito Santo, diventando protagonista nella chiesa, elemento di novità nel mondo. « Come è avvenuto per Pietro, che è stato giudicato ubriaco di buon mattino, io penso che un cristiano vero dovrebbe essere segnato a dito, gli dovrebbe essere dato del pazzo o del rivoluzionario », dice una ragazza. E un’altra: « Voglio fare qualcosa che non sia banale nella mia vita, ma nella realtà mi trovo incastrata in un modello di vita che non vorrei. Dovrei osare, infrangere queste regole, differenziarmi dagli altri, dal gregge ». Aprendo le braccia allo Spirito, diventa possibile.

Lo Spirito della cresima Un bel libretto di Tonino Lasconi per i ragazzi che si preparano alla cresima (La Cresima e oltre, Paoline) presenta in modo dinamico le caratteristiche dello Spirito Santo. Anche i ragazzi possono sentirsi affascinati dalla terza persona divina, se viene presentata in questo modo. Eccone una breve sintesi. Lo Spirito è come una colomba: da sempre la colomba, sin dai tempi di Noè, è simbolo di pace. Ed è simbolo di bellezza: l’hai mai vista una colomba? È poi simbolo dell’amore (« Sembrano due colombi! », si dice degli innamorati). Lo Spirito è sceso su Gesù nel battesimo proprio per questo: tutto l’amore del Padre si posa sul Figlio. Lo Spirito è come vento: il vento arriva all’improvviso, rovescia tutto ciò che non è solido, che non è attaccato bene, che è provvisorio. Ciò che non ha peso, che è leggero. Il vento purifica l’aria, caccia lo smog, agita le acque e le riempie di ossigeno. Il vento scompiglia ciò che hai messo a posto con tanta cura e ti costringe a ricominciare. Il vento è dispettoso: fa volare i cappelli, alza le gonne, rovescia gli ombrelli… Lo Spirito è come fuoco: il fuoco prima di tutto illumina. E dà gioia, perché la luce è gioia. Non c’è festa senza luci e luminarie. Il fuoco riscalda, unisce i metalli più duri e più preziosi. Il fuoco purifica: se vuoi togliere le scorie devi servirti del fuoco. Il fuoco ammazza i microbi più pericolosi. Se vuoi rendere potabile l’acqua devi metterla sul fuoco. Il fuoco dà coraggio e forza. Gli atleti prima di una gara « si scaldano » per cacciar via la paura e dare il meglio di sé.

Don Umberto DE VANNA sdb Fonte autorizzata in: Umberto DE VANNA: Giorno di Festa, Editrice Ancora, Milano

 

ACTS 01 THE ASCENSION…L’ASCENSION

ACTS 01 THE ASCENSION...L'ASCENSION  dans immagini sacre 08%20BNF%20SACRAMENTAIRE%20DROGON%20ASCENSION
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GESÙ CRISTO « VUOLE AMARE CON IL NOSTRO CUORE VUOLE SERVIRE CON LE NOSTRE MANI » MADRE TERESA DI CALCUTTA

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GESÙ CRISTO « VUOLE AMARE CON IL NOSTRO CUORE VUOLE SERVIRE CON LE NOSTRE MANI » MADRE TERESA DI CALCUTTA

