IL LAVORO

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Tratto dal libro « Vocabulaire de Théologie biblique » – Les Éditions du Cerf – (Traduzione libera)

« Travail » a cura di Jacques Guillet S.J. e Paul de Surgy

IL LAVORO

Dovunque, nella Bibbia, l’uomo è occupato nel lavoro. Tuttavia, poichè questo lavoro dell’artigiano o del piccolo agricoltore è molto diverso dal lavoro intenso e organizzato del mondo moderno, noi siamo portati a credere che la Scrittura ignori la realtà del lavoro o la conosca male. E dato che non vi troviamo dei giudizi di principio sul valore ed il significato del lavoro, talvolta noi siamo tentati di prendere a prestito qualche affermazione casuale e di utilizzarla per dimostrare una nostra teoria. Anche se non risponde a tutte le nostre domande, la Bibbia, presa nella sua globalità, ci introduce nella realtà del lavoro, del suo valore, della sua fatica e della sua redenzione.

I. Valore del lavoro 1. Il comandamento del Creatore – Nonostante l’abituale pregiudizio, il lavoro non deriva dal peccato: prima della caduta, « Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. » (Gn 2, 15). Se il Decalogo prescrive il sabato, è solo alla fine di sei giorni di lavoro (Es 20, 8 ss). Questa settimana di lavoro ricorda i sei giorni che Dio impiegò per creare l’universo e sottolinea che, formando l’uomo « a sua immagine » (Gn 1, 26), Dio ha voluto farlo partecipe del suo disegno. Infatti, dopo aver dato ordine all’universo, l’ha messo nelle mani dell’uomo, a cui ha dato il potere di occupare la terra e di sottometterla (Gn 1, 28). Tutti coloro che lavorano, anche se « Non fanno brillare né l’istruzione né il diritto » tuttavia, mediante la propria attività, tutti « sostengono le cose materiali (la Creazione) » (Sir 38, 34). Non dobbiamo neanche stupirci che l’azione del Creatore sia spesso descritta tramite i gesti dell’operaio, che da forma all’uomo (Gn 2, 7), fabbrica il cielo « con le (sue) dita » e fissa le stelle al loro posto (Sal 8, 4); al contrario, il grande inno che canta il Dio creatore descrive l’uomo al mattino che « esce al suo lavoro, per la sua fatica fino a sera » (Sal 104, 23; cf. Sir 7, 15). Questo lavoro dell’uomo è la continuazione della creazione di Dio, è il compimento della sua volontà. 2. Valore naturale del lavoro – Questa autentica volontà di Dio non è per niente espressa nei comandamenti dell’Alleanza, nè in quelli del Decalogo, nè in quelli del Vangelo. Ciò è normale, non ci si deve sorprendere: il lavoro è una legge della condizione umana imposta ad ogni uomo, prima ancora che egli sappia di essere chiamato da Dio alla salvezza. Da questo fatto derivano tutte quelle reazioni della Bibbia nei riguardi del lavoro, che interpretano sostanzialmente il giudizio di una coscienza onesta e retta. In particolare se ne trovano negli scritti dei saggi, deliberatamente attenti ad arricchire la religione d’Israele prendendo il meglio dell’esperienza morale dell’umanità. In tal modo la Bibbia si dimostra severa nei confronti dell’ozio per delle semplici ragioni; l’ozioso non ha niente da mangiare (Pr 13, 4) e rischia di morire di fame (Pr 21, 25); niente stimola a lavorare più della fame (Pr 16, 26), e S. Paolo non esita ad utilizzare questo argomento per mostrare in quale stato di aberrazione sono coloro che si rifiutano di lavorare: »che neanche mangino » (2 Ts 3, 10). Ancora, l’ozio è un decadimento; si ammira la donna sempre attiva, poichè « il pane che mangia non è frutto di pigrizia » (Pr 31, 27) e ci si fa beffe degli oziosi: »La porta gira sui cardini, così il pigro sul suo letto » (Pr 26, 14). Non è più un uomo, è  » una pietra imbrattata »,  » una palla di sterco » (Sir 22, 1-2), che si respinge con disgusto. In compenso la Bibbia sa apprezzare il lavoro ben fatto, l’abilità e l’ attaccamento al proprio mestiere del contadino, del fabbro o del vasaio (Sir 38, 26.28.30). E’ colma di ammirazione per i frutti dell’arte, il palazzo di Salomone ( 1 Re 7, 1-12) ed il suo trono, « non ne esistevano di simili in nessun regno » (1 Re 10, 20), ma soprattutto il tempio di Jahve e le sue meraviglie (1 Re 6; 7, 13-50). La Bibbia non ha pietà per la cecità dei fabbricanti di idoli, ma rispetta la loro abilità e si indigna che tanta fatica sia sprecata per un « nulla » (Is 40, 19 ss; 41, 6 ss). 3. Valore sociale del lavoro. – Questa stima del lavoro non nasce solo dall’ammirazione davanti alle realizzazioni dell’arte, bensì si appoggia su una visione molto solida dell’importanza del lavoro nella vita sociale e nei rapporti economici. Senza i contadini e gli artigiani « sarebbe impossibile costruire una città » (Sir 38, 32). All’origine della navigazione troviamo tre fattori: « fu inventata dal desiderio di guadagni e fu costruita da una saggezza artigiana; ma la tua provvidenza, o Padre, la guida » (Sap 14, 2 ss). Concezione realista ed equilibrata, suscettibile di spiegare, a seconda dell’importanza relativa di questi tre elementi, le aberrazioni a cui può andare incontro il lavoro, così come le meraviglie che può realizzare, per esempio quella che permette ai naviganti di « affidare le loro vite anche a un minuscolo legno » e di perfezionare così la Creazione, impedendo che « che le opere della Sapienza siano inutili » (Sap 14, 5).

