Archive pour le 13 avril, 2016

06 SYNAGOGUE DE GAZA LIONNE ET SON PETIT

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L’ARMONIA FRA FEDE E RAGIONE NELLA SCIENZA – PAPA GIOVANNI PAOLO II

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L’ARMONIA FRA FEDE E RAGIONE NELLA SCIENZA – PAPA GIOVANNI PAOLO II

di Augusto Pessina

«La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità». È questo il magnifico incipit dell’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II che dopo 15 anni (14 settembre 1998) appare di attualità e profondità sorprendenti. Il successivo pontificato di Benedetto XVI ha svolto molti dei punti critici di questa enciclica e anche la Lumen Fidei ha ribadito questa armonia innata tra ragione e fede. Spesso la lettura di questo incipit della enciclica di Giovanni Paolo II è stata fatta in modo asimmetrico e riduttivo esaltando la ragione allo scopo di dare una qualche parvenza di dignità anche alla fede, comunque considerata un’ala più piccola o debole. In realtà la forza della affermazione è nel proporre una questione di metodo che riguarda la natura e la modalità stessa della conoscenza alla quale non si sottrae nemmeno quelle scientifica. La ragione è infatti sempre costretta ad aderire al dato reale “per fiducia” e questo rappresenta anche per lo scienziato il punto di partenza per la successiva verifica critica. Come dice l’enciclica «L’uomo, essere che cerca la verità, è dunque anche colui che vive di credenza. Nel credere ,ciascuno si affida alle conoscenze acquisite da altre persone» (Fiedes et Ratio n 31,32). È questa armonia, misteriosa e anche drammatica perché coinvolge la libertà, a permettere alle due ali quella sinergia che produce forza per il volo. Nessun volo è possibile con una sola ala e quando una delle due ali difetta anche il volo si fa molto difficile. Questa stessa dinamica riguarda anche la ragione e la fede cristiana intesa come riconoscimento della verità rivelata da un testimone. Anche in questo caso «…la fede chiede che il suo oggetto sia compreso con la ragione e la ragione al culmine della sua ricerca ammette come necessario ciò che la fede presenta (Fides et Ratio, n. 42)». La fede dunque, lungi dall’essere una zavorra, è in grado di «provocare la ragione ad uscire da ogni isolamento e rischiare per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa avvocato convinto e convincente della ragione (Fides et Ratio,n.56)». Per questo recita ancora l’enciclica «Quando la ragione è debole , la fede rischia di essere ridotta a mito o superstizione (Fides et Ratio,n. 48)». Il dialogo armonico tra ragione e fede è capace di valorizzare criticamente anche la ricerca scientifica che diventa in questa ottica un grande strumento per una conoscenza più profonda del mistero dell’uomo stesso come 50 anni fa scriveva la Gaudium et Spes: «il gusto per le scienze e la rigorosa fedeltà al vero nella indagine scientifica, la necessità di collaborare con gli altri nei gruppi tecnici specializzati, il senso della solidarietà internazionale, la coscienza sempre più viva della responsabilità degli esperti nell’aiutare e proteggere gli uomini, la volontà di rendere più felici le condizioni di vita per tutti, specialmente per coloro che soffrono per la privazione della responsabilità personale o per la povertà culturale. (Gaudium et Spes, n.57)». Tuttavia se di fronte ai grandi passi della scienza questa dinamica suscita meraviglia, nel contempo essa pone sempre domande che riguardano il bello, il bene e il vero. Quando questa dinamica viene meno, le domande scompaiono e la ragione si confonde. Come sottolinea la Lumen Fidei, descrivendo bene un disagio esistenziale del nostro tempo «quando la luce della ragione non riesce ad illuminare il futuro l’uomo resta abbandonato all’oscurità e alla paura dell’ignoto(Lumen Fidei,n. 3)». Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica aveva messo in guarda da questo rischio quando scriveva «L’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di “alienazione”, nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono esser diretti contro di lui. In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga ed universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire (Redemptor Hominis, n.15)». Oggi questo rischio è presente in certa ricerca della cosiddetta “biomedicina” laddove la persona appare secondaria al mercato, al successo, all’affermazione del potere della tecno-scienza sulla stessa natura umana. In tale panorama questa enciclica è un grande punto di riferimento non solo per chi ha la fede, ma anche per chi ha cuore l’uso corretto e costruttivo della ragione per il bene comune.

PAPA FRANCESCO- 14. MISERICORDIA IO VOGLIO E NON SACRIFICI (MT 9,13)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2016/documents/papa-francesco_20160413_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO- 14. MISERICORDIA IO VOGLIO E NON SACRIFICI (MT 9,13)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 13 aprile 2016

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Abbiamo ascoltato il Vangelo della chiamata di Matteo. Matteo era un “pubblicano”, cioè un esattore delle imposte per conto dell’impero romano, e per questo considerato pubblico peccatore. Ma Gesù lo chiama a seguirlo e a diventare suo discepolo. Matteo accetta, e lo invita a cena a casa sua insieme con i discepoli. Allora sorge una discussione tra i farisei e i discepoli di Gesù per il fatto che questi condividono la mensa con i pubblicani e i peccatori. “Ma tu non puoi andare a casa di questa gente!”, dicevano loro. Gesù, infatti, non li allontana, anzi frequenta le loro case e siede accanto a loro; questo significa che anche loro possono diventare suoi discepoli. Ed è altrettanto vero che essere cristiani non ci rende impeccabili. Come il pubblicano Matteo, ognuno di noi si affida alla grazia del Signore nonostante i propri peccati. Tutti siamo peccatori, tutti abbiamo peccati. Chiamando Matteo, Gesù mostra ai peccatori che non guarda al loro passato, alla condizione sociale, alle convenzioni esteriori, ma piuttosto apre loro un futuro nuovo. Una volta ho sentito un detto bello: “Non c’è santo senza passato e non c’è peccatore senza futuro”. Questo è quello che fa Gesù. Non c’è santo senza passato né peccatore senza futuro. Basta rispondere all’invito con il cuore umile e sincero. La Chiesa non è una comunità di perfetti, ma di discepoli in cammino, che seguono il Signore perché si riconoscono peccatori e bisognosi del suo perdono. La vita cristiana quindi è scuola di umiltà che ci apre alla grazia.

