Christ saves Peter from drowning, in the Church of the Twelve Apostles –

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L’IDENTIKIT DELLA PRIMA LETTERA DI PIETRO
Francesco Bargellini
Nota come la «lettera della speranza», 1Pietro si rivolge a tutti i cristiani per consolare e incoraggiare a stare saldi nelle avversità. Lo sguardo del pastore e la sapienza del teologo si fondono in una sintesi sorprendente. Chi è dunque il suo autore? Il mittente si presenta come «Pietro apostolo di Gesù Cristo» (1,1) e, alla fine, esortando i presbiteri a pascere il gregge di Dio volentieri e con animo generoso, come «co-presbitero (sympresbýteros), testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi» (5,1). Inoltre, nei saluti finali, oltre a Silvano, l’autore menziona Marco come suo «figlio». La più antica tradizione (cf. Papia di Gerapoli) attesta che Marco fu l’interprete di Pietro a Roma e che compose il suo vangelo rielaborando la predicazione dell’apostolo. Dagli Atti e dalla tradizione paolina (cf. Col 4,10; 2Tm 4,11) emerge come una figura di mediazione tra Pietro e Paolo, testimoniando «un cristianesimo capace di integrare tradizioni diverse: quella paolina e quella petrina, e più ampiamente le tradizioni giudaico-palestinesi con quelle sviluppatesi nella diaspora e nella missione ai pagani»[1]. Autore e datazione Di fronte a tutti questi elementi diversi studiosi pensano che l’autore sia l’apostolo Pietro. Lo scritto (presupposto dalla Seconda lettera di Pietro: cf. 2Pt 3,1) sarebbe perciò databile negli anni 60 prima del martirio a Roma. Per altri invece è da attribuire a Silvano (già discepolo di Paolo: 1Ts 1,1; 2Ts 1,1; 2Cor 1,19): come avrebbe potuto un umile pescatore di Galilea scrivere in un greco tanto elegante? Lo confermerebbe la notizia che l’autore dà nei saluti finali: «Vi ho scritto brevemente per mezzo di Salvano» (5,12). Silvano non è un semplice trascrittore delle parole di Pietro, ma un vero autore. In tal caso la lettera andrebbe datata tra la fine degli anni 60 e la conclusione del I secolo. Nei saluti finali si trova un importante indizio per identificare il luogo di composizione della lettera: «Vi saluta la comunità che vive a Babilonia e anche Marco, figlio mio» (5,13). Babilonia è un noto crittogramma, usato da scrittori giudaici e cristiani, per indicare la capitale dell’impero romano (cf. Ap 17,5 dove però Babilonia incarna il male). Tale uso è attestato tra i cristiani solo dopo il 70 d.C., cioè dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme. Per altri, invece, il luogo di composizione è da ricercare in un importante centro dell’Asia Minore, dal momento che la 1Pietro mostra una conoscenza diretta della tribolata situazione di quelle comunità cristiane. L’attribuzione diretta o indiretta della 1Pietro all’apostolo è dunque sostenibile. In particolare, l’ipotesi di Silvano come autore non è affatto da scartare. Tuttavia, una folta schiera di commentatori giudica la 1Pietro uno scritto pseudepigrafico databile dopo il 90: all’epoca di Domiziano (persecuzione del 96) o addirittura di Traiano (persecuzione del 110/111). In genere, però, si indica il decennio compreso tra l’80 e il 90. Anche se non esistono argomenti decisivi pro o contro la paternità petrina, l’impressione generale è che la realtà storica, sociale e religiosa presupposta non sia più quella tipica della prima generazione cristiana. Per questa ragione uno studioso della 1Pietro scrive: Se dunque non può essere tratta alcuna conclusione definitiva, la migliore ipotesi di lavoro è quella che sia opera pseudonima di un autore anonimo il quale, nel tentativo di essere apostolico, attinse alla tradizioni storicamente associate a Simon Pietro. Al di là di questo, l’autore resta per noi ignoto[2]. Si può forse aggiungere che l’autore della 1Pietro è espressione di una comunità petrina di Roma e che parla come interprete di una tradizione vivente. Prestando la voce a Pietro, parla come avrebbe fatto l’apostolo nella mutata