II. La fatica del lavoro Poichè il lavoro è un dato fondamentale dell’esistenza umana, si trova immediatamente e profondamente colpito dal peccato: « Con il sudore del tuo volto mangerai il pane » (Gn 3, 19). La maledizione divina non ha per oggetto il lavoro, così come non ha per oggetto il parto. Come quest’ultimo è la dolorosa vittoria della vita nei confronti della morte, così la fatica quotidiana ed incessante dell’uomo che lavora è il prezzo con cui deve pagare il potere sul creato che Dio gli ha affidato; il potere rimane, ma la terra, maledetta, oppone resistenza e deve essere domata (Gn 3, 17 ss). Il peggio è che questa faticosa sofferenza, anche se ha per effetto dei risultati spettacolari, come nel caso di Salomone, è resa vana dalla morte: »Allora quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità! » (Qo 2, 22-23). Doloroso, sovente sterile, il lavoro è ancora nell’umanità uno dei terreni dove il peccato dispiega le sue forze in modo terribile. Arbitrarietà, violenza, ingiustizia e rapacità fanno costantemente del lavoro non solo un peso opprimente, ma anche una sorgente di odio e di divisione. Operai frustrati dal misero salario (Ger 22, 13 ; Gc 5, 4), contadini depredati dalle tasse (Am 5,11), popolazioni sottomesse al lavoro obbligatorio da parte di un governo nemico (3 Sam 12, 31) o dal loro stesso sovrano (1 Sam 8, 10-18; 1 Re 5, 27; 12, 1-14), schiavi condannati al lavoro e ad essere percossi (Sir 33, 25-29). Questo triste quadro non è sempre la conseguenza di errori personali, bensì è l’aspetto ordinario del lavoro vissuto dalla razza di Adamo. Israele ha conosciuto questa esperienza in Egitto, nella sua forma più disumana; lavoro forzato, ad un ritmo opprimente, con dei sorveglianti spietati, in mezzo ad un popolo ostile, a vantaggio di un governo nemico, lavoro sistematicamente organizzato per annientare un popolo e toglierli ogni capacità di opposizione (Es 1, 8-14; 2, 11-15; 5, 6-18). In definitiva siamo già all’ « universo dei campi di concentramento », il « campo di lavoro ».