Un tale comportamento non è compreso da chi ha la presunzione di credersi “giusto” e di credersi migliore degli altri. Superbia e orgoglio non permettono di riconoscersi bisognosi di salvezza, anzi, impediscono di vedere il volto misericordioso di Dio e di agire con misericordia. Esse sono un muro. La superbia e l’orgoglio sono un muro che impediscono il rapporto con Dio. Eppure, la missione di Gesù è proprio questa: venire in cerca di ciascuno di noi, per sanare le nostre ferite e chiamarci a seguirlo con amore. Lo dice chiaramente: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (v. 12). Gesù si presenta come un buon medico! Egli annuncia il Regno di Dio, e i segni della sua venuta sono evidenti: Egli risana dalle malattie, libera dalla paura, dalla morte e dal demonio. Innanzi a Gesù nessun peccatore va escluso – nessun peccatore va escluso! – perché il potere risanante di Dio non conosce infermità che non possano essere curate; e questo ci deve dare fiducia e aprire il nostro cuore al Signore perché venga e ci risani. Chiamando i peccatori alla sua mensa, Egli li risana ristabilendoli in quella vocazione che essi credevano perduta e che i farisei hanno dimenticato: quella di invitati al banchetto di Dio. Secondo la profezia di Isaia: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. E si dirà in quel giorno: Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza» (25,6-9).

Se i farisei vedono negli invitati solo dei peccatori e rifiutano di sedersi con loro, Gesù al contrario ricorda loro che anch’essi sono commensali di Dio. In questo modo, sedere a tavola con Gesù significa essere da Lui trasformati e salvati. Nella comunità cristiana la mensa di Gesù è duplice: c’è la mensa della Parola e c’è la mensa dell’Eucaristia (cfr Dei Verbum, 21). Sono questi i farmaci con cui il Medico Divino ci risana e ci nutre. Con il primo – la Parola – Egli si rivela e ci invita a un dialogo fra amici. Gesù non aveva paura di dialogare con i peccatori, i pubblicani, le prostitute… No, lui non aveva paura: amava tutti! La sua Parola penetra in noi e, come un bisturi, opera in profondità per liberarci dal male che si annida nella nostra vita. A volte questa Parola è dolorosa perché incide sulle ipocrisie, smaschera le false scusanti, mette a nudo le verità nascoste; ma nello stesso tempo illumina e purifica, dà forza e speranza, è un ricostituente prezioso nel nostro cammino di fede. L’Eucaristia, da parte sua, ci nutre della stessa vita di Gesù e, come un potentissimo rimedio, in modo misterioso rinnova continuamente la grazia del nostro Battesimo. Accostandoci all’Eucaristia noi ci nutriamo del Corpo e Sangue di Gesù, eppure, venendo in noi, è Gesù che ci unisce al suo Corpo!

Concludendo quel dialogo coi farisei, Gesù ricorda loro una parola del profeta Osea (6,6): «Andate e imparate che cosa vuol dire: misericordia io voglio e non sacrificio» (Mt 9,13). Rivolgendosi al popolo di Israele il profeta lo rimproverava perché le preghiere che innalzava erano parole vuote e incoerenti. Nonostante l’alleanza di Dio e la misericordia, il popolo viveva spesso con una religiosità “di facciata”, senza vivere in profondità il comando del Signore. Ecco perché il profeta insiste: “Misericordia io voglio”, cioè la lealtà di un cuore che riconosce i propri peccati, che si ravvede e torna ad essere fedele all’alleanza con Dio. “E non sacrificio”: senza un cuore pentito ogni azione religiosa è inefficace! Gesù applica questa frase profetica anche alle relazioni umane: quei farisei erano molto religiosi nella forma, ma non erano disposti a condividere la tavola con i pubblicani e i peccatori; non riconoscevano la possibilità di un ravvedimento e perciò di una guarigione; non mettevano al primo posto la misericordia: pur essendo fedeli custodi della Legge, dimostravano di non conoscere il cuore di Dio! È come se a te regalassero un pacchetto con dentro un dono e tu, invece di andare a cercare il dono, guardi soltanto la carta nel quale è incartato: soltanto le apparenze, la forma, e non il nocciolo della grazia, del dono che viene dato! Cari fratelli e sorelle, tutti noi siamo invitati alla mensa del Signore. Facciamo nostro l’invito a sederci accanto a Lui insieme ai suoi discepoli. Impariamo a guardare con misericordia e a riconoscere in ognuno di loro un nostro commensale. Siamo tutti discepoli che hanno bisogno di sperimentare e vivere la parola consolatrice di Gesù. Abbiamo tutti bisogno di nutrirci della misericordia di Dio, perché è da questa fonte che scaturisce la nostra salvezza. Grazie!

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