Holy Fathers Simeon Stylites and Daniel,

LO PSEUDO-MACARIO – CONSIGLI SPIRITUALI
Breve nota biografica
Il monachesimo egiziano ha conosciuto non meno di sei o sette asceti sotto il nome di Macario, Macario d’Egitto, Macario d’Alessandria, Macario di Pispir, ecc… menzionati nella Historia Lausiaca (Cfr. Butler II p. 193). A Macario di Egitto sono attribuiti numerosi scritti. Essi sono numerose lettere, cinquanta omelie spirituali, sette opuscoli ascetici, la Grande Lettera ad Filios Dei.
CONSIGLI SPIRITUALI 1. Quando l’Apostolo ci dice: « Spogliatevi del vecchio uomo » (Efes. 4, 22), intende l’uomo totale, quello che aderisce ai nostri occhi, alle nostre mani e ai nostri sensi. Il maligno inquinò e fece deviare tutto l’uomo, anima e corpo, e lo ricoprì con la realtà dell’uomo vecchio, cioè con quella dell’uomo profanato, contaminato, ostile a Dio e ribelle alla sua legge; in questo consiste il primo peccato. Cosicchè l’uomo non vede più in modo conforme alla sua natura, ma il suo vedere, udire, camminare, agire e sentire sono legati al male. Preghiamo Dio che ci renda nudi dell’uomo vecchio; Lui solo può liberarci dal peccato. Le forze del male che ci tengono schiavi nel regno del maligno sono più forti di noi; ma il Signore ci ha promesso di liberarci da questa schiavitù (Migne 34, 464 C). 2. L’anima si volge dalle maligne divagazioni conservando la vigilanza del cuore; ciò impedisce ai sensi ed ai pensieri di vagare nel mondo esteriore (Migne 34, 473 D). 3. Il fondamento vero della preghiera è questo: vigilare sui pensieri, e abbandonarsi all’orazione in grande quiete e pace così da non turbare gli altri. Sicuramente chi porta avanti al suo pieno sviluppo la grazia di Dio ricevuta, con un modo silenzioso di ascesa orante, è di maggior aiuto agli altri, perchè il nostro Dio, non è un Dio di confusione ma di pace (1 Cor. 14, 33).
Chi è solito pregare ad alta voce è simile ai banditori, e non può pregare ovunque, certo non nelle adunanze e nei luoghi abitati, ma solo nei posti solitari a sua scelta. Chi prega in silenziosa compostezza, lo può fare ovunque con edificazione di tutti. Costui deve portare tutto il suo sforzo sui pensieri, spezzare la turma dei pensieri maligni che l’attorniano, mettersi davanti a Dio; non eseguire le velleità di essi (pensieri), cercare invece di raccoglierli dalla dispersione separando i pensieri conformi alla natura da quelli malvagi (Migne 34, 520 B). 4. Alle volte basta che uno pieghi le ginocchia per pregare e subito il suo corpo si trova inondato dalla divina energia e gioisce l’anima della presenza del Signore come di quella dello Sposo. Altre volte invece, dopo un giorno intero di impegni laboriosi e dissipatori, uno, in una breve ora di preghiera, trova il suo io interiore rapito nell’orazione e immerso nello sconfinato mare dell’eterno; con dolcezza grande la sua mente, assorta e sospesa, dimora in quella regione ineffabile. In quel momento tacciono tutte le preoccupazioni esteriori, le forze mentali attratte dalle incommensurabili e inesprimibili realtà celesti, ricolme di stupore indicibile, riescono solo a formulare questa preghiera: Possa l’anima mia insieme alla preghiera emigrare all’altra sponda! (Migne 34, 528c). 5. L’anima, quando vien ritenuta degna di aver parte alla chiarità luminosa dello Spirito, venendo illuminata da questo splendore ineffabile si trasforma nella dimora adatta a riceverlo. Essa è allora tutta luce e nessuna parte in lei è priva dello spirituale occhio della luce. Niente è tenebroso in lei, essa è luce, spirito e capacità visiva. Tutto in lei è chiaro e semplice, essendo accesa dalla luce di Cristo che in lei ha stabilito la sua dimora. (Migne 34, 451 a). 6. Se uno, dopo aver rinunciato alle realtà esteriori, non ha sostituito, in tutta la sua pienezza, la comunione carnale propria degli esseri terreni con la comunione delle realtà celesti, e non ha avvicendato la gioia illusoria del mondo con quella interiore dello Spirito, conforto derivante dalla grazia celeste e placazione interiore che nasce dalla contemplazione della chiarità luminosa del Signore… Costui è un sale che ha perduto il sapore. (Migne 812 d). 