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LA PREGHIERA DI GESÙ O PREGHIERA DEL CUORE NELLA TRADIZIONE DELLA CHIESA

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LA PREGHIERA DI GESÙ O PREGHIERA DEL CUORE NELLA TRADIZIONE DELLA CHIESA

La formula La preghiera di Gesù si dice in questo modo: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me, peccatore. In origine, la si diceva senza la parola peccatore; questa è stata aggiunta più tardi alle altre parole della preghiera. Tale parola esprime la coscienza e la confessione del nostro stato di peccato

Istituita da Cristo Dopo l’ultima cena, il Signore Gesù Cristo diede ai suoi discepoli dei comandamenti e dei precetti sublimi e definitivi; fra questi, la preghiera nel suo Nome. Egli ha presentato questo tipo di preghiera come un dono nuovo e straordinario, d’inestimabile valore. Gli apostoli conoscevano già in parte la potenza del Nome di Gesù: per suo mezzo guarivano le malattie incurabili, sottomettevano i demoni, li dominavano, li legavano e li cacciavano. E’ questo Nome potente e meraviglioso che il Signore comanda di utilizzare nelle preghiere, promettendo che agirà con particolare efficacia. « Qualunque cosa chiederete al Padre nel mio Nome », dice ai suoi apostoli, « la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio Nome, io la farò » (Gv 14,13-14). « In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio Nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio Nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena » (Gv 16,23-24).

La pratica degli apostoli Nei Vangeli, negli Atti e nelle Lettere noi vediamo la fiducia senza limiti che gli apostoli avevano nel Nome del Signore Gesù e la loro infinita venerazione nei suoi confronti. E’ per suo mezzo che essi compivano i segni più straordinari. Certamente non troviamo nessun esempio che ci dica in che modo essi pregassero facendo uso del Nome del Signore, ma è certo che lo facevano. E come avrebbero potuto agire diversamente, dal momento che tale preghiera era stata loro consegnata e comandata dal Signore stesso, dal momento che questo comando era stato loro dato e confermato a due riprese? Se la Scrittura tace a questo proposito, è unicamente perché questa preghiera era di uso comune: non v’era dunque nessuna necessità di menzionarla espressamente, dato che era ben nota e che la sua pratica era generale.

Un’antica regola Che la preghiera di Gesù sia stata largamente conosciuta e praticata risulta chiaramente da una disposizione della chiesa che raccomanda agli analfabeti di sostituire tutte le preghiere scritte con la preghiera di Gesù. L’antichità di tale disposizione non lascia spazio a dubbi. In seguito, essa fu completata per tener conto della comparsa all’interno della chiesa di nuove preghiere scritte. Basilio il Grande ha steso quella regola di preghiera per i suoi fedeli; così, certuni gliene attribuiscono la paternità. Senz’altro, però, essa non è stata né creata né istituita da lui: egli si è limitato a mettere per iscritto la tradizione orale, esattamente come ha fatto per la stesura delle preghiere della liturgia. Quelle preghiere, che esistevano a Cesarea già fin dai tempi apostolici, non erano scritte, ma si trasmettevano in forma orale, allo scopo di proteggere quel grande atto liturgico dai sacrilegi dei pagani.

I primi monaci La regola di preghiera del monaco consiste essenzialmente nell’assiduità alla preghiera di Gesù. E’ sotto questa forma che tale regola viene data, in maniera generale, a tutti i monaci. In questa regola si parla della preghiera di Gesù allo stesso modo in cui si parla della preghiera domenicale, del salmo 50 e del simbolo della fede, cioè come di cose universalmente conosciute e accettate. Quando Antonio il Grande, che visse fra il III e il IV secolo, esorta i discepoli ad esercitarsi con il più grande zelo nella preghiera di Gesù, ne parla come di qualcosa che non ha bisogno del minimo chiarimento. Le spiegazioni relative a questa preghiera apparvero più tardi, a mano a mano che se ne perdeva la conoscenza viva. Così, un insegnamento dettagliato sulla preghiera di Gesù fu dato dai Padri del XIV e XV secolo, allorché la sua pratica prese a scomparire anche fra i monaci.

Testimonianze indirette Nei documenti dei primi secoli del cristianesimo pervenuti fino a noi, la preghiera nel Nome di Gesù non è trattata a parte, ma solo in connessione con altri temi. Nella Vita di Ignazio Teoforo, vescovo di Antiochia, che ricevette la corona del martirio a Roma sotto l’imperatore Traiano, leggiamo quanto segue: “Mentre lo si conduceva per essere consegnato alle bestie feroci, egli aveva incessantemente il Nome di Gesù Cristo sulle labbra; allora i pagani gli chiesero per quale motivo pronunciasse continuamente quel Nome. Il santo rispose che aveva il Nome di Gesù Cristo impresso nel cuore e che non faceva altro che confessare con la bocca colui che sempre portava nel cuore. » Il santo martire Ignazio fu davvero, sia nel nome che nella vita, un ‘Teoforo’ (nome che in greco significa ‘Portatore di Dio’), perché portava sempre nel cuore il Cristo-Dio, impresso dalla meditazione continua del suo spirito. Ignazio fu discepolo del santo apostolo ed evangelista Giovanni ed ebbe nella sua infanzia il privilegio di vedere il Signore Gesù Cristo.

La chiesa primitiva Non v’è dubbio che l’evangelista Giovanni insegnò la preghiera di Gesù a Ignazio e che questi, in quel periodo fiorente del cristianesimo, la praticava al pari di tutti gli altri cristiani. In quel tempo tutti i cristiani imparavano a praticare la preghiera di Gesù: anzitutto per la grande importanza di questa preghiera, quindi per la rarità e il costo elevato dei libri sacri ricopiati a mano e per il numero ridotto di quanti sapevano leggere e scrivere (gran parte degli apostoli erano analfabeti), infine perché questa preghiera è di facile uso.

Declino progressivo Uno scrittore del V secolo, Esichio di Gerusalemme, si lamenta già che la pratica di questa preghiera è andata fortemente in declino fra i monaci. Col tempo, tale declino si accentuerà ulteriormente; così, i santi Padri con i loro scritti si sforzarono di incoraggiare questa pratica. L’ultimo in ordine di tempo a scrivere su questa preghiera fu il beato staretz Serafim di Sarov. Lo staretz non redasse lui stesso le Istruzioni, che apparvero sotto il suo nome, ma esse furono messe per iscritto, a partire dal suo insegnamento orale, da uno dei monaci che stavano sotto la sua direzione; esse portano chiaramente il segno di un’ispirazione divina.  Ai nostri giorni, la pratica della preghiera di Gesù è quasi abbandonata da coloro che fanno vita monastica.