realtà storico-sociale in cui i destinatari vivono[3]. Destinatari I destinatari sono indicati all’inizio della 1Pietro come membri della diaspora del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia (1,1). Si tratta di un’estesa area geografica che ricopre la parte settentrionale dell’Asia Minore (l’odierna Turchia), abitata da cristiani convertiti da Paolo o, preferibilmente, evangelizzati da predicatori itineranti oriundi da Gerusalemme[4]. Non è facile precisare condizione sociale e origine etnica dei destinatari della lettera. Le citazioni e le numerose allusioni all’Antico Testamento sembrerebbero favorire la loro provenienza dal mondo giudaico. Diversi indizi depongono però a favore di un’origine pagana, come mostrano gli accenni alla loro condizione profana prima della conversione (cf. 1,14.18; 2,10.25; 4,3-4). Inoltre la sorpresa suscitata dalla persecuzione (cf. 4,12) sarebbe meno comprensibile se i destinatari fossero di origine giudaica. Infine, la familiarità con l’Antico Testamento non è un argomento decisivo, perché tutti i cristiani erano istruiti nelle sacre Scritture e perché le vicende storiche d’Israele (cf. il diluvio come prefigurazione del battesimo: 3,20-21) e le figure bibliche (cf. Sara: 3,5-6) sono applicate alla vita cristiana, segno che la Chiesa ha assunto il ruolo di popolo eletto prima rivestito da Israele. È perciò preferibile pensare che quelle comunità fossero composte da pagani e da ebrei convertiti, anche se la maggioranza doveva essere rappresentata da cristiani provenienti dal mondo pagano. Per delineare la condizione economica e sociale dei destinatari il «codice familiare» di 1Pt 2,18-3,7 rappresenta una preziosa fonte di informazione. Un’attenta lettura di questo codice consente di superare una diffusa convinzione, per la quale le comunità cristiane dell’Asia Minore erano sostanzialmente formate dagli strati più poveri della società, da gente emarginata sul piano sia politico che culturale, probabilmente di estrazione rurale. Tale posizione fa leva su due punti: a un’ampia esortazione agli schiavi non ne corrisponde un’altra simile ai padroni. Inoltre, il fatto che i cristiani siano definiti «stranieri e pellegrini» (v. 2,11) è letto come un richiamo allo status politico dei destinatari prima della conversione. Il limite di questa posizione, oltre che dalla debolezza delle prove, deriva dal fatto che trascura altri dati ricavabili dalla lettera: l’attenzione agli schiavi in 1Pt 2,18-25 non significa che costituissero la maggioranza o che fossero privi di cultura. La stessa qualificazione dei destinatari come «stranieri e pellegrini» non comporta un riferimento alla loro condizione politica antecedente alla conversione. L’autore si rivolge infatti a loro «come stranieri e pellegrini». Si può concludere che le comunità destinatarie della 1Pietro Fossero costituite da persone provenienti dai più vari strati sociali ed economici (…) e dunque ogni tentativo di circoscrivere i destinatari a una sola classe sociale o economica non corrisponde all’effettiva situazione di notevole varietà presente fra loro[5]. Genere letterario e finalità La 1Pietro si presenta a prima vista come una lettera, incorniciata da un prescritto epistolare che indica mittente, destinatari e il consueto saluto (1,1-2) e, alla fine, da un postscritto con i saluti finali di rito da parte della comunità che vive in Babilonia e di Marco e un’invocazione di pace su tutti quanti sono in Cristo (5,12-14). Va aggiunto che, come avviene nelle lettere, idee-chiave enunciate all’inizio sono sviluppate all’interno dello scritto: «eletto» (1,1; cf. 2,4.6.9); «pellegrino» (1,1; cf. 2,11); «obbedienza» (1,2; cf. 1,14.22); «speranza/sperare» (1,3; cf. 1,13.21; 3,5.15); ecc. È sufficiente per dire che è una lettera? Il suo tono impersonale mal si concilia con la caratteristica basilare di una lettera che, per sua natura, suppone una relazione reciproca tra mittente e destinatari. Anche se si tenta di spiegare l’anomalia