Archive pour avril, 2016

« LA VITA È DONARE UNA VIA » – VOCAZIONE ALLA VITA RELIGIOSA

http://www.apostoline.it/perscegliere/religiosi/donare_una_via_basti.htm

« LA VITA È DONARE UNA VIA »  – VOCAZIONE ALLA VITA RELIGIOSA

di Gianfranco Basti    “Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. (Gv 14,5-6)

Nell’ultima cena Gesù, istituendo l’Eucarestia, compie il gesto che manifesta il senso, il “perché” profondo di tutta la sua vita. Trasformando la tradizionale preghiera di benedizione sul pane e sul vino della pasqua ebraica nel gesto di consacrazione, del dono di tutta la sua vita al Padre per noi – “Questo è il mio corpo…”, “Questo è il mio sangue…” -Cristo spiega ai suoi apostoli il mistero profondo della sua vita e quindi di tutti coloro che vorranno, come noi, vedere in Cristo il loro modello, appunto la loro via, la loro verità, la loro vita. La vita di Cristo e la vita di coloro che sono di Cristo è una vita chiamata a divenire benedizione, eucaristia – che è poi la traduzione greca del termine “benedizione”, berakah in ebraico -, perché possiede la medesima struttura triadica di ogni preghiera ebraica di benedizione che ha Dio come suo principio e come suo fine. Benedire Dio per l’ebreo significa consacrare, ridonare a Lui i doni che Egli per primo ci ha fatto e che l’uomo ha arricchito del suo personale impegno. Mentre la preghiera del pagano ha l’uomo stesso come principio e fine (io ho bisogno – mi rivolgo a Dio – perché mi esaudisca), la preghiera del pio israelita segue la direzione inversa: Dio nella sua misericordia mi colma di doni – mi scopro ricco dei doni di Dio – a Dio li ridono in rendimento di grazie, in fiducioso abbandono. “Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta. Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno” (Lc 12,29-32). Scoprire la propria vocazione significa, così, scoprire la dimensione eucaristica della propria vita, significa scoprire che la nostra vita è dono e che possiamo fare della nostra esistenza un rendimento di grazie a Dio, ridonandola a Lui, in modo personalissimo ed irripetibile. Innumerevoli sono le vie che gli uomini possono percorrere per questo “ritorno al Padre”, innumerevoli quante sono le persone umane, vie tutte nuove ed imprevedibili quanto è sempre nuova ed imprevedibile una vita. Per questo è così facile smarrirsi…   “Io sono la via” Ecco allora risuonare come attualissime per ciascuno di noi le parole di Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. La risposta di Gesù è un invito alla sequela: “Io sono la via…”. Cristo, la sua vita e il suo modello sono il sommo criterio per giudicare della giustezza della via che ogni battezzato sta percorrendo. Per questo, ogni battezzato che non ha sbagliato strada, che ha saputo seguire Cristo fino in fondo, fino al dono pieno di sé, può divenire modello nel Modello unico che è Cristo per schiere innumerevoli di altri fratelli, attualizzazione nelle diverse epoche della storia dell’unico Vangelo fatto davvero “vita” solo nella vita del Cristo. Tutto il segreto della scelta religiosa è qui. Ogni santo, ogni maestro dello spirito, fondatore di una certa famiglia religiosa, altro non è che un’espressione particolare dell’unica, multiforme ricchezza del Cristo in una certa situazione politica, culturale, sociale, religiosa, in risposta a certe particolari attese, desideri, bisogni dell’umanità e della Chiesa. Ogni famiglia religiosa si caratterizza così per un certo carisma, contemplativo o attivo, caritativo o di annuncio, d’insegnamento o di testimonianza. I carismi sono tanti, tantissimi: non passa anno senza che non se ne aggiungano di nuovi nella Chiesa. Segno della vitalità e creatività dello Spirito indubbiamente. E, nello stesso tempo, possiamo essere certi che ciascuno di essi non fa che evidenziare un aspetto particolarissimo della vita del Cristo. Lui solo è la sintesi dei carismi: Lui solo è stato in pienezza contemplativo e uomo della carità, maestro inarrivabile di verità altissime ed umile servitore dei poveri, martire e profeta, predicatore ed umile operaio… in una parola, il Santo dei santi. Potremmo dire che Cristo ha vissuto così bene ogni dimensione della sua vita umana e divina, che un aspetto soltanto della sua esistenza terrena è capace di riempire e dare un senso alla vita di migliaia di battezzati che si consacrano alla contemplazione, o al servizio della carità, o all’insegnamento, o all’annuncio, o alla condivisione della sorte degli uomini, mediante la loro consacrazione religiosa. I religiosi sono dei battezzati che hanno sentito nella profondità del loro cuore l’unica chiamata ad una sequela radicale del Cristo, attraverso le promesse solenni (o voti) di vivere: la castità evangelica non come nel matrimonio, ma nel dono totale di se stessi al Signore ed alla Chiesa in una famiglia spirituale; di vivere la povertà evangelica non nel modo del laico cristiano, ma nella rinuncia totale ad ogni retribuzione per il lavoro svolto; di vivere l’obbedienza evangelica , non solo nella leale disponibilità ad ogni autorità legittima, sia di origine umana che divina, ma nella rinuncia senza riserve a disporre della propria vita per il bene comune.

Carismi e comunità All’interno di questa comune vocazione, ed a questa comune grazia a vivere il battesimo come sequela radicale del Cristo, ogni religioso si differenzia dall’altro per la scelta di un particolare carisma. Una scelta, beninteso, che non è una sorta di agenzia di collocamento delle diverse generosità. Al contrario, ogni religioso è tale perché è rimasto affascinato da una dimensione particolare della vita del Cristo, e da come un certo fondatore di famiglia religiosa è riuscito ad incarnare nella sua vita questa dimensione, attualizzandola nell’oggi della Chiesa. Ma per la scoperta e la scelta della vocazione religiosa ciò non basta ancora. Come ho potuto notare in molti, ciò che determina in maniera definitiva il riconoscere la volontà di Dio per una persona è quella indicibile – e pure così evidente per chi la vive – sintonia di desideri, prospettive, progetti, affetti, che fa sì che la scelta religiosa sia letteralmente una scelta per vivere l’unica sequela del Cristo dall’interno di una particolare famiglia. Una famiglia “spirituale”, certo, con tutti quei pregi e quei difetti rispetto alla famiglia naturale fondata sul matrimonio, che costituiscono la sua peculiarità. Eppure di una vera famiglia si tratta, perché comunità di persone fondata su vincoli altrettanto forti quali quelli di sangue: i vincoli dell’unico Spirito della carità di Cristo che unisce a sé “sponsalmente” ciascuno dei membri che formano questa comunità. Così, in essa, di nuovo come nella famiglia naturale, le persone si sono liberamente riunite insieme al solo fine di perseguire la crescita e la felicità di ciascuno dei membri, attraverso un dono e un servizio alla comunità più grande della Chiesa e dell’umanità. Proprio per questa continuità ed insieme questa peculiarità del religioso rispetto al battezzato laico, e della famiglia religiosa rispetto a quella naturale, non è raro trovare affiancate a molte famiglie religiose, forme di vita consacrata – si pensi, per esempio, ai cosiddetti “terz’ordini” – di persone e di intere famiglie che, pur vivendo in pienezza il battesimo nello stato laicale, condividono lo stesso carisma di servizio e di sequela. In questo modo, la vita religiosa raggiunge il suo culmine. Essa infatti si specifica proprio come la vocazione a vivere profeticamente la via di una particolare sequela del Cristo, aprendo la strada ad una moltitudine di fratelli chiamati a condividere in tanti modi la medesima passione per il Vangelo e per il Regno. Per convincersene, si pensi solo a cosa è significato il movimento francescano per la Chiesa dall’inizio di questo secondo millennio o la testimonianza di Madre Teresa di Calcutta per la Chiesa ed il mondo alla fine di questo stesso millennio… I religiosi profeticamente indicano agli altri battezzati una molteplicità di modi per fare della propria vita un’eucarestia di lode e di dono, secondo uno stile e delle modalità particolari, eppure mossi dall’unica carità del Cristo che ci “urge” dentro. “Un acqua viva grida dentro di me: ‘vieni al Padre’ ”: così il martire e vescovo Ignazio descriveva nel II sec. “la voce” di questa carità. Molte sono le vie per questo “ritorno al Padre”. Esse però convergono nell’unica via che è Cristo stesso, perché è la medesima carità ad averle ispirate, affinché solo la Chiesa nella sua interezza divenga sempre più e meglio, icona, immagine viva ed autentica del Cristo nella storia degli uomini e del mondo. (da “Se vuoi”)

