Archive pour avril, 2016

Angelo custode

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PAPA FRANCESCO – CRISTO È LA PORTA DEL REGNO

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

CRISTO È LA PORTA DEL REGNO

Arrampicatori, ladri o briganti sono quelli che tentano di entrare da un’altra via

Lunedì, 22 aprile 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 94, Lun. – Mart.  22-23/04/2013)

C’è solo una porta per entrare nel Regno di Dio. E quella porta è Gesù. Chiunque tenti di entrarvi attraverso un’altra via è «un ladro» o «un brigante»; oppure è «un arrampicatore che pensa solo al suo vantaggio», alla sua gloria, e ruba la gloria a Dio. Papa Francesco, durante la messa celebrata questa mattina, lunedì 22 aprile, nella cappella della Domus Sanctae Marthae, è tornato a proporre Gesù come centro della vicenda umana e a ricordare che la nostra non è una religione «da negozio». Ad ascoltarlo c’erano un gruppo di tecnici della Radio Vaticana e il personale della Sala Stampa della Santa Sede accompagnato dai padri Federico Lombardi e Ciro Benedettini, rispettivamente direttore e vicedirettore, che hanno concelebrato, e da Angelo Scelzo, vicedirettore per gli accrediti giornalistici. Commentando le letture della liturgia del giorno, tratte dagli Atti degli apostoli (11, 1-18) e dal vangelo di Giovanni (10, 1-10), il Pontefice ha ricordato che in esse «viene ripetuto il verbo “entrare”. Prima, quando Pietro viene a Gerusalemme è rimproverato: “Sei entrato in casa dei pagani”. Poi, Pietro racconta la storia, racconta come lui è entrato. E Gesù è molto esplicito, in questo: “Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, non è il pastore”». Per entrare nel regno di Dio, nella comunità cristiana, nella Chiesa, «la porta — ha spiegato il Papa — la vera porta, l’unica porta è Gesù. Noi dobbiamo entrare da quella porta. E Gesù è esplicito: “Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta — che Lui dice ‘sono io’ — ma vi sale dall’altra parte, è un ladro o un brigante”, uno che vuole fare profitto per se stesso». Questo, ha notato, accade «anche nelle comunità cristiane. Ci sono questi arrampicatori, no?, che cercano il loro. E coscientemente o incoscientemente fanno finta di entrare; ma sono ladri e briganti. Perché? Perché rubano la gloria a Gesù, vogliono la propria gloria. E questo è quello che Gesù diceva ai farisei: “Voi girate la gloria uno all’altro…”. Una religione un po’ da negozio, no? “Io do la gloria a te e tu dai la gloria a me”. Ma questi non sono entrati dalla porta vera. La porta è Gesù, e chi non entra da questa porta si sbaglia». Ma come capire che la porta vera è Gesù? «Prendi le Beatitudini e fa quello che dicono le Beatitudini» è stata la risposta del Pontefice. In questo modo «sei umile, sei povero, sei mite, sei giusto»; e quando qualcuno fa un’altra proposta, «non ascoltarla: la porta sempre è Gesù e chi entra da quella porta non si sbaglia». Gesù «non solo è la porta: è il cammino, è la strada. Ci sono tanti sentieri, forse più vantaggiosi per arrivare», ma sono ingannevoli «non sono veri: sono falsi. Soltanto Gesù è la strada. Qualcuno di voi dirà: “Padre, lei è fondamentalista?!”. No. Semplicemente questo ha detto Gesù: “Io sono la porta”, “io sono il cammino” per darci la vita. Semplicemente. È una porta bella, una porta d’amore, è una porta che non ci inganna, non è falsa. Sempre dice la verità. Ma con tenerezza, con amore.» Purtroppo, ha notato il Santo Padre, l’uomo continua a essere tentato ancora oggi da ciò che è stato all’origine il peccato originale, cioè dalla «voglia di avere la chiave di interpretazione di tutto, la chiave e il potere di fare la nostra strada, qualsiasi essa sia, di trovare la nostra porta, qualsiasi essa sia. E quella è la prima tentazione: “Conoscerai tutto”. A volte abbiamo la tentazione di voler essere troppo padroni di noi stessi e non umili figli e servi del Signore. E questa è la tentazione di cercare altre porte o altre finestre per entrare nel regno di Dio». Dove invece «si entra soltanto da quella porta che si chiama Gesù», da quella porta che ci conduce su «una strada che si chiama Gesù e ci porta alla vita che si chiama Gesù. Tutti coloro che fanno un’altra cosa — dice il Signore — che salgono per entrare dalla finestra, sono “ladri e briganti”. È semplice, il Signore. Non parla difficile: lui è semplice». In conclusione il Papa ha invitato i presenti a pregare per ottenere «la grazia di bussare sempre a quella porta» che a volte è chiusa; noi siamo tristi, desolati e «abbiamo problemi a bussare, a bussare a quella porta». Il Pontefice ha invitato a pregare proprio per trovare la forza per «non andare a cercare altre porte che sembrano più facili, più confortevoli, più alla portata di mano», e andare invece a cercare «sempre quella: Gesù. E Gesù non delude mai, Gesù non inganna, Gesù non è un ladro, non è un brigante. Ha dato la sua vita per me. Ciascuno di noi deve dire questo: “Tu che hai dato la vita per me, per favore, apri, perché io possa entrare”. Chiediamo questa grazia. Bussare sempre a quella porta e dire al Signore: “Apri, Signore, ché voglio entrare per questa porta. Voglio entrare da questa porta, non da quell’altra”».

 

