Archive pour février, 2016

M.I. Rupnik – Discesa agli inferi -

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Publié dans:immagini sacre |on 29 février, 2016 |Pas de commentaires »

LA PAROLA COMUNICA MA L’IMMAGINE CORRE

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LA PAROLA COMUNICA MA L’IMMAGINE CORRE

Si è concluso a Padova il convegno « Bibbia e immagini: tradizioni, letture o tradimenti? » organizzato dalle associazioni Biblia e Bibbia aperta. Pubblichiamo stralci della lectio magistralis.

di Timothy Verdon

Intorno alla questione della liceità o meno dell’uso di immagini plastiche o pittoriche per comunicare i contenuti dei testi sacri giudeo-cristiani si sono combattute lunghe e sanguinose guerre. Nel corso dei secoli ci si è chiesto se l’immagine non sia per definizione già « infedele » alla Bibbia, un tradimento del Dio che nella Torah proibì la fabbricazione di idoli e che perfino all’amico Mosè rifiutò di mostrarsi visivamente, spiegando che « l’uomo non può vedermi e vivere ».
Prima di incamminarsi su un terreno così scosceso, è bene però ricordare un fatto ovvio: la stessa comunità di fede che negli ultimi due millenni ha provveduto a diffondere la cultura biblica, la Chiesa cristiana nelle sue molteplici ramificazioni, per la maggior parte di questo tempo ha accettato la liceità delle immagini, considerandole importanti nell’esperienza dei credenti.
Soprattutto nel cristianesimo bizantino, lacerato dalla disputa iconoclasta del primo millennio, rimane profonda la convinzione dell’importanza dell’icona sacra, come suggeriscono le numerose raffigurazioni del trionfo dell’iconodulia nella vita della Chiesa in cui regnanti, prelati e monaci venerano l’icona di Maria odegìtria. Maria odegìtria: colei che, indicando Cristo fisicamente presente nel mondo come « la via », in qualche modo riassume la funzione dell’arte, che indica in termini analogamente fisici Colui che, incarnandosi, è diventato « icona del Dio invisibile », come la lettera ai Colossesi chiama Cristo (Colossesi, 1, 15).
Dall’accettazione delle immagini da parte di molte famiglie di fede cristiana e dalla committenza ufficiale dei grandi progetti nascono poi due conseguenze ermeneutiche: i soggetti biblici, anche se veterotestamentari, vengono normalmente letti prima nell’ottica cristiana e poi specificamente nell’ottica ecclesiale. La preoccupazione di rappresentare il « senso originario » del testo biblico è infatti moderna, non antica.
Certo, il solo fatto di una bimillenaria tradizione iconografica non risolve la questione teologica, riaperta all’interno dello stesso cristianesimo alla Riforma. Tuttavia la tradizione si offre come una componente del dibattito, e conduce a un distinguo essenziale per ogni riflessione sul rapporto tra Bibbia e immagini cristiane: il cristianesimo non è in primo luogo una « religione del libro ». Nel tempo del loro pellegrinaggio terreno, i cristiani si servono di testi sacri ispirati, ma il cristianesimo in realtà crede nel Verbo divino che in Gesù Cristo « si fece carne » (Giovanni, 1, 1.14), e insegna che la carne di Cristo costituisce una via privilegiata verso la salvezza (Ebrei, 10, 20).
« Carnali » e « corporei » sono anche l’immaginario, il linguaggio e la ritualità dei cristiani, i quali concepiscono la comunità come un corpo che « pur essendo uno, ha molte membra (…) tutte le membra, pur essendo molte, sono un solo corpo » (1 Corinzi, 12, 12; cfr. Romani, 12, 4-5), e associano i templi col corpo del salvatore risuscitato dai morti, secondo il suo insegnamento (cfr. Giovanni, 2, 21). Uno scrittore cristiano dei primi secoli, Vincenzo di Lerins, spiega perfino l’elaborazione teologica della fede con la metafora del corpo umano che, pur rimanendo se stesso, cresce dall’infanzia all’età matura.
Data quest’enfasi corporea, non stupisce che il cristianesimo abbia fatto ampio uso delle arti, servendosi di riti, canti, poesia, pittura e architettura come di un « catechismo ».
Si tratta di strumenti che, da una parte – nell’appello sensorio – sono connaturati all’annuncio di un Verbo incarnato, mentre dall’altra – nella loro trasfigurazione del dato materico – esaltano la vocazione spirituale della materia. Soprattutto l’arte visiva è servita a questi scopi: i mosaici e dipinti murali o su tavola o tela, le sculture in bronzo, pietra o legno che popolano le chiese cristiane anche quando i riti finiscono e cessano i canti.
Tale preminenza del visivo chiosa una precisa lettura degli scritti sacri giudeo-cristiani, che similmente caratterizzano l’anelito verso Dio in termini di visio. Sia l’Antico che il Nuovo Testamento sottolineano, voglio dire, l’umana brama di vedere Dio senza mediazioni: « Mostrami la tua gloria! », Mosé gli chiese, rimanendo tuttavia deluso quando l’Altissimo rispose: « Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restar vivo » (Esodo, 33, 18.20).
Nel sistema di fede cristiano, questa brama di vedere Dio viene finalmente soddisfatta nella persona di Cristo stesso, e all’affermazione « il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi »; « chi vede me vede Colui che mi ha mandato » e « chi ha visto me ha visto il Padre » (Giovanni, 12, 45 e 14, 9), e un altro scritto giovanneo afferma che in lui, Cristo, « la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi » (1 Giovanni, 1, 2) – visibilità, questa, sintetizzata nel già citato testo paolino che asserisce che Cristo « è l’icona (l’immagine) del Dio invisibile » (Colossesi, 1, 15).
Riassumendo questi passi scritturistici, un padre della Chiesa, san Giovanni Damasceno, spiegherà l’uso cristiano delle immagini dicendo che « un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico (…), ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un’immagine di quanto è stato visto di Dio ».