con i numerosi destinatari, resta il fatto che nella 1Pietro manca ciò che contraddistingue una lettera. Muovendo da questa costatazione e dal taglio parenetico dello scritto (frequenza di imperativi, uso dell’esegesi tipologica, attenzione alla condotta, ecc.), altri studiosi vedono nella 1Pietro un’omelia con una cornice epistolare, confortati dalla dichiarazione dell’autore in 5,12: «Vi ho scritto brevemente per mezzo di Silvano, che io ritengo fratello fedele, per esortarvi e attestarvi che questa è la vera grazia di Dio». Alcuni vanno oltre e, rilevando la presenza di accenni battesimali (cf. 1,23; 2,2; 3,21), sostengono che la 1Pietro è un’omelia battesimale o, addirittura la trascrizione di un rito battesimale in atto o un vero rituale per la celebrazione battesimale durante la veglia pasquale. A questo problema si collega quello dell’unità letteraria: la 1Pietro è uno scritto unitario o combina due scritti indipendenti composti in tempi diversi? I sostenitori di quest’ultima ipotesi fanno notare che la dossologia in 4,11 crea una netta cesura all’interno dello scritto. Inoltre, tra 1,1-4,11 e 4,12-5,11 si notano differenze di contenuto e di accento. Tali osservazioni, però, non sono decisive: lo scritto di 1Pietro è concepito come una «lettera», anche se il materiale in essa contenuto risente della tradizione omiletica, catechistica e liturgica della prima chiesa[6]. È il momento di chiedersi quale sia lo scopo principale della 1Pietro: che cosa si prefigge il suo autore? La presenza di materiale liturgico/omiletico proveniente dalla tradizione (cf. gli inni cristologici in 1,18-21; 2,4-8; 2,21-25; 3,18-22) non implica che la 1Pietro sia un’omelia battesimale. Questo materiale è in realtà usato per motivare delle comunità scoraggiate e “perseguitate”, richiamandole alla loro nuova identità come popolo di Dio e all’eredità di fede e di speranza che deriva dalla redenzione di Cristo. Sentendosi alienati dentro una società diventata per loro estranea e addirittura ostile, questi cristiani sono tentati di fuggire dalla realtà in cui vivono, “emigrando” da quelle istituzioni che li rifiutano sottoponendoli a vessazioni di ogni genere. Di fronte a questo pericolo la lettera risponde che non è strano per i cristiani essere come «stranieri e pellegrini» nel mondo (2,11), perché sono stati eletti da Dio «come edificio spirituale», per essere «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato» (cf. 2,5.9). Questa nuova identità impone ai cristiani di vivere nella società con «una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita» (2,12). In questo senso, i codici domestici nella 1Pietro indicano come tradurre la fede nella vita secondo la condizione sociale di ciascuno. Spicca, in particolare, l’esortazione agli schiavi (chiamati significativamente «familiari»), dove l’autore comanda di sottomettersi ai padroni additando l’esempio di Cristo, che «non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca» (2,22-24). La struttura letteraria La lettera si presenta come una serie di esortazioni che mirano a sostenere la fede e la speranza delle comunità destinatarie con motivazioni di ordine teologico e cristologico, tutte attinte al patrimonio della tradizione. Anche se questa finalità generale dà allo scritto una certa unità, va riconosciuto che tra le singole esortazioni non è individuabile un vero collegamento logico. È per questa ragione che qualcuno indica la successione e lo sviluppo delle esortazioni, rinunciando a una precisa articolazione dello scritto. All’indirizzo-saluto (1,1-2) e al ringraziamento iniziale (1,3-12), infatti, seguono sette esortazioni che accentuano ora l’uno ora l’altro tema. Prima dei consueti saluti alla fine della lettera (5,13-14), l’autore ribadisce lo scopo del suo scritto (5,12). Se si presta però attenzione alle motivazioni teologiche offerte a sostegno della parenesi, è possibile notare la prevalenza della motivazione battesimale all’inizio (1,13-2,10), di quella cristologica