Il potere del Nome La forza spirituale della preghiera di Gesù risiede nel Nome del Dio-Uomo, il nostro Signore Gesù Cristo. Benché siano molti i passi della sacra Scrittura che proclamano la grandezza del Nome divino, tuttavia il suo significato fu spiegato con grande chiarezza dall’apostolo Pietro dinanzi al sinedrio che lo interrogava per sapere « con quale potere o in nome di chi » egli avesse procurato la guarigione a un uomo storpio fin dalla nascita. « Allora Pietro, pieno di Spirito santo, disse loro: ‘Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo e in qual modo egli abbia ottenuto la salute, la cosa sia nota a voi tutti e a tutto il popolo d’Israele: nel Nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati »‘ (At 4,7-12) Una tale testimonianza viene dallo Spirito santo: le labbra, la lingua, la voce dell’apostolo non erano che strumenti dello Spirito. Un altro strumento dello Spirito santo, l’apostolo dei gentili, fa una dichiarazione simile. Egli dice: « Infatti, chiunque invocherà il Nome del Signore sarà salvato » (Rm 10,13). « Gesù Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra » (Fil 2,8-10).

Hanno detto di essa i Monaci che l’hanno praticata È preghiera pura la « preghiera dell’ardore », fitta di orazioni « veloci e veementi, pure e fervide come carboni di fuoco »,  un grido potente (Eb 5,7) che sale dal profondo del cuore, congiunto all’umiltà che [procede] dalla potenza della gioia », da cui « l’uomo è umiliato nei suoi pensieri fino agli abissi » (Isacco di Ninive: Sui santi fremiti) « Un’orazione ardente, nota a pochissimi e da pochissimi sperimentata,  ineffabile ». Tale esperienza, come a noi è stata trasmessa da quei pochi che, tra gli antichissimi padri sono sopravvissuti, così pure da noi essa non viene proposta, se non a pochissimi, realmente sitibondi di accoglierla. (Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci).  

Publié dans:PREGHIERA DEL CUORE (SULLA) |on 5 avril, 2016 |Pas de commentaires »

GESÙ CRISTO FONTE UNIVERSALE DI SALVEZZA

  http://www.collevalenza.it/Riviste/2001/Riv0401/Riv0401_04.htm

GASTONE BELLABARBA

GESÙ CRISTO FONTE UNIVERSALE DI SALVEZZA

Introduzione: i pericoli del relativismo religioso 1.  La Dichiarazione “Dominus Jesus”. Alcuni contenuti dottrinali 2.  La Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane 3.  La salvezza riguarda anche le religioni non cristiane? 4.  Lo spirito ecumenico del Concilio Vaticano II e l’evangelizzazione del terzo millennio

Conclusioni: l’universalità della Chiesa di Cristo e il mistero della salvezza (Seguito)

3. La salvezza riguarda anche le religioni non cristiane? Il dibattito teologico sul come la salvezza possa realizzarsi nelle religioni non cristiane è tuttora aperto. Il Concilio Vaticano II si limitò ad affermare che Dio la dona “attraverso vie a lui note” (Decr. Ad gentes, n.7). “Per coloro i quali non sono formalmente membri della Chiesa, la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo” (Lett. Enc. Redemptoris Missio, n.10). L’insegnamento del Papa espresso nella “Redemtoris missio” è illuminante: “Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica” (ibidem, n.29). Ne derivano alcune importanti conseguenze: “Via alla salvezza è il bene presente nelle religioni, ma non le religioni in quanto tali”; “Tutto ciò che di buono esiste nelle religioni va riconosciuto e valorizzato” perché “il bene e il vero, ovunque si trovi, proviene dal Padre ed è opera dello Spirito”. Con la venuta di Gesù Cristo Salvatore, Dio ha voluto che la Chiesa da lui fondata fosse lo strumento per la salvezza di tutta l’umanità. Questa verità di fede nulla toglie al fatto che la Chiesa consideri le religioni del mondo con sincero rispetto secondo quanto di “bene” esse esprimono, ma non riguardo ai contenuti dottrinali in quanto la Chiesa esclude radicalmente quella mentalità indifferentista impostata a un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l’altra”. La Chiesa, come esigenza dell’amore a tutti gli uomini, “annuncia ed è tenuta ad annunciare, incessantemente Cristo che è ‘la via, la verità e la vita’ (Gv 14,6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose” (Dich. Nostra aetate, n.2 ). Gesù ha affidato alla Chiesa di diffondere il suo Vangelo tra tutti gli uomini, dicendo agli Apostoli: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte le cose che ho comandate a voi. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo” (Mt 28,18-20). Gesù esprime così il suo essere centro unico e universale di salvezza per tutta l’umanità attraverso la Chiesa da lui fondata che ha il compito di evangelizzare il mondo nel nome di Dio, Uno e Trino, e di indicare a tutte le genti e a tutti i popoli la via della verità e della salvezza che risiede in Gesù Cristo Figlio Unigenito di Dio Padre, incarnato, morto e risorto per la vittoria sul peccato e sulla morte e, donare la salvezza e la vita eterna a tutti i figli di Dio Padre divenuti fratelli in Cristo.