PAPA FRANCESCO – 15. LE LACRIME DELLA PECCATRICE OTTENGONO IL PERDONO (LC 7,36-50)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2016/documents/papa-francesco_20160420_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – 15. LE LACRIME DELLA PECCATRICE OTTENGONO IL PERDONO (LC 7,36-50)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 20 aprile 2016

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vogliamo soffermarci su un aspetto della misericordia ben rappresentato dal brano del Vangelo di Luca che abbiamo ascoltato. Si tratta di un fatto accaduto a Gesù mentre era ospite di un fariseo di nome Simone. Questi aveva voluto invitare Gesù a casa sua perché aveva sentito parlare bene di Lui come di un grande profeta. E mentre si trovano seduti a pranzo, entra una donna conosciuta da tutti in città come una peccatrice. Questa, senza dire una parola, si mette ai piedi di Gesù e scoppia in pianto; le sue lacrime bagnano i piedi di Gesù e lei li asciuga con i suoi capelli, poi li bacia e li unge con un olio profumato che ha portato con sé.

Risalta il confronto tra le due figure: quella di Simone, lo zelante servitore della legge, e quella dell’anonima donna peccatrice. Mentre il primo giudica gli altri in base alle apparenze, la seconda con i suoi gesti esprime con sincerità il suo cuore. Simone, pur avendo invitato Gesù, non vuole compromettersi né coinvolgere la sua vita con il Maestro; la donna, al contrario, si affida pienamente a Lui con amore e con venerazione. Il fariseo non concepisce che Gesù si lasci “contaminare” dai peccatori. Egli pensa che se fosse realmente un profeta dovrebbe riconoscerli e tenerli lontani per non esserne macchiato, come se fossero lebbrosi. Questo atteggiamento è tipico di un certo modo di intendere la religione, ed è motivato dal fatto che Dio e il peccato si oppongono radicalmente. Ma la Parola di Dio ci insegna a distinguere tra il peccato e il peccatore: con il peccato non bisogna scendere a compromessi, mentre i peccatori – cioè tutti noi! – siamo come dei malati, che vanno curati, e per curarli bisogna che il medico li avvicini, li visiti, li tocchi. E naturalmente il malato, per essere guarito, deve riconoscere di avere bisogno del medico! Tra il fariseo e la donna peccatrice, Gesù si schiera con quest’ultima. Gesù, libero da pregiudizi che impediscono alla misericordia di esprimersi, la lascia fare. Lui, il Santo di Dio, si lascia toccare da lei senza temere di esserne contaminato. Gesù è libero, perché vicino a Dio che è Padre misericordioso. E questa vicinanza a Dio, Padre misericordioso, dà a Gesù la libertà. Anzi, entrando in relazione con la peccatrice, Gesù pone fine a quella condizione di isolamento a cui il giudizio impietoso del fariseo e dei suoi concittadini – i quali la sfruttavano – la condannava: «I tuoi peccati sono perdonati» (v. 48). La donna ora può dunque andare “in pace”. Il Signore ha visto la sincerità della sua fede e della sua conversione; perciò davanti a tutti proclama: «La tua fede ti ha salvata» (v. 50). Da una parte quell’ipocrisia del dottore della legge, dall’altra parte la sincerità, l’umiltà e la fede della donna. Tutti noi siamo peccatori, ma tante volte cadiamo nella tentazione dell’ipocrisia, di crederci migliori degli altri e diciamo: “Guarda il tuo peccato…”. Tutti noi dobbiamo invece guardare il nostro peccato, le nostre cadute, i nostri sbagli e guardare al Signore. Questa è la linea di salvezza: il rapporto tra “io” peccatore e il Signore. Se io mi sento giusto, questo rapporto di salvezza non si dà. A questo punto, uno stupore ancora più grande assale tutti i commensali: «Chi è costui che perdona anche i peccati?» (v. 49). Gesù non dà una esplicita risposta, ma la conversione della peccatrice è davanti agli occhi di tutti e dimostra che in Lui risplende la potenza della misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori. La donna peccatrice ci insegna il legame tra fede, amore e riconoscenza. Le sono stati perdonati «molti peccati» e per questo ama molto; «invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (v. 47). Anche lo stesso Simone deve ammettere che ama di più colui al quale è stato condonato di più. Dio ha racchiuso tutti nello stesso mistero di misericordia; e da questo amore, che sempre ci precede, tutti noi impariamo ad amare. Come ricorda san Paolo: «In Cristo, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi» (Ef 1,7-8). In questo testo, il termine “grazia” è praticamente sinonimo di misericordia, e viene detta “abbondante”, cioè oltre ogni nostra attesa, perché attua il progetto salvifico di Dio per ognuno di noi. Cari fratelli, siamo riconoscenti del dono della fede, ringraziamo il Signore per il suo amore così grande e immeritato! Lasciamo che l’amore di Cristo si riversi in noi: a questo amore il discepolo attinge e su di esso si fonda; di questo amore ognuno si può nutrire e alimentare. Così, nell’amore riconoscente che riversiamo a nostra volta sui nostri fratelli, nelle nostre case, in famiglia, nella società si comunica a tutti la misericordia del Signore.

Fresco at the Holy Monastery of Dionysiou (c. 1545), Mt. Athos, Greece / Six-winged Seraphim; Greece .; XVI century

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Publié dans:immagini sacre |on 19 avril, 2016 |Pas de commentaires »