III. La redenzione del lavoro Ma Jahve ha liberato il suo popolo da questo universo disumano, frutto del peccato. La sua alleanza con Israele comporta una serie di prescrizioni destinate a preservare il lavoro, se non da tutto ciò che ha di faticoso, almeno dalle forme distorte dovute alla cattiveria umana. Il sabato è fatto per interrompere l’opprimente continuità del lavoro (Es 20, 9 ss), per assicurare all’uomo e a tutte le attività della terra un tempo di riposo, (Es 23, 12; Dt 5, 14), sull’esempio di un Dio che si è rivelato come un Dio che lavora, che si riposa e che libera dalla schiavitù (Dt 5, 15). Numerosi articoli della Legge sono destinati a proteggere lo schiavo o il salariato, che deve essere pagato il giorno stesso (Lv 19, 13) e non deve esere sfruttato (Dt 24, 14 ss). I profeti richiameranno queste esigenze (Ger 22, 13). Se Israele rimane fedele all’Alleanza, non sarà dispensata dal lavoro, ma questo sarà fecondo, poichè « Dio benedirà l’opera delle sue mani » (Dt 14, 29; 16, 15; 28, 12; Sal 128, 2). Il lavoro produrrà il suo risultato naturale; colui che pianta una vigna gusterà i suoi frutti, colui che costruisce una casa l’abiterà (Am 9, 14; Is 62, 8 ss; cf Dt 28, 30).