4. Lo spirito ecumenico del Concilio Vaticano II e l’evangelizzazione del terzo millennio Dopo il peccato originale di Adamo ed Eva, Dio Padre preannuncia il piano salvifico (Gn 3,15) e la vittoria di Gesù Cristo su Satana, principe del mondo, per la riconciliazione, la salvezza dell’intera umanità. Così, nella maturità dei tempi, Dio Padre invia il Verbo perché realizzi il piano della salvezza e quindi il Regno di Dio Padre. Il mistero della salvezza che si manifesta attraverso la Chiesa e abbraccia l’intera Creazione, diventa storia della redenzione mediante Cristo e lo Spirito Santo che danno forma alle diverse espressioni della fede che hanno come unico centro universale la Chiesa di Cristo che ha ricevuto la missione di battezzare, evangelizzare tutte le genti e annunciare e realizzare il Regno di Dio attraverso l’opera vivificante dello Spirito Santo e di Gesù Eucaristico. È sotto la guida dello Spirito Santo che la Chiesa ha realizzato la svolta ecumenica del Concilio Vaticano II e dato impulso al Grande Giubileo del 2000 come preparazione alla nuova evangelizzazione del terzo millennio. Così si è aperta per la Chiesa di Cristo una nuova stagione ricca di prospettive in una società razionalizzata, secolarizzata, globalizzata dove dilagano le nuove povertà materiali e spirituali che esprimono i diffusi malesseri presenti nel mondo all’alba del terzo millennio. Di fronte a queste nuove povertà e malesseri economici, demografici, sociali, culturali, spirituali, religiosi, la Chiesa di Cristo ha il compito di diffondere gli antitodi per la difesa della vita, della dignità della persona umana, per lo sviluppo dell’amore, della carità, della solidarietà, del perdono, della misericordia e su queste basi di amore e di verità intensificare il dialogo interreligioso per portare Cristo e Maria, Madre di Dio e Madre nostra, in tutti i cuori così da diffondere l’evangelizzazione e portare l’umanità alla salvezza.

Conclusioni: l’universalità della Chiesa di Cristo e il mistero della salvezza Il piano divino della salvezza è la risposta di Dio Padre e Creatore al peccato originale che rappresenta la trasgressione, la superbia dell’uomo contro il Signore Iddio. Una risposta di amore e di misericordia che offre ai figli peccatori la redenzione, la salvezza attraverso il sacrificio della Croce di Gesù Cristo che con la sua gloriosa risurrezione sconfigge i1 peccato e la morte, e apre le porte alla vita eterna nel Regno santo di Dio, Uno e Trino. I contenuti fondamentali della dottrina cattolica sono l’incarnazione, la morte, la risurrezione di Gesù Cristo che, nella maturità dei tempi, viene inviato dal Padre per la salvezza dell’intera umanità. E nella missione terrena il Figlio di Dio, incarnato nel seno della Vergine ed Immacolata Maria per opera dello Spirito Santo, costituisce la Chiesa per l’evangelizzazione del mondo e la salvezza dell’umanità. La Chiesa di Cristo è la custode del mistero della salvezza e le sue porte sono sempre aperte all’amore, alla misericordia, al perdono, come tabernacolo universale di Dio vivente che chiama tutti a sé per vincere Satana e popolare di Angeli e di Santi la Gerusalemme celeste. La Dichiarazione “Dominus Jesus”, firmata dal cardinale Joseph Ratzinger (Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede) ha definito i principali contenuti dottrinali della Chiesa cattolica riguardo al rapporto con le altre Chiese e religioni in ordine alla verità e alla salvezza negando che “tutte le religioni siano vie ugualmente valide di salvezza”, così rispondendo ai teologi e a quanti sostengono il relativismo religioso. Monsignor Tarcisio Bertone (segretario della Congregazione), che ha partecipato alla conferenza stampa di presentazione del documento “Dominus Jesus”, ha chiarito che anche se la Dichiarazione, in quanto tale, non gode della prerogativa dell’infallibilità, gli insegnamenti che contiene sono “patrimonio di fede della Chiesa”, in quanto “infallibilmente proposti dal Magistero in precedenti atti”. Come prevedibile, la Dichiarazione ha suscitato dure reazioni da parte degli esponenti delle altre Chiese e religioni non cristiane in quanto si è temuto che la Dichiarazione costituisse un freno allo spirito ecumenico, che procede secondo un cammino irto di difficoltà, e una sorta di “fondamentalismo” poiché vi si intravvede una affermazione di esclusività della Chiesa cattolica in ordine alla verità e alla salvezza. Il cardinale australiano Edward Cassidy, massimo collaboratore del Papa per il dialogo con le Chiese cristiane e con l’Ebraismo, dissente dal “linguaggio” e dai “modi” della Dichiarazione “Dominus Jesus” pur confermando che i contenuti dottrinali sono quelli della teologia manifestata nei documenti del Concilio Vaticano II. Tuttavia, riguardo alla forma, la Dichiarazione sembra rappresentare una ulteriore difficoltà rispetto al dialogo ecumenico che si è sviluppato dal Concilio in poi. Il cardinale E.Cassidy spera comunque che il progetto di incontro giubilare ebraicocattolico in programma per il 3 ottobre 2000 al Laterano, disdetto dalle Comunità ebraiche, possa realizzarsi una volta maturato il tempo per chiarire bene le divergenze che si sono venute a creare. Il Papa, in occassione del XIII Incontro interreligioso, organizzato nella capitale portoghese (Lisbona) dalla comunità di S. Egidio con la partecipazione di 250 personalità di dieci religioni (e conclusosi il 26-9-2000), ha inviato al Cardinale E. Cassidy un messaggio di compiacimento per la conclusione dell’incontro rilanciando il dialogo ecumenico a tutto campo, quindi “impegno prioritario” pur senza “ignorare le differenze”. Questo terreno teologico aprirà certamente un acceso dibattito fra i cristiani e i non cristiani nella sperazza che l’ecumenismo non sia messo in discussione, come affermato dal Papa. Un punto fermo per tutti rimane comunque quello che “Cristo è una realtà che cambia la storia, anche per chi non lo riconosce”. Per quanto riguarda i contrasti, le incomprensioni, le difficoltà di dialogo affidiamoci all’opera santifica dello Spirito Santo che diffonde i suoi doni e la sua grazia secondo la volontà e i disegni di Dio Padre.