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO IL CARD. RAVASI –

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IL PECCATO ORIGINALE SECONDO IL CARD. RAVASI –

di P. Giovanni Cavalcoli, OP

Il Card. Gianfranco Ravasi è oggi uno dei membri più in vista del Sacro Collegio, uomo di vasta cultura, brillante scrittore ed oratore, particolarmente impegnato, come sappiamo, nel dialogo con non-cattolici, non-cristiani e non credenti, sensibile ai temi di fondo della ragione e della fede, temperamento di poeta che però non dimentica le esigenze del rigore scientifico che si addice alla teologia. Di recente ha pubblicato per i tipi della Mondadori un libro dal titolo Guida ai naviganti. Le risposte della fede: una guida, scritta con stile sciolto e avvincente, per affrontare con serietà le questioni più profonde dell’esistenza e della vita. Viene un po’ in mente la famosa Guida dei perplessi del grande filosofo ebreo medioevale Mosè Maimonide, ammirato da S. Tommaso d’Aquino. Non intendo qui fare un recensione del libro. Voglio solo fermarmi su di un punto dottrinale di capitale importanza trattato dall’illustre e dinamico Porporato: la questione del racconto biblico della creazione dell’uomo e del peccato originale. Devo dire con tutta franchezza che grande è stata la mia sorpresa, sia detto ciò con tutto il rispetto dovuto a un Principe della Chiesa, quando ho letto, a proposito di questo famosissimo racconto, che esso “è un’apparente narrazione storica, con eventi e una trama, che hanno però un valore simbolico, filosofico-teologico, quindi ‘sapienziale’ ed esistenziale” (p.45). Si tratterebbe, come dice anche Karl Rahner, di un’“eziologia metastorica”, ossia di un genere letterario antico, che per mezzo del racconto di un mito riferito al passato, intende istruirci su di una condizione dell’uomo che riguarda il presente, anzi una condizione “metastorica”, quindi qualcosa che riguarda l’uomo come tale, indipendentemente dai tempi e dal corso della storia. Insomma, un modo di far filosofia ricorrendo alla narrazione, anziché a concetti speculativi. Lo scritto del Cardinale prosegue poi sullo stesso tono: “lo scopo” (del racconto biblico)  “non è tanto quello di spiegare cosa sia successo alle origini, ma di individuare chi è l’uomo nel contesto della creazione: è, allora, una ‘metastoria’, ossia è il filo costante sotteso a eventi, tempi e vicende storiche umane. Si risale all’archetipo … non per narrare  cosa sia accaduto nel processo di ominizzazione in senso scientifico o per scoprire gli atti di un singolo individuo primordiale, ma per identificare nella sua radice iniziale lo statuto permanente di ogni creatura umana” (ibid.). Sono rimasto molto sorpreso davanti a simili affermazioni, anche se so che oggi sono condivise da molti. Ma, come sappiamo, la verità di fede non dipende dal consenso della maggioranza, ma dalla retta interpretazione della Parola di Dio che ci è garantita dal Magistero della Chiesa. Che il racconto genesiaco faccia riferimento a una condizione dell’uomo che copre tutto il corso della storia, non c’è alcun dubbio, come pure non c’è dubbio che alcuni elementi sono evidentemente ingenuamente mitologici, come c’è da aspettarsi da una cultura primitiva come quella dell’agiografo. Ma la Chiesa ha sempre insegnato che in questa congerie di fatti, di immagini, di quadri e di elementi occorre saper discernere con somma saggezza, sotto la guida dello stesso Magistero, ciò che è mitico da ciò che è storico, ciò che è inventato da ciò che è realmente accaduto, ciò che è simbolico da ciò che va preso alla lettera. Ora non è difficile venire a sapere, per chi voglia informarsi, che il suddetto racconto, nella sua sostanza, non è per nulla un mito inventato per spiegare una situazione attuale, benchè di fatto il racconto spieghi ottimamente tale situazione; ma, come dice lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, erede di una millenaria tradizione dogmatica, “il racconto della caduta (Gn 3) … espone un avvenimento primordiale, un fatto che è accaduto all’inizio della storia dell’uomo” (n.390) (in corsivo nel testo, quasi a sottolineare l’importanza dell’affermazione), ossia un fatto che è oggetto della divina Rivelazione, quindi, come tale, verità di fede indispensabile per la salvezza. Inoltre il Catechismo, a più riprese, nei parr. 6 e 7 del cap. I, in perfetta linea con la Tradizione e la Scrittura, fonti della Rivelazione che ci è mediata dalla Chiesa, soprattutto a partire dal Concilio di Trento sino allo stesso Concilio Vaticano II, ricorda come l’umanità ha avuto inizio da una coppia, – Pio XII nella Humani Generis respinge il poligenismo – la quale, caduta nel peccato per istigazione del demonio, ha trasmesso questa colpa – la colpa originale – a tutta l’umanità per via di generazione, colpa dalla quale siamo liberati dalla grazia del Battesimo. Dunque netta distinzione fra il peccato personale – il “peccato” nel senso corrente della parola -, la cui colpa resta nel colpevole, e il peccato originale, la cui colpa è trasmessa ai discendenti. Il peccato dei progenitori è stato un peccato personale, ma nel contempo ha avuto il carattere di una colpa che si è trasmessa ai discendenti: peccato originale (originante). Indubbiamente la Bibbia non è un trattato di paleoantropologia, per cui da essa non possiamo attenderci alcuna informazione su quella che è stata l’evoluzione dell’uomo dalle origini ad oggi e neppure c’è l’ombra di una derivazione dell’uomo dalla scimmia. Anzi, il quadro della coppia edenica, nobilissima, sapientissima, bellissima, sanissima, immortale, perfetta nella virtù, signora del creato, felice, in comunione con Dio, ci fa pensare che fosse stata dotata da Dio di un corpo nobilissimo, ben superiore a quello della scimmia, benchè Pio XII nella medesima Humani Generis non escluda l’ipotesi che quanto al corpo i progenitori possano essere provenuti da un vivente precedente inferiore (ex iam exsistenti ac viventi materia, Denz.3896), salva restando la verità di fede che comunque l’anima spirituale dev’essere considerata come immediatamente creata da Dio, con buona pace di Vito Mancuso. Invece nell’interpretazione del Card.Ravasi il peccato sembra essere spiegato semplicemente col libero arbitrio dell’uomo capace di operare il bene come il male, ma sembra totalmente assente la vera condizione di miseria nella quale ognuno viene al mondo, ossia quello stato di colpa, che si chiama colpa originale o peccato originale originato, derivante per generazione dai nostri progenitori. Nella visione del Cardinale resta quindi inspiegata l’esistenza delle pene della vita presente nelle loro molteplici e tragiche forme, e l’innata, a volte irresistibile, tendenza al peccato esistente in ognuno di noi, anche i più buoni, tendenza dalla quale, come insegna la nostra fede, sono stati esentati solo Gesù Cristo e la Beata Vergine Maria, il primo in quanto Figlio di Dio, la seconda in quanto preservata, come è ben noto, per specialissimo privilegio, dalla macchia della colpa originale. Se tutti nasciamo buoni, dove va a finire il privilegio di Cristo e della Madonna? Se tutti siamo originariamente, necessariamente, sempre e inevitabilmente in grazia, dove va a finire il privilegio di Maria? E che ne è del peccato come assenza o perdita della grazia? Invece la Scrittura è chiarissima nel raccontare come il peccato dei progenitori li ha esclusi dal paradiso terrestre privandoli di quei preziosi beni che possedevano nello stato d’innocenza e nel farci comprendere come la serie infinita di pene che da allora affligge l’umanità sia causata, nella sua prima radice, dall’avverarsi di quel castigo che Dio aveva minacciato ai progenitori e alla loro progenie nel caso avessero disobbedito al comando divino di non “mangiare dell’albero del bene e del male”. E’ chiaro che tantissimi mali sono poi causati dai peccati personali dei singoli, eventualmente ancora sotto l’istigazione di Satana, ma anche questi peccati sono resi possibili dal fatto storico del peccato originale dei nostri progenitori all’origine della storia dell’uomo. “La morte – come dice S.Paolo – è entrata nel mondo a causa del peccato”. Nella concezione di Ravasi sembra invece che ognuno di noi sia creato naturalmente buono ed innocente, come nella concezione di Jean-Jacques Rousseau, e che possa corrompersi soltanto per una sua volontaria malizia o per l’influsso negativo della società. Ma allora a questo punto ci si chiede: a che serve la grazia cristiana della remissione dei peccati, a che serve il Battesimo, se ognuno di noi ha in sé la forza e la possibilità di osservare la legge divina e di conseguire la virtù, purchè lo voglia? O forse che ognuno possiede la grazia sin dalla nascita senza mai perderla, come crede Rahner? O forse la grazia è Dio, sicchè l’uomo in grazia in fin dei conti è Dio? Oppure l’uomo, essere sostanzialmente divino, come insegna la filosofia indiana, prende coscienza di tale sua divinità al termine di un opportuno cammino sapienziale di autopurificazione (yoga)? Dove egli allora si distingue da Gesù Cristo? Forse che egli diventa identico a Cristo, come pensava appunto Meister Eckhart che concepiva così la vita di grazia? Bisogna dire con tutta franchezza che questa concezione è in contrasto con la visione cristiana e combacia invece con le concezioni razionalistiche o naturalistiche o gnostiche, come per esempio la massoneria, il laicismo, il liberalismo, l’idealismo, l’esoterismo, il marxismo o il positivismo, dove il problema del male non è risolto per un intervento sanante della grazia di un Dio trascendente, ma per il fatto che l’uomo o è un essere originariamente divino o per il semplice moto dialettico della ragione o per la forza della volontà o le risorse della scienza, della tecnica e della politica. Ma se l’uomo nasce già buono e volto verso Dio e il peccato è un semplice incidente di percorso o è sempre e comunque perdonato o può convivere benissimo con la grazia o è il polo dialettico della dinamica della storia, a che la predicazione del Vangelo? A che l’esortazione alla penitenza e alla conversione? Che senso ha la Redenzione di Cristo? E la preghiera? E la Chiesa? E i sacramenti? E come e perché raggiungere la resurrezione e la vita eterna? Che cosa diventa la santità? Non è sufficiente per ogni evenienza il “dialogo” e la buona volontà? Da qui vediamo che la negazione o la deformazione o la decurtazione della dottrina cattolica della creazione della coppia primitiva e la dottrina del peccato originale, crea un processo a catena di negazioni, per le quali alla fine del cristianesimo non resta più nulla se non un’illusoria autodivinizzazione dell’uomo o un vago umanesimo, utopistico, relativista ed incapace di condurre gli uomini alla giustizia ed alla felicità.