GIANFRANCO RAVASI – PREGHIERA: QUANDO L’UOMO PARLA CON DIO

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GIANFRANCO RAVASI – PREGHIERA: QUANDO L’UOMO PARLA CON DIO

«Il pregare è nella religione ciò che è il pensiero nella filosofia. Il senso religioso prega come l’organo del pensiero pensa». Questa dichiarazione del grande poeta romantico tedesco Novalis fa subito comprendere non solo quanto fondamentale sia la preghiera nell’esperienza religiosa, ma anche quanto sia arduo tentarne un profilo descrittivo. Anzi, un filosofo, il danese Søren Kierkegaard, non esitava nel suo diario a comparare il pregare al respirare: «Giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco voler parlare di un « perché ». Perché io respiro? Perché altrimenti muoio. Così con la preghiera». A lui faceva eco un teologo importante come Yves Congar che nella sua opera Le vie del Dio vivente ribadiva: «Con la preghiera riceviamo l’ossigeno per respirare. Coi sacramenti ci nutriamo. Ma, prima del nutrimento, c’è la respirazione e la respirazione è la preghiera». In questa linea è facilmente comprensibile come il pregare coinvolga tutto l’essere della creatura in una totalità ben espressa, ad esempio, dalle tecniche orientali di contemplazione « corporale » o nel tipico agitarsi dondolante dell’orante ebreo. Il quale, mentre prega, muove anche le giunture del corpo così da attuare quello che, in modo simbolico, aveva evocato lo stesso apostolo Paolo: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale» (Romani 12, 1). Un famoso mistico tedesco vissuto a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, Meister Eckhart, sottolineava che «bisogna pregare con tanto fervore così da tener avvinte tutte le membra e le facoltà umane; orecchi, occhi, bocca, cuore e ogni senso e non cessare finché non si sente di voler essere uno con Colui che è presente e che preghiamo, con Dio». Ma si può anche andare oltre e ritenere con il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein che «pregare è pensare al senso della vita», come egli annotava nei suoi appunti del 1914-1916. Quando l’uomo si rivolge alla divinità cerca, infatti, non solo di penetrare nel mistero del suo interlocutore infinito, ma anche di scavare nel mistero della sua stessa esistenza. tentando di scoprirne un senso e un valore. In questa stessa direzione si potrebbe, allora, riprendere il giuoco di parole creato da un altro importante filosofo del Novecento, il tedesco Martin Heidegger, quando affermava che denken ist danken, cioè che pensare è ringraziare. Per questo si potrebbe condividere un’ultima affermazione teorica, quella del filosofo mistico ebreo Abraham J. Heschel, convinto che «pregare è la grande ricompensa dell’essere uomini». Ora, la preghiera rispecchia necessariamente la particolare visione di Dio dell’orante. Così, a una concezione « fredda » della trascendenza divina corrisponde una preghiera distante e striata dal timore e dal rispetto per l’inconoscibile volontà della divinità. Esemplare è il distacco tra il divino e l’umano marcato dall’orazione musulmana, specchio di un trascendentalismo teologico rigorosissimo. Ma già tra i Sumeri il dio Enlil era invocato così: «Le tue molte perfezioni fanno restare attoniti; la loro natura segreta è come una matassa arruffata che nessuno sa dipanare, è arruffio di fili di cui non si vede il bandolo» (Inno a Enlil, IX, 131-134). Anche nel mondo greco quel «Dio ignoto» che Paolo nomina durante il suo passaggio da Atene (Atti 17, 23) costringe l’orante a invocazioni « negative » come quelle evocate dalle Coefore di Eschilo: «Zeus, Zeus, che dico? Come comincerò» (v. 85). Ma è proprio nella stessa cultura greca che riusciamo a identificare uno splendido modello di spiritualità « calda » in cui il rapporto con Dio è intenso, diretto, personale. Intendiamo riferirci a quel gioiello stoico che è l’Inno a Zeus di Cleante (III secolo a. C.): i suoi trentanove esametri esaltano non solo l’onnipotenza e la giustizia divina, ma anche l’ordine cosmico a cui partecipa l’orante e la stessa « simbiosi », dalle iridescenze panteiste, che connette la divinità al fedele. È curioso ricordare che l’apostolo Paolo nel celebre discorso all’Areopago ateniese evoca il v.5 dell’inno di Cleante, affermando che in Dio «noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: « poiché di lui stirpe noi siamo »» (Atti 17, 28). Tale prospettiva domina nell’ambito biblico dove è facile incontrare frasi salmiche di questo tenore: «Sei il mio Signore, senza di te non ho alcun bene / Al mio nascere tu mi hai raccolto, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio / Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto / Fuori di te nulla bramo sulla terra / Il mio bene è stare vicino a Dio» (Salmi 16, 2; 22, 10; 27, 10; 73, 25.28). L’invocazione aramaica abba’, papà, che sta alla radice del Padre nostro, la preghiera emblematica del cristiano, è un’illustrazione esemplare di questa intimità orante. A questo punto si potrebbero definire le tipologie della preghiera: esse occupano uno spettro di colori variegatissimo. Due, però, sono le tonalità dominanti: per continuare nel linguaggio cromatico, potremmo dire che si oscilla costantemente tra l’infrarosso della lode e l’ultravioletto della supplica. Entro questi due archetipi si raccoglie l’intera gamma delle orazioni e tutta la sua espressione letteraria. Da un lato, dunque, c’è il colore vivo e forte della lode, della glorificazione, dell’adorazione, del ringraziamento, dell’esaltazione, della celebrazione gioiosa, della contemplazione della divinità e delle sue opere. L’innologia, di taglio mistico, libera da interessi immediati e da richieste, popola tutte le religiosità e tutte le liturgie. «O Signore, nostro Dio, quant’è glorioso il tuo nome su tutta la terra! La tua maestà vorrei cantare lassù nei cieli balbettando come il fanciullo» è l’incipit del celebre Salmo 8 che canta il capolavoro di Dio, la creatura umana. Il Salmo 19 esalta il sole, come il 104, che però dipinge anche uno straordinario arazzo cosmico, mentre nel Salmo 63 è l’adesione totale a Dio a divenire sostanza orante: «O Dio, tu sei il mio Dio, fin dall’alba ti cerco, di te ha sete la mia gola, a te anela la mia carne come terra deserta, arida, senz’acqua / Il tuo amore val più della vita / Io esulto all’ombra delle tue ali». Ma si potrebbe attingere anche all’enorme repertorio delle invocazioni buddhiste e indiane, alle « aretalogie » greche di Ossirinco (Egitto) in cui si cantano le virtù e le perfezioni divine, alla reiterazione dei «novantanove bellissimi nomi di Allah», allo stesso Rosario cristiano: la ripetizione diventa coinvolgimento quasi estatico, «moto perpetuo», della lode, ascensione di luce in luce nel mistero infinito di Dio, contemplazione abbacinata. L’esordio del citato inno di Cleante suona così: «O più glorioso degli immortali, sotto mille nomi sempre onnipotente, Zeus, Signore della natura, che con la legge governi ogni cosa, salve! Perché sei tu che i mortali hanno la gioia d’invocare!» (vv. 1-3). Ma molto più estesa è la regione dalla quale sale il grido gelido e lacerante della supplica, l’ultravioletto della preghiera, che esprime il limite dell’uomo, le sue necessità, il « male di vivere ». Cesare Pavese nel suo diario Il mestiere di vivere annotava: «La massima sventura è la solitudine tant’è vero che il supremo conforto, la religione, consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è uno sfogo come un amico». La lamentazione classica segue uno spartito strutturale di tipo triangolare, quasi comandato dalle circostanze: al presente amaro si oppone il passato e si prospetta il futuro radioso sperato; all’ »io » dell’orante sofferente si connette l’ »altro » che è il nemico e il male, mentre ci si affida al terzo personaggio decisivo, Dio, il Salvatore. Talora l’io e l’altro si trovano sovrapposti: è il caso delle confessioni del peccato (celebre è il Miserere, il Salmo 51) in cui il nemico si annida all’interno dell’orante stesso. Anche se non mancano suppliche senza speranza esplicita, simili quasi a un vano SOS lanciato verso Dio, imperatore impassibile relegato nel suo cielo dorato, è prevalente la certezza dell’ascolto finale, anche se dilazionato. «La divinità, infatti, non è insensibile alla giusta preghiera» dichiara Menandro (fr. 217), mentre Gesù aveva invitato a «chiedere per ottenere, a bussare» perché ci si aprirà, perché «qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome egli ve lo concederà» (Matteo 7, 7; Giovanni 15, 16).

 La Repubblica — 10 aprile 2004

Holy Apostle and Evangelist John

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Publié dans:immagini sacre |on 22 avril, 2016 |Pas de commentaires »