nella parte centrale (2,11-3,22/4,11) e di quella escatologica alla fine (4,1/4,11-5,11). Indizi di ordine sia sintattico che lessicale confermano tale divisione: la prima parte (1,3-2,10) è delimitata dalla parola «misericordia», la seconda (2,11-4,11) è aperta dall’appello «carissimi» ed è chiusa dalla dossologia di 4,11 e la terza parte (4,12-5,11) è aperta e chiusa nello stesso modo (cf. 4,12 e 5,11). Indirizzo e saluto iniziale 1,1-2 I. Nuova vita e missione dei rigenerati 1,3-2,10 – Benedizione trinitaria (1,3-12) – Vita d rigenerati (1,13-25) – Pietre vive, sacerdozio regale (2,1-10) II. Condotta nella società pagana 2,11-4,11 – Nella società e in famiglia (2,13-3,12) – Dare ragione della speranza (3,13-22) – Una grande carità (4,1-11) III. Sofferenze e perseveranza nell’attesa 4,12-5,11 – Lieti di soffrire per Cristo (4,12-19) – Codice di comportamento ecclesiale (5,1-5) – Chiamati alla gloria eterna (5,6-11)
Conclusione e saluti finali 5,12-14 Nella prima parte è delineata la vita e la missione nuove di quanti sono stati rigenerati dalla parola di Dio. Questa sezione culmina in 2,10, dove sono contrapposti il passato e il presente dei credenti: Un tempo voi eravate non popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia. Nella seconda parte si indica la condotta che i credenti devono tenere nella società e nella famiglia, per testimoniare con coerenza la loro fede e la loro speranza (cf. 3,15), attirando al vangelo i pagani. Da segnalare il codice familiare in 2,13-3,12: all’interno di una cornice generale, spiccano i rapporti dei servi verso i padroni (2,18-25: cf. la motivazione cristologica), delle mogli verso i mariti (3,1-6: cf. l’esempio di Sara), e viceversa (3,7). La terza parte indica come comportarsi nella «casa/famiglia di Dio» (il termine «chiesa» è assente in 1Pietro): ecco il codice ecclesiale di 5,1-5. L’esortazione a perseverare nell’attesa della salvezza finale chiude la sezione[7].
I rapporti con gli altri scritti del Nuovo Testamento L’autore ricorre spesso agli scritti dell’Antico Testamento, soprattutto il Pentateuco, il profeta Isaia e i Salmi, per confermare le sue affermazioni sul prestabilito piano salvifico di Dio (cf. 1,2.20) e per verificare come i profeti predicessero la passione e la gloria di Cristo, mossi dal suo stesso Spirito. I paralleli si estendono anche agli scritti nel Nuovo Testamento. Con la lettera di Giacomo condivide termini o espressioni identici come: «diaspora» (1,1; cf. Gc 1,1), la gioia nelle prove (1,6-7; cf. Gc 1,2-4), la «rigenerazione mediante la Parola» (1,23; cf. Gc 1,18), il «culto spirituale» (2,5; cf. Gc 1,26-27), ecc. Tale situazione è spiegabile non tanto dalla dipendenza letteraria di 1Pietro da Giacomo, quanto dal fatto che entrambi gli scritti attingono in modo autonomo da una comune tradizione. È comunque con le lettere di Paolo che la lettera mostra i maggiori punti di contatto sia a livello di fraseologia sia a livello di pensiero: ad esempio, «in Cristo» (3,16; 5,10.14), «libertà» (2,16), le sofferenze di Cristo (1,11; 4,13; 5,1), «giustizia» (2,24, 3,14), ecc. Le differenze sono tuttavia più impressionanti: 1Pietro parla di giustizia/giustificazione senza precisare «per fede». Ignora altri temi caratteristici di Paolo come la tensione tra fede e opere, la chiesa come corpo di Cristo, la preesistenza di Cristo. Si può dire che la 1Pietro sia un’opera in gran parte indipendente, non più vicina al pensiero di Paolo o più lontana da esso di quanto Pietro lo sia stato storicamente da Paolo verso la fine delle loro vite (…) 1 e 2 Pt possono essere considerate come un corpo petrino distinto dal molto più esteso corpus paolino[8]. La collocazione tra le «lettere cattoliche» 1Pietro e 1Giovanni rappresentano il nucleo germinale del “corpo” canonico che va sotto il nome di «lettere cattoliche». Sono chiamate così da Eusebio nella Storia ecclesiastica (2,23,25) all’inizio del IV sec. L’ordine di successione nel canone (Gc-1Pt-2Pt-1Gv-2Gv-3Gv-Gd) sembra