 

Publié dans:meditazioni/ riflessioni |on 5 avril, 2016 |Pas de commentaires »

Annunciation by El Greco

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Publié dans:immagini sacre |on 4 avril, 2016 |Pas de commentaires »

«SALUTO MAI ALTRE VOLTE UDITO»

http://www.stpauls.it/madre/1003md/1003md04.htm

«SALUTO MAI ALTRE VOLTE UDITO»  

« Piena di grazia »: Maria è stata e rimane colmata dal favore divino. Ed è nostra sicura vocazione…  

Nelle litanie lauretane invochiamo la Vergine come santa Maria, santa Madre di Dio, santa Vergine delle vergini, Regina dei santi, e le chiediamo di pregare per noi peccatori, perché ci aiuti a diventare santi. Ciò vuol dire che riconosciamo in lei non solo l’icona della nostra santità, ma pure il suo ruolo di cooperatrice, di formatrice di santi. Ci soffermeremo questa volta sull’invocazione Santa Maria, per comprendere cosa vuol dire essere santi, e cogliere così le ragioni per cui diciamo santa la Vergine Maria ed imparare da lei le vie per le quali si giunge alla santità. Cosa vuol dire essere santi? Nell’Antico Testamento il termine Santo – Qadosh, in ebraico, e Aghios in greco – vuol dire Separato (Dio, il Tutt’Altro; il Santo d’Israele). A Mosè che voleva avvicinarsi a vedere il roveto ardente, disse il Signore: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa» (Es 3,5). Con Isaia si passa dalla santità intesa come separazione fisica, esterna, alla santità intesa come separazione morale, interna da tutto ciò che non piace a Dio, al Santo d’Israele. Il Profeta sente i serafini che «proclamavano l’uno all’altro: « Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria »» (Is 6,3). La santità di Dio esige dall’uomo che sia anche lui santificato, cioè separato dal profano, purificato dal peccato, partecipando alla giustizia di Dio. Nel Nuovo Testamento la nozione di santità si precisa con la rivelazione che Gesù fa dello Spirito Santo. Dio comunica la sua santità. Nel battesimo si diventa veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò veramente santi. Il battezzato deve quindi, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare, vivendola, la santità che ha ricevuto (LG 40). Il cristiano è tempio dello Spirito Santo (1Cor 6,19). Maria è santa, santissima; è la Tuttasanta (la Panaghia). Nell’Annunciazione Maria è salutata con l’appellativo di « Piena di grazia », Kecharitomene. È un titolo che le è rivolto da Dio, mediante l’Angelo. Potremmo dire che questo è il nome proprio di Maria. Qual è la portata di questo nome? Esso vuol dire che Maria è stata e rimane colmata dal favore divino e che questo favore l’ha tutta trasformata, santificata. Scrive Pio IX nella lettera apostolica Ineffabilis Deus dell’8 dicembre 1854: «Gli stessi Padri e gli scrittori della Chiesa, considerando attentamente che la beatissima Vergine, in nome e per ordine di Dio stesso, fu chiamata « Piena di grazia » dall’angelo Gabriele… insegnarono che, con questo singolare e solenne saluto, mai altre volte udito, viene manifestato che la Madre di Dio fu sede di tutte le grazie, ornata di tutti i carismi del divino Spirito, anzi tesoro quasi infinito e abisso inesauribile dei medesimi carismi, cosicché giammai fu sottoposta alla maledizione, ma fu partecipe insieme al Figlio della perpetua benedizione». A questa pienezza di grazia, a questa santità ricevuta da Dio, Maria ha sempre e pienamente corrisposto: «Già piena di grazia quando fu salutata dall’arcangelo Gabriele, Maria ne fu ricolma con sovrabbondanza quando lo Spirito Santo stese su di lei la sua ombra ineffabile. Poi crebbe talmente di giorno in giorno e di momento in momento in quella duplice pienezza, che raggiunse un grado di grazia immenso e inconcepibile» (Montfort, Vera devozione 44). Così Maria diventa icona di santità per tutti i fedeli: sacerdoti, religiosi, laici. Volendo concretare i percorsi obbligati, quasi paradigma di verifica della nostra personale imitazione della santità di Maria, potremmo indicarli come fa L. De Candido in NDM, pp. 1251-1253: lasciarsi amare da Dio (accogliere i suoi doni, affidarsi alla sua guida, saperlo ringraziare, creare un proprio Magnificat…); obbedire con intelligenza: con libera fede (LG 56); ascoltare in contemplazione (custodia nel cuore, difesa della parola, confronto tra i messaggi, pazienza nell’incomprensione, silenzio protettivo); perseverare nella fedeltà… soprattutto come presenza accanto a Cristo; servire chi deve essere servito, con Maria la serva del Signore; perseverare presso la croce. Maria suscita, forma e incorona i santi. Diventare santi è nostra sicura vocazione. Ma quali mezzi occorrono per rispondere e corrispondere a tale vocazione? Tutti li conosciamo. Il Vangelo ce li indica, i maestri di vita spirituale li spiegano, i santi li vivono. L’insegnamento di san Luigi Maria da Montfort, il quale invita a riconoscere e ad abbracciare la vera devozione a Maria in totale affidamento a lei come segreto di grazia e di santità. Numerose sono le pagine dove il Montfort propone la vera devozione a Maria come segreto di santità. Ne riferisco qui solo alcune tra le più espressive e incisive: «O Spirito Santo… Tutti i santi del passato e del futuro sino alla fine del mondo sono opere del tuo amore unito a quello di Maria» (Preghiera infocata 15). «Maria è un luogo santo, anzi il Santo dei santi, dove i santi sono formati e modellati» (Trattato della vera devozione a Maria 218); «La formazione e l’educazione dei grandi santi, che vivranno verso la fine del mondo, sono riservate a Maria, perché soltanto questa Vergine singolare e miracolosa può produrre, insieme allo Spirito Santo, le cose singolari e straordinarie» (ivi 35). Queste chiare affermazioni del Montfort sono in perfetta sintonia con il Vaticano II, là dove esso dice che «Maria coopera con amore di madre alla rigenerazione e alla formazione dei fedeli» (LG 63); sono in perfetta sintonia anche con un discorso che Pio XI fece, il 15 agosto 1933, per la canonizzazione della beata Giovanna Antida Thouret. «…Anche riguardo ai santi si può dire che Maria è con Dio in quanto li suscita, li forma, e li incorona. Anzitutto li suscita. Le anime semplici si rivolgono a Maria, che risplende all’aurora e all’alba di tutte le sante vite: è sempre con l’intervento speciale di Maria che si annunciano fin dai primi giorni della loro vita uno di quei santi o di quelle sante che un giorno accresceranno i tesori della santità della Chiesa. Si può dire che, anche prescindendo da questi santi inizi, è sempre Maria che, per il suo posto speciale nella gloria e nella santità, è vera ispiratrice e suscitatrice di santi. Formare la santità è opera esclusivamente divina, ma se la grazia è da Dio, è però data per Maria che è la nostra avvocata e mediatrice, in quanto l’affetto materno da una parte trova corrispondenza nella pietà filiale, Dio dà le grazie, Maria le ottiene e le distribuisce. Maria non solo suscita i santi, ma anche li incorona: essa li conduce alla perseveranza finale ed alla gloria eterna. La Chiesa invita a pregare Maria e ad invocarla con le parole mortis hora suscipe: tu ne ricevi nell’ora della nostra morte. È bello vedere Maria non solo ricevere le anime come la morte a lei le porta, ma portarle essa stessa a ricevere la corona di gloria meritata con la sua assistenza». Con queste ultime espressioni Pio XI fece riferimento a un bel discorso di san Bonaventura sul capitolo 12 dell’Apocalisse. «Le dodici stelle che incoronano Maria simboleggiano i santi tutti. Attribuendo a Maria la loro corona di gloria, essi incoronano colei dalla quale, dopo Dio, si sentono incoronati, come è detto in Ap 4,10: « I 24 vegliardi gettavano le loro corone davanti al trono ». Questi vegliardi raffigurano tutti i santi. Così tutti i santi gettano le loro corone davanti a colui che siede in trono, perché si riconoscono incoronati dal Signore e dalla sua santa Madre, simboleggiata dal trono».