VI DO UN COMANDAMENTO NUOVO: CHE VI AMIATE GLI UNI GLI ALTRI

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VI DO UN COMANDAMENTO NUOVO: CHE VI AMIATE GLI UNI GLI ALTRI

Vangelo Gv 13, 31-33a. 34-35 Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni agli altri. Dal vangelo secondo Giovanni Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».   Commento di mons. Antonio Riboldi C’è un momento prezioso della vita di tutti; quello in cui consegniamo ai figli, ai parenti o agli amici, le ultime nostre volontà, ossia il testamento. In effetti consegniamo ‘la continuità di come abbiamo vissuto e di quello che abbiamo messo insieme’. Peccato che tante volte per testamento si intende la consegna degli interessi materiali, spesso poi motivo di profonde divisioni, mandando così in frantumi la fatica, l’amore con cui si sono lasciati i beni.   C’è chi, per esempio, decide di lasciare tutto per testamento a opere di carità, a fondazioni. E quei testamenti, davvero benedetti, a favore della carità sono ‘il prezioso testamento’ che sarà la nostra difesa agli occhi di Dio. Quante opere buone ci sono nel mondo, frutto di testamenti che, per la carità che svolgono, sono continua benedizione per chi ha donato: ora e sempre. Posso testimoniare la generosità di una persona che ha voluto che i suoi beni passassero nelle mie mani e, con questi, fra le altre realtà (e sono tante) ho edificato una chiesa parrocchiale. E quante necessità missionarie ho potuto portare a termine. I nomi di questi benefattori sono scritti nel libro della vita eterna e ‘quaggiù’ sono continua lode al Padre. Il Vangelo di oggi narra del testamento che Gesù lasciò ai Suoi discepoli, prima di andare verso l’orto del Getsemani, in quell’Ultima Cena, che è davvero la ‘divina carta della carità di Dio verso di noi e la carità nostra verso tutti’. Così racconta l’apostolo Giovanni: « Quando Giuda fu uscito dal Cenacolo, Gesù disse: ?Ora il Figlio dell’Uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in Lui. Se Dio è stato glorificato in Lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora un poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv. 15, 31-35) Meraviglioso testamento! E non poteva che essere così, essendo stato Gesù, Figlio di Dio, il grande Dono di Amore e la testimonianza dell’Amore tra noi e per noi. Se noi, che siamo discepoli del Signore e quindi Suoi amici, dovessimo fare di questo testamento la regola della nostra vita, tutti dovrebbero riconoscerci proprio perché il nostro ‘dirci’ cristiani non sarebbe parola vuota, ma testimonianza di amore e di vita. Affermava il grande Paolo VI, che sapeva veramente leggere il cuore degli uomini e della Chiesa, in tempi difficili, come oggi: « Chi è senza fede, è senza luce. Chi è senza religione, è senza speranza. Invece la fede e la speranza assicurano che la vita nostra continua aldilà del terribile episodio che si chiama morte. E ancora chi è senza contatto con Dio, è privo di amore. Dio è amore. Se non siamo uniti a Lui ci viene meno il sentimento più nobile. Non abbiamo più ragione di chiamare gli uomini nostri fratelli, nessun motivo di sacrificarci per loro, né ragione di vedere in ogni faccia umana lo specchio del volto di Cristo. Se non abbiamo la fede, la speranza, la carità – le tre virtù teologiche che sono i tre vincoli che ci uniscono a Dio – siamo gente cieca, costretta ad essere schiava della terra, gente turbata dalle passioni, che la fanno infelice e che pongono la fiducia degli uomini nelle cose più terribili, come le armi, le lotte, le guerre, gli odi, i vizi. » (30 marzo 1960) Sembrano parole per oggi. E la sola e vera ragione è che si preferisce seguire le orme di satana, che è l’egoismo che si tramuta in superbia e che non accetta fratelli, nella casa del proprio cuore: tutti considera ‘estranei’ e così si condanna all’inferno della solitudine. È davvero insopportabile questa solitudine. La sentiamo tutti la mancanza di ‘atmosfera di vita’, che è l’amore tra di noi. La sentiamo tutti questa sete di amore, ma non troviamo ‘il pozzo dove dissetarci’. E sembrano ‘fantasia dei sogni dell’anima’ o ‘ali per conoscere la bellezza del volo’ le parole di Gesù, oggi: « Amatevi come io ho amato voi ». Quando rifletto su questo meraviglioso ‘testamento’, che Gesù ci ha donato, prima di attuarlo sulla Croce, mi convinco sempre di più che, quando non si è sudditi di un gretto egoismo, amare ed essere amati, in famiglia, nella chiesa, nella società è contribuire a creare la vera aria che fa respirare, soprattutto nei momenti difficili. Ma si può vivere senza amare e sentirsi amati? Credo che sia un inferno insopportabile. Ascoltiamo ciò che scriveva il nostro Papa emerito, Benedetto XVI, nella sua prima enciclica, che ha voluto intitolare ‘Dio è amore’, come indicazione a raccogliere il testamento di Gesù: « L’amore è gratuito: non viene esercitato per raggiungere altri scopi. Ma questo non significa che l’azione caritativa debba per così dire lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l’uomo. Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza. Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la migliore testimonianza di Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare…. Egli sa che il vilipendio dell’amore è vilipendio di Dio e dell’uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio. Di conseguenza la miglior difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore. » (Deus charitas est n. 31) Allora viene da chiederci: come mai l’amore di cui Dio ci ha fatto dono ed è il testamento di Gesù, è preferito, a volte, all’egoismo che genera ingiustizie, solitudini e insopportabili sofferenze. Mistero dell’animo umano… Per me, rosminiano, figlio della Carità, è un grande dono che voi mi fate ogni settimana leggendomi. Ho come l’impressione di respirare con voi una tale atmosfera di amore che, per me, è incredibile gioia. Gioia di potervi dire: vi amo come Gesù vi ama, anche se non vi conosco ad uno ad uno, ma è come se foste tutti vicino a me quando celebro il grande sacramento dell’amore, che è l’Eucarestia. E vi sono immensamente grato. Davvero siete miei amici e credo lo sappiate perché tante volte mi scrivete come fra amici. Poteva Gesù lasciarci un testamento più bello di questo? Per chi ama la felicità certamente no, ma bisogna ‘entrare nel cuore dell’amore e farci riempire il cuore dalla gioia’. Scriveva il grande Follereau in un messaggio ai giovani, nel 1962: « Siate intransigenti nel dovere di amare. Non venite a compromessi, non retrocedete. Ridete in faccia a coloro che vi parleranno di prudenza, di convenienza, che vi consiglieranno di il giusto equilibrio’: questi poveri campioni del ‘giusto mezzo’! E poi soprattutto credete nella bontà del mondo. Nel cuore di ogni uomo vi sono tesori prodigiosi e voi scovateli. La più grande disgrazia che vi possa capitare è di non essere utili a nessuno, che la vostra vita non serva a nulla. Siate invece forti ed esigenti, coscienti di dover costruire la felicità per tutti gli uomini, vostri fratelli, e non lasciatevi sommergere dalle sabbie mobili degli incapaci. Lottate a viso aperto. Non permettete l’inganno attorno a voi. Siate voi stessi e sarete vittoriosi. » E come dimenticare le parole di Papa Francesco: « Per Dio noi non siamo numeri, siamo importanti, anzi siamo quanto di più importante Egli abbia; anche se peccatori, siamo ciò che gli sta più a cuore. Lasciamoci avvolgere dalla misericordia di Dio; confidiamo nella sua pazienza che sempre ci dà tempo; abbiamo il coraggio di tornare nella sua casa, di dimorare nelle ferite del suo amore, lasciandoci amare da Lui, di incontrare la sua misericordia nei Sacramenti. Sentiremo la sua tenerezza, sentiremo il suo abbraccio e saremo anche noi più capaci di misericordia, di pazienza, di perdono, di amore ». Non ci resta, allora, che raccogliere a piene mani il grande testamento di Gesù e vivere facendo della vita un donare sorrisi a tutti: sorrisi che siano come gettare fiori a chi ci accosta, al posto del silenzio indifferente o delle parole che, come ‘sassate’, fanno male. Ci aiuti Gesù…ma, intanto, ripeto la mia gioia che voi siete miei amici. Grazie.  

24 APRILE 2016 | 5A DOMENICA DI PASQUA – ANNO C | OMELIA

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24 APRILE 2016 | 5A DOMENICA DI PASQUA – ANNO C | OMELIA

Per cominciare Gesù lascia agli apostoli il suo « comandamento nuovo », quello dell’amore. Lo dichiara nel momento in cui Giuda sta per tradirlo. Sarà l’amore il segno di riconoscimento dei suoi veri discepoli.

La parola di Dio Atti 14, 21b-27. È la conclusione del primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba. I due infaticabili apostoli sono passati da una città all’altra rianimando ed esortando i fedeli. E hanno costituito i primi responsabili delle comunità. Poi hanno fatto ritorno ad Antiochia, dove rendono conto dei loro viaggi e di come i pagani si sono aperti alla fede. Apocalisse 21,1-5a. Siamo al penultimo capitolo dell’Apocalisse, all’ultima rivelazione, e viene prospettata la nuova Gerusalemme quale dono di Dio. Un nuovo cielo e una nuova terra attende l’umanità fedele, in cammino verso la sua pienezza. Allora cesserà ogni sofferenza e ogni motivo di tristezza. Giovanni 13,31-33a.34-35. Dopo aver lavato i piedi ai suoi discepoli, e quando Giuda esce dal cenacolo per consegnare Gesù alla sinagoga, Gesù usa espressioni di tenerezza verso i suoi e lascia in dono agli apostoli il suo comandamento « nuovo », quello dell’amore.

Riflettere Ritornare, attraversare, raggiungere, scendere, fare vela… molti sono i verbi di movimento che, assieme agli altri (rianimare, esortare, costituire, predicare, affidare, riferire…) fanno capire quale sia stato il dinamismo degli apostoli Paolo e Barnaba e in generale quello dei primi apostoli. Assistiamo al sorgere della prima comunità cristiana. Da un piccolo manipolo di persone piuttosto comuni, sta nascendo la chiesa. Paolo e Barnaba, dopo aver digiunato e pregato, stabiliscono per ogni comunità i primi responsabili, i primi vescovi e sacerdoti, e li affidano al Signore. C’è anche un’altra parola che viene ripetuta più volte in queste letture, ed è l’aggettivo nuovo: « Ecco, io faccio nuove tutte le cose », « Io, Giovanni, vidi un nuovo cielo e una nuova terra », « Vidi la nuova Gerusalemme scendere dal cielo… »; e poi Gesù che lascia il suo comandamento « nuovo ». Le immagini del capitolo 21 dell’Apocalisse sono suggestive ed esaltanti e presentano la nuova Gerusalemme, la dimora che Dio prepara al nuovo popolo messianico, che vive nell’amore. Tutto appare immaginifico, suggestivo, affascinante e consolatorio nel momento in cui la chiesa vive già momenti difficili di persecuzione. Il passo evangelico ci presenta Gesù nel cenacolo che vive il momento drammatico in cui Giuda si allontana dal gruppo per tradirlo. Ma Gesù pare avere un momento di liberazione e di consapevolezza di tutto ciò che sta per capitargli. Gesù parla della sua glorificazione proprio nel momento più drammatico, alla vigilia di essere consegnato: « Quando sarò elevato da terra attirerò tutto a me », dice, sapendo a che cosa andava incontro e quale sarebbe stata la sua sorte finale (Gv 12,32). Gesù ha appena lavato i piedi ai suoi discepoli e comincia quel lungo parlare confidenziale e amichevole che precede la passione. Ha lavato i piedi anche a Giuda, questo apostolo difficile, che il vangelo definisce « ladro » (Gv 12,6), e che ha tradito Gesù chissà per quali motivi. Vedendo Gesù nel gesto così umile di lavargli i piedi, avrà pensato: « È questo il messia? Colui che deve liberare Israele dai Romani e instaurare il regno di Davide? ». È in questo momento che Gesù lascia ai suoi il suo comandamento « nuovo » dell’amore, quasi come un solenne testamento, come un « addio » che non vuole chiudere i rapporti, ma mantenerli vivi. Un comandamento che era già presente nella tradizione ebraica, ma quello di Gesù è « nuovo », perché ora ci si deve amare « come lui ci ha amati », cioè fino alla croce. Perché solo ora, con lui, questo comandamento diventa possibile. Certo, anche prima c’erano stati uomini che si erano amati anche prima di Cristo, ma perché erano parenti tra loro, perché erano alleati, amici, appartenevano allo stesso clan o allo stesso popolo… Ora bisogna andare al di là: amare chi ci perseguita, amare i nemici, anche quelli che non ci salutano e non ci amano. Si tratta inoltre di amore « reciproco »: ci si deve amare « gli uni gli altri », perché solo così, se l’amore non è a una sola direzione, ci può essere comunità e vita fraterna.