Innanzi tutto un rendimento di grazie a Dio per il suo amore così grande, in modo particolare in quest’anno 1997. Il Santo Padre ha voluto donarci quest’anno dedicato a Gesù Cristo, per preparare i nostri cuori al Grande Giubileo dell’Anno 2000. E noi, da parte nostra, come atto di gratitudine e di adorazione, dobbiamo fare tutto il possibile per diventare Santi, perchè Gesù è Santo. Sono convinto dell’amore che Cristo ha per me e del mio amore verso di Lui? Questa convinzione è la roccia sulla quale va costruita la santità. Come possiamo arrivare a questa convinzione? Noi dobbiamo conoscere Gesù, amare Gesù, servire Gesù. Questa conoscenza vi renderà forti come la morte. Noi conosciamo Gesù attraverso la fede, attraverso la meditazione della Sua Parola nelle Sacre Scritture, quando ascoltiamo la Sua Parola nella Chiesa e nell’intimità della preghiera. Credete in Gesù, sperate in Lui con assoluta e cieca fiducia perchè Egli è Gesù. Credete che Gesù, e Gesù solo, è la vita, e che la santità non è altro che lo stesso Gesù che vive intimamente in voi, quella stessa vita che avete ricevuto durante il battesimo è cresciuta ed è divenuta perfetta. Ecco perchè è così straordinario che quest’anno il Santo Padre, ci abbia chiesto di approfondire le ricchezze del nostro Battesimo. Amate Gesù con fede, senza guardare indietro, senza aver paura. Donatevi completamente a Gesù. Egli attraverso di voi compirà grandi cose, ma alla condizione che voi crediate di più nel Suo amore che non nella vostra debolezza. Non dobbiamo temere di proclamare l’amore di Gesù e di amare come Egli ha amato. Nel lavoro che ci prepariamo a svolgere – anche se piccolo – testimoniamo con le azioni l’amore di Gesù. Non temete di essere poveri, ma proclamate la Sua povertà. Non abbiate timore di possedere un cuore puro e indiviso ma diffondete la gioia di appartenere a Gesù. Non temete, voi che credete in Cristo, di essere sottomessi a coloro che hanno ricevuto autorità dal cielo – La Sua Chiesa – ma proclamate l’obbedienza di Cristo fino alla morte. Servite Gesù con gioia e letizia di spirito e lasciate da parte tutto ciò che vi agita e vi preoccupa. Nella vita di ognuno di noi Gesù viene come il Pane della Vita, per essere mangiato e consumato da noi. Questo è il modo in cui Egli ci ama. E ancora, Gesù viene in mezzo a noi attraverso colui che ha Fame, Colui che è Povero, sperando di essere nutrito con il pane della nostra vita, di amare con i nostri cuori, di servire con le nostre mani. Poichè Egli ha detto: «Tutto quello che avete fatto all’ultimo dei miei fratelli, lo avete fatto a me». Così facendo, noi testimoniamo che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio – perchè Dio è amore e quando noi amiamo, siamo come Dio. Ciò è quanto Gesù ha detto: «Siate perfetti come il vostro Padre che è nei cieli». Gesù ci vuole santi come il Padre. La Santità non è un privilegio di pochi, ma un semplice dovere per voi e per me. La Santità – la vera grande santità – è una conquista semplice se noi apparteniamo totalmente alla Vergine Maria. Durante l’anno 1997, l’anno di Gesù Cristo, possa il Cuore immacolato di Maria, nostra Madre e Regina guidarci verso Gesù e possa Maria ricevere per ognuno di noi la luce di Cristo, l’amore di Cristo e la vita di Cristo. Così quando arriverà il Giubileo dell’Anno 2000, noi potremo gioire perchè Cristo ancora una volta verrà nel mondo e attraverso di noi sanerà tutti attraverso di noi. Preghiamo, Dio vi benedica.

 

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I FILI D’ERBA CRESCONO ANCHE NELLA STEPPA – L’ULTIMA LETTERA DI DON ANDREA SANTORO…

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I FILI D’ERBA CRESCONO ANCHE NELLA STEPPA – L’ULTIMA LETTERA DI DON ANDREA SANTORO…

Pubblichiamo l’ultima lettera di don Andrea Santoro, martirizzato a Trabzon, in Turchia, il 5 febbraio 2006. L’ha resa nota sua sorella Maddalena che l’ha consegnata ad Avvenire. La lettera, terminata circa 10 giorni prima di venire ucciso ed indirizzata a tutti gli amici. La presentiamo a voi per la sua bellezza e perché specchio fedele della vita e del pensiero di don Andrea.