Scrivendo nel contesto dell’interdizione delle immagini da parte dell’imperatore di Bisanzio, l’iconoclasta Leone iii nel 730, questo autore – nato cristiano in una Damasco già allora sotto controllo musulmano – riafferma il nesso tra l’Incarnazione del Verbo e l’uso delle immagini, soprattutto quelle che raffigurano Cristo stesso.
L’affermazione teologica che in Gesù Cristo « il Verbo si fece carne » appartiene a uno solo dei vangeli, quello di Giovanni, considerato l’ultimo nell’ordine di stesura (cfr. Giovanni, 1, 14). Ma la realtà percepibile, quasi palpabile, in tutti e quattro i testi evangelici è di un messaggio verbale così concreto e incisivo da diventare, nella vita dell’ascoltatore o lettore, presenza personale. Soprattutto la figura dello stesso Gesù emerge dalle pagine del Nuovo Testamento con forza, toccando l’immaginario umano in un modo nuovo, vitale e illuminante, come precisa ancora il vangelo giovanneo, affermando che « in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini » (Giovanni, 1, 4). Un altro testo giovanneo aggiunge che nell’incarnazione del Verbo « la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza » (1 Giovanni, 1, 2), lasciando capire che questa presenza di Cristo nei vangeli non è solo un fatto intellettuale – un’intuizione etica o morale – bensì l’esperienza visiva di una persona che vuole essere vista.
Ecco perché, trattando del compito di testimoniare oggi Colui che è visibile nei vangeli, Giovanni Paolo II parlava della « immagine del Cristo docente, maestosa insieme e familiare, impressionante e rassicurante (…) disegnata dalla penna degli evangelisti e spesso evocata in seguito dall’iconografia sin dall’età paleocristiana, tanto è seducente » (Catechesi tradendae, 1).
Come suggeriscono le parole « in seguito » nel testo di Giovani Paolo II, il passaggio da un’immagine letteraria « disegnata dagli evangelisti » a immagini pittoriche e plastiche ha richiesto molto tempo: infatti fu solo nel iv-v secolo che l’arte cristiana riuscì a definire un linguaggio tutto suo, svincolato dal sistema formale dell’arte classica. Per la tradizione popolare, invece, le due realtà – l’immagine letteraria e quella artistica – sarebbero nate insieme, almeno nel caso di uno degli evangelisti, Luca, il quale (secondo la tradizione) era pittore.
È questo il senso della tela del maestro cretese emigrato in Spagna nel 1576, Domenico Theotocopoulos noto come El Greco, in cui il libro che l’evangelista ci mostra è adorno di un’immagine a tutta pagina della Madonna col Bambino. Il santo ha in mano un pennello, non una penna da scrivano, e l’immagine, posta a destra dell’apertura, in effetti attira l’attenzione più della pagina scritta, a sinistra: leggiamo da sinistra a destra, e così qui l’immagine diventa in qualche modo la « meta » della nostra lettura, come se, leggendo, le parole si fossero « incarnate » davanti ai nostri occhi!
All’epoca dell’esecuzione della tela poi – come del resto oggi – la consuetudine editoriale era di situare eventuali illustrazioni a sinistra, non a destra del testo, così che l’inversione di questa prassi sottolinea l’importanza dell’immagine, in qualche modo maggiore dello stesso testo. Nel suo Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica pubblicato nel 2005, il cardinale Joseph Ratzinger, considerando il potenziale pastorale delle immagini, ipotizzava che « oggi più che mai, nella civiltà dell’immagine, l’immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico ».
L’idea che in ultima analisi l’immagine sia più pregnante che il testo scritto è antica nel cristianesimo, che considera la Bibbia un’espressione temporanea e parziale di qualcosa che in cielo si conoscerà meglio mediante la contemplazione diretta di Dio, la visio beatifica.
La parola elabora un pensiero complesso per una serie di passaggi logici che richiedono tempo e spazio, in cui facilmente s’indeboliscono l’attenzione e la capacità analitica dell’ascoltatore o lettore; l’immagine invece comunica con immediatezza e drammaticità. Per far capire che « l’unico scopo del Figlio di Dio nel nascere era di rendere possibile la crocifissione », l’anonimo autore della cosiddetta « Croce di Pasquale I » ha sistemato una serie d’immagini relative all’incarnazione, nascita e infanzia di Gesù su un supporto cruciforme.
Questo spettacolare oggetto conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana è un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d’oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del ix secolo. Il programma iconografico è focalizzato sul mistero natalizio, organizzandone i sette episodi maggiori nei bracci e al centro della croce, così che l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto e il Battesimo di Cristo sono messe in rapporto alla futura morte del Salvatore!
Ma c’è di più, perché ciò che abbiamo chiamato « croce » è in verità una stauroteca – un contenitore per frammenti della vera croce – e così l’impatto dell’oggetto non era solo intellettuale ma anche viscerale: sapendo che l’oggetto cruciforme conteneva il legno su cui Cristo era morto, il credente contemplava queste scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla Natività stessa, col bambino in una mangiatoia allusiva alla futura offerta del piccolo corpo come alimento.
L’allusione scritturistica è facilmente decifrabile: la Croce di Pasquale i è infatti una sintesi visiva del passo della Lettera agli Ebrei (10, 5-10), dove l’autore afferma che « entrando nel mondo, Cristo dice (al Padre): Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… allora ho detto: « Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà »"; l’autore precisa infine che « mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo ».
L’immagine comunica tutto questo con la sola giustapposizione della croce e la natività.