Attualizzare A volte il cristiano cerca distintivi, divise, croci, tau o colombe per farsi riconoscere e sentire l’appartenenza a un’associazione cattolica o alla stessa chiesa. Ma il vero distintivo del cristiano è soltanto l’amore. « Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri ». Questo è il nostro vero distintivo, il segno di riconoscimento. La storia della chiesa è ricca di esempi: la vita dei santi è ricchissima di gesti di amore. E il cristiano ogni giorno si misura nei suoi gesti di amore: il saluto, l’accoglienza, il perdono, la disponibilità… Amore che è vissuto spesso anche da molti altri generosi, che non hanno la nostra fede. Ma amore che non può non caratterizzare la vita del cristiano. L’amore rende presente Gesù Risorto, che lo si incontra quando ci si imbatte in un uomo che vive l’amore come lo ha vissuto lui. I santi hanno fatto « vedere » l’amore e sono diventati trasparenti di Dio. L’amore trasforma il mondo. Ma un mondo d’amore è possibile? Gesù si è incarnato ed è morto in croce per questo. L’amore realizza i progetti evangelici di Gesù, i sogni di Dio sull’umanità. Gesù sa che il mondo cambierà soltanto se regnerà l’amore nella chiesa e nel mondo. L’amore è l’unico strumento che può fare il miracolo di trasformare i rapporti umani, ma anche i rapporti nella società, i rapporti di potere e di forza. Guardando al comportamento di Gesù (« Amatevi come io vi ho amati ») si capisce che l’amore cristiano non nasce dalla simpatia o da una visione comune delle cose: Gesù ha avuto amore di predilezione per i meno amabili, per i più lontani, per chi non avrebbe mai potuto restituire quei gesti di amore. « Amatevi gli uni gli altri », dice Gesù, rendendo non solo reciproco l’amore, ma anche estremamente concreto. Perché si può amare in generale, si possono amare i lontani e quelli che sono nel bisogno. Ma il difficile è amare chi ci sta vicino e ci è diventato forse insopportabile; amarsi nelle situazioni più concrete e quotidiane, in famiglia, tra amici, tra compagni di lavoro e di vita.

« Go, see and do » Così diceva alle sue suore Madre Teresa. Lei e le sue suore non hanno mai avuto tanti mezzi per soccorrere gli ammalati e spesso non hanno potuto contare sugli strumenti più adatti per curare i più gravi. Ma Madre Teresa esortava le sue suore a prodigarsi così come potevano, usando le proprie mani per venire in aiuto, per fare ciò che era loro consentito con i poveri mezzi di cui disponevano. « Go, see and do »: va’, guarda, renditi conto della situazione e poi fa’ ciò che ti è possibile, per dimostrare tutto l’amore a quella persona. Così facendo non si sono negate a nessuno, hanno aiutato migliaia di persone a guarire e molti sventurati a morire con dignità.

Un cristiano: padre Ollivier « Perché siete tanto interessato alla sorte dei carcerati? », chiedono spesso a padre Jean-Marie Ollivier, un oblato di Maria Immacolata. « Perché sono stato anch’io in carcere e so che cosa vuol dire vivere in una cella. E sono persuaso che le carceri nel mondo sono piene o nascondono vittime innocenti indifese. Ne volete la prova? ». E racconta di aver trovato in carcere ad Haiti un bambino di 12 anni che aveva rubato per fame. « Passai la mattinata seduto sul prato della casa del colonnello per far liberare Toto il giorno stesso. E il colonnello mi ha ringraziato. Lo avevo aiutato a compiere un gesto di umanità e di giustizia ».

Don Umberto DE VANNA sdb

DALI – A FLAME OF FIRE OF MIDST A BUSH

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Publié dans:immagini sacre |on 21 avril, 2016 |Pas de commentaires »

UN PRESENTE ETERNO TRA PASSATO E FUTURO

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UN PRESENTE ETERNO TRA PASSATO E FUTURO