Carissimi, voglio cominciare con delle cose buone, perché è giusto lodare Dio quando c’è il sereno, e non soltanto invocare il sole quando c’è la pioggia. Inoltre è giusto vedere il filo d’erba verde anche quando stiamo attraversando una steppa. Ecco dunque alcuni fili d’erba verde. Qualche giorno prima di rientrare in Italia, nell’ora della visita in chiesa si è presentato un folto gruppo di ragazzi piuttosto vocianti e rumorosi. Ci sono abituato: per ottenere silenzio e rispetto basta avvicinarsi, ricordare loro che la chiesa è, come la moschea, un luogo di preghiera che Dio ama e in cui si compiace. Un gruppetto di 4-5 ragazzi, sui 14-15 anni mi si sono avvicinati e hanno cominciato a farmi domande: «Ma sei qui perché ti hanno obbligato?». «No, sono venuto volentieri, liberamente». «E perché?». «Perché mi piace la Turchia. Perché c’era qui una chiesa e un gruppo di cristiani senza prete e allora mi sono reso disponibile. Per favorire dei buoni rapporti tra cristiani e musulmani…». «Ma sei contento?» (hanno usato la parola mutlu che in turco vuol dire felice). «Certo che sono contento. Adesso poi ho conosciuto voi, sono ancora più contento. Vi voglio bene». A questo punto gli occhi di una ragazza si sono illuminati, mi ha guardato con profondità e mi ha detto con slancio: «Anche noi ti vogliamo bene». Dirsi «ti vogliamo bene», dentro una chiesa, tra cristiani e musulmani mi è sembrato un raggio di luce. Basterebbe questo a giustificare la mia venuta. Il regno dei cieli non è forse simile a un granellino di senape, il più piccolo di tutti i semi? Lo getti e poi lo lasci fare…E non è forse vero che «se ami conosci Dio» e lo fai conoscere e se non ami, quand’anche possedessi la scienza o parlassi tutte le lingue, o distribuissi i beni ai poveri, non sei nulla ma solo un tamburo che rimbomba?  Un altro filo d’erba. Una sera verso gli inizi di dicembre, ero in strada con il mio pulmino. Dovevo girare, ho messo la freccia e ho cominciato a voltare. Veniva una macchina velocissima. Ha dovuto frenare per non investirmi. Uno è sceso e ha cominciato a urlare. Conoscendo l’irascibilità dei turchi, soprattutto se sono ubriachi, ho proseguito, temendo brutte intenzioni. Mi sono accorto che mi inseguivano. Arrivato in piazza mi hanno sbarrato la strada. Mi sono trovato con la portiera aperta, uno che mi ha sferrato un pugno, un altro che mi strappava dal sedile e l’altro ancora che voleva trascinarmi. Ho portato il segno di quel pugno per qualche giorno e la spalla, tirata, che a volte mi fa ancora male. È intervenuta la polizia: erano ubriachi ed è stato fatto un verbale a loro carico. Me ne sono tornato a casa stordito, chiedendomi come si potesse diventare delle bestie. Mi sono venuti in mente i litigi in cui ci scappa un morto, le violenze fatte a una ragazza sola, il divertimento sadico ai danni di qualche povero disgraziato. Devo dirvi la verità: ho avuto paura e per qualche notte non ho dormito. Continuavo a chiedermi: perché? Come è possibile? Una settimana dopo, verso sera, hanno suonato al campanello della chiesa. Sono andato ad aprire, erano tre giovani sui 25-30 anni. Uno mi ha chiesto: «Si ricorda di me?». Ho guardato bene e ho riconosciuto quello che mi aveva tirato per la spalla. «Sono venuto a chiederle scusa. Ero ubriaco e mi sono comportato molto male. Padre mi perdoni». «Va bene, gli ho detto, stai tranquillo. Ma non farlo più, per chiunque altro». Poi mi hanno chiesto di visitare la chiesa. Continuava a chiedermi scusa ad ogni passo. Ha visto una pagina del vangelo esposta nella bacheca: «Amate i vostri nemici» e allora ha capito perché lo avevo perdonato. Poi mi fa: anche da noi c’è un detto: «Getta i fiori a chi ti getta i sassi». Quindi ha continuato: «Abbiamo avuto un incidente qualche giorno dopo che l’avevamo picchiata. La macchina è rimasta distrutta, uno è ancora in ospedale e noi due siamo ammaccati. Da noi si dice che se uno fa del male a una persona e poi muore non può