Giuseppe Daminelli

PAPA FRANCESCO – IL GIORNO DEL SÌ

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2016/documents/papa-francesco-cotidie_20160404_il-giorno-del-si.html

PAPA FRANCESCO – IL GIORNO DEL SÌ

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Il giorno del sì

Lunedì, 4 aprile 2016

«Sì»: per il cristiano non c’è altra risposta alla chiamata di Dio. E soprattutto non ci deve essere mai l’atteggiamento di chi fa finta di non capire e si gira dall’altra parte. È proprio nella solennità del’Annunciazione del Signore, lunedì mattina 4 aprile, che il Papa ha invitato a vivere una vera e propria «festa del sì», celebrando la messa nella cappella della Casa Santa Marta. E un «sì» convinto stamani lo hanno pronunciato i sacerdoti che hanno concelebrato con Francesco nel giorno del loro cinquantesimo anniversario di ordinazione. E anche le religiose vincenziane che lavorano a Santa Marta che hanno rinnovato i voti. «È tutta una storia che finisce e incomincia in questa solennità che oggi celebriamo: la storia dell’uomo, quando esce dal paradiso» ha voluto subito far notare il Papa all’inizio dell’omelia. Dopo il peccato, infatti, il Signore comanda all’uomo di camminare e riempire la terra: «Sii fecondo e vai avanti». Ma «il Signore era attento a quello che faceva l’uomo». Tanto che «alcune volte, quando l’uomo sbagliò, Lui punì l’uomo: pensiamo a Babele o al diluvio». Così Dio sempre «guardava cosa faceva l’uomo: a un certo punto, questo Dio che guardava e custodiva l’uomo, decise di fare un popolo e chiama nostro padre Abramo: “Esci dalla tua terra, dalla tua casa”». E Abramo «obbedì, ha detto “sì”» al Signore «ed è partito dalla sua terra senza sapere dove sarebbe andato». È «il primo “sì” del popolo di Dio». E proprio «con Abramo, Dio — che guardava il popolo — incominciò a “camminare con”. E camminò con Abramo: “Cammina nella mia presenza” gli ha detto».

Dio, ha spiegato il Papa, «fece poi lo stesso con Mosè, al quale a ottant’anni disse: “Fa’ questo”. E Mosè a ottant’anni — è anziano — dice “sì!”. E va a liberare il popolo».

Ma Dio, ha affermato ancora il Pontefice, «fece lo stesso con i profeti»: pensiamo per esempio a Isaia che, quando il Signore gli dice di andare a dire le cose al popolo, risponde di avere «le labbra impure». Ma «il Signore purifica le labbra di Isaia e Isaia dice “sì!”». E anche con Geremia, ha ricordato il Papa, avviene lo stesso: «Signore, io non so parlare, sono un ragazzino!» è la prima risposta del profeta. Ma Dio gli comanda di andare comunque e lui risponde «sì!». Sono «tanti, tanti» quelli «che hanno detto “sì”», è davvero una «umanità di uomini e donne anziani che hanno detto “sì” alla speranza del Signore». E nell’omelia Francesco ha voluto ricordare anche Simeone e Anna. «Oggi — ha spiegato — il Vangelo ci dice la fine di questa catena di “sì” e l’inizio di un altro “sì” che incomincia a crescere: il “sì” di Maria». Proprio «questo “sì” fa che Dio — ha affermato il Pontefice — non solo guardi come va l’uomo, non solo cammini con il suo popolo, ma che si faccia uno di noi e prenda la nostra carne». Infatti «il “sì” di Maria apre la porta al “sì” di Gesù: “Io vengo per fare la tua volontà”». E «questo “sì” che va con Gesù durante tutta la vita, fino alla croce: “Allontana da me questo calice, Padre, ma sia fatta la tua volontà”». È «in Gesù Cristo che, come dice Paolo ai corinzi, vi è il “sì” di Dio: Lui è il “sì”». «È una bella giornata — ha rimarcato il Papa — per ringraziare il Signore di averci insegnato questa strada del “sì”, ma anche per pensare alla nostra vita». Oltrettutto «alcuni di voi — ha detto rivolgendosi direttamente ai sacerdoti presenti alla messa — celebrano il cinquantesimo di sacerdozio: bella giornata per pensare ai “sì” della vostra vita». Ma «tutti noi, durante ogni giorno, dobbiamo dire “sì” o “no”, e pensare se sempre diciamo “sì” o tante volte ci nascondiamo, con la testa bassa, come Adamo e Eva, per non dire “no”» facendo finta di non capire «quello che Dio chiede». «Oggi è la festa del “sì”» ha rilanciato Francesco. Infatti «nel “sì” di Maria c’è il “sì” di tutta la storia della salvezza e incomincia lì l’ultimo “sì” dell’uomo e di Dio: lì Dio ricrea, come all’inizio con un “sì” ha fatto il mondo e l’uomo, quella bella creazione: con questo “sì” io vengo per fare la tua volontà e più meravigliosamente ricrea il mondo, ricrea tutti noi». È «il “sì” di Dio che ci santifica, che ci fa andare avanti in Gesù Cristo». Ecco perché oggi è la giornata giusta «per ringraziare il Signore e per domandarci: io sono uomo o donna del “sì” o sono uomo o donna del “no”? O sono uomo o donna che guardo un po’ dall’altra parte, per non rispondere?». Il Papa ha quindi espresso la speranza «che il Signore ci dia la grazia di entrare in questa strada di uomini e donne che hanno saputo dire il “sì”». E dopo aver avuto un pensiero per i sacerdoti, Francesco ha concluso rivolgendosi alle religiose della comunità di Santa Marta: «In questo momento, in silenzio, le suore che sono in questa Casa rinnoveranno i voti: lo fanno ogni anno, perché San Vincenzo era intelligente e sapeva che la missione che affidava loro era molto difficile, e per questo ha voluto che ogni anno rinnovassero i voti. Noi in silenzio accompagniamo la rinnovazione».