di Roberto Morozzo della Rocca

Il mondo cattolico è stato al tempo stesso intransigente nel rifiuto della modernità e transigente nel modificare i suoi costumi nel lungo periodo. Il Sillabo (1864) è una condanna apparentemente irrevocabile della modernità. Ma esiste il definitivo nel fluire storico? Peraltro il cattolicesimo è stato disponibile alla modernità tecnica che facilitava la vita quotidiana e l’economia. Inoltre c’è stato il graduale accoglimento del pensiero politico moderno. La democrazia, avversata nell’Ottocento, nel secolo successivo è stata approvata, rivendicandone l’origine al cristianesimo. Senza cedere però su punti ritenuti essenziali alla propria identità. Infatti la Chiesa cattolica ha appoggiato i partiti democratici d’ispirazione cristiana, ma non è diventata essa stessa una democrazia. Si regge sulla comunione, non sul consenso democratico. Tanto meno la Chiesa cattolica ha assunto le sembianze di un’agenzia umanitaria internazionale. Non ha confuso il suo profilo religioso con messianismi terreni. Si è qualificata come pilastro dell’Occidente mantenendo però una dimensione universale che l’ha immunizzata dal mito del progresso risolutore presente nell’Occidente. Ha conservato formule comunitarie per vivere la fede senza concessioni eccessive all’individualismo. Nel cuore del Novecento Emmanuel Mounier definiva la Chiesa cattolica « personalista e comunitaria » al tempo stesso. Mentre eruditi patrologi dimostravano come la Chiesa antica considerasse la salvezza realtà prettamente comunitaria, connessa non all’individuo isolato, ma all’unità del genere umano, corpo mistico di Cristo, essendo tutti gli uomini costituiti e ordinati a uguale immagine di Dio. Daniele Menozzi vede « contrapposizione tra cattolicesimo e modernità – stemperata da una modernizzazione che, pur estrinsecandosi in una parziale ricezione dei diritti dell’uomo, non si è mai risolta nella piena accettazione dell’autonomia dell’uomo nel fabbricare la sua città ». Questa contrapposizione c’è stata. Dalla Rivoluzione francese sino al Vaticano II la Chiesa cattolica si è opposta alla modernità, anche se ne accettava il mero progresso tecnico. Occorre tener presente che la modernità ha tentato di dominare la Chiesa oppure di svuotarla attraverso la secolarizzazione. Roma non ha mai accettato di essere dominata da prìncipi e imperatori. e in anni recenti non ha gradito la supremazia incontrastata degli imperialismi. Che la sua agenda potesse essere dettata dalla modernità la inorridiva. Il conflitto tra cattolicesimo e modernità è stato alimentato da entrambe le parti. L’uno ha difeso gelosamente la Tradizione, comprensiva di un antico monopolio della verità. L’altra ha visto il nemico nella religione. Fino a trent’anni fa, in Occidente, più modernità significava meno religione, e si pensava che la storia andasse verso una universale secolarizzazione. Per altro verso, quanto Menozzi intende come negativo è visto invece come un valore dal cattolicesimo romano non intenzionato a mutare la sua concezione dell’uomo secondo le idee correnti. Il cattolicesimo non accetta che l’uomo moderno sia essenzialmente diverso dall’uomo antico. E non si prefigge di colmare fossati e di recuperare terreni perduti, né di apparire attuale rivendicando, alla maniera dei protestanti, primogeniture nei processi di modernità. Il sensus fidelium non lo permetterebbe. Perché affannarsi quando la modernità è stata anche rivoluzioni distruttive, terrore e violenza, totalitarismi genocidari, razzismo e antisemitismo, stragi d’innocenti, lager e gulag, Cambogia e Ruanda? Aggiornamento sì, secolarismo no:  così il concilio Vaticano II che ha comunque rappresentato una cesura, non della continuità della Tradizione ma di un’attitudine di diffidenza verso le realtà terrene per sospingere i cattolici a inedita cordiale simpatia innanzi all’umanesimo contemporaneo e alla città dell’uomo. Come affermava Paolo VI nel discorso di chiusura del Vaticano II:  « L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (…) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo ». Dopo il concilio Vaticano II, la modernità è accettata dalla Chiesa cattolica. Ma con una doppia riserva. Che non venga ad alterarne la struttura interna e la dottrina. Che sia sottoposta, in ciascuna delle sue manifestazioni, a una verifica etica. Giovanni XXIII citava volentieri un pensiero di Bergson, le corps aggrandi attend un supplément d’âme, trovandolo « bene applicato al progresso della scienza. Questa pone problemi non solo scientifici, ma giuridici, filosofici, morali, religiosi:  e se la sua potenza si accresce occorre che il dotto accresca la sua sapientia:  quella che è norma di vita, legge morale, e riconoscimento di valori superiori ». Analogamente Benedetto XVI:  « Penso che il vero problema della nostra situazione storica sia lo squilibrio fra la crescita incredibilmente rapida del nostro potere tecnico, del sapere, del know-how, e quella della nostra capacità morale, che non è cresciuta in modo proporzionale ». Papa Ratzinger rileva un senso etico insufficiente « ad usare correttamente la tecnica, che pure ci vuole ». Come scrive nella Spe salvi:  « È necessaria un’autocritica dell’età moderna (…) Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo ». Benedetto XVI non crede nel progresso per se stesso, svincolato dal discernimento etico dell’uomo. Ragione e libertà dell’uomo – pilastri del progresso e della modernità – hanno valore soltanto se conducono a discernere tra il bene e il male:  « in caso contrario la situazione dell’uomo, nello squilibrio tra capacità materiale e mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato ». La fede nel progresso umano, che connota la modernità, incorrerebbe in un errore fondamentale, quello di scambiare il progresso materiale, addizionabile entro i limiti consentiti dalle leggi fisiche della natura, con il progresso dell’uomo come essere vivente, che non è addizionabile, in quanto connesso all’esercizio di ragione e libertà nelle scelte etiche, le quali sono sempre nuove e sempre fragili. Per la Chiesa cattolica dei nostri giorni è un dato certo:  il progresso, il nuovo, la modernità non rivestono a priori un significato positivo e neppure negativo. Non hanno una valenza neutra, possono causare il male, ma possono  anche  essere  orientati al bene. Non producono il paradiso in terra, che è irrealizzabile, ma possono concorrere al bene sulla terra. Certo l’evangelico Regno di Dio è altro. Ma la modernità è oggetto di dialogo da parte della Chiesa. Paolo VI fece del dialogo con la modernità quasi la cifra del suo pontificato, nello spirito del Vaticano II. La Chiesa cattolica resta fedele a una duplice visione della storia. C’è un momento del passato che racchiude già tutta la storia, ed è la passione, morte e resurrezione di Cristo, evento che esaurisce la storia e al tempo stesso la muove e la motiva dinamicamente verso un cosmico atto finale, la Parusia. Così la Chiesa cattolica è a un tempo antimoderna e moderna. Da una parte, la croce e la resurrezione di Cristo sono fissate nel passato ormai remoto. Dall’altra, l’eternità, non il tempo storico, è il destino ultimo dell’uomo. Eppure, la storia ha per i cattolici uno svolgimento, un’intensità ontologica, una valenza salvifica nel presente. Il cristianesimo ha precipuo carattere storico, non è ritualità di gesti e pensieri, non è circolarità di eventi che si ripetono, non è dogma che imprigiona la creatività. E la storia ha un senso, una direzione, oltre che un’imprevedibilità dovuta al libero arbitrio dell’uomo. Si obietterà che il credente tutto vede sub specie aeternitatis, che la preghiera e la contemplazione sono fuga dal secolo e dalle opere della storia, che la fede disprezza le realtà temporali poiché non esiste storia dell’eterno. Henri de Lubac, che definisce la storia « interprete obbligato tra Dio e ciascuno di noi », risponderebbe che « per elevarsi fino all’eterno bisogna necessariamente appoggiarsi sul tempo e lavorare in esso. A questa legge essenziale s’è sottomesso il Verbo di Dio:  è venuto per liberarci dal tempo – ma per mezzo del tempo:  propter te factus est temporalis, ut tu fias aeternus. Legge d’incarnazione (…) Sull’esempio di Cristo ogni cristiano deve accettare la condizione d’essere impegnato nel tempo; condizione che lo fa solidale di tutta la storia, di maniera che il suo rapporto con l’eterno va di pari passo con un rapporto con un passato che sa immenso e con un avvenire la cui durata gli sfugge ». L’idea cattolica è che fede e storia stiano insieme. Ma anche il contrasto tra fede e scienza deriverebbe dall’equivoco che le vuole a competere nella stessa dimensione quando invece i lumi della fede e i lumi della scienza apparterrebbero a ordini diversi. Ma allora le secolari polemiche sull’oscurantismo cattolico? Il caso Galilei e l’atavico timore che la teologia non controlli più la scienza? O che la scienza divenuta autonoma metta in dubbio la teologia? E la condanna del modernismo in cui la teologia chiedeva aiuto alla scienza ormai emancipata? In realtà, la Chiesa cattolica è una complexio oppositorum in cui si va da un estremo all’altro. Per citare Yves Congar:  « La grandezza, secondo Pascal, è di tenere gli estremi e di riempire lo spazio tra loro. Il cattolicesimo è gerarchico e si rinnova a partire dalla base; si riversa nel pluralismo e abbonda in mistici; parla di sofferenza e di croce e, gioioso, preconizza lo sviluppo dei più alti valori umani; limita le pretese della ragione e ne rivendica le possibilità (…) Il cattolicesimo sarebbe questa complexio oppositorum (…) Il cattolicesimo è la pienezza, e, così come si è espresso nell’ultimo concilio, sintesi:  non il papa senza collegio, non il collegio senza il papa; non la Scrittura senza la Tradizione, non la Tradizione senza la Scrittura ». Nell’articolato organismo cattolico l’unità è fatta da Roma, dal papato, che in età contemporanea, da una parte, ha combattuto la modernità in quanto secolarizzazione, e dall’altra parte ha tenuto la modernità in debita considerazione perché rappresentava il presente dell’uomo cui annunciare il kèrygma cristiano. Mai che la modernità metta in discussione il dogma. Ma può esserci l’aggiornamento, la simpatia per la progrediente avventura umana, la valorizzazione dei segni dei tempi. Si vaglia il nuovo, per rigettarlo se insidia identità o dottrina, per sostenerlo se utile a salvare le anime.

(L’Osservatore Romano 3 ottobre 2009)

Publié dans:OSSERVATORE ROMANO CULTURA |on 21 avril, 2016 |Pas de commentaires »

DANTE PELLEGRINO DELL’ETERNO

http://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=8376%3Adante-pellegrino-delleterno&catid=173%3Aquestioni-letterarie&Itemid=298

DANTE PELLEGRINO DELL’ETERNO

Pietro Millefiorini

Nella storia della religiosità medievale un posto di rilievo spetta al fervore con cui i cristiani intraprendevano i pellegrinaggi, fervore sotteso da un’intensa spiritualità penitenziale. Dai primi secoli, quando le mete erano rappresentate dalle tombe dei martiri, le schiere dei pellegrini via via si infoltirono: da tutta l’Europa si dirigevano ai «luoghi santi», anche se lontani, quali Gerusalemme, San Giacomo di Compostela, nonché Roma, che progressivamente s’impose come meta privilegiata, tanto che si coniò il termine romerie per il viaggio che «i pellegrini di tutte le nazioni del mondo, detti perciò Romei o Romipetae, compivano alla volta di Roma» [1]. Tale tendenza fu suggellata dal primo Giubileo del 1300 [2]. Il lungo e faticoso cammino verso la «città santa» (Gerusalemme, Roma) fu sentito anche come «figura» della stessa vita del cristiano e della Chiesa tutta, eterna pellegrina sulla terra verso la Gerusalemme celeste di cui parlano importanti scritti neotestamentari (cfr Gal 4,26; Eb 12,22; Ap 3,12; 21,2); e il motivo ricorre frequentemente nella liturgia.