presentarsi a Dio. Perché Dio gli dice: è da quella persona che dovevi andare. Da voi padre è la stessa cosa?». «Anche noi diciamo che non basta rivolgersi a Dio, ma che bisogna riparare il male fatto al prossimo. Diciamo però anche che se l’innocente offre il suo dolore per il colpevole, questo ottiene da Dio il perdono per chi ha fatto il male, come Gesù che ha offerto la sua vita innocente per salvare i peccatori. Gesù si è fatto agnello per i lupi che lo sbranavano e ha pregato: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno. Con la sua croce ha spezzato la lancia». A quel punto hanno guardato la croce. Il terzo che era con loro era un mio vicino di casa, che aveva loro indicato la chiesa e si era fatto loro mediatore. Era felice di mostrare loro la chiesa e di aver ottenuto la riconciliazione col prete che conosceva. C’è scappato anche un invito a cena, al ritorno dall’Italia. Vedremo se il pugno ha fruttato anche un bel piatto di agnello arrosto!  Qualche altro filo d’erba? Un venerdì in chiesa un gruppo di ragazzi è stato particolarmente maleducato e strafottente. Altri tre, più grandi, assistevano da lontano. Alla fine mi hanno chiesto di parlare. Con molta educazione hanno fatto ogni genere di domande, ascoltando con rispetto le mie risposte e facendo con garbo le loro obiezioni. Ci siamo salutati. La mattina seguente un giovane ha suonato: ho riconosciuto uno dei tre. Mi ha consegnato dei cioccolatini: «Padre, accetti il mio regalo. Le chiedo scusa per quei ragazzi maleducati di ieri».  Un’altra volta entrano due ragazze: «Padre mi riconosce?», mi fa una. «Si, certo!». «Lei una volta mi ha detto che Gesù non ha mai usato la spada, è così?». «Sì, è così». «Maometto – mi fa – l’ha usata è vero, ma solo come ultima possibilità…». «Gesù – le rispondo – neanche come ultima possibilità. Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi, disse, e lui stesso s’è fatto agnello per guadagnare i lupi. Se contro la violenza usi la violenza si fa doppia violenza. Male più male uguale doppio male. Ci vuole il doppio di bene per arginare il male. Se scoppia un incendio che fai? Butti legna?». «No, acqua». «Ecco, appunto. Ma non è facile. Questo però è il vangelo. Nelle mani di Gesù non c’è la spada, ma la croce…». Mi ha seguito attenta, ma frastornata. Perché mi meraviglio? Quanti cristiani sono non solo frastornati, ma neppure guardano più la croce? Non colgono più la sapienza, la forza, la vittoria della croce. Si sono convertiti alla spada: nella vita pubblica e in quella privata. Se lo fa un musulmano in fondo non è strano: segue il suo fondatore. Ma se lo fa un cristiano non segue il proprio Fondatore, anche se ha croci da ogni parte, al collo, in casa e su ogni campanile. Un altro filettino verde delicato. Sull’aereo, di ritorno da una riunione col vescovo a Iskenderun, c’erano accanto a me due anziani coniugi e una giovane ragazza, elegante e carina. I due anziani erano piuttosto malmessi e inesperti. La ragazza con molta delicatezza ha sistemato ad entrambi la cintura, si è piegata a terra a raccogliere alcune cose cadute, si è prodigata in ogni modo, non con rispetto ma con venerazione. Lui continuava a sgranare il suo rosario musulmano, accompagnando le mani con le labbra che pronunciavano i 99 nomi di Dio. Lei al suo fianco, muta e col velo sul capo, dava l’idea di sentirsi contenta accanto al suo bravo marito in preghiera.  