(L’Osservatore Romano 18-19 maggio 2009 2009)

LA LUCE, UN SIMBOLO RELIGIOSO TRA IMMANENZA E TRASCENDENZA – GIANFRANCO RAVASI

http://www.cultura.va/content/cultura/it/organico/cardinale-presidente/texts/lux.html

In occasione della cerimonia d’apertura, Anno Internazionale della Luce, UNESCO 19 gennaio 2015

LA LUCE, UN SIMBOLO RELIGIOSO TRA IMMANENZA E TRASCENDENZA – GIANFRANCO RAVASI

La luce, archetipo simbolico universale
In tutte le civiltà la luce passa da fenomeno fisico ad archetipo simbolico, dotato di uno sterminato spettro di iridescenze metaforiche, soprattutto di qualità religiosa. La connessione primaria è di natura cosmologica: l’ingresso della luce segna l’incipit assoluto del creato nel suo essere ed esistere. Emblematico è l’avvio stesso della Bibbia, che è pur sempre il “grande codice” della cultura occidentale: Wayy’omer ʼelohȋm: Yehȋ ʼôr. Wayyehȋ ʼôr, «Dio disse: “Sia la luce!” e la luce fu!» (Genesi 1,3). Un evento sonoro divino, una sorta di Big bang trascendente, genera un’epifania luminosa: si squarcia, così, il silenzio e la tenebra del nulla per far sbocciare la creazione.
Anche nell’antica cultura egizia l’irradiarsi della luce accompagna la prima alba cosmica, segnata da una grande ninfea che esce dalle acque primordiali generando il sole. Sarà soprattutto questo astro a diventare il cuore stesso della teologia dell’Egitto faraonico, in particolare con le divinità solari Amon e Aton. Quest’ultimo dio, con Amenofis IV-Akhnaton (XIV sec. a. C.), diventerà il centro di una specie di riforma monoteistica, cantata dallo stesso faraone in uno splendido Inno ad Aton, il disco solare: tale riforma, però, passerà come una meteora di breve durata nel cielo del tradizionale politeismo solare egizio.
Similmente l’arcaica teologia indiana dei Rig-Veda considerava la divinità creatrice Prajapati come un suono primordiale che esplodeva in una miriade di luci, di creature, di armonie. Non per nulla, in un altro movimento religioso originatosi in quella stessa terra, il suo grande fondatore assumerà il titolo sacrale di Buddha, che significa appunto “l’Illuminato”. E, per giungere in epoche storiche più vicine a noi, anche l’Islam sceglierà la luce come simbolo teologico, tant’è vero che un’intera “sura” del Corano, la XXIV, sarà intitolata An-nûr, “la Luce”. Al suo interno un versetto sarà destinato a un enorme successo e ad un’intensa esegesi allegorica nella tradizione “sufi” (in particolare col pensatore mistico al-Ghazali nell’XI-XII sec.).
È il verso 35 che suona così: «Dio è luce in cielo e sulla terra. La sua luce è come quella di una lampada collocata in una nicchia. La lampada è rinchiusa in un cristallo, è come una stella dallo splendore abbagliante ed è accesa dall’olio di un ulivo benedetto … Luce su luce è Dio. Egli guida chi ama verso la sua luce». Si potrebbe continuare a lungo in questa esemplificazione passando attraverso le molteplici espressioni culturali e religiose di Oriente e di Occidente che adottano come cardine teologico un dato che è alla radice della comune esperienza esistenziale umana. La vita, infatti, è un “venire alla luce” (come in molte lingue è definita la nascita), ed è un vivere alla luce del sole o guidati nella notte dalla luce della luna e delle stelle.
La luce come simbolo “teo-logico”
Dati anche i limiti della nostra analisi, noi ora ci accontenteremo di due sole osservazioni essenziali, destinate soltanto a far intuire la complessità dell’elaborazione simbolica edificata su questa realtà cosmica. Da un lato approfondiremo la qualità “teo-logica” della luce per cui essa è un’analogia per parlare di Dio; dall’altro lato, esamineremo la dialettica luce-tenebre nel suo valore morale e spirituale. Avremo come punto di riferimento esemplificativo la Bibbia che ha generato per la cultura occidentale un “lessico” ideologico e iconografico fondamentale. Essa può offrirci un paradigma sistematico esemplare generale, dotato di una coerenza interna significativa. Le Scritture ebraico-cristiane sono state, per altro, un rimando culturale capitale per interi secoli, come riconosceva un testimone ineccepibile e alternativo come il filosofo Friederich Nietzsche: «Tra ciò che noi proviamo alla lettura di Pindaro o di Petrarca e a quella dei Salmi biblici c’è la stessa differenza tra la terra straniera e la patria» (“materiali preparatori” per Aurora).
A differenza di altre civiltà che, in modo semplificato, identificano la luce (soprattutto solare), con la stessa divinità, la Bibbia introduce una distinzione significativa: la luce non è Dio, ma Dio è luce. Si esclude, perciò, un aspetto realistico panteistico, e si introduce una prospettiva simbolica che conserva la trascendenza, pur affermando una presenza della divinità nella luce che rimane, però, “opera delle sue mani”. Si devono intendere così le affermazioni che costellano gli scritti neotestamentari attribuiti all’evangelista Giovanni. In essi si dichiara: ho Theòs phôs estín, “Dio è luce” (1Giovanni 1,5). Cristo stesso si auto presenta così: egô eímì to phôs tou kósmou, “io sono la luce del mondo” (Giovanni 8,12). In questa linea va quel capolavoro letterario e teologico che è l’inno che apre il Vangelo di Giovanni ove il Lógos, il Verbo-Cristo, è presentato come «luce vera che illumina ogni uomo» (1,9).
Quest’ultima espressione è significativa. La luce viene assunta come simbolo della rivelazione di Dio e della sua presenza nella storia. Da un lato, Dio è trascendente e ciò viene espresso dal fatto che la luce è esterna a noi, ci precede, ci eccede, ci supera. Dio, però, è anche presente e attivo nella creazione e nella storia umana, mostrandosi immanente, e questo è illustrato dal fatto che la luce ci avvolge, ci specifica, ci riscalda, ci pervade. Per questo anche il fedele diventa luminoso: si pensi al volto di Mosè irradiato di luce, dopo essere stato in dialogo con Dio sulla vetta del Sinai (Esodo 34,33-35). Anche il fedele giusto diventa sorgente di luce, una volta che si è lasciato avvolgere dalla luce divina, come afferma Gesù nel suo celebre “discorso della Montagna”: «Voi siete la luce del mondo … Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini» (Matteo 5,14.16).