«Exul inmeritus» La spiritualità del pellegrino è stata vissuta con intensità straordinaria da Dante Alighieri all’epoca del primo Giubileo: nella sua personalità i motivi di fede, affermati con un vigore che difficilmente trova paragoni, si fondono e costituiscono una cosa sola con le tormentate vicende del suo esilio dalla piccola patria terrena, con la passione politica che è al tempo stesso morale e mistica, con l’amore umano che è insieme tensione verso la beatitudine ultraterrena, con la poesia che lo esalta e lo macera: ‘l poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per molti anni macro (Paradiso XXV, 1-3). Già prima dell’esilio Dante appare impressionato dal «peregrinare»: ne abbiamo accenni nella Vita Nuova, significativi anche perché sembrano una digressione rispetto allo sviluppo della narrazione [3]. Ma con l’esilio la vita di Dante ha la sua svolta essenziale: conseguenza inevitabile ne è il doloroso «peregrinare» lungo una strada di umiliazioni e di vergogne insopportabili specie per una tempra della sua fierezza: si tenga presente la citatissima pagina, così accorata, di Convivio I, III, 3-5. Proprio questa esperienza segna con un’impronta indelebile e decisiva la personalità e l’opera dantesca: «Senza l’esilio la Commedia non sarebbe stata possibile: questo poema oltremondano che ha come suo centro passionale Firenze» [4]. Superflua la citazione dei tanti passi delle opere in cui vibra la passione per la patria crudele: parole e versi che sono restati nel cuore di tutti. La coscienza dell’uomo e del cristiano non si limita a considerare l’esilio come esperienza terribile sì, ma soltanto biografica e psicologica, bensì glielo fa vivere con lucida consapevolezza dei suoi valori morali: l’essilio che m’è dato, onor mi tegno (Rime CIV, 76). Exul inmeritus diviene il suo titolo preferito, come la sua impresa e il suo blasone (Epistole, iscrizione della III, V, VI, VII). Nella profezia di Cacciaguida, Dante fa sentire il conflitto che lacera il suo cuore, dove si fronteggiano l’uomo e l’eroe: all’uomo pesano tanto le parole «gravi» precedentemente ascoltate sul suo futuro, l’eroe è «tetragono ai colpi di ventura»; l’uomo vorrebbe pur pensare alla tranquillità degli ultimi anni di vita, l’eroe non ammette esitazioni e compromessi (tutta tua vision fa manifesta). La missione dell’esule, veggente e pellegrino dei mondi ultraterreni, sarà dolorosissima, ma ciò non fa d’onor poco argomento (Paradiso XVII, passim). Le parole dell’antenato che aveva offerto la vita come «martirio» (Paradiso XV, 148) persuadono sempre più il poeta «ad affrontare l’esilio non come pietra d’inciampo, ma come occasione privilegiata per il realizzarsi del disegno divino» [5], anche se misteriosamente terribile. Qui è la tragedia di Dante: E se il mondo sapesse il cor ch’ elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, dice di un altro «giusto», anch’egli «persona… peregrina», esaltato nel canto solenne dell’aquila imperiale (Paradiso VI, 127-142). Ma l’immagine poetica di Romeo di Villeneuve è velo troppo trasparente perché dietro ad esso sia possibile non riconoscere i lineamenti tesi del poeta stesso.

La patria sospirata: quale? La virile accettazione dell’esilio in nome di princìpi morali inderogabili non gli consente di piegarsi alla possibilità offertagli di un ritorno in patria a condizioni che egli giudica non compatibili con quei princìpi. Se gli si aprisse una strada per Firenze non offensiva della sua coscienza, illam non lentis passibus acceptabo; quod si per nullam talem Florentia introitur, nunquam Florentiam introibo [6]. Ma questa sofferta rinuncia schiude nuove vie, itinerari interiori che si aprono su spazi sconfinati: Nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo? [7]. Ecco Dante pellegrino del cielo. Il fascino della volta stellata, delle «cose belle» si confonde per lui con il fascino irresistibile del divino: Chiamavi il cielo e ‘ntorno vi si gira / mostrandovi le sue bellezze etterne (Purgatorio XIV, 148-149). Le delusioni umane, personali, politiche, morali (il «mondo che mal vive»: Purgatorio XXXII, 102) pesano sempre più sull’uomo stanco, cui però infondono nuovo, insospettato vigore il sospiro verso una patria che non delude e l’ansia del divino che diventano il Leitmotiv della sua biografia artistica e mistica. Veramente, come afferma il Momigliano, riferendosi forse a parole del De vulgari eloquentia [8], «Dante esule è cittadino del mondo» [9]? Forse con maggiore aderenza alla realtà dantesca si può pensare che egli fosse pellegrino in tutto il mondo, attesa la sua definizione di «peregrino» nella Vita Nuova nonché la precisazione che mette in bocca alla senese Sapia: esiste un’unica città di cui tutti sono cittadini, mentre sulla terra ogni persona è «peregrina» (Purgatorio XIII, 94-96) [10]. Una delle ultime pagine del Convivio sembra profetica della parabola spirituale del suo autore: «Ne l’ultima etade, cioè nel senio», l’anima, «già essendo a Dio renduta e astrattasi dalle mondane cose e cogitazioni [...], attende lo fine di questa vita con molto desiderio e uscir le pare de l’albergo e ritornare ne la propria mansione, uscir le pare di cammino e tornare in cittade, uscir le pare di mare e tornare a porto». Anzi, all’arrivo nella vera patria si potrà finalmente godere di quella soddisfazione che era stata il sogno infranto del poeta: il ritorno con onore in patria. «E sì come a colui che viene di lungo cammino, anzi ch’entri ne la porta de la sua cittade, li si fanno incontro li cittadini di quella, così a la nobile anima si fanno incontro, e deono fare, quelli cittadini de la etterna vita» (Convivio IV, XVIII, 2-7). La pace contemplativa di questa pagina si trasforma via via in sospiro e tensione verso un’altra pace, non più fragile e illusoria. Neanche il quadro idilliaco di «Fiorenza dentro da la cerchia antica» che «si stava in pace, sobria e pudica» e il pensiero nostalgico volto a così riposato, così bello / viver di cittadini, a così fida / cittadinanza, a così dolce ostello, dove la campana scandiva il tempo diviso tra sana laboriosità e lode di Dío, vale ad acquietare le ansie segrete del cuore consapevole che anche un bel sogno appartiene al «mondo fallace», per «disvilupparsi» dal quale non c’è che puntare a «questa pace» (Paradiso XV, 97-148), cioè del cielo: ‘n la sua volontade è nostra pace (Paradiso III, 85) dichiarano con fermezza gli spiriti beati. In terra tale pace può essere in qualche modo pregustata soltanto nella contemplazione, come accadde a san Bernardo che in questo mondo, / contemplando, gustò di quella pace (Paradiso XXXI, 110-111). La continua polemica supera i limiti della contrapposizione tra moralità del passato e corruzione del presente perché «il termine supremo dell’antitesi è [...] fra la terra tutta e il cielo, fra il disordine del « mondo fallace » e la « pace » del cielo» [11].