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 19 avril, 2016 |Pas de commentaires »

L’UOMO, FATTO A IMMAGINE DI DIO

http://www.ilcristiano.it/articolo.asp?id=110

L’UOMO, FATTO A IMMAGINE DI DIO

La contraddizione presente in ogni uomo, fra le sue meravigliose caratteristiche fisiche e le sue infime qualità morali, trova spiegazione soltanto nella rivelazione biblica che ci rivela che cosa accadde all’uomo, dopo essere stato creato “a immagine e somiglianza di Dio”. Ma la stessa rivelazione ci comunica anche come Dio ha operato per far sì che l’uomo possa godere per l’eternità la gloria delle perfezioni divine. Che cos’è l’uomo?  Nell’articolo precedente abbiamo visto che Dio preparò il pianeta terra. Le caratteristiche di questo pianeta, in particolare la biosfera, sono assolutamente uniche, come hanno dimostrato tutte le esplorazioni dell’uomo nello spazio compiute fino a questo momento.  Ma che tipo di creatura è questo uomo posto come custode del pianeta terra? Il Salmista, dopo aver contemplato il creato, in particolare i cieli, per poi considerare sé stesso in questo contesto maestoso, rimase meravigliato. Ecco le parole che rivolse a Dio: “Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?” (Sl 8:3-4). Già: che cos’è l’uomo? Il Salmista si sentiva significativo per il semplice motivo che riusciva a contemplare il resto del creato. Ma la sua riflessione nasceva da qualcos’altro. Sapeva che Dio è dietro ogni cosa creata. Infatti aveva iniziato questo Salmo, scrivendo: “O Signore, Signore nostro, quant’è magnifico il tuo nome in tutta la terra! Tu hai posto la tua maestà nei cieli” (v. 1). Secondo la Bibbia Dio ha creato l’uomo come l’apice della sua opera creatrice, con la capacità di contemplare il resto del creato, dominarlo e di percepire oltre il creato stesso il suo Creatore (Ge 1:28; Sl 19:1-6).  Di conseguenza l’uomo trova il suo supremo significato nel lodare il Creatore e glorificarlo con la propria vita. Secondo Stephen Hawking, il noto scienziato inglese, invece, che non concepisce niente e nessuno oltre l’universo fisico, ogni persona crea un significato per la propria vita in base al proprio modo di concepire l’universo intorno a sé. In questo caso non ci sarebbe nessuno rapporto intrinsecamente significativo fra l’indi- viduo e il resto della realtà.  L’uomo, un essere contraddittorio  Prima di investigare ulteriormente il significato dell’uomo, dando ascolto alla Parola del Creatore, vale la pena osservare ciò che sembra essere un vero e proprio paradosso. Mentre sul piano fisico, l’uomo è l’insieme di numerosi sistemi sofisticatissimi, compresi i cinque sensi, che rendono possibile la vita in questo mondo, a livello morale è un vero e proprio disastro. In qualsiasi momento della storia ci sono innumerevoli esempi di questo fatto. Ad esempio, mentre alle Olimpiadi di Londra (2012) centinaia di persone manifestavano la propria destrezza in gare con un alto grado di difficoltà come il salto con l’asta, in Siria la popolazione si stava sparando in una guerra civile, distruggendo in modo indiscriminato tutto ciò che era stato costruito in molti anni.  Tale è l’uomo, così come lo conosciamo: un essere contraddittorio, da una parte un capolavoro, dall’altra invece un disastro sul piano morale e sociale. La teoria che l’uomo sia il prodotto di un processo di selezione non può spiegare questo paradosso, perché non può giustificare il contrasto fra l’incredibile raffinatezza biologica e intellettuale dell’uomo da una parte e la sua persistente incapacità di comportarsi in modo socialmente accettabile dall’altra. L’origine del paradosso  La Parola di Dio getta luce sulla natura enigmatica dell’uomo.  L’Ecclesiaste lo spiega in questi termini: “Dio ha fatto l’uomo retto, ma gli uomini hanno cercato molti sotterfugi” (Ec 7:29). L’evangelista Giovanni offre un’analisi simile quando definisce i termini del giudizio di Dio: “La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3:19).  Lungi dal trovarsi in una traiettoria ascendente che si muove verso un punto omega, come ipotizzato dal paleontologo evoluzionista e sacerdote cattolico Pierre Teilhard de Chardin SJ (1881–1955), tanto a livello intellettuale quanto a livello pratico “l’andazzo di questo mondo” rispecchia la grave caduta, avvenuta all’inizio della storia. Infatti è impossibile comprendere la natura contraddittoria dell’uomo se non si tiene conto dei fatti riferiti nei primi tre capitoli della Bibbia e ribaditi ripetutamente nella rivelazione speciale. Il racconto della creazione caratterizza l’uomo così: “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina” (Ge 1:27). La duplice origine dell’uomo, essendo un prodotto sia della polvere della terra sia del soffio di Dio (Ge 2:7), determinò una nobiltà e uno scopo eccezionali. Quale agente di Dio e vice-re sulla terra, ad Adamo fu dato il compito di dare un nome alle creature nonché di curare il resto del creato (2:15-20).  Sempre i primi capitoli della Bibbia raccontano perché l’uomo, dall’essere stato creato retto, cominciò a seguireuna traiettoria verso il basso. Questo dipese dalla sua decisione di disubbidire al suo Creatore (Ge 3). Così la specie umana, dopo che Adamo ed Eva ebbero cominciato a riprodurre la specie (1:28; 4:1-2), un processo anche questo altamente sofisticato, vide il primo frutto della loro unione mostrare assoluta incapacità di vivere in modo pacifico con altri della medesima specie, arrivando, per gelosia, a porre fine alla vita del suo fratello (4:3-24).  Tutto il resto della storia, per quanto dipende dall’uomo, è un susseguirsi di peccato, sofferenza e morte. Ma proprio nel contesto in cui si consumò il dramma primordiale della morte spirituale della prima coppia, aveva avuto inizio un’altra storia, che vede Dio promettere e poi intervenire per la restaurazione dell’uomo, contro le forze della malvagità (Ge 3:15).  