Sempre in questa linea, se la tradizione pitagorica immaginava che le anime dei giusti defunti si trasformassero nelle stelle della Via lattea, il libro biblico di Daniele assume forse questa intuizione ma la libera dal suo realismo immanentista trasformandola in una metafora etico-escatologica: «I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (12,3). E nel cristianesimo romano dei primi secoli – dopo che si era scelta la data del 25 dicembre per il Natale di Cristo (quella data era la festa pagana del dio Sole, nel solstizio d’inverno che segnava l’inizio dell’ascesa della luce, prima umiliata dall’oscurità invernale) – si inizierà nelle iscrizioni sepolcrali a definire il cristiano là sepolto come eliópais, «figlio del Sole». La luce che irradiava Cristo-Sole era, così, destinata ad avvolgere anche il cristiano.
Anzi, nella successiva tradizione cristiana, si stabilirà una sorta di sistema solare teologico: Cristo è il sole; la Chiesa è la luna, che brilla di luce riflessa; i cristiani sono astri, non dotati però di luce propria ma illuminati dalla luce suprema celeste. Che si tratti di una visione squisitamente simbolica destinata ad esaltare la rivelazione e la comunione tra la trascendenza divina e la realtà storica umana appare evidente in un passo sorprendente ma coerente dell’ultimo libro biblico, l’Apocalisse, ove nella descrizione della città ideale del futuro escatologico perfetto, la Gerusalemme nuova e celeste, si proclama: «Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà» (22,5). La comunione dell’umanità con Dio sarà allora piena e ogni simbolo decadrà per lasciare spazio alla verità dell’incontro diretto.
La dialettica luce-tenebre
È interessante notare che nel testo citato si fa menzione della fine della notte e, quindi, del ritmo circadiano. È questo un tópos caratteristico dell’escatologia (cioè della fine dei tempi), come si legge nel libro del profeta Zaccaria il quale, quando descrive l’approdo finale della storia, lo raffigura come «un unico giorno: non ci sarà più né giorno né notte, e verso sera risplenderà di nuovo la luce» (14,7). Ora, nella vicenda storica quel ritmo quotidiano tra luce e oscurità permane, e diventa anch’esso un segno di natura etico-metafisica. Intendiamo parlare della dialettica luce-tenebre che appare già nel testo sopra citato del libro della Genesi. L’atto creativo divino, espresso attraverso l’immagine della “separazione” mette ordine nel “disordine” del nulla: «Dio vide che la luce era cosa buona/bella e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte» (Genesi 1,4-5).
Significativa è la definizione della luce come realtà tôb, un aggettivo ebraico che è contemporaneamente etico-estetico-pratico e, perciò, designa qualcosa che è buono, bello e utile. Per contrasto, allora, la tenebra è la negazione dell’essere, della vita, del bene, della verità. Per questa ragione, mentre lo zenit paradisiaco è immerso nello splendore della luce, il nadir infernale è avvolto dall’oscurità, come si legge nel libro biblico di Giobbe ove gli inferi sono descritti come «il paese delle tenebre e delle ombre mortali, il paese della caligine e dell’opacità, della notte e del caos, in cui la stessa luce è tenebra fonda» (10,21-22).
Per lo stesso motivo l’antitesi luce-tenebre si trasforma in un paradigma morale e spirituale. È ciò che appare in molte culture e che ha un suo apice nel citato inno-prologo del Vangelo di Giovanni ove la luce del Verbo divino «splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (1,5). E più avanti, nello stesso quarto Vangelo, si legge: «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che non la luce … Chi fa il male odia la luce e non viene alla luce … Chi fa la verità viene invece verso la luce» (Giovanni 3,19-21). Anche nella comunità giudaica attiva dal I sec. a. C. in avanti, scoperta a Qumran lungo le sponde occidentali del mar Morto, un testo descrive «la guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre», seguendo un modulo simbolico costante per definire il contrasto tra bene e male, tra eletti e reprobi.
Questo dualismo si riflette anche nell’opposizione angeli-demoni o nei principi antitetici yang-yin, nelle divinità in lotta tra loro come il Marduk creatore e la Tiamat distruttrice le divinità delle cosmogonie babilonesi, o come Ormuzd (o Ahura Mazdah) e Ahriman della religione persiana mazdeista o come Deva e Ashura nel mondo indiano. La stessa dialettica acquista una nuova forma nell’orizzonte mistico, quando si introduce il tema della “notte oscura”, perlustrata da un grande autore mistico e poetico del Cinquecento spagnolo, san Giovanni della Croce. In questo caso il tormento, la prova e l’attesa della notte dello spirito è come un grembo fecondo che prelude alla generazione della luce della rivelazione e dell’incontro con Dio.
In sintesi potremmo condividere l’affermazione di Ariel nel Faust di Goethe: Welch Getöse bringt das Licht!, «Quale tumulto porta la luce!» (II, atto I, v. 4671). Essa è, infatti, un segno glorioso e vitale, è una metafora sacra e trascendente, ma non è inoffensiva perché genera tensione col suo opposto, la tenebra, trasformandosi in simbolo della lotta morale ed esistenziale. La sua irradiazione, quindi, dal cosmo trapassa nella storia, dall’infinito scende nel finito ed è per questo che l’umanità anela alla luce, come nel grido finale che si attribuisce allo stesso Goethe, Mehr Licht!, “più luce!”: in senso fisico a causa del velarsi degli occhi nell’agonia, ma anche in senso esistenziale e spirituale di anelito a un’epifania suprema di luce. È quello che invocava l’antico poeta ebreo dei Salmi: «È in te, o Dio, la sorgente della vita, alla tua luce vedremo la luce!» (Salmo 36,10).