 

What did Thomas doubt?

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Publié dans:immagini sacre |on 1 avril, 2016 |Pas de commentaires »

PAPA BENEDETTO: I DUBBI DI SAN TOMMASO, UN SOSTEGNO A CHI È INSICURO E INCERTO NELLA FEDE

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PAPA BENEDETTO: I DUBBI DI SAN TOMMASO, UN SOSTEGNO A CHI È INSICURO E INCERTO NELLA FEDE 27/09/2006

« Ogni dubbio ? ha detto Benedetto XVI ? può approdare a un esito luminoso ». Ricordata l’opera missionaria di Tommaso in Siria e in India. Un saluto ai delegati dell’Asian Mission Congress.   Città del Vaticano (AsiaNews) ? La proverbiale « incredulità » di Tommaso è un conforto a chi ha dubbi e incertezze; e le domande che egli faceva a Gesù, sulla sua divinità, danno « anche a noi il diritto di chiedere spiegazioni a Gesù ». Con questo taglio moderno e aperto ai non credenti Benedetto XVI ha ripreso oggi le sue catechesi sulle figure degli apostoli, dedicando quella di oggi all’apostolo Tommaso (detto « Didimo », cioè gemello). Di lui rimane famosa la richiesta ? dopo la resurrezione del Signore ? di voler credere alla resurrezione di Gesù solo se metterà « il dito nel posto dei chiodi » e la « mano nel suo costato » (cfr. Gv 20,25). « Da queste parole ? spiega il papa – emerge la convinzione che Gesù sia ormai riconoscibile non tanto dal viso quanto dalle piaghe. Tommaso ritiene che segni qualificanti dell’identità di Gesù siano ora soprattutto le piaghe, nelle quali si rivela fino a che punto Egli ci ha amati. In questo l’Apostolo non si sbaglia ». Il pontefice ricorda che la pretesa di « vedere » e « toccare » le piaghe del risorto è soddisfatta da Gesù, che però gli ricorda che sono « Beati quelli che non vedono eppure credono ». E qui Benedetto XVI apre una via per credenti e non credenti che cercano conferme o verifiche alla fede cristiana: « Il caso dell’apostolo Tommaso ? egli dice – è importante per noi per almeno tre motivi: primo, perché ci conforta nelle nostre insicurezze; secondo, perché ci dimostra che ogni dubbio può approdare a un esito luminoso oltre ogni incertezza; e, infine, perché le parole rivolte a lui da Gesù ci ricordano il vero senso della fede matura e ci incoraggiano a proseguire, nonostante la difficoltà, sul nostro cammino di adesione a Lui ». Le catechesi sulle figure degli apostoli servono a capire non solo il passato della Chiesa, ma a comprendere al presente « cosa significa seguire Gesù, cosa sia vivere la Chiesa », come ha spiegato lo stesso pontefice all’inizio del ciclo. Così, dalla decisione espressa da Tommaso con le parole dette prima della passione di Gesù, « Andiamo anche noi e moriamo con lui » (Gv 11,16), il papa sottolinea: « Questa sua determinazione nel seguire il Maestro è davvero esemplare e ci offre un prezioso insegnamento: rivela la totale disponibilità ad aderire a Gesù, fino ad identificare la propria sorte con quella di Lui ed a voler condividere con Lui la prova suprema della morte. In effetti, la cosa più importante è non distaccarsi mai da Gesù. D’altronde, quando i Vangeli usano il verbo « seguire » è per significare che dove si dirige Lui, là deve andare anche il suo discepolo. In questo modo, la vita cristiana si definisce come una vita con Gesù Cristo, una vita da trascorrere insieme con Lui. San Paolo scrive qualcosa di analogo, quando così rassicura i cristiani di Corinto: « Voi siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere » (2 Cor 7,3). Ciò che si verifica tra l’Apostolo e i suoi cristiani deve, ovviamente, valere prima di tutto per il rapporto tra i cristiani e Gesù stesso ». Il papa ricorda anche l’episodio in cui Tommaso, durante l’Ultima Cena, mostra di non comprendere le parole di Gesù , domandandogli: « Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via? » (Gv 14,5). « In realtà ? commenta il papa-  con questa uscita egli si pone ad un livello di comprensione piuttosto basso; ma queste sue parole forniscono a Gesù l’occasione per pronunciare la celebre definizione: « Io sono la via, la verità e la vita » (Gv 14,6). E’ dunque primariamente a Tommaso che viene fatta questa rivelazione, ma essa vale per tutti. Ogni volta che noi sentiamo o leggiamo queste parole, possiamo metterci col pensiero al fianco di Tommaso ed immaginare che il Signore parli anche con noi così come parlò con lui. Nello stesso tempo, la sua domanda conferisce anche a noi il diritto, per così dire, di chiedere spiegazioni a Gesù ».  E a braccio ha aggiunto: « Spesso anche noi diciamo: Non ti comprendo Signore, aiutami a comprendere? ». « In tal modo ? ha concluso-  esprimiamo la pochezza della nostra capacità di comprendere, al tempo stesso ci poniamo nell’atteggiamento fiducioso di chi si attende luce e forza da chi è in grado di donarle ». Il papa ha ricordato infine che, secondo un’antica tradizione, Tommaso ha evangelizzato la Siria e la Persia, fino a giungere l’India occidentale, da dove poi il cristianesimo raggiunse anche l’India meridionale. « In questa prospettiva missionaria ? ha concluso il pontefice – terminiamo la nostra riflessione, esprimendo l’auspicio che l’esempio di Tommaso corrobori sempre più la nostra fede in Gesù Cristo, nostro Signore e nostro Dio ».