Ci si domanda se, dopo la disubbidienza di Adamo e Eva, l’umanità abbia conservato la propria nobiltà di persone fatte a immagine di Dio o se gli siano rimasti soltanto quegli aspetti dell’immagine di Dio che lo accomunano a ogni cosa creata, che manifesta la sua gloria (Ro 1:19-21). Tre considerazioni ci portano a rispondere che l’immagine rimane integra, sebbene compromessa dal peccato.  In primo luogo, nel descrivere la colpa dell’omicida, dopo il diluvio universale, Dio pronunciò le seguenti parole: “Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto l’uomo a sua immagine” (Ge 9:6). Uccidendo un’altra persona, l’omicida offende Dio stesso perché la persona uccisa è portatrice dell’immagine di Dio. Né qui né altrove nella Scrittura quest’immagine viene scissa in diversi aspetti (quali “morale” e“naturale”). In secondo luogo, in tutta la storia biblica, Dio si rivolge all’uomo con istruzioni e ordini, pretendendol’ubbidienza della fede. La serie di inviti che Dio rivolge all’uomo continua fino all’ultimo brano della Bibbia (Ap 22:17). L’uso dell’imperativo da parte di Dio non è una finzione, bensì la conferma che l’uomo, in quanto fatto a immagine di Dio, è considerato come responsabile delle proprie decisioni e azioni. Ciò che manca nell’uomo separato da Dio è la santità e la giustizia, non l’immagine che lo rende responsabile per la scelta di dare ascolto o meno al suo Creatore.  In terzo luogo appare significativo che, nel riassumere le responsabilità etiche dell’uomo, Pietro inizia con questa direttiva: “Onorate tutti” (1P 2:17). Ogni persona, non importa quanto sia caduta in basso, va onorata in quanto portatrice dell’immagine di Dio.   Il destino dell’uomo Chi si lascia orientare dalla Parola di Dio non ha problemi a sottoscrivere la seguente dichiarazione: Dio ha creato ogni cosa “per la manifestazione della gloria della sua eterna potenza, sapienza e bontà” (“Confessione di Westminster, 1646; cap. IV, I).  Ad esempio il salmista scrive: “Tutte le nazioni che hai fatte verranno a prostrarsi davanti a te, Signore, e glorificheranno il tuo nome. Poiché tu sei grande e operi meraviglie; tu solo sei Dio. O SIGNORE, insegnami la tua via; io camminerò nelle tua verità; unisci il mio cuore al timor del tuo nome. Io ti loderò Signore, Dio mio, con tutto il mio cuore, e glorificherò il tuo nome in eterno” (Sl 86:9-12). Anche l’agire dei discepoli di Cristo dovrebbe mirare a portare gli uomini a glorificare Dio (Mt 5:16; cfr. 1P 2:12).  Similmente lo scopo di avere, nell’ambito delle chiese locali, “un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù” è:“affinché di un solo animo e d’una stessa bocca glorifichiate Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio” (Ro 15:5-6). Ma lo scopo di glorificare Dio è soltanto un lato delle finalità per cui Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. L’altro lato, su cui la Bibbia insiste molto, è che il destino dell’umanità è di godere la gloria di Dio, contemplarla e gustarla. La vera crisi sperimentata da Israele al tempo del sommo sacerdote Eli era che la gloria di Dio, che aveva riempito il tabernacolo al tempo di Mosè e aveva accompagnato Israele durante le loro peregrinazioni nel deserto, si era allontanata (Es 40:35; Nu 9:15-23; 1 S 4:21-22). Lo stesso dramma si ripeté al tempo di Ezechiele, quando la gloria di Dio abbandonò il tempio (Ez 10:4, 18; 11:22-23). Il vero dramma dell’umanità intera è che: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Ro 3:23). Essere privi della gloria di Dio significa non avere il diritto di stare nella sua presenza e quindi godere delle sue benedizioni. Senza Dio, l’uomo rimane nella morte e nelle tenebre spirituali. Al contrario, ricevere “vita eterna” significa tornare a conoscere “il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17:3). Il destino di coloro che ottengono questa conoscenza di Dio è di vivere per sempre nella sua presenza.  Gesù aveva glorificato Dio Padre sulla terra, facendo la sua volontà in modo perfetto e completo (Mt 17:5; Gv 12:12:28; 17:4; 19:30). Nel fare questo anche Gesù stesso è stato glorificato, in particolare in virtù della sua vittoria sulla croce (Gv. 12:23-32). Ma nella sua preghiera sacerdotale Gesù non si limita a caratterizzare il proprio operato come un modo per manifestare la gloria di Dio nel mondo.  Esprime anche questo desiderio riguardo al destino dei suoi discepoli:  “Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai data; poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo” (Gv 17:24). Coloro che sono i beneficiari dell’opera di salvezza che Gesù ha compiuto sulla terra sono “messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce” in quanto: “Dio ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del suo amato Figlio. In lui abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati” (Cl 1:12-14).  Non siamo più “privi della gloria di Dio”; al contrario siamo destinati a vedere la gloria di Cristo ed esserne partecipi per l’eternità! Questo è il vero destino di chi è riconciliato con Dio per mezzo di Cristo.  Così Paolo può definire la “ricchezza della gloria” di coloro che fanno parte della chiesa: “Cristo in voi, la speranza della gloria” (Cl 1:24-27). Ecco l’aspetto caratterizzante il cielo: “la presenza gloriosa di Dio”. È questo che Gesù desidera per noi.   Conclusione Per non sentirci condizionati da ciò che succede intorno a noi, giorno per giorno, dobbiamo ricordare qual è la nostra vera natura e qual è il nostro destino. Ricordare che siamo stati creati all’immagine e somiglianza di Dio ci nobilita. Ricordare che l’umanità discesa da Adamo, in quanto ribelle a Dio, è per natura spiritualmente morta e priva della gloria di Dio, spiega il perché dei tanti problemi che affliggono la nostra società. L’uomo vive come essere frustrato, incapace di sentirsi realizzato.  Per coloro che sono stati riconciliati con Dio per mezzo della croce, invece, la presenza di Cristo in loro per mezzo dello Spirito Santo può definirsi “la speranza della gloria” (Cl 1:27). Tale speranza li stimola a manifestare la gloria di Dio in questo mondo e, così facendo, aiutare coloro che non conoscono Dio a intravedere la sua gloria e a sentirne il bisogno.