Ora vi faccio intravedere qualcosa della steppa in cui mi è faticoso a volte camminare, ma in cui volentieri do tutto me stesso, cercando di essere io stesso un filo d’erba, anche se a volte mi sento una rosa piena di spine pungenti. Quando avverto che per difendermi dalle spine tiro fuori le mie, mi rimetto sotto la croce, la guardo e mi ripropongo di seguire il «mio» Fondatore, quello che non usa né spada né spine, ma ha subìto e l’una e le altre per spezzare la spada e toglierci le spine del risentimento, dell’inimicizia, dell’ostilità. Gli chiedo di farmi grazia del «suo» Spirito per tenere a bada il mio. Cominciamo dai bambini. Accanto a quelli sorridenti, affettuosi, rispettosi si è intensificato in questi ultimi mesi un nugolo di lanciatori di sassi, di disturbatori, di «piccoli provocatori» di ogni genere. I bambini sono lo specchio del mondo degli adulti. A casa, a scuola, in televisione si dicono spesso di noi cristiani bugie e calunnie. Il risultato non può che essere lo scherno di quei «piccoli» che Gesù voleva a sé ma di cui metteva in guardia quanti li «scandalizzano» cioè quanti sono per essi «motivo di inciampo e di induzione al male». Mi sono ricordato di quando da bambino sentivo «parlare male» dell’unica famiglia protestante del mio paese o di quando sentivo dire che «tutti i turchi fanno cose turche». Il male che si riceve, a volte ti rimette sotto gli occhi il male fatto anche se dimenticato. In altri momenti mi tornano in mente le parole di Giobbe sofferente, figura della passione di Gesù: «Tutto il mio vicinato mi è addosso… anche i monelli hanno ribrezzo di me… mi danno la baia…» (Giobbe 18,7 e 19,18). Stiamo studiando una strategia ancora maggiore di affabilità e accoglienza, di silenzio, di sorriso, di persuasione. Una famiglia di musulmani diventati cristiani prima che io arrivassi a Trabzon, mi ha parlato del pianto dei suoi bambini a scuola quando si diceva ogni sorta di male dei cristiani. Ne hanno parlato con l’insegnante ricevendo le scuse e un impegno di maggiore onestà e correttezza.  Un padre di famiglia, registrato musulmano sul documento di identità (in Turchia sulla carta di identità è annotata la religione), desidera ritornare alla fede cristiana dei suoi antenati. Ma si scontra con gli insulti e le minacce di alcuni del suo villaggio. «Se mi assalgono e io rispondo sono ancora cristiano?», mi chiedeva preoccupato e pensoso. «Sì – gli rispondevo – perché il Signore capisce la tua debolezza. Ma ricordati che a noi cristiani non è lecito ‘l’occhio per occhio e dente per dente’. Noi siamo discepoli di Colui che porta le piaghe su tutto il suo corpo e che ha detto a Pietro: ‘Rimetti la spada nel fodero…’. Contro il peccato Gesù ha eretto come baluardo il suo corpo sacrificato e il suo sangue versato. Il cristianesimo è nato dal sangue dei martiri, non dalla violenza come risposta alla violenza’. Un giovane che per motivi sinceri e retti si era accostato alla chiesa non ha resistito all’ostilità degli amici, dei familiari, dei vicini di casa e alle «premure» della polizia che pur garantendogli piena libertà («la Turchia è uno stato laico, sei libero», gli hanno detto) gli chiedeva comunque perché andava, cosa accadeva in chiesa e se conosceva tizio e caio…  Una signora cristiana di nazionalità russa, sposata con un musulmano e madre di un bambino, mi raccontava le angherie della suocera, il disprezzo dei parenti perché «pagana e idolatra», e le ripetute spinte a divenire musulmana. Appena ha letto, entrando in chiesa, una frase scritta in russo, gli si è rischiarato il volto. Le ho dato una Bibbia in russo e altri libri di preghiera sempre in russo. Si è sentita finalmente «libera» e davvero «sorella». Consentitemi ora una riflessione a voce alta, alla luce di quanto vi ho raccontato. Si dice e si scrive spesso che nel Corano i cristiani sono ritenuti i migliori amici dei musulmani, di essi si elogia la mitezza, la misericordia, l’umiltà, anche per essi è possibile il paradiso. È vero. Ma è altrettanto vero il contrario: si invita a non prenderli assolutamente per amici, si dice che la loro fede è piena di ignoranza e di falsità, che occorre combatterli e imporre loro un tributo… Cristiani ed ebrei sono ritenuti credenti e cittadini di seconda categoria. Perché dico questo? Perché credo che mentre sia giusto e doveroso che ci si rallegri dei buoni pensieri, delle buone intenzioni, dei buoni comportamenti e dei passi in avanti, ci si deve altrettanto convincere che nel cuore dell’Islam e nel cuore degli stati