 

3 APRILE 2016 | 2A DOMENICA DI PASQUA- ANNO C | OMELIA

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3 APRILE 2016 | 2A DOMENICA DI PASQUA- ANNO C | OMELIA

DOMENICA DELLA DIVINA MISERICORDIA

Per cominciare Oggi è la domenica della misericordia. Gesù dona il suo perdono agli apostoli e chiede loro di esercitare il ministero del perdono nella comunità cristiana. È anche la domenica di Tommaso, l’apostolo che più rappresenta l’uomo moderno, sempre alla ricerca di prove convincenti. Ma Gesù proclama beati coloro che credono in lui fidandosi della parola dei suoi testimoni.

La parola di Dio Atti degli apostoli 5,12-16. Gli apostoli continuano l’opera di Gesù e compiono « molti segni e miracoli ». Intanto la comunità cresce, diventa « una moltitudine di uomini e donne ». Tutto è nato dalla risurrezione, sia la nuova fede purificata degli apostoli, sia il loro condividere con Gesù il potere di guarire i malati. Apocalisse 1,9-11a.12-13.17-19. Il libro dell’Apocalisse è un testo ricco di immagini suggestive e simboliche. Nel brano che viene presentato oggi, Giovanni vede Gesù risorto in una liturgia di grande solennità e cade prostrato in ginocchio. Ciò che l’apostolo vede deve scriverlo e raccontarlo a consolazione delle comunità cristiane che subiscono persecuzione. Giovanni 20,19-31. È lo stesso brano di vangelo che viene proposto negli anni A, B e C. È la sera del primo giorno della settimana. Le porte dove si trovano gli apostoli sono chiuse. Essi sono pieni di paura e temono di fare la stessa fine del loro maestro. Ma Gesù si presenta a loro, mostra le mani e il costato trafitti. A quegli apostoli impauriti, che lo hanno appena abbandonato e tradito, ridona piena la fiducia e conferisce loro il potere di perdonare i peccati. Non c’è Tommaso, che, quando gli dicono di aver visto Gesù, non si fida. Otto giorni dopo Gesù è di nuovo tra loro e questa volta c’è anche Tommaso, che, di fronte all’evidenza, rivela una fede piena: « Mio Signore e mio Dio! ».

Riflettere È l’ottava di Pasqua e la liturgia propone nella seconda lettura un Cristo solenne, uno liturgia celeste attorno a Gesù, come appare a Giovanni nel primo capitolo dell’Apocalisse. Gesù ha le sembianze profetiche del Figlio dell’Uomo, come ha sempre amato definirsi, veste un abito sacerdotale e una fascia d’oro regale. Si presenta come l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, Signore incontrastato della morte, e dice a Giovanni, che si lascia cadere ai suoi piedi, parole di consolazione da trasmettere alle sette chiese dell’Asia Minore, qui rappresentate da sette candelabri d’oro. Sono un canto di speranza che leggono la storia e le danno un senso proprio nel momento in cui i cristiani devono affrontare la persecuzione. Ed ecco nella prima lettura gli apostoli all’opera nell’aggregare alla chiesa nuovi convertiti nonostante l’opposizione delle autorità e nel continuare come Gesù a operare miracoli straordinari. Eccoli dividere la gente, come ha fatto Gesù: il popolo aderisce alla loro parola, le autorità la contrastano. Anch’essi, come Gesù, subiranno la persecuzione da parte della chiesa ebraica, e con il tempo dall’impero romano. La risurrezione di Gesù e la sua divinità, infatti, che è oggetto della loro coraggiosa testimonianza, non è tollerata dall’imperatore del tempo, che vuole essere venerato « come signore e dio ». Non è comunque la sconfitta la conclusione della vita di Gesù. Le apparizioni pasquali lo ripropongono vincitore. Gesù va a ricuperare gli apostoli, riallaccia le fila di quella comunità che sarebbe stata la chiesa. Eppure anche in questi giorni di fatti singolari, negli apostoli non mancano i dubbi e le incertezze. Faticano a credere e a fidarsi. Tommaso si ribella e chiede di « toccare con mano », i due discepoli di Emmaus abbandonano Gerusalemme delusi. Quando Gesù compare, gli apostoli sono più dubbiosi che contenti, anzi « sconvolti e pieni di paura » (Lc 24,37), perché pensano di vedere un fantasma. Gesù li rassicura: « Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho ». Dicendo questo, mostra loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credono ancora e sono pieni di stupore, dice: « Avete qui qualche cosa da mangiare? ». Gli offrono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro » (Lc 24, 38-43). Il biblista Gianfranco Ravasi afferma che il vocabolo « apparizione » è poco corretto parlando del Gesù risorto, perché nell’accezione odierna spesso raccoglie sotto questo termine fantasie, emozioni spirituali indefinibili, parapsicologia e altro ancora. Mentre nel vangelo ricorre solo il verbo « vedere »: Gesù « fu visto » dagli apostoli, dalle donne, dai discepoli. È proprio questo che sembra dire coraggiosamente Pietro quando afferma che Gesù li ha scelti come testimoni: « Noi abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti » (At 10,41). E lo dice questa volta a voce alta, proclamando Gesù « Signore e Cristo », accusando gli ebrei di averlo crocifisso. Questo è capitato agli apostoli. Lo hanno incontrato, lo hanno toccato con le loro mani, hanno mangiato e bevuto con lui, con lo stesso Gesù che pochi giorni prima ha subito la crocifissione, è morto ed è stato sepolto. A questi apostoli impauriti e diremmo anche poco affidabili, Gesù offre anzitutto il saluto di pace, che è riconciliazione e perdono. È lo stesso gesto magnanime e grande del Dio delle promesse, di chi non si pente delle sue chiamate e dei suoi doni. E poi affida a loro il potere di perdonare, che è ciò a cui Gesù è più sensibile durante la vita pubblica. Volto misericordioso di Dio, Gesù chiede dunque alla sua chiesa e ai suoi ministri di continuare a offrire il perdono nel suo nome. In quella sera del primo giorno della settimana non c’è Tommaso, che non crede al racconto degli altri apostoli. Teme di finire disilluso, di essere ancora una volta ingannato. Tommaso probabilmente ha sentito più degli altri la delusione per la fine in croce di Gesù. Messo di fronte al fatto della risurrezione, egli non ci vuole credere: teme di incontrare altre frustrazioni. Ma quando otto giorni dopo Gesù gli si presenta mostrando le piaghe aperte, egli si convince di non avere mai veramente dubitato ed esce nella più netta professione di fede di tutto il vangelo: « Mio Signore e mio Dio! ».