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THE FIRST JOURNEY OF ST.PAUL (46-48 A.D.)

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“AD ANTIOCHIA PER LA PRIMA VOLTA I DISCEPOLI FURONO CHIAMATI CRISTIANI”

http://www.gliscritti.it/approf/2007/papers/biguzzi130707.htm

ANTIOCHIA DI SIRIA, OGGI ANTAKYA: “AD ANTIOCHIA PER LA PRIMA VOLTA I DISCEPOLI FURONO CHIAMATI CRISTIANI”

del prof.Giancarlo Biguzzi

Presentiamo on-line un testo del prof.Giancarlo Biguzzi, docente di Nuovo Testamento presso la Pontificia Università Urbaniana, già apparso sulla rivista Eteria, appartenente ad una serie di articoli che avevano lo scopo di introdurre, come in agili reportage giornalistici, ad una prima conoscenza dei luoghi e delle figure del Nuovo Testamento. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line. Il Centro culturale Gli scritti (29/6/2007)

Venendo da Adana, passavamo per Isso della battaglia (333 a.C.), e poi per Iskenderun, e non sapevo che tono dare al mio discorso quando presi il microfono per presentare Antiochia di Siria ai pellegrini che, Bibbia alla mano, erano sulle orme di Paolo di Tarso. Da un lato infatti Antiochia, oggi Antakya, merita un discorso lungo in ordine al cristianesimo primitivo, ma dall’altro, dal punto di vista turistico, non ha molto da offrire. Il pullman costeggiava spiagge talvolta addirittura squallide, e comunque ben diverse da quelle della costa turchese. Dato il presente poco turistico della regione, cominciai allora a celebrarne il passato, e soprattutto il passato appunto di Antiochia. Al tempo delle origini cristiane, Antiochia era la terza città dell’impero romano (mezzo milione di abitanti), evidentemente dopo Roma (un milione), e dopo Alessandria di Egitto, grande centro di commercio e di cultura. Da Antiochia, coi mercanti, coi soldati, con gli avventurieri ecc., giungevano a Roma i culti, i costumi e le esotiche dissolutezze orientali, tanto che in nome delle antiche virtù romane il poeta Giovenale (60-135 d.C.), come è noto, scriveva astiosamente: “E’ da un pezzo che l’Oronte (e cioè il fiume di Antiochia) si getta nel Tevere!” Più che dei fasti romano-imperiali i pellegrini che vengono qui, vogliono però sentir parlare appunto delle origini cristiane. E allora non si può non dire che Antiochia nel Nuovo Testamento è seconda soltanto a Gerusalemme. Nel vulcanico cristianesimo delle origini, quello di Antiochia fu il più importante cratere laterale tra quelli sorti attorno al cratere centrale della chiesa gerosolimitana. E’ comunque da Gerusalemme che il discorso su Antiochia deve partire. Tra i discepoli di Gesù alcuni avevano nomi prettamente giudaici (Matteo, Giovanni, Natanaele, Giuda…), ma altri portavano nomi greci (Filippo, Andrea). Per questo è del tutto comprensibile che la comunità postpasquale di Gerusalemme fosse composta oltre che di ebrei di lingua aramaica, anche di ebrei ‘ellenisti’, che invece parlavano greco (Atti 6,1). Questi Ellenisti, per il fatto di essere in gran parte rimpatriati dalla diaspora, molto più che quelli palestinesi erano aperti al mondo non-giudaico e, a partire dalla fede in Gesù, sottoponevano a critica le istituzioni del giudaismo: il tempio, la legge, o la circoncisione ecc. La loro apertura universalistica provocò l’immediata, dura reazione degli ebrei gerosolimitani, i quali riuscirono ad eliminare completamente la loro presenza dalla città. Stefano, il personaggio di maggior spicco, fu ucciso; altri si dispersero in Samaria (cf quello che è detto di Filippo in Atti 8); altri forse ripararono a Damasco (cf Anania e Giuda in Atti 9), e altri, infine, in Fenicia, a Cipro e appunto ad Antiochia (Atti 11,19). Ad Antiochia questi fuggiaschi furono protagonisti di almeno tre grandi cose. La prima fu il nome cristiano. Come a Gerusalemme, anche qui essi si differenziarono dai frequentatori delle sinagoghe locali, presentandosi come ebrei-messianici: come ebrei cioè per i quali in Gesù di Nazaret si erano compiute le parole dei profeti e tutte le Scritture. Come già precedentemente a Gerusalemme e come a Roma nell’anno 41 (cf Svetonio, Vita di Claudio 25,4; e Atti 18,2) anche ad Antiochia, intorno agli anni 39-40 d.C., ci furono contrasti tra giudei-messianici e giudei non-messianici. I contrasti sfociarono probabilmente in tumulti e disordini. E furono probabilmente le autorità romane allora che, intervenendo a ristabilire l’ordine pubblico, coniarono il neologismo ‘cristiani’ per designare gli ebrei-messianici. ‘Messia, messianico’ in ebraico infatti è la stessa cosa che ‘Cristo, cristiano’ in greco. La nascita del nome che nella storia avrebbe avuto l’importanza che sappiamo, è segnalata in Atti 11,26 in cui è scritto: “…ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”. Dal punto di vista del vocabolario storico-religioso, Antiochia ha dunque dato al mondo un contributo che non ha il pari. La seconda impresa dei cristiani antiocheni fu la missione. Gerusalemme era stata missionaria soltanto suo malgrado, quando da essa furono allontanati i cristiani ellenisti. Antiochia invece divenne il più grande centro di irradiazione missionaria delle origini per congenialità e per scelta: “… alcuni fra loro cominciarono a parlare anche ai greci ” (Atti 11,20), e poi per una vera e propria strategia che contava su missionari itineranti e fondatori di chiese in altre regioni, i quali da Antiochia partivano (Atti 13,2ss), e ad Antiochia facevano ritorno (Atti 14,26), per poi ripartire in nuove ondate missionarie (Atti 15,36 ecc.). I nomi a noi noti dei grandi missionari di Antiochia sono: Pietro (Gal 2,11), Barnaba e Paolo (Atti 13,2ss), Giovanni Marco (Atti 13,5), Tito (Gal 2,1.3), Agabo (Atti 11,28), e quasi certamente anche Luca, l’autore degli Atti degli Apostoli. Il terzo, incalcolabile merito della comunità cristiana di Antiochia fu quello di mettere al servizio del Vangelo e della missione quelli che noi chiameremmo i mezzi della comunicazione sociale. E’ infatti ad Antiochia di Siria che con ogni probabilità furono scritti il vangelo di Matteo e la Didachè, mentre è certo che il vescovo antiocheno degli inizi del secondo secolo, e cioè Ignazio martire, ha scritto sette famose lettere a diverse comunità (Efeso, Filippi, Roma…) o persone (Policarpo, vescovo di Smirne). Quanto all’importanza del vangelo di Matteo, basti dire che ci ha dato la preghiera del Pater nella formulazione in cui noi la recitiamo, e poi fra l’altro il racconto dei Magi e della stella, il discorso della montagna con le otto beatitudini e, infine, la formula trinitaria del battesimo, con la quale accompagniamo anche il segno di croce. Dicendo tutte queste cose il pullman arriva ad Antakya senza che ce se ne accorga. E’ una città di centomila abitanti, di un qualche colore orientale nonostante alcuni alberghi e condomìni all’europea. Arrivando, si costeggia e si attraversa il fiume Oronte, davvero inquinato come diceva Giovenale, e tutto quello che ad Antakya il turista può visitare è un museo, proprio sulla riva dell’Oronte. Nulla più rimane dei quattro lussuosi quartieri dell’antichità, nulla della grande via colonnata lunga 4 Km, larga 10 metri, con portici profondi 10 metri e ornati di circa 3.000 statue. Al museo, sono in esposizione tanti, meravigliosi mosaici pavimentali, provenienti dalle lussuose ville della vicina Dafne (8 km), sacra al tempio e al mito di Apollo e della bella ninfa, Dafne appunto, che inseguita dal dio sfuggì alla sua insidia tramutandosi in alloro. Le iscrizioni musive parlano tra l’altro di ‘amerìmnia’, di ‘chresis’, di ‘soterìa’. Parlano cioè di serenità, di sano uso delle cose, di salvezza: aspirazioni cui il cristianesimo delle origini diede la risposta che sappiamo, con il consistente contributo della comunità antiochena. E’ per questo e per tutto quanto si diceva, che ad Antiochia sull’Oronte, o Antakya, vanno più pellegrini che turisti

ATTI DEGLI APOSTOLI: LA PAROLA CRESCEVA… (stralcio)

http://ora-et-labora.net/bibbia/attinger.html

ATTI DEGLI APOSTOLI: LA PAROLA CRESCEVA…  (stralcio)