 

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 29 février, 2016 |Pas de commentaires »

Chagall, Mosé ed il roveto ardente

Chagall, Mosé ed il roveto ardente dans immagini sacre

https://bibleartists.wordpress.com/2011/01/29/the-burning-bush/

Publié dans:immagini sacre |on 26 février, 2016 |Pas de commentaires »

ESODO 3,1-8A.13-15 – COMMENTO BIBLICO

http://nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=216

ESODO 3,1-8A.13-15 – COMMENTO BIBLICO

1 In quei giorni, Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. 2 L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. 3 Mosè pensò: « Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia? ». 4 Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: « Mosè, Mosè! ». Rispose: « Eccomi! ». 5 Riprese: « Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa! ». 6 E disse: « Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe ». Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio. 7 Il Signore disse: « Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. 8 Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele. 13 Mosè disse a Dio: « Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro? ». 14 Dio disse a Mosè: « Io sono colui che sono! ». Poi disse: « Dirai agli Israeliti: « Io-Sono » mi ha mandato a voi ». 15 Dio aggiunse a Mosè: « Dirai agli Israeliti: il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione ».

COMMENTO Esodo 3,1-8a.13-15 La vocazione di Mosè Nella prima parte dell’Esodo si narra che i figli di Israele, arrivati nel paese del Nilo come un piccolo clan in cerca di rifugio a causa di una carestia, si sono moltiplicati e i loro discendenti sono stati sottoposti dai faraoni a duri lavori (Es 1). Dio allora salva Mosè dalle acque e lo chiama, conferendogli l’incarico di liberare il popolo (Es 2,1-7,7); dopo una serie di piaghe dolorose inflitte da Dio agli egiziani (Es 7,8-13,16), gli israeliti escono dall’Egitto e giungono nelle vicinanze del monte Sinai (Es 13,17-18,27). Il secondo periodo di spostamenti nel deserto è narrato in Nm 11-36. L’intervento divino in favore del popolo oppresso ha inizio con la vocazione di Mosè (Es 3,1-15). Questo episodio, narrato con materiale tradizionale, è modellato secondo lo schema tipico delle vocazioni bibliche: apparizione divina, missione, obiezione del pre­scelto, conferimento di un segno (cfr. Gdc 6,11-24; 13,1-25).