e delle nazioni dove abitano prevalentemente musulmani debba essere realizzato un pieno rispetto, una piena stima, una piena parità di cittadinanza e di coscienza. Dialogo e convivenza non è quando si è d’accordo con le idee e le scelte altrui (questo non è chiesto a nessun musulmano, a nessun cristiano, a nessun uomo) ma quando gli si lascia posto accanto alle proprie e quando ci si scambia come dono il proprio patrimonio spirituale, quando a ognuno è dato di poterlo esprimere, testimoniare e immettere nella vita pubblica oltre che privata. Il cammino da fare è lungo e non facile. Due errori credo siano da evitare: pensare che non sia possibile la convivenza tra uomini di religione diversa oppure credere che sia possibile solo sottovalutando o accantonando i reali problemi, lasciando da parte i punti su cui lo stridore è maggiore, riguardino essi la vita pubblica o privata, le libertà individuali o quelle comunitarie, la coscienza singola o l’assetto giuridico degli stati.  La ricchezza del Medio Oriente non è il petrolio ma il suo tessuto religioso, la sua anima intrisa di fede, il suo essere «terra santa» per ebrei, cristiani e musulmani, il suo passato segnato dalla «rivelazione» di Dio oltre che da un’altissima civiltà. Anche la complessità del Medio Oriente non è legata al petrolio o alla sua posizione strategica ma alla sua anima religiosa. Il Dio che «si rivela» e che «appassionatamente» si serve è un Dio che divide, un Dio che privilegia qualcuno contro qualcun altro e autorizza qualcuno contro qualcun altro. In questo cuore nello stesso tempo «luminoso», «unico» e «malato» del medio oriente è necessario entrare: in punta di piedi, con umiltà, ma anche con coraggio. La chiarezza va unita all’amorevolezza. Il vantaggio di noi cristiani nel credere in un Dio inerme, in un Cristo che invita ad amare i nemici, a servire per essere «signori» della casa, a farsi ultimo per risultare primo, in un vangelo che proibisce l’odio, l’ira, il giudizio, il dominio, in un Dio che si fa agnello e si lascia colpire per uccidere in sé l’orgoglio e l’odio, in un Dio che attira con l’amore e non domina col potere, è un vantaggio da non perdere. È un «vantaggio» che può sembrare «svantaggioso» e perdente e lo è, agli occhi del mondo, ma è vittorioso agli occhi di Dio e capace di conquistare il cuore del mondo.  Diceva S.Giovanni Crisostomo: Cristo pasce agnelli, non lupi. Se ci faremo agnelli vinceremo, se diventeremo lupi perderemo. Non è facile, come non è facile la croce di Cristo sempre tentata dal fascino della spada. Ci sarà chi voglia regalare al mondo la presenza di «questo» Cristo? Ci sarà chi voglia essere presente in questo mondo mediorientale semplicemente come «cristiano», «sale» nella minestra, «lievito» nella pasta, «luce» nella stanza, «finestra» tra muri innalzati, «ponte» tra rive opposte, «offerta» di riconciliazione? Molti ci sono ma di molti di più c’è bisogno. Il mio è un invito oltre che una riflessione. Venite! Vi lascio ringraziandovi dell’accoglienza nelle tre settimane trascorse a Roma. Desidero ringraziare in particolare i tanti parroci romani e i responsabili di varie realtà studentesche che mi hanno invitato a tenere degli incontri o delle testimonianze.  Ringrazio Dio per quanti hanno aperto il loro cuore. Ma sia ancora più aperto e ancora più coraggioso. La mente sia aperta a capire, l’anima ad amare, la volontà a dire «sì» alla chiamata. Aperti anche quando il Signore ci guida su strade di dolore e ci fa assaporare più la steppa che i fili d’erba. Il dolore vissuto con abbandono e la steppa attraversata con amore diventa cattedra di sapienza, fonte di ricchezza, grembo di fecondità. Ci sentiremo ancora. Uniti nella preghiera vi saluto con affetto. Potete scrivere i vostri pensieri, fare le vostre domande, esprimere le vostre proposte. Insieme si serve meglio il Signore.   don Andrea Roma-Trabzon 22 gennaio 2006 (Teologo Borèl) Aprile 2006 – autore: don Andrea Santoro