DANIEL ATTINGER

EDIZIONI QIQAJON – COMUNITÀ DI BOSE 

INTRODUZIONE

L’originalità degli Atti degli apostoli

Mentre vi sono nel NT quattro evangeli e molte lettere, solo gli Atti degli apostoli costituiscono una narrazione degli inizi della chiesa. Se si capisce facilmente il fascino che poteva suscitare il progetto di scrivere una “vita di Gesù” — non era forse l’evento di Dio nella nostra storia? — e se si comprendono anche senza difficoltà i motivi pastorali che hanno condotto alla redazione di lettere, meno evidenti appaiono le ragioni che hanno spinto Luca a scrivere gli Atti. Perché interessarsi alla storia della chiesa, senz’altro meno affascinante della vita del Figlio di Dio in mezzo agli uomini? Prima di rispondere a questa domanda va notato che gli Atti si presentano come un secondo libro, o meglio, come una seconda parola, rispetto a una “prima” che è l’Evangelo di Luca. Ambedue gli scritti hanno lo stesso destinatario, Teofilo, lo stesso linguaggio, la stessa teologia, Gli studiosi sono oggi unanimi nel dire che l’Evangelo di Luca e gli Atti degli apostoli formavano in origine un’opera sola in due volumi. Solo con la costituzione del canone e quando si cominciarono a leggere gli evangeli nelle assemblee cultuali (verso la meta del II secolo) Luca fu associato a Marco e Matteo, poi a Giovanni, e staccato dagli Atti, che diventarono una sorta di introduzione  generale alle epistole. Ciò significa che occorre ragionare sugli Atti come su di un libro che appartiene a un insieme più vasto del quale forma la seconda parte. Di conseguenza, la demanda da porre non è perché Luca si sia interessato alla storia della chiesa nascente, ma piuttosto perché abbia sentito la necessità di narrare l’evento della salvezza fine all’arrivo di Paolo a Roma, e non fino all’Ascensione soltanto. Un’osservazione sul prologo degli Atti degli apostoli ci permette forse di intravedere una risposta. Atti 1, 3 dichiara che Gesù risorto apparve ai suoi discepoli per quaranta giorni parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Sappiamo che fin dall’inizio del sue ministero pubblico Gesù ha posto l’annuncio del regno di Dio al centro della sua predicazione: Gesù disse [alle folle]: “E necessario che io annunci anche alle altre città la gioiosa notizia del regno di Dio; per questo sono state mandato” (Lc 4,43; cf. 8,1.10; 9,2.11,60; 10,9; eccetera). Gesù parla quindi del Regno dall’inizio alla fine del suo ministero e anche dope la sua resurrezione, come ricorda l’inizio degli Atti: Egli si mostrò [ai discepoli] vivo, dope la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio (At 1,3). Ma ora, dopo che Gesù é tornato al Padre, come avviene questo annuncio? Alla fine degli Atti, Luca presenta Paolo a Roma, sotte sorveglianza, e scrive: Dal mattino alla sera [Paolo] esponeva [agli ebrei] il Regno di Dio, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla Legge di Mosé e dai profeti…Trascorse due anni interi… annunciando il Regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento (At 28,23.30-31). Così si spiega il prolungamento dell’opera lucana. L’autore non intende raccontare la “vita di Gesù”, né la storia della chiesa o la vita di santi come Pietro, Stefano o Paolo, la sua preoccupazione è invece quella di spiegare come l’annuncio del Regno, iniziato da Gesù, continua dopo l’Ascensione fino a raggiungere noi: questo annuncio ci perviene tramite la chiesa che il Cristo ha istituito come testimone perché annunci dovunque e in tutti i tempi la gioiosa notizia del Regno. Luca-Atti appare così come un grande commento al detto di Gesù: Il regno di Dio non viene in mode da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, oppure: “Eccolo là ». Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi (o forse: a vostra portata)!” (Lc 17,20-21).

I destinatari e il testo Fin dal primo versetto sappiamo che il destinatario degli Atti (come dell’Evangelo di Luca) è Teofilo, ma di lui non sappiamo nulla. Più che di un nome fittizio — come alcuni hanno pensato — si tratta probabilmente del mecenate che ha finanziato l’edizione e la diffusione del libro, operazione che era molto costosa all’epoca. In questo l’opera lucana appare molto diversa dagli altri evangeli. Soltanto essa si presenta come l`opera di un “io” che ha scritto il testo dopo accurate ricerche (cf. Lc 1,1-4; At 1,1). Ciò non significa che è solo Luca-Atti ad avere un “autore », mentre gli altri evangelisti sono dei compilatori. Vuol dire invece che, mentre gli evangeli di Matteo, Marco e Giovanni sono nati dalla preoccupazione di edificare la comunità nella quale viveva il loro autore e sono quindi delle opere “pastorali », Luca-Atti invece è nato come “opera letteraria » a scopo storico-teologico su richiesta di un individuo, Teofilo. Non è però indifferente per noi il fatto che questo individuo si chiami Teofilo, cioè “amico di Dio ». Anche noi, se ci consideriamo amanti di Dio e quindi amati da lui, possiamo diventare i destinatari dell’opera lucana, incaricati, nel contempo, di diffondere quest’opera attraverso la nostra testimonianza. Il manoscritto di Luca non ci è rimasto e nemmeno le copie fatte dai copisti pagati da Teofilo. I più antichi manoscritti che contengono parti degli Atti risalgono al III secolo e i più antichi testi completi sono del IV secolo. Si possono raggruppare essenzialmente in due famiglie: la prima, chiamata « alessandrina », é rappresentata da grandi manoscritti del IV-V secolo (come il Sinaiticus, il Vaticanus o l’Alexandrinus) ed é il testo che seguono le nostre attuali traduzioni; la seconda, detta “occidentale” (ma che di occidentale ha solo il nome), si trova soprattutto nel codex Bezae, anch’esso del IV-V secolo; è un po’ più lunga dell’altra, maggiormente segnata da preoccupazioni etiche e anche più antigiudaica. Non sembra che una famiglia dipenda direttamente dall’altra; probabilmente le due famiglie sono coesistite fin dal II-III secolo. Sorge quindi un problema: perché gli Atti esistono sotto due forme abbastanza diverse, mentre in Luca — che conosce pure le due famiglie — le differenze sono minime? Questa diversità può trovare una spiegazione nello statuto dei testi: molto presto l’Evangelo di Luca ha assunto un aspetto “canonico », perché era diventato testo liturgico e la sua forma si è quindi presto stabilizzata; gli Atti invece furono considerati come un’opera “diversa » che solo più tardivamente entrò a far parte delle letture liturgiche. Non avendo un carattere “canonico” (forse fino al IV secolo), nulla impediva di fare qua e là dei ritocchi e dei miglioramenti, o di aggiungere qualche spiegazione là dove il testo mancava di chiarezza. In ogni caso, queste due famiglie — cui occorre forse aggiungerne una terza, “antiochena », rielaborazione di quella « alessandrina », che è la più diffusa nel mondo greco a partire dal IV secolo — attestano la popolarità di cui ha goduto il libro degli Atti nella chiesa antica, nonostante non appartenesse ancora al canone ufficiale delle Scritture.

Autore e data Fin dall’antichità gli Atti (e l’Evangelo di Luca) furono attribuiti a Luca, compagno di Paolo che l’Apostolo chiama il “caro medico” (Col 4,14; cf. Fm 24); a lui Paolo farebbe allusione quando parla del “fratello che ha lode in tutte le chiese a motivo dell’evangelo » (2Cor 8,18). Le sezioni in “noi” (cf. At 16,10-17; 20,5-15; 21,1-18; 27,1-28,16; il testo occidentale aggiunge 11,28) potrebbero corroborare questa attribuzione perché sembrano indicare che l’autore abbia accompagnato Paolo a partire da Troade. Questa attribuzione pone tuttavia molti problemi: se davvero Luca è compagno di Paolo, perché non si ritrovano, nella presentazione che Luca fa dell’Apostolo, alcuni temi centrali della teologia paolina, come la giustificazione per fede o la morte di Cristo “per noi » (a eccezione di At 20,28)? O perché non lo chiama mai « apostolo », titolo che invece Paolo ha rivendicato con forza(cf, 1Cor 1,1; 9,2; 15,8-10; 2Cor 1,1; 11,13-33; Gal 1,1; eccetera)? Anche la cronologia fa difficoltà perché è arduo far coincidere i dati delle lettere paoline con quelli degli Atti. Inoltre diversi tratti degli Atti (e particolarmente il discorso di Paolo a Mileto, cf. At 20,17-3 5) sembrano alludere a situazioni che meglio si capiscono alla luce del cristianesimo della terza generazione, dopo l’anno 80, Si possono evidentemente sempre trovare delle spiegazioni; ma credo che dobbiamo riconoscere, con la maggior parte degli studiosi, che ignoriamo chi sia l’autore di Luca-Atti, che continuerò, per convenzione, a chiamare Luca. Le sezioni in « noi” sembrano presupporre che egli provenisse dall’Asia Minore o da Filippi o forse che sia stato, ma solo temporaneamente, compagno di viaggio di Paolo. Quanto alla data di composizione, gli esegeti sono abbastanza concordi nel fissarla attorno all’anno 80. Una tale datazione pone nuovamente due problemi non trascurabili. Innanzitutto perché, in un’epoca in cui le lettere paoline circolano già in tutte le chiese, gli Atti non dicono nulla dell’attività epistolare di Paolo? Si può forse rispondere che, raccontando l’attività missionaria di Paolo, Luca non ha menzionato le lettere di Paolo perché esse rientrano piuttosto nel quadro della sua attività pastorale e teologica. La seconda domanda é più seria: perché gli Atti non dicono nulla del martirio subito, circa vent’anni prima, da Pietro e da Paolo? Tornerò su questa domanda, per ora dico solo che questa « lacuna » sembra indicare che Luca non intendesse scrivere un “vita degli apostoli”. Il suo progetto infatti non si compie quando Pietro e Paolo (i suoi “eroi”, insieme a Stefano) muoiono, bensì quando l’evangelo è predicato a Roma “con tutta franchezza e senza impedimento » (At 28, 3 1).