La visione di Mosè (vv. 1-12) Mosè attraversa il deserto con il gregge del suocero, che qui viene chiamato Ietro (cfr. Es 18,1), e giunge al «monte di Dio»: questo appellativo deriva dal fatto che qui avrà luogo la teofania, ma è possibile che già precedentemente vi fosse un santuario dedicato a qualche divinità. Il monte è chiamato Oreb secondo l’uso soprattutto del Deuteronomio, mentre altre tradizioni usano il nome Sinai. Qui Mosè vede un roveto che arde senza consumarsi e, in mezzo a esso, gli appare «l’angelo (mal<ak) di JHWH», espressione con cui si designa il Dio trascendente in quanto agisce in questo mondo (cfr. Es 23,20). Quando Mosè, attratto dalla visione, si avvicina al roveto per guardare, è Dio stesso che lo chiama per nome. Egli risponde: «Eccomi». Dio allora gli dice: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (v. 5). L’atto di togliersi i sandali è un segno di rispetto, universalmente diffuso in Oriente, a cui tutti sono tenuti quando entrano nella sfera del sacro. È possibile che in questo racconto sia conservata un’antica leggenda che spiegava l’origine del santuario situato nel monte di Dio. Ma ora colui che si presenta a Mosè è il Dio dei padri, che gli comunica di aver udito il grido degli israeliti oppressi dagli egiziani e di aver deciso di mandarlo dal faraone per imporgli di lasciar uscire il suo popolo, gli israeliti. La prima reazione di Mosè è quella di velarsi il volto, in ossequio all’idea biblica secondo cui chi vede Dio deve morire (v. 6). Egli presenta poi le sue obiezioni: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli israeliti?». Dio allora lo rassicura e gli dà un segno: «Quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte» (vv. 7-12). Il nome divino (vv. 13-15) Il racconto prosegue con la rivelazione del nome divino  che, secondo i sostenitori dell’ipotesi documentaria, porta il marchio specifico della tradizione elohista. Siccome il segno promesso da Dio vale solo per le generazioni successive, Mosè presenta un’ulteriore richiesta: quando arriverà dagli israeliti e dirà loro che il Dio dei loro padri l’ha mandato, essi gli chiederanno: «Qual è il suo nome?», che cosa dovrà rispondere? (v. 13). La necessità di sapere il nome di Dio è comprensibile in un ambiente politeistico, nel quale ogni divinità si distingue dalle altre mediante un suo nome proprio; la tradizione lascia supporre che, prima dell’esodo dall’Egitto, gli israeliti, pur adorando il Dio dei padri, non ne conoscessero il vero nome, anche se questo, secondo altri testi, era noto fin dalla creazione (cfr. Gn 4,26). Per gli israeliti, così come in genere per gli antichi semiti, il nome non è puramente convenzionale, ma esprime, e in qualche modo contiene, la potenza vitale di chi lo porta. L’attesa degli israeliti, di cui Mosè si fa interprete, è perciò ambigua: in quanto implica il desiderio di entrare in un rapporto personale con Dio (culto) essa è legittima, ma diventa inaccettabile nella misura in cui contiene la pretesa superstiziosa di catturare la potenza divina per servirsene a proprio uso e consumo (magia). L’interpretazione del nome divino presenta numerose difficoltà. Anzitutto non è sicuro il modo preciso in cui esso si legge. Gli israeliti infatti, per eccesso di rispetto, a un certo punto della loro storia non lo hanno più pronunziato, e al suo posto hanno letto ’Adonaj, che significa Signore (in greco Kyrios). Siccome l’ebraico, come tutte le lingue semitiche, è scritto con le sole consonanti, di questo nome sono rimaste sole quattro lettere (J H W H), e di conseguenza esso è spesso chiamato il «sacro tetragramma». Quando nel testo ebraico sono state indicate, mediante lineette e puntini, le vocali, sotto queste quattro lettere sono state poste, per comodità del lettore, le vocali del nome ‘Adonaj. Leggendo le consonanti del nome divino con le vocali di ‘Adonaj si è avuto il nome «Jehova» (Geova), usato dai cristiani fino a qualche decennio fa: in realtà, questo nome è frutto di un’errata lettura del sacro tetragramma. La lettura moderna (Jahweh) è una ricostruzione scientifica del modo in cui originariamente era pronunziato il nome divino: essa si basa su vari indizi, quali le regole semantiche ebraiche, la pronunzia dei nomi biblici che contengono l’elemento divino, i reperti archeologici e le antiche traduzioni. Dal punto di vista storico, si è avanzata l’ipotesi che il nome JHWH  fosse utilizzato proprio dai madianiti, con i quali Mosè è venuto a contatto durante il suo esilio, ma ciò è difficilmente dimostrabile. Comunque è ormai certo che esso fosse noto nell’area medio-orientale già prima di Mosè, in quanto sembra attestato nei testi di Ugarit, nei nomi propri amorrei e, da ultimo, nei testi di Ebla del 3° millennio a.C. In questo nome, di cui non si sa quando sia entrato effettivamente nella vita religiosa di Israele, la tradizione ha visto la descrizione più esauriente della natura profonda del Dio dell’al­leanza. Questa intuizione è stata espressa mediante un’etimologia popolare, cioè presentando il nome divino come terza persona singolare del verbo «essere», che al futuro è abbastanza simile a esso (jihjeh). Naturalmente, sulla bocca di Dio il nome è espresso alla prima persona singolare e per di più è stranamente raddoppiato: «Io sono (sarò) colui che sono (sarò)» (‘ehjeh ‘asher ‘ehjeh). Questa formula è stata interpretata in modi diversi, perché in ebraico il tempo futuro può esprimere in certi casi anche il presente e l’imperfetto. In greco essa è stata tradotta «Io sono l’Ente», dando così adito a una interpretazione di tipo filosofico: Dio è l’essere pieno e infinito, che dà l’esistenza a tutte le cose senza dipendere da esse. Alcuni studiosi, invece, l’hanno tradotta «io sono quello che sarò», e vi hanno visto un riferimento all’eternità divina. Altri ancora vi hanno letto un’allusione al fatto che solo Dio può dare la vita («Io sono colui che fa essere»). Secondo la maggior parte degli studiosi moderni, ambedue i verbi della formula sono al presente e si spiegano tenendo conto del fatto che in ebraico il verbo «essere» non indica un semplice «sussistere» ma un «essere con», in senso attivo e dinamico. Perciò l’espressione «Io-sono» indica direttamente la propensione divina a essere presente accanto al popolo in vista della sua liberazione. Collegando il nome divino con il verbo «essere», si è dunque inteso affermare che la vera «natura» di Dio consiste nel volere la salvezza del suo popolo, e nell’essere capace di realizzarla intervenendo potentemente in suo favore. Il fatto che l’espressione «Io sono» sia raddoppiata si spiega alla luce di un testo parallelo in cui Dio afferma di se stesso: «Farò grazia a chi farò grazia» (Es 34,19). In questo testo la ripetizione del verbo sottolinea l’assoluta libertà con cui interviene per liberare Israele, senza esservi costretto da alcuno. Nello stesso modo quando rivela il proprio nome a Mosè, Dio lo mette in guardia contro ogni tentativo di strumentalizzarlo per scopi magici: nessuno può servirsi indebitamente del suo nome, e quindi della sua potenza straordinaria, per ottenere vantaggi di qualsiasi tipo. Linee interpretative La tradizione ha situato di proposito la rivelazione del nome divino nel contesto dell’esodo, affinché fosse chiaro che esso rappresenta la più significativa manifestazione di ciò che effettivamente JHWH ha dimostrato di essere per Israele, cioè il «Dio con noi» (cfr. Is 7,14); ma al tempo stesso ha sottolineato che egli resta l’Essere trascendente di cui nessuno potrà mai servirsi per i propri scopi egoistici. Il nome divino diventa così la sintesi più completa del progetto di liberazione che gli esuli ritornati da Babilonia si erano prefissi, sulla linea di quanto le tradizioni anteriori attribuivano a Mosè. Questo stretto collegamento di Dio con il popolo di Israele è il “dogma” fondamentale della religione biblica. L’interpretazione del nome divino in chiave di alleanza porta inevitabilmente con sé il rischio di un esclusivismo nei confronti degli altri popoli. Questo rischio è stato parzialmente superato con la concezione di JHWH come creatore di tutto il cosmo e di tutta l’umanità e con quella di un compimento escatologico al quale tutte le nazioni sono chiamate. Dio è presente in tutta l’umanità e la conduce a un fine di salvezza. Il suo nome rappresenta una garanzia che Dio non verrà mai meno al suo progetto di salvezza che non può non abbracciare tutti. Ma è stato soltanto il cristianesimo che ha messo pienamente in luce la dimensione universalistica della religione biblica.