Attualizzare Sono sei le domeniche di Pasqua, la domenica delle domeniche, la festa delle feste. Sin dagli inizi fu considerata così importante che si sentì il bisogno di prepararla con quaranta giorni di penitenza, la quaresima; e di prolungarla con cinquanta giorni di Pasqua, che dovevano essere celebrati « come un unico giorno di festa » (così Ireneo). La solennità di Pasqua tocca il culmine del suo significato salvifico con la Pentecoste: lo Spirito Santo scende sulla chiesa delle origini e rende gli apostoli testimoni irresistibili della risurrezione. La prima domenica dopo Pasqua è chiamata « Domenica in albis ». Nei primi tempi della chiesa il battesimo era amministrato durante la notte di Pasqua, e i battezzandi indossavano una tunica bianca che portavano poi per tutta la settimana successiva, fino alla prima domenica dopo Pasqua, detta perciò « domenica in cui si depongono le vesti bianche » (in albis depositis). Per iniziativa di Giovanni Paolo II poi, nella domenica in albis la chiesa celebra la « Divina Misericordia di Dio ». Con questa festa Giovanni Paolo II ha accolto il desiderio di Gesù stesso che nel 1931, apparendo in una visione privata a una suora polacca, oggi santa, suor Faustina Kowalska, chiese l’istituzione della festa, proprio nei giorni in cui Gesù esercitava la piena misericordia nei confronti dei suoi apostoli, reintegrandoli integralmente nella missione. Come dicevamo, il vangelo di questa ottava di Pasqua presenta gli apostoli chiusi nel cenacolo e pieni di paura. Anch’essi sono fatti della stessa stoffa degli altri ebrei: hanno in mente un altro messia, quello vittorioso. Vogliono vedere miracoli, vogliono essere rassicurati. Come Tommaso vogliono mettere le mani nel costato del crocifisso per credere. Anche di loro Gesù può dire: « Se non vedete segni e prodigi, voi non credete » (Gv 4,48). Eppure è a loro che Gesù infonde lo Spirito Santo e affida la propria missione, mandandoli in tutto il mondo. Dice: « Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi » (Gv 20,21). In ogni tempo la chiesa si sentirà investita dalle parole di Gesù e nello stesso tempo si troverà piena di limiti. Dice sant’Agostino: « Gesù scelse discepoli a cui diede il nome di apostoli, nati da gente umile, senza cariche pubbliche, senza cultura, affinché tutto ciò che fossero e operassero di grande, egli stesso lo fosse e lo operasse in loro ». Gesù alita su di loro e dà loro il potere di perdonare i peccati. È curioso che tra i tanti compiti affidati agli apostoli, Giovanni ricordi solo questo. È però solo così che la chiesa sarà la casa di tutti; e anche chi è in autorità si senta umile, perché ugualmente bisognoso di perdono come gli altri. Di fronte alla risurrezione di Gesù, spicca il comportamento di Tommaso. Forse è meno pauroso degli altri e quando Gesù si presenta agli apostoli è in giro per Gerusalemme. Ma quando gli dicono di aver visto Gesù, Tommaso si oppone a una legge fondamentale della vita di una comunità: non si fida della parola dei suoi amici. Ha una fede critica, esigente, giudaica. Vuole toccare con mano. Rappresenta bene quelli che oggi non accolgono la testimonianza della chiesa (« Gesù forse sì, la chiesa no »). Tommaso rappresenta anche in qualche modo tutti quelli che vorrebbero sfidare Dio, imporgli di farsi vedere. Pare che il giovane Benito Mussolini a un comizio avrebbe detto: « Se Dio esiste, mi fulmini in questo istante, ma siccome sono vivo, Dio non esiste ». Qualcosa del genere fece anche la scrittrice francese Simone de Beauvoir, che a 15 anni volle risolvere una volta per tutte il problema dell’esistenza di Dio. Si mise davanti a un orologio e comandò a Dio di farsi vedere entro cinque minuti. Dio naturalmente non obbedì, e Simone decise, con tutta sicurezza, che Dio non esisteva e non ci pensò più. Non sapevano che Dio ha scelto altri modi per parlarci e incontrarci. Giovanni parla più volte di paura nel suo vangelo. In tanti uomini di ogni tempo ci può essere anche la paura del « numinoso », del divino che si manifesta e mette inquietudine. Di fronte a Dio che si manifesta, si può reagire in modi diversi. C’è chi cade in ginocchio come Tommaso, per poi testimoniarlo. Ma ci sono anche quelli che, come i discepoli di Emmaus, non si sentono abbastanza convinti, preferiscono non lasciarsi coinvolgere, dedicarsi ad altro o addirittura fuggire, pur avendo intuito che c’è del misterioso nelle parole di chi dice di aver incontrato Dio. Ma ci sono anche quelli che mantengono un legame leggero con la fede, conservando un po’ di pratica religiosa, ma senza troppa convinzione. E soprattutto guardandosi bene dal manifestare la propria identità cristiana nella società. « Ci sono troppe sacrestie nell’esistenza dei cosiddetti laici, che in pubblico si dichiarano agnostici, ma dentro mantengono un conto aperto, almeno con il dubbio che Dio esista. Non si sa mai » (mons. Enrico Masseroni).

Tonino Bello: « Era fatto così, Tommaso » « Era fatto così Tommaso. No. Non era scettico. E tanto meno incredulo. Voleva solo vederci chiaro. Tanto che gli occhi non gli bastavano. Pretendeva il conforto delle mani: « …se non metto la mano nel costato »! Come Tommaso, il nostro gemello, anche noi vogliamo toccare. Anzi, più di Tommaso, perché lui volle toccare, ma poi di fatto non toccò. Seppe arrestarsi alle soglie del suo folle realismo… E cadde in ginocchio. Per noi, invece, è diverso. Il dubbio è divenuto cultura. L’incredulità, virtù. La diffidenza, sistema. E dire che ci brucia dentro tanta voglia di trasparenza »

Don Umberto DE VANNA sdb

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