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The Good Shepherd by William Dyce

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Publié dans:immagini sacre |on 15 avril, 2016 |Pas de commentaires »

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI – DOMENICA DEL BUON PASTORE

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2007/documents/hf_ben-xvi_hom_20070429_priestly-ordination.html

SANTA MESSA PER L’ORDINAZIONE PRESBITERALE DI 22 DIACONI DELLA DIOCESI DI ROMA

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI – DOMENICA DEL BUON PASTORE

Basilica Vaticana

IV Domenica di Pasqua, 29 aprile 2007

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, cari Ordinandi, cari fratelli e sorelle!

L’odierna IV Domenica di Pasqua, tradizionalmente detta del « Buon Pastore », riveste per noi, che siamo raccolti in questa Basilica Vaticana, un particolare significato. E’ un giorno assolutamente singolare soprattutto per voi, cari Diaconi, ai quali, come Vescovo e Pastore di Roma, sono lieto di conferire l’Ordinazione sacerdotale. Entrerete così a far parte del nostro « presbyterium ». Insieme con il Cardinale Vicario, i Vescovi Ausiliari ed i sacerdoti della Diocesi, ringrazio il Signore per il dono del vostro sacerdozio, che arricchisce la nostra Comunità di 22 nuovi Pastori. La densità teologica del breve brano evangelico, che è stato poco fa proclamato, ci aiuta a meglio percepire il senso e il valore di questa solenne Celebrazione. Gesù parla di sé come del Buon Pastore che dà la vita eterna alle sue pecore (cfr Gv 10,28). Quella del pastore è un’immagine ben radicata nell’Antico Testamento e cara alla tradizione cristiana. Il titolo di « pastore d’Israele » viene attribuito dai Profeti al futuro discendente di Davide, e pertanto possiede un’indubbia rilevanza messianica (cfr Ez 34,23). Gesù è il vero Pastore d’Israele, in quanto è il Figlio dell’uomo che ha voluto condividere la condizione degli esseri umani per donare loro la vita nuova e condurli alla salvezza. Significativamente al termine « pastore » l’evangelista aggiunge l’aggettivo kalós, bello, che egli utilizza unicamente in riferimento Gesù e alla sua missione. Anche nel racconto delle nozze di Cana l’aggettivo kalós viene impiegato due volte per connotare il vino offerto da Gesù ed è facile vedere in esso il simbolo del vino buono dei tempi messianici (cfr Gv 2,10). « Io do loro cioè (alle mie pecore) la vita eterna e non andranno mai perdute » (Gv 10,28). Così afferma Gesù, che poco prima aveva detto: « Il buon pastore offre la vita per le pecore » (cfr Gv 10,11). Giovanni utilizza il verbo tithénai – offrire, che ripete nei versetti seguenti (15.17.18); lo stesso verbo troviamo nel racconto dell’Ultima Cena, quando Gesù « depose » le sue vesti per poi « riprenderle » (cfr Gv 13, 4.12). E’ chiaro che si vuole in questo modo affermare che il Redentore dispone con assoluta libertà della propria vita, così da poterla offrire e poi riprendere liberamente. Cristo è il vero Buon Pastore che ha dato la vita per le sue pecore, per noi, immolandosi sulla Croce. Egli conosce le sue pecore e le sue pecore lo conoscono, come il Padre conosce Lui ed Egli conosce il Padre (cfr Gv 10,14-15). Non si tratta di mera conoscenza intellettuale, ma di una relazione personale profonda; una conoscenza del cuore, propria di chi ama e di chi è amato; di chi è fedele e di chi sa di potersi a sua volta fidare; una conoscenza d’amore in virtù della quale il Pastore invita i suoi a seguirlo, e che si manifesta pienamente nel dono che fa loro della vita eterna (cfr Gv 10,27-28). Cari Ordinandi, la certezza che Cristo non ci abbandona e che nessun ostacolo potrà impedire la realizzazione del suo universale disegno di salvezza sia per voi motivo di costante consolazione – anche nelle difficoltà – e di incrollabile speranza. La bontà del Signore è sempre con voi ed è forte. Il Sacramento dell’Ordine che state per ricevere vi farà partecipi della stessa missione di Cristo; sarete chiamati a spargere il seme della sua Parola, il seme che porta in sé il Regno di Dio, a dispensare la divina misericordia e a nutrire i fedeli alla mensa del suo Corpo e del suo Sangue. Per essere suoi degni ministri dovrete alimentarvi incessantemente dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. Accostandovi all’altare, vostra quotidiana scuola di santità, di comunione con Gesù, del modo di entrare nei suoi sentimenti, per rinnovare il sacrificio della Croce, scoprirete sempre più la ricchezza e la tenerezza dell’amore del divino Maestro, che oggi vi chiama ad una più intima amicizia con Lui. Se lo ascolterete docilmente, se lo seguirete fedelmente, imparerete a tradurre nella vita e nel ministero pastorale il suo amore e la sua passione per la salvezza delle anime. Ciascuno di voi, cari Ordinandi, diventerà con l’aiuto di Gesù un buon pastore, pronto a dare, se necessario, anche la vita per Lui. Così avvenne all’inizio del cristianesimo con i primi discepoli, mentre, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura, il Vangelo andava diffondendosi tra consolazioni e difficoltà. Vale la pena di sottolineare le ultime parole del brano degli Atti degli Apostoli che abbiamo ascoltato: « I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo » (13,52). Malgrado le incomprensioni e i contrasti, di cui abbiamo sentito, l’apostolo di Cristo non smarrisce la gioia, anzi è il testimone di quella gioia che scaturisce dall’essere con il Signore, dall’amore per Lui e per i fratelli. Nell’odierna Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, che quest’anno ha come tema « La vocazione al servizio della Chiesa comunione », preghiamo perché quanti sono scelti a così alta missione siano accompagnati dall’orante comunione di tutti i fedeli. Preghiamo perché cresca in ogni parrocchia e comunità cristiana l’attenzione per le vocazioni e per la formazione dei sacerdoti: essa inizia in famiglia, prosegue in seminario e coinvolge tutti coloro che hanno a cuore la salvezza delle anime. Cari fratelli e sorelle che partecipate a questa suggestiva celebrazione, e in primo luogo voi, parenti, familiari e amici di questi 22 Diaconi che tra poco saranno ordinati presbiteri! Attorniamoli, questi nostri fratelli nel Signore, con la nostra spirituale solidarietà. Preghiamo perché siano fedeli alla missione a cui oggi il Signore li chiama, e siano pronti a rinnovare ogni giorno a Dio il loro « sì », il loro « eccomi », senza riserve. E chiediamo al Padrone della messe, in questa Giornata per le Vocazioni, che continui a suscitare molti e santi presbiteri, totalmente dediti al servizio del popolo cristiano. In questo momento tanto solenne e importante della vostra esistenza, è ancora a voi, cari Ordinandi, che mi dirigo con affetto. A voi quest’oggi Gesù ripete: « Non vi chiamo più servi, ma amici ». Accogliete e coltivate questa divina amicizia con « amore eucaristico »! Vi accompagni Maria, celeste Madre dei Sacerdoti; Lei, che sotto la Croce si è unita al Sacrificio del suo Figlio e, dopo la risurrezione, nel Cenacolo ha accolto insieme con gli Apostoli e con gli altri discepoli il dono dello Spirito, aiuti voi e ciascuno di noi, cari fratelli nel Sacerdozio, a lasciarci trasformare interiormente dalla grazia di Dio. Solo così è possibile essere immagini fedeli del Buon Pastore; solo così si può svolgere con gioia la missione di conoscere, guidare e amare il gregge che Gesù si è acquistato a prezzo del suo sangue. Amen!

 

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