28 FEBBRAIO 2016 | 3A DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C | OMELIA

28 FEBBRAIO 2016 | 3A DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C | OMELIA

LA CONVERSIONE

Per cominciare La terza domenica di quaresima offre l’occasione di un serio esame di coscienza. La quaresima ci è arrivata addosso quasi all’improvviso, dopo l’allegria spensierata del carnevale. Oggi, giunti alla terza settimana, possiamo fare il punto sulla nostra vita, per domandarci se abbiamo iniziato quel cammino di conversione a cui siamo chiamati in questo tempo quaresimale.

La parola di Dio Esodo 3,1-8a.13-15. È il celebre primo incontro di Mosè con Iahvè nel roveto ardente. « Togli i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo! ». Dio si rivela: Iahvè è un Dio vicino, un Dio che agisce nella storia e salva. 1 Corinzi 10,1-6.10-12. L’esperienza del deserto per gli ebrei non ha avuto un esito positivo. Sono stati liberati e hanno stretto l’alleanza con Iahvè, ma « la maggior parte di loro non furono graditi a Dio ». Così, dice Paolo, è di ogni cristiano che si ritiene giusto solo perché si è sottoposto al rito del battesimo. È necessaria la conversione del cuore. Ci ammonisca, dice Paolo, quel che è avvenuto per gli ebrei nel deserto: la loro tragica conclusione ci serva di ammonimento, sia di esempio per noi. Luca 13,1-9. A Gesù parlano di due tragici fatti di cronaca. La gente è turbata e dubbiosa. Ma Gesù dice: la morte che ha ghermito altri e spesso ha sfiorato anche te dovrebbe spingerti a verificare meglio la tua posizione nei confronti della vita e di Dio.