7. Segno della presenza del Cristianesimo è questo: dopo aver affrontato ogni sorta di travagli e aver compiuto opere di verità, il riconoscersi incapace di alcunchè di bene. Ed anche se uno è giusto davanti a Dio la sua coscienza deve dirgli: « ogni giorno incomincio di nuovo ». Ogni giorno sia accompagnato dalla speranza, dalla gioia, dalla fiducia di giungere al regno futuro della salvezza. Ripetersi spesso: « Se oggi non ho raggiunto la liberazione, vi riuscirò domani ! ». Chi ha intenzione di piantare una vigna, avanti di accingersi al lavoro è nutrito dalla speranza e dalla gioia, e nella sua mente sogna la vendemmia e calcola i guadagni prima che il vino sia fatto; con questo animo può affrontare la fatica. (Migne 34, 681 b). 8. Il Cristianesimo è cibo e bevanda; quanto più uno se ne nutre, tanto più dalla sua dolcezza la mente è attratta trovandosene sempre insaziabilmente bisognosa. in verità lo Spirito è cibo e bevanda che mai dà sazietà. (Migne 34, 682 c). 9. Una cosa è parlare del cibo e della tavola imbandita, altra cosa è prendere e mangiare il pane saporoso e dar vigore a tutte le membra del corpo. Una cosa è discorrere della più soave bevanda, altra è andare ad attingere alla fonte e saziarsi col bere il soave liquore… Una cosa è rimuginare discorsi nella mente con una certa conoscenza, altra è portare la grazia, il sapore e la forza dello Spirito Santo in una partecipazione personale viva e fattiva, così da mostrare di possedere il tesoro delle realtà spirituali con pienezza nella mente e in tutto l’uomo interiore. (Migne, 34, 701 b). 10. Quando il pittore è intento a fare il ritratto del re ne deve avere davanti Il volto, cosicchè quando il re posa davanti a lui con abilità e grazia lo ritrae: ma se il re è girato dalla parte opposta, il pittore non può compiere l’opera sua, perchè il suo occhio non ne vede il volto. Così Cristo, pittore perfetto, dipinge i lineamenti del suo volto di uomo celeste su quei fedeli che sono verso di Lui costantemente orientati. Se qualcuno non lo fissa di continuo, disprezzando ogni cosa a Lui contraria, non avrà in se stesso l’immagine del Signore disegnata dalla sua luce. Il nostro volto sia sempre in Lui fisso, con fede e amore, trascurando tutto per essere solo in Lui intenti, affinchè nel nostro intimo si imprima la sua immagine, e così portando in noi Cristo possiamo giungere alla vita senza fine (Migne 34 724a).
PAPA FRANCESCO – 16. VA E ANCHE TU FA COSI (CFR LC 10,25-37)
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 27 aprile 2016
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi riflettiamo sulla parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37). Un dottore della Legge mette alla prova Gesù con questa domanda: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (v. 25). Gesù gli chiede di dare lui stesso la risposta, e quello la dà perfettamente: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (v. 27). Gesù allora conclude: «Fa’ questo e vivrai» (v. 28). Allora quell’uomo pone un’altra domanda, che diventa molto preziosa per noi: «Chi è mio prossimo?» (v. 29), e sottintende: “i miei parenti? I miei connazionali? Quelli della mia religione?…”. Insomma, vuole una regola chiara che gli permetta di classificare gli altri in “prossimo” e “non-prossimo”, in quelli che possono diventare prossimi e in quelli che non possono diventare prossimi. E Gesù risponde con una parabola, che mette in scena un sacerdote, un levita e un samaritano. I primi due sono figure legate al culto del tempio; il terzo è un ebreo scismatico, considerato come uno straniero, pagano e impuro, cioè il samaritano. Sulla strada da Gerusalemme a Gerico il sacerdote e il levita si imbattono in un uomo moribondo, che i briganti hanno assalito, derubato e abbandonato. La Legge del Signore in situazioni simili prevedeva l’obbligo di soccorrerlo, ma entrambi passano oltre senza fermarsi. Erano di fretta… Il sacerdote, forse, ha guardato l’orologio e ha detto: “Ma, arrivo tardi alla Messa… Devo dire Messa”. E l’altro ha detto: “Ma, non so se la Legge me lo permette, perché c’è il sangue lì e io