derivare da un famoso passo della lettera ai Galati, dove le «colonne» della Chiesa di Gerusalemme sono elencate secondo la stessa sequenza: …e riconoscendo la grazia a me data, Giacomo, Cefa [Pietro] e Giovanni, ritenute le colonne, diedero a me e a Barnaba la destra in segno di comunione, perché noi andassimo tra le genti e loro tra i circoncisi (Gal 2,9). Pietro e Giovanni sono gli apostoli più vicini a Gesù, mentre Giacomo e Giuda si presentano come «fratelli del Signore», membri della stretta cerchia familiare di Gesù che avrebbe assunto la guida della Chiesa madre di Gerusalemme. Il rapporto privilegiato di queste figure con il Signore spiega come, in alcuni elenchi della Chiesa occidentale, le lettere loro attribuite si trovino tra gli Atti degli apostoli e le lettere di Paolo. A parte gli indizi rinvenibili nella Prima lettera di Clemente, nella lettera di Policarpo ai Filippesi e in Papia, la 1Pietro comincia a essere esplicitamente testimoniata verso la fine del II secolo da Ireneo e da Clemente di Alessandria. Dal III secolo è inclusa tra gli scritti incontestati del Nuovo Testamento, a differenza della 2Pietro. La strana assenza dal Canone di Muratori potrebbe dipendere dal cattivo stato di conservazione del documento. Le Chiese siriache accettano la 1Pietro dal V secolo uniformandosi così alla posizione comune.
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LA CONVERSIONE DELL’INNOMINATO SPIEGA QUELLA DI MANZONI, DI GIOVANNI FIGHERA
Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /04 /2014 – 2
Riprendiamo dal blog di Giovanni Fighera, La ragione del cuore, un articolo sui Promessi sposi di Alessandro Manzoni (è il quattordicesimo articolo sui Promessi sposi – rimandiamo agli altri del suo blog per ulteriori approfondimenti). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2014)
Non è un ragionamento, ma un incontro che decide dell’esistenza: non un discorso o una morale, ma un affetto e un abbraccio! Manzoni nei Promessi sposi ci descrive la conversione dell’Innominato, a metà del romanzo, in posizione centrale, a testimonianza dell’importanza dell’episodio. Fallito il matrimonio a sorpresa, come abbiamo visto, Lucia e Renzo fuggono da Pescarenico: Lucia trova rifugio in un convento di Monza nella convinzione di trovare quella protezione di cui altrove non potrebbe godere; Renzo si trasferisce a Milano dove ingenuamente si trova coinvolto nei tumulti popolari scaturiti dalla carestia. Don Rodrigo medita il rapimento di Lucia, ma, una volta scoperto il suo nascondiglio pressola Monaca di Monza, comprende che l’unica possibilità per riuscire nell’impresa è ricorrere al sostegno dell’Innominato. Questi è un personaggio realmente esistito. La Marchesa Margherita Provana Di Collegno, che conosceva bene Manzoni, scrive sul suo diario: «Sentii da Manzoni che l’Innominato è un Visconti, ed è personaggio verissimo». L’identificazione più attendibile dell’Innominato sarebbe con Francesco Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Gera d’Adda. Il fatto sorprendente è che Manzoni è un discendente di Bernardino da parte di madre. L’autore de I promessi sposi è, quindi, parente dell’Innominato. Un amico molto stretto di Alessandro Manzoni come Hermes Visconti afferma che lo scrittore, raccontando la conversione dell’Innominato, ha voluto svelare anche il segreto della sua. In sintesi questa è la vita di Francesco Bernardino Visconti. Nato nel 1579 inprovincia di Bergamo, a soli diciassette anni inizia la sua attività criminale insieme con la sua banda, commette numerosi delitti. Contro di lui vengono emesse più grida. Fugge nel cantone dei Grigioni fino a quando ritornerà in Italia stabilendosi nel castello di Chiuso. La conversione avviene durante la visita pastorale di Federigo Borromeo nel lecchese. L’ultima notizia storica dell’Innominato risale al 1647 quando Francesco Bernardino lascia tutta la sua eredità all’oratorio di S. Maria delle Grazie a Bagnolo Cremasco. Una volta ancora, come