Unità o dicotomia? A questo punto è ineludibile un problema, fin troppo noto, che, ereditato dall’Ottocento, e in particolare dal De Sanctis, ha visto dibattiti serrati e appassionati per molti decenni del sec. XX: materia di critica letteraria, ma dalle molteplici e non marginali ripercussioni sulla comprensione non solo di Dante poeta ma anche di Dante uomo e pellegrino dell’eterno. Tale problema è se la Commedia sia espressione organica, di salda unità vitale, di Dante uomo, cristiano, scienziato, pellegrino, linguista, poeta oppure consti di due parti artificialmente giustapposte, l’una frutto di una pesante cultura medievale antipoetica e l’altra prodotto genuino e spontaneo di una possente e incoercibile fantasia creatrice di poesia. De Sanctis da una parte sottolinea vivacemente che, nel poema, terra e oltremondo «son due mondi onnipresenti, in reciprocanza d’azione, [...] in perpetuo ritorno l’uno nell’altro» [12]; dall’altra con non minore enfasi vuole dimostrare che la cultura dei tempi del poeta, la quale attraversa tutta l’opera, è incompatibile con la poesia: la religione infatti «scomunicava l’arte, ab-bruciava le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale». Peggio ancora la filosofia. Così il sommo poeta, che intendeva la «figura» soltanto come bella veste del vero, come «puro abbigliamento esteriore» del «figurato», cioè dell’allegoria, a solo scopo didascalico, ha fatto sì poesia, ma solo a sprazzi, malgré lui: «Così è. Dante è stato illogico, ha fatto altra cosa che non intendeva». «La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi». E, rivolto al poeta, il critico così lo loda: «Come il peccatore, piantate li il figurato, e correte appresso alla figura, e la fate così impolpata, così corpulenta, che è un velo denso e fitto, al di là del quale non si vede nulla». Pertanto alla domanda: «Qual è il vero Dante?» non si può rispondere se non che è quello la cui grandezza consiste nella poesia, sulla quale peraltro il suo mondo etico-religioso, per quanto fosse «per lui una cosa così seria», «lascia delle grandi ombre». Ma allora le sue aspirazioni mistiche si riducono a un inevitabile adeguarsi al «vezzo dei tempi» [13]? Ovviamente nel Paradiso si aggravano le riserve e il fastidio del critico. Certo, Dante compie prodigi «per rendere artistico il paradiso» attraverso immagini e paragoni, ma ci troviamo di fronte «all’ultima dissoluzione della forma» [14]. «Non di rado vedi non il poeta, ma il dottore che esce dall’università di Parigi, pieno il capo di tesi e di sillogismi» [15]. Anche B. Croce, nella sua famosa La poesia di Dante, pubblicata nel sesto centenario della morte del poeta, pur contrario alla critica romantica di cui il De Sanctis è il massimo esponente, riprende sostanzialmente la negazione dell’unità poetica sostenuta dall’Irpino, ma proiettata nel quadro teoretico della propria estetica, sulla cui base egli «esclude dall’area poetica tutta la parte che si può comprendere sotto la qualifica di « escatologia teologica », alla quale egli dà il nome di « struttura »», attribuendole «la qualifica, che a molti è sembrata irriverente, di « romanzo teologico » o « etico-politico-teologico »» [16]. Non mancano certo, osserva il filosofo-critico, episodi di altissima poesia, ma «ciascuno di quegli episodi sta per sé ed è una lirica a sé», perché la struttura può dare soltanto «connessioni estrinseche alla poesia», rispetto alla quale essa rappresenta meno che la cornice rispetto al quadro: «Il rapporto con la poesia è semplicemente quello che passa tra un romanzo teologico, ossia una didascalia, e la lirica che lo varia e interrompe di continuo» [17]. Se il Croce ha trovato una folta schiera di seguaci assai zelanti (in Italia), ha assistito pure a una «revisione» della sua «tesi» «che si venne operando nella stessa critica estetico-idealistica» con «tendenza alla riabilitazione estetica della cantica del Paradiso e al superamento di antiche posizioni vichiano-romantico-desanctisiane che il Croce aveva finito col ribadire» [18]. Così il Russo, che pur gravitava nell’area crociana: «E se il Croce… ci chiedesse se anche noi dunque crediamo all’unità poetica della Commedia, noi naturalmente diremmo di sì, perché la struttura per noi è nient’altro che lo stesso mondo storico dell’artista in cui la sua poesia si riconosce e si attua» [19]. E il Flora, anch’egli vicino al Croce: «La figura e il figurato non sono due cose, come ha creduto anche il De Sanctis: sono tutt’uno: nella figura è presente, e lo intona di sé, anche il figurato, anche l’allegoria» [20].

Unità poetica e personalità di Dante Il dibattito sull’unità poetica non è quaestio elegans riservata agli addetti ai lavori, ma tocca il cuore stesso della vita e dell’opera di Dante, perché la negazione di quell’unità non solo impoverisce la poesia (il dramma di coscienza che la sottende si ridurrebbe a un moraleggiare estraneo al nucleo più intimo della sua ispirazione), ma intacca la serietà della stessa persona, la quale non vivrebbe in profondità le sue assillanti problematiche e il suo strenuo protendersi verso il vero in che si queta ogne intelletto (Paradiso XXVIII, 108), verso il «bene» che soltanto in Dio «tutto s’accoglie», è «perfetto», mentre al di fuori di lui è sempre «defettivo» (Paradiso XXXIII, 103-105): il poeta si placherebbe invece in forme estetiche a sé stanti che in realtà distolgono dalla luce di Dio, per lui così necessaria che volgersi da lei per altro aspetto / è impossibile che mai si consenta (ivi, 100-102). Perciò tanti critici hanno reagito con convinzione a quella sorta di vivisezione del poema ridotto, sul piano artistico, a un’antologia più o meno scarna di liriche private del potente affiato umano-politico-etico-mistico da cui scaturisce l’opera intera. Una discriminazione e distinzione «tra struttura dottrinaria e poesia, come fra non poesia e poesia [...] non è attuabile, perché il carattere qualificante, il miracolo vorremmo dire, della poesia dantesca, consiste proprio nel fatto che l’uno e l’altro conoscere si traducono in linguaggio poetico» [21]. «Nella Commedia immaginazione e realtà son diventate una cosa sola filosofia teologia e scienza non s’accampano per sé, ma diventano un momento della totale visione poetica, il segno della serietà e profondità della mente da cui ha preso lo slancio il volo mirabile della fantasia» [22]. E un poeta del Novecento, T. S. Eliot, acuto lettore di Dante, ha sostenuto che proprio gli ultimi canti del Paradiso contro i quali più si appuntano gli strali della critica desanctisiana e crociana, costituiscono «il più alto vertice che la poesia abbia mai raggiunto o che forse mai raggiungerà» [23]. Per Giovanni Getto è importante il tentativo di «storicizzare quel tema teologico che crediamo costituisca il nucleo dell’ispirazione dell’intera cantica», la cui poesia è al tempo stesso «epos della vita interiore», «lirica dell’adorazione», «ebbrezza e pace dell’anima elevata verso le cime vertiginose», tutta percorsa dal motivo esaltante del filios Dei fieri [24]. Umberto Eco afferma senza mezzi termini: «Il Paradiso è la più bella delle tre cantiche della Commedia»; e insiste sulla «poesia dell’intelligenza» propria soprattutto della terza cantica, perché «il lettore moderno [...] sa che la poesia può essere anche passione metafisica» dopo aver letto, tra gli altri, John Donne, Eliot, Valéry, Borges [25].

Interpretazione figurale Nel sec. XX è stato proposto un criterio di interpretazione del poema – a cui la critica attuale fa frequente riferimento – desunto da un’antichissima tradizione esegetica della Bibbia. Tanti eventi dell’Antico Testamento, oltre a possedere in sé una loro realtà storica (non sono semplici simboli o allegorie), sono al tempo stesso «tipi», «figure» di eventi del Nuovo Testamento nei quali trovano tutta la pienezza della loro realtà. Così la liberazione degli ebrei dall’Egitto, fatto storico, trova il suo ultimo compimento e realizzazione nella liberazione dell’umanità dal peccato ad opera di Cristo, secondo l’esempio portato da Dante stesso [26]. Anzi, tutto l’Antico Testamento si può considerare «figura» del Nuovo [27]. Così «l’interpretazione figurale crea tra due fatti, che appartengono entrambi alla storia, un nesso in cui uno dei due non significa soltanto se stesso ma significa anche l’altro, mentre quest’altro comprende e adempie il primo» [28]: il primo è umbra futurorum (adombramento di realtà future: cfr Col 2,17), il secondo è figura impleta (adempimento completo della realtà storica del primo fatto, anch’esso storico). Analogamente nella Commedia il mondo e i personaggi terreni, storici non sono semplici allegorie (astrazioni concettuali, simboliche senza consistenza reale) di qualche valore o disvalore che s’intende illustrare (virtù, vizi, ideali, passioni…), ma conservano «il grado più intenso del loro essere individuale terreno-storico» [29] proiettato nell’eterno. Per esempio Beatrice non è aerea e intellettualistica allegoria della fede o della teologia, ma donna reale, quella che Dante ha incontrato nella sua giovinezza (anzi nel poema è assai più umana che nell’operetta giovanile) pienamente realizzata nella trascendenza metastorica dell’aldilà, dove adempie nella maniera più completa (figura impleta) la funzione stilnovistica della donna, cioè di colei che dona beatitudine guidando verso Dio; Virgilio non è una pallida ombra, allegoria della ragione o della filosofia, ma uomo vero che sospira (Inferno I, 129), è «tutto smorto» (Inferno IV, 14), è «turbato» (Purgatorio III, 45) poiché nell’aldilà, come sulla terra, può orientare altri verso la perfezione terrena senza che egli possa attingere quella paradisiaca. Il primo personaggio da interpretare figuralmente è, sempre secondo Auerbach, Dante stesso, uomo concretissimo, con passioni, aspirazioni, ideali vissuti e sofferti su questa terra trasportati nell’oltremondo dove, nuovo Enea e nuovo Paolo, è investito di una missione «in pro del mondo che mal vive» (Purgatorio XXXII, 103): ed è da ricordare che il poeta vive come realissima esperienza il suo viaggio nei regni ultraterreni. Tale interpretazione non esclude peraltro che in vari luoghi del poema appaiano anche allegorie [30]. Qui interessa sottolineare che la piena storicità di personaggi e avvenimenti toglie, per così dire, il terreno sotto ai piedi alle dicotomie «figura-figurato», «struttura-poesia».