sarò impuro…”. Vanno per un’altra strada e non si avvicinano. E qui la parabola ci offre un primo insegnamento: non è automatico che chi frequenta la casa di Dio e conosce la sua misericordia sappia amare il prossimo. Non è automatico! Tu puoi conoscere tutta la Bibbia, tu puoi conoscere tutte le rubriche liturgiche, tu puoi conoscere tutta la teologia, ma dal conoscere non è automatico l’amare: l’amare ha un’altra strada, occorre l’ intelligenza, ma anche qualcosa di più… Il sacerdote e il levita vedono, ma ignorano; guardano, ma non provvedono. Eppure non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo. Non dimentichiamolo mai: di fronte alla sofferenza di così tanta gente sfinita dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori. Ignorare la sofferenza dell’uomo, cosa significa? Significa ignorare Dio! Se io non mi avvicino a quell’uomo, a quella donna, a quel bambino, a quell’anziano o a quell’anziana che soffre, non mi avvicino a Dio. Ma veniamo al centro della parabola: il samaritano, cioè proprio quello disprezzato, quello sul quale nessuno avrebbe scommesso nulla, e che comunque aveva anche lui i suoi impegni e le sue cose da fare, quando vide l’uomo ferito, non passò oltre come gli altri due, che erano legati al Tempio, ma «ne ebbe compassione» (v. 33). Così dice il Vangelo: “Ne ebbe compassione”, cioè il cuore, le viscere, si sono commosse! Ecco la differenza. Gli altri due “videro”, ma i loro cuori rimasero chiusi, freddi. Invece il cuore del samaritano era sintonizzato con il cuore stesso di Dio. Infatti, la “compassione” è una caratteristica essenziale della misericordia di Dio. Dio ha compassione di noi. Cosa vuol dire? Patisce con noi, le nostre sofferenze Lui le sente. Compassione significa “compartire con”. Il verbo indica che le viscere si muovono e fremono alla vista del male dell’uomo. E nei gesti e nelle azioni del buon samaritano riconosciamo l’agire misericordioso di Dio in tutta la storia della salvezza. E’ la stessa compassione con cui il Signore viene incontro a ciascuno di noi: Lui non ci ignora, conosce i nostri dolori, sa quanto abbiamo bisogno di aiuto e di consolazione. Ci viene vicino e non ci abbandona mai. Ognuno di noi, farsi la domanda e rispondere nel cuore: “Io ci credo? Io credo che il Signore ha compassione di me, così come sono, peccatore, con tanti problemi e tanti cose?”. Pensare a quello e la risposta è: “Sì!”. Ma ognuno deve guardare nel cuore se ha la fede in questa compassione di Dio, di Dio buono che si avvicina, ci guarisce, ci accarezza. E se noi lo rifiutiamo, Lui aspetta: è paziente ed è sempre accanto a noi. Il samaritano si comporta con vera misericordia: fascia le ferite di quell’uomo, lo trasporta in un albergo, se ne prende cura personalmente e provvede alla sua assistenza. Tutto questo ci insegna che la compassione, l’amore, non è un sentimento vago, ma significa prendersi cura dell’altro fino a pagare di persona. Significa compromettersi compiendo tutti i passi necessari per “avvicinarsi” all’altro fino a immedesimarsi con lui: «amerai il tuo prossimo come te stesso». Ecco il Comandamento del Signore. Conclusa la parabola, Gesù ribalta la domanda del dottore della Legge e gli chiede: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» (v. 36). La risposta è finalmente inequivocabile: «Chi ha avuto compassione di lui» (v. 27). All’inizio della parabola per il sacerdote e il levita il prossimo era il moribondo; al termine il prossimo è il samaritano che si è fatto vicino. Gesù ribalta la prospettiva: non stare a classificare gli altri per vedere chi è prossimo e chi no. Tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè se hai quella capacità di patire con l’altro. Questa parabola è uno stupendo regalo per tutti noi, e anche un impegno! A ciascuno di noi Gesù ripete ciò che disse al dottore della Legge: «Va’ e anche tu fa’ così» (v. 37). Siamo tutti chiamati a percorrere lo stesso cammino del buon samaritano, che è figura di Cristo: Gesù si è chinato su di noi, si è fatto nostro servo, e così ci ha salvati, perché anche noi possiamo amarci come Lui ci ha amato, allo stesso modo.