Riflettere La liturgia ci propone nella prima lettura uno degli episodi centrali della storia della salvezza. Dio si rivela a Mosè e lo sceglie per il liberare il suo popolo che è schiavo in terra di Egitto. Accolti da Giuseppe, gli ebrei in quel paese « prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto forti e il paese ne fu pieno » (Es 1,7). Con il passare del tempo però i faraoni si dimenticarono di Giuseppe e dopo 430 anni l’intero popolo degli ebrei si trovava ridotto in schiavitù. Mosè è costretto alla fuga per aver difeso un suo connazionale e si è rifugiato nel deserto di Madiam. Si è rifatto una vita, è diventato un modesto allevatore. È un uomo sconfitto e umile, « non è un buon parlatore » (Es 4,10). Eppure Dio sceglie lui per quest’impresa sensazionale: liberare il popolo dei discendenti di Abramo e trasferirli nella terra promessa. Iahvè si rivela a Mosè in un roveto che brucia e non si consuma. È un Dio che prova compassione, che interviene e libera. Le sue parole hanno il tono di chi vuole agire e compromettersi. Lo dicono le sue parole: « Ho osservato », « Ho udito », « Conosco », « Sono sceso per liberarlo ». Gli rivela anche il suo nome, mettendosi in qualche modo nelle sue mani: « Io sono colui che è ». Si tratta di un verbo, la cui radice hwh significa « essere », « far essere ». Ma come si legge nella seconda lettura e come denuncia Paolo, il popolo ebraico non risponderà positivamente a questa iniziativa di liberazione, e nessuno di quelli che hanno lasciato l’Egitto entrerà nella terra promessa. Questo, dice Paolo, è detto a « esempio per noi », « sono cose scritte per nostro ammonimento », affinché « chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere ». Attraverso Mosè comunque Dio è intervenuto a salvezza del suo popolo. Non si è mostrato indifferente, né insensibile al loro pianto. È il caso di ricordarlo, nel momento in cui leggiamo il vangelo di oggi, che ci presenta invece un Dio che sembra non intervenire e che lascia alla storia di fare il suo corso. Dice il vangelo che alcuni galilei, forse del partito degli zeloti, sono stati massacrati dai soldati di Pilato mentre stavano compiendo un sacrificio. La gente ne è rimasta scossa, perché il loro sangue si è mescolato a quello delle vittime e Pilato ha osato profanare un luogo sacro. Nella mente di quelle stesse persone è rimasto ben impresso un altro episodio: 18 operai, mentre lavoravano, erano stati sepolti dal crollo di una torre. La gente ragionava così: se Dio li ha castigati, vuol dire che dovevano essere dei peccatori. Tanto più che nel secondo episodio la responsabilità non è imputabile a un uomo malvagio come Pilato, ma forse allo stesso Dio. Si tratta di fatti di cronaca che anche oggi i nostri giornali riportano quotidianamente. Chi viene ad informare Gesù vorrebbe probabilmente che egli valutasse politicamente gli episodi, soprattutto il comportamento di Pilato. Gesù invece li analizza da un altro punto di vista, quello religioso-teologico. Nel capitolo precedente Luca ha riportato le parole di Gesù sulla vigilanza e sulla capacità di riuscire a leggere i « segni dei tempi »: qui ribadisce il suo pensiero prendendo lo spunto proprio da questi due fatti di cronaca. Non è vero che quegli uomini fossero particolarmente meritevoli di essere puniti, né è certo che Dio abbia voluto colpirli direttamente. Ciò che non lascia spazio a dubbi è che queste disgrazie improvvise possono capitare e che l’unico atteggiamento intelligente per chi ha fede, è vivere nella vigilanza, prendendo lo spunto anche dai fatti tragici della vita per ricordare che siamo appesi a un filo e che occorre vivere costantemente in atteggiamento di conversione. Questo invito alla vigilanza ha senza dubbio anche un sapore profetico: gli ebrei infatti « periranno tutti allo stesso modo », perché la potenza romana distruggerà Gerusalemme e disperderà il popolo. Né la parola di Gesù, né le vicende politiche riusciranno a indurre gli ebrei alla conversione. Quanto all’ultima parte del brano evangelico, la parabola del fico sterile, cade proprio a proposito in questo contesto. L’albero che non dà frutti è il popolo di Israele. Già nell’antico testamento i profeti avevano parlato del popolo eletto paragonandolo a una vigna che non dà frutti (cf Os 9,10; Mic 7,1; Ger 8,13; Is 15). L’agricoltore che ci ha lavorato attorno per tre anni è Gesù. Ma il centro del racconto è la discussione tra il padrone e il contadino. Il padrone si è convinto che ormai quell’albero occupa inutilmente dello spazio utile; il contadino al contrario pensa alla fatica che ha fatto e alla speranza che ha riposto in quella pianta e chiede ancora un anno di tempo per vedere se darà dei frutti. In sostanza Gesù pare dire agli ebrei che lo ascoltano: un altro a quest’ora, vedendo che non date alcun segno di conversione, si sarebbe già stufato e avrebbe fatto giustizia. Io invece voglio ancora sperare. Sappiate però che il vostro destino è segnato: o il vostro cuore finalmente cambia, o la pianta verrà sradicata perché inutile. Anche in questo caso Gesù si manifesta lento a condannare. Anzi sottolinea proprio la misericordia che lo contraddistingue, la sua bontà di intercessione presso il Padre. È il suo stile, che si manifesta in tante altre occasioni. « lo ho pregato per te », dice a Pietro, alla vigilia del suo tradimento, « perché la tua fede non venga meno » (Lc 22,32). E per coloro che lo stanno inchiodando alla croce, prega: « Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23,34). È probabile, se non quasi scontato, che il fico che non ha dato frutti in tre anni, anche il quarto anno non darà nulla. Gesù invece manifesta una speranza che pare andare contro ogni logica umana, sapendo bene che la logica della conversione viaggia su criteri diversi, dal momento che la reazione degli uomini può diventare talvolta imprevedibile. Ma il tempo concesso, un solo anno, sottolinea anche l’urgenza della conversione e la necessità che la decisione non venga ulteriormente rimandata.

Attualizzare Il dolore dell’uomo fa parte della condizione umana. Tutte le sue conquiste l’uomo le ha raggiunte grazie al lavoro faticoso di qualcuno. La stessa nascita di una nuova vita passa attraverso una fase di sofferenza da parte della donna. È spesso dal dolore che nasce la solidarietà, che si sente più viva la fraternità. Eppure diventa spesso incomprensibile e intollerabile il dolore umano, specialmente quando nasce da quelle calamità naturali che colpiscono tutti, il giusto con l’ingiusto. C’è una percentuale grande di ingiustizia in certi avvenimenti, per questo ci rifiutiamo di capirli o di giustificarli, anche quando i colpiti non siamo noi. È presente certamente nel dolore dell’universo qualcosa di inspiegabile e di misterioso, qualcosa che pare sfuggire a Dio stesso. Perché Gesù stesso ha sofferto? Non ci si può quindi collocare di fronte al dolore lanciando un atto di accusa verso Dio, quasi vedendolo come una divinità dalle mille braccia che interviene ovunque per colpire la malvagità dell’uomo. Questa visione è infantile e insostenibile: scavalca tutte le cause seconde e rende Dio semplicisticamente responsabile di tutta la sofferenza umana. Soprattutto non tiene conto del progetto di Dio sull’universo. Non sappiamo se Dio avrebbe potuto creare un mondo perfetto, nel quale l’uomo sarebbe vissuto senza problemi, nell’ammirazione dell’universo e delle perfezioni divine. È certo invece che Dio ha creato un mondo imperfetto, affidandolo all’uomo perché lo trasformi profondamente con la sua fatica. Di fronte a questo progetto, non sempre l’uomo si colloca dalla parte giusta: c’è infatti