«L’ardor del desiderio» La resistenza a riconoscere nel poema, e soprattutto nel Paradiso un «epos» della vita interiore e una «lirica dell’adorazione» sembra, per non pochi, trarre origine dal fatto che la fede viene concepita come assenso puramente intellettualistico a verità imposte dal di fuori e non come atto di intelligenza e di amore che scaturisce dalla coscienza affascinata dalla luce di Dio. Emblematica di tale mentalità può essere la valutazione, assai limitativa, del Fubini (e di altri) del valore poetico della preghiera di san Bernardo a Maria nell’ultimo canto del Paradiso, che non potrebbe reggere il confronto con altri passi di Dante stesso, come ad esempio con il solo verso e mezzo Il nome del bel fior chi() sempre invoco / e mane e sera (Paradiso XXIII, 88-89), sufficiente a dare «un’intimità d’affetto che qui (nella preghiera di san Bernardo) non sentiamo» [31]: certo, incantevoli quelle parole con la loro musicalità, dolcezza, delicatezza, però non toccano le radici stesse della fede che fa vibrare il poeta nella «melodica contemplazione di uno stupendo miracolo» [32], quello dell’Incarnazione, realizzato in una povera fanciulla, nel quale antitesi e ossimori non sono artifici retorici ma realtà, centro e anima di tutto il cristianesimo. Invece quel bellissimo verso e mezzo è adatto a entrare in un’antologia di liriche che ignori totalmente ciò che Maria rappresenti per la vita e per la speranza del poeta, la sua parte essenziale, affettiva e mistica, nell’appassionato itinerarium mentis in Deum dantesco (Inferno II, 94-99: ma non solo). «L’ardor del desiderio» (Paradiso XXXIII, 48) di arrivare a Dio, che divampa nel Paradiso ed è coronato nell’ultimo canto, percorre e sottende il poéma intero e ne è l’anima segreta: dall’Inferno, dove tanta è la sofferenza di chi ha «perduto» Dio-verità che è «il ben de l’intelletto» (III, 18) (mentre soltanto di Dio è la luce che dà gaudio ineffabile, Paradiso XXX, 40-42: di conseguenza il baratro è afflitto da «tenebre eterne», III, 87, da «aura nera», V, 51, ed è «luogo d’ogne luce muto», V, 28); al Purgatorio, dove gli spiriti sospirano di vedere Dio «che del disio di sé veder n’accora» (V, 57), «lacrimando a colui che sé ne presti» (XIII, 108); a tutto il Paradiso, dove l’ansia del pellegrino che non trova pace si fa come palpabile fin dal I canto. Rimossi infatti, nell’arduo peregrinare attraverso Inferno e Purgatorio, gli ostacoli che impediscono di sollevarsi a Dio, meta ultima dell’uomo, questi corre e vola verso di lui più veloce di un fulmine: folgore […1/ non corse come tu ch’ad esso riedi (I, 92-93). Insaziabile è il desiderio di conoscenza e verità, nelle quali «sta la nostra felicitade» (Convivio I, I, 1), verità naturali e rivelate: già mai non si sazia / nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia (Paradiso IV, 124126); ed è questo ardore che costituisce, per l’uomo e per il cristiano, un impulso interiore, dinamico e irresistibile, a salire, di altezza in altezza, sempre più in alto, verso la vetta: Nasce per quello, a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio; ed è natura / cb’al sommo pinge noi di collo in collo (ivi, 130-132). La mente sintetica di Dante rielabora e rivive personalmente l’aspirazione all’unità propria della cultura filosofico-teologica del suo tempo: quella ordinatio ad unum che abbraccia la frastagliatissima molteplicità dello scibile, del reale e del possibile in una visione unitaria e organica che conferisce razionalità al tutto e alle parti disposte secondo una gerarchia di valori al cui vertice è Dio, causa prima e fine ultimo. Nell’armonia dell’universo il poeta legge il rapporto sostanziale tra unità e molteplicità (Paradiso XXXIII, 85-87): la legge fondamentale di tutto quanto esiste è così per lui l’ordine, un ordine dinamico in cui ogni creatura si muove sicura «per lo gran mar de l’essere» verso il proprio porto (Paradiso I, 103-142) rappresentato alla fin fine da Dio-Amore, semplicità e ricchezza infinita. «Rappresentare quell’ordine nella perfezione della sua attuazione era la necessità imprescindibile della sua arte». In tal modo «risalire sempre dall’aspetto particolare alla suprema causa generatrice. E così avere sempre dinanzi Dio, meta ultima del viaggio, trascendenza infinita, ma attivo sempre nello spirito a esaltare l’uomo, sublimarlo sempre di più» [33]. E della fede, che gli consente di spaziare ben al di là dell’orizzonte solo razionale, Dante va fiero: chi può non conoscere il nome di Dio s’elli ha la fede mia? (Paradiso XXV, 75: cfr l’esame sulla fede da parte di san Pietro nel c. XXIV, che con il suo «ritmo sicuro, vittorioso, incalzante» è un «inno alla fede» «dissimulato sotto la forma di un esame») [34]. Ma la fede è fondamento di speranza (Paradiso XXIV, 64), che dice desiderio pieno di fiducia: Beatrice può assicurare sant’Jacopo che la Chiesa militante alcun figliuolo / non ha con più speranza (Paradiso XXV, 52-53). Nel figgere lo sguardo in Dio l’uomo-cristiano-poeta raggiunge il culmine beatificante della sua diuturna e appassionata tensione interiore: l’ardor del desiderio in me finii (Paradiso =CHI, 48).

Ulisse e Dante Il perenne pellegrino ha creato con sobrietà di mezzi una figura di efficacia straordinaria che immortala la grandezza dell’uomo: Ulisse. Abbandonato il mito omerico del ritorno in patria (ma non certo il motivo dell’intensità degli affetti più cari, rievocati in una magistrale terzina: cfr Inferno XXVI, 94-96), prende spunto da alcuni passi dei classici (Ovidio, Cicerone, Seneca…) e forse da qualche leggenda a noi non pervenuta per dar vita all’epopea splendida dell’eroe che tutto sacrifica, perfino la vita, per «l’ardore» di divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore (ivi, 97-99) e sfida insieme ai pochi e vecchi compagni rimastigli, resi da lui con una «orazion picciola» baldi e audaci come giovani temerari, l’immensità sconfinata del mare ignoto. In nome di che cosa trascina altri al «folle volo»? In nome della coscienza del valore e della dignità dell’uomo che, a differenza dei «bruti», ha il dovere di «seguir virtute e conoscenza» (ivi, 118-120): per essere pienamente uomini è necessario essere eroi. Questa la morale di Ulisse-Dante. Ulisse però fallisce tragicamente: perché? quel naufragio seppellisce le più nobili aspirazioni umane? Dante ha tentato un’impresa ancora più «folle», unica al mondo (L’acqua ch’io prendo già mai non si corse: Paradiso II, 7): oltrepassare non solo le Colonne d’Ercole ma i confini del mondo e penetrare nell’aldilà e nell’eterno. Eppure ha vinto. Perché? Perché poteva fare appello a una risorsa misteriosa sconosciuta a Ulisse: la grazia, che non soltanto non annulla ma esalta e potenzia forze e grandezza dell’uomo [35] in maniera indicibile: «Trasumanar significar per verba / non si poria» (Paradiso I, 70-71). La sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia (Purgatorio XXI, 1-3): il protendersi inesausto di Ulisse, di Dante e di ogni uomo che sia veramente tale verso qualcosa di sempre più alto e più bello non può trovare appagamento pieno se non nell’Infinito e nell’Etemo [36]. «Immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che siffatto universo; [...] pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana» [37]: tale sete può essere estinta unicamente con l’«acqua viva» offerta da Cristo non soltanto alla Samaritana incontrata presso il pozzo di Giacobbe, ma all’umanità che solo allora «non avrà mai più sete» quando attingerà a una «sorgente che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,10-15). Il tormentato viaggio terrestre e celeste di Dante e dell’umanità è un pellegrinare, ma non senza meta, meta che non si potrà raggiungere pienamente se non colà dove gioir s’insempra (Paradiso X, 148).

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Beati coloro che piangono, perchè saranno consolati

Beati coloro che piangono, perchè saranno consolati dans immagini sacre blessed-are-those-who-mourn-for-they-will-be-comforted

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Publié dans:immagini sacre |on 20 avril, 2016 |Pas de commentaires »
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