nel caso della Monaca di Monza, Manzoni cambia considerevolmente la data della vicenda (anticipandola) per trasformare l’Innominato in un protagonista del romanzo. Il vero poetico, potremmo dire, trionfa sul vero storico in due fondamentali deroghe della storia. Nel Fermo e Lucia l’Innominato viene designato con il titolo di Conte del Sagrato in riferimento ad un omicidio avvenuto sul sagrato di una chiesa. Ne I promessi sposi Manzoni sceglie un nome che conferisce al personaggio un’aura di eroicità e di grandezza. L’autore ci descrive con acume psicologico la situazione esistenziale in cui si trova l’Innominato quando Don Rodrigo si reca da lui per chiedere il rapimento di Lucia. Il ribaldo assume su di sé l’impegno senza neppure aver dato all’interlocutore il tempo di spiegare. È un’abitudine al male che lo induce a dire subito sì, ma non appena Don Rodrigo, che neppure conosce, se ne va, inizia a percepire una «cert’uggia», come un fastidio fisico sempre più crescente, come un peso allo stomaco che sempre più si fa sentire, quando non si è digerito eppure si continua a mangiare. Infatti, all’inizio, l’Innominato nei primi tempi che perpetrava i suoi delitti sentiva una sorta di rimorso che cercava di cacciare e che, poi, scomparve. Il cuore, finché non è ancora ottenebrato, oscurato e corrotto funge da criterio di giudizio con cui paragoniamo quanto ci accade e anche, quando ne siamo inconsapevoli, ci dice se quanto facciamo è buono per noi: la cartina di tornasole è, infatti, la letizia, che scaturisce da una corrispondenza tra quanto accade e quanto desidera autenticamente il nostro cuore. Ora, dopo tanti anni di delitti e omicidi, non si riprende la coscienza dell’Innominato ormai annichilita, il suo non è un rimorso di coscienza, ma un peso fisico, come l’evidenza concreta, oggettiva delle sue azioni, che gli stanno tutte davanti e «sono lui», ovvero lo seguono anche se lui ne è inconsapevole. Da tempo, però, l’Innominato iniziava a sentire anche il limite ontologico dell’uomo, la vecchiaia e la morte: quella stessa morte che una volta, quando era giovane, destava in lui sentimenti di lotta e sollecitava ancor più il suo coraggio, ora, invece, gli appare come qualcosa che lo riguarda, lui, singolarmente, e che deve essere affrontata non in campo aperto, ma nel buio della sua camera, come un «giudizio individuale», «una ragione indipendente dall’esempio». Di fronte alla morte si percepisce solo e ancor più solo, perché lui si sente per delitti e sopraffazioni molto più avanti di tutti gli altri. Inoltre, quel Dio che l’Innominato non ha mai negato o affermato, perché lui ha sempre vissuto come se non esistesse, ora gli sembra che gli gridi dentro di sé «Io sono, però», espressione che riecheggia l’ebraico «Iahvé». Una voce gli sembra, infatti, dire: «Fingi e vivi come se io non esistessi, io comunque ci sono e prima o poi con me dovrai fare i conti». Ebbene, in mezzo a questa crisi, giunge al castello dell’Innominato quella Lucia che il collega di ribalderie Egidio, l’amante della Monaca di Monza, ha facilmente fatto rapire. Quella ragazza debole e apparentemente senz’armi appare all’Innominato non certo indifesa. La fede non l’abbandona in questo momento difficile. Di fronte al suo carceriere esclama: «In nome di Dio…», ponendo così un dito nella piaga dell’Innominato che risponde: «Dio, Dio, … sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola. Di farmi…?». Allora Lucia pronuncia quella frase che salverà l’Innominato: «Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!». Anche una semplice frase, un istante possono servire per la nostra salvezza o la salvezza altrui: è il concetto di merito cristiano, per cui non c’è istante che, se offerto a Dio, non possa valere per la salvezza di sé e del mondo. Qui, sarà ben presto evidente che poche parole pronunciate con fede e per fede si stamperanno nella mente sconvolta del ribaldo e nella notte che sta per sopraggiungere lo tratterranno da un folle gesto.