Publié dans:DON ANDREA SANTORO |on 12 mai, 2016 |Pas de commentaires »

Lo Spirito Santo

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Publié dans:immagini sacre |on 11 mai, 2016 |Pas de commentaires »

LO SPIRITO SANTO SORGENTE INESAURIBILE DI DONI

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L’ANNO DELLO SPIRITO SANTO

I segni della speranza: i popoli

LO SPIRITO SANTO SORGENTE INESAURIBILE DI DONI

Angelo Amato

1. Lo Spirito è «Persona-dono» L’esistenza cristiana è intimamente segnata dalla «nube dello Spirito» (cf. Mt 17,5). È lo Spirito che porta i fedeli alla loro piena configurazione a Cristo. Ma, in cosa consiste, concretamente, la presenza dello Spirito Santo e qual è il significato dei suoi doni? La risposta è semplice: la vita cristiana, per svilupparsi e giungere a maturazione, esige una assistenza speciale dello Spirito santo e dei suoi doni. Il mistero profondo dello Spirito è quello di essere «dono»: «Si può dire che nello Spirito santo la vita intima del Dio uno e trino si fa tutta dono, scambio di reciproco amore tra le divine Persone, e che per lo Spirito santo Dio «esiste» a modo di dono. È lo Spirito Santo l’espressione personale di un tale donarsi, di questo essere amore. È Persona-amore. È Persona-dono» (Dominum et Vivificantem, n. 10). Essendo Persona-dono lo Spirito è la sorgente di ogni dono creato, come la vita, la grazia, la carità: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5). Ed è Gesù che ha dato il suo Spirito come dono di vita nuova agli apostoli, alla chiesa, al mondo: «Innalzato alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33). Queste parole di Pietro a Pentecoste, riecheggiano la sua esperienza pasquale. La sera della risurrezione, infatti, Gesù, apparendo agli apostoli, disse: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Anche a Pentecoste gli apostoli «furono pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,4). Tale pentecoste apostolica rifluisce su tutta l’umanità, in tutte le sue categorie di giovani e di anziani, di uomini e di donne. È lo stesso Pietro a spiegare, nel suo primo kérygma, che questa irruzione dello Spirito non fa che realizzare la profezia di Gioele: «Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno» (At 2,17-18). Il dono dello Spirito significa vocazione alla profezia da parte dei figli e delle figlie, dei servi e delle serve; significa chiamata a seguire grandi ideali («visioni») da parte dei giovani e ad avere sogni profetici da parte degli anziani. L’effusione dello Spirito a Pentecoste realizza anche la profezia di Ezechiele: «Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. Vi libererò da tutte le vostre impurità: chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia» (Ez 36,24-29). Lo Spirito è cioè dono di comunione, è acqua di purificazione, è cuore di carne, è novità, è obbedienza, è appartenenza e fedeltà a Dio, è abbondanza di beni. 2. «Vieni, datore dei doni» San Giovanni, parlando della nostra vocazione alla comunione con Dio-Amore, afferma: «Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito» (1Gv 4,13). È nello Spirito che noi amiamo Dio. Per questo S. Agostino afferma che «lo Spirito santo è il dono di Dio a tutti coloro che per mezzo suo amano Dio»1. Lo Spirito ci abilita al rapporto interpersonale con Dio, all’alleanza tra il nostro «io» e il «tu» divino: «Il dono dello Spirito significa chiamata all’amicizia, nella quale le trascendenti profondità di Dio vengono, in qualche modo, aperte alla partecipazione da parte dell’uomo» (Dominum et Vivificantem, n. 34). È quanto S. Paolo diceva: «Viviamo sotto il dominio dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in noi» (Rm 8,5.9); «Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25). Per rendere possibile e facilitare questo cammino lo Spirito si fa sorgente di molteplici doni, frutti, carismi. Per questo nella solennità di Pentecoste lo invochiamo: «Vieni, Santo Spirito, vieni, datore dei doni». Tradizionalmente si parla dei sette doni dello Spirito Santo: «la sapienza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio» (CCC n. 1831). Attribuiti in prima istanza al Messia (cf. Is 11,1-2)2, nel quale si realizzano in pienezza, questi doni perfezionano le virtù del battezzato, rendendolo docile e obbediente a seguire le mozioni dello Spirito. Se la