IV. Il Nuovo Testamento La venuta di Gesù Cristo proietta sul lavoro i paradossi e le illuminazioni del Vangelo. Nel Nuovo Testamento il lavoro è contemporaneamente esaltato ed ignorato o visto dall’alto, come se fosse un dettaglio senza importanza. E’ esaltato dall’esempio di Gesù, lavoratore (Mc 6, 3) e figlio di lavoratore (Mt 13, 55), e dall’esempio di Paolo che lavora con le sue mani (At 18, 3) e se ne vanta (At 20, 34; 1 Cor 4, 12). Tuttavia i Vangeli mantengono un sorprendente silenzio sul lavoro; sembra che conoscano questa parola solo per indicare le opere a cui occorre applicarsi, cioè quelle di Dio (Gv 5, 17; 6, 28), o per portare come esempio gli uccelli del cielo che « non seminano, nè mietono » (Mt 6, 28). La poca importanza data al lavoro da una parte e la sua valorizzazione dall’altra parte, non rappresentano una contraddizione, ma i due poli dell’atteggiamento fondamentale del cristiano. 1. Il lavoro perituro – « Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna » (Gv 6, 27). Gesù Cristo non ha altra missione che di portare il Regno di Dio e quindi non parla d’altro, poichè questo Regno viene prima di tutto (Mt 6, 33). Tutto il resto, mangiare, bere, vestirsi, non è senza importanza, ma chi se ne preoccupa a tal punto da perdere il Regno, ha perso tutto, anche se avesse conquistato l’universo (Lc 9, 25). Di fronte alla conoscenza di Dio, che è qualcosa di assoluto, tutto il resto perde importanza; in questo mondo, « la cui scena passa » (1 Cor 7, 31), conta soltanto ciò che « tiene uniti al Signore senza distrazioni » (1 Cor 7, 35). 2. Valore positivo del lavoro – Dare al lavoro il suo giusto posto, distinto da Dio, non è per niente svalorizzarlo, al contrario gli si restituisce il suo valore reale nella creazione, valore che è altissimo. Non solo Gesù, come Jahve nell’Antico Testamento, prende a prestito termini e paragoni dal mondo del lavoro; pastore, vignaiolo, medico, seminatore, senza quella sfumatura di comprensione che si nota nel libro del Siracide, così tipica dell’intellettuale, nei confronti del lavoro manuale, della sua necessità e dei suoi limiti (Sir 38, 32 ss); – non solo presenta l’apostolato sotto forma di un lavoro, quello della mietitura (Mt 9, 37; Gv 4, 38) o della pesca (Mt 4, 19); ma egli suppone, da tutto il suo comportamento, un mondo al lavoro, il contadino nel suo campo, la massaia nelle faccende domestiche (Lc 15, 8), e trova anormale il sotterrare un talento senza farlo fruttare (Mt 25, 14-30). Nel caso della moltiplicazione dei pani, ci tiene a far notare che è un’eccezione e che spetta all’uomo preparare e cuocere il proprio pane. Nello stesso spirito di leale adesione alla condizione umana, Paolo dirà « di tenersi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata (oziosamente) », prendendo come pretesto che la parusia è vicina (2 Ts 3, 6). 3. Valore cristiano del lavoro – Come nuovo Adamo, il Cristo permette all’umanità di compiere fino in fondo la missione di dominare il mondo (Eb 2, 5 ss; Ef 1, 9 ss): salvando l’uomo, da al lavoro il suo pieno valore. Rende il suo obbligo più impellente, fondandolo sulle concrete esigenze dell’amore soprannaturale; rivelando la vocazione dei figli di Dio, egli mette in luce tutta la dignità dell’uomo e del lavoro che è al suo servizio, stabilisce una gerarchia di valori che ci permettono di giudicare e di sapere come comportarci nel lavoro. Instaurando il Regno che non è di questo mondo, ma vi si trova come un fermento, il Cristo restituisce la sua qualità spirituale al lavoratore, da al suo lavoro la dimensione della carità e fonda le relazioni generate dal lavoro sul principio nuovo della fraternità nel Cristo (Fil ). In virtù della sua legge d’amore (Gv 13, 34), obbliga a reagire contro l’egoismo ed a fare il possibile per diminuire la fatica degli uomini al lavoro. Tuttavia, facendo partecipe il cristiano del mistero della sua morte e delle sue sofferenze, egli attribuisce un valore nuovo a questa inevitabile fatica. 4. Il lavoro e il nuovo universo – Quando infine il Signore ritornerà e rivestirà tutti gli eletti della sua gloria di risorto, il dominio sull’universo da parte dell’umanità sarà pienamente realizzato attraverso di lui ed in lui, senza ostacoli di peccato, di morte o di sofferenza. Ma, ancor prima dell’ultimo giorno, il lavoro porta il suo contributo nel ritorno della creazione a Dio, nella misura in cui è compiuto nel Cristo. Lo schiavo che sopporta la sua condizione nel Cristo è già  » un liberto affrancato del Signore » (1 Cor 7, 22) e prepara la creazione ad « essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rm 8, 21). Resterà qualcosa dell’opera realizzata? La Scrittura non incoraggia nessun messianismo temporale;  » passa la scena di questo mondo!  » (1 Cor 7, 31) e la rottura tra lo stato attuale e lo stato futuro del mondo non lascia spazio ad un ordinamento che farebbe passare nel mondo futuro senza sconvolgimenti. Tuttavia, una certa permanenza dell’opera dell’uomo, sotto una forma impossibile da precisare, sembra intravedersi nelle affermazioni paoline sulla dominazione e la ricapitolazione dell’universo attraverso il Cristo (Rm 8, 18 ss; Ef 1, 10; Col 1, 16.20). Senza che nessun testo ci permetta di soddisfare una curiosità fatalmente ingenua e limitata, la Scrittura considerata nel suo insieme ci invita a sperare che la creazione riscattata e liberata continui sempre ad essere l’universo dei figli di Dio riuniti nel Cristo.

 

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