vocazione del cristiano è la santità, i doni dello Spirito servono per agevolare la pratica delle virtù sia teologali (fede, speranza, carità), sia morali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza). Spesso la tradizione teologica ha messo in correlazione i singoli doni con le singole virtù. Ad esempio, il dono del timore viene visto in corrispondenza con la virtù della temperanza e il dono della sapienza con la virtù della carità. In realtà ogni singolo dono facilita l’esercizio di tutte le virtù, che ne escono fortemente rafforzate. Più che in una graduatoria o su una scala i doni devono essere messi in reciproca circolarità e correlazione. 3. Il timore, come gioiosa trepidazione per la vicinanza di Dio Il timore del Signore si può considerare come il primo gradino della scala della perfezione, che avrebbe il suo vertice nel dono della sapienza. Afferma S. Tommaso d’Aquino: «Il timore filiale occupa il primo posto tra i doni dello Spirito Santo in ordine ascendente, e l’ultimo in ordine discendente»3. Il Siracide, tuttavia, mostra l’interdipendenza e il reciproco influsso dei doni: «Pienezza della sapienza è temere il Signore; essa inebria di frutti i propri devoti. Tutta la loro casa riempirà di cose desiderabili, i magazzini dei suoi frutti. Corona della sapienza è il timore del Signore; fa fiorire la pace e la salute. Dio ha visto e misurato la sapienza; ha fatto piovere la scienza e il lume dell’intelligenza; ha esaltato la gloria di quanti la possiedono. Radice della sapienza è temere il Signore; i suoi rami sono lunga vita» (Sir 1,14-18). In una proposta di cammino vocazionale, si può vedere nel timore di Dio il primo passo per abbandonare la vita secondo la carne e percorrere la via secondo lo Spirito. Il timore di Dio fa comprendere che la vita non è solitudine e silenzio, ma comunione con Dio. Il timore non è paura di Dio, ma trepidazione e gratitudine per la sua grande prossimità a noi. È riscoperta e lode della sua grandezza e sapienza, e, allo stesso tempo, coscienza di essere immersi in questo «ambiente divino», avvolti dall’abbraccio di Dio: «Signore, tu mi scruti e mi conosci; tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo. Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza?» (Sal 139,1-7). La prostrazione di Abramo di fronte ai tre pellegrini (Gn 18,2), la sorpresa di Giacobbe nel sogno della scala, la cui cima raggiungeva il cielo (Gn 28,12), lo sbigottimento di Mosè al roveto ardente (Es 3,6), la meraviglia di Isaia di fronte al serafino col carbone ardente (Is 6,6-7), il grande spavento dei pastori all’annuncio degli angeli (Lc 2,9), lo stordimento di Giovanni il veggente di fronte al Vivente (Ap 1,17) indicano lo stupore improvviso di chi si trova a tu per tu di fronte al mistero santo di Dio. È un timore che non si tramuta in paura, ma, al contrario, si espande per Abramo in servizio e dialogo con Dio, per Giacobbe in conferma di aver incontrato Dio, per Mosè in spinta alla missione, per Isaia in obbedienza alla chiamata profetica, per i pastori in invito a incontrare il neonato Salvatore, per Giovanni in contemplazione dell’azione efficace e vittoriosa di Dio nelle martoriate vicende della chiesa e del mondo. Il timore è la trepidazione avvertita da chi inizia il cammino della vita nello Spirito e si affida con confidenza nelle mani di Dio: «Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri: vedi se percorro una via di menzogna e guidami sulla via della vita» (Sal 139,23-24). Il timore di Dio diventa così consapevolezza della debolezza umana, esercizio di umiltà e di povertà di spirito, ma anche fiducia nella misericordia di Dio, speranza nella sua provvidente bontà, autentico «principio di saggezza» (Sal 111,10).

NOTE 1) De Trinitate, XV 19,35.

2) Il testo ebraico di Is. 11,2 parla di sei doni: spirito di sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza e timore del Signore. La versione greca dei LXX e la versione latina della Volgata enunciano invece sette doni, introducendo la «pietà». In realtà si tratta di una interpretazione di Is 11,3, in cui il «timore del Signore», ripetuto in questo versetto, viene tradotto in una sua variazione e cioè in «pietà». 3) STh, II/II q. 19 a. 9.

Publié dans:SPIRITO SANTO |on 11 mai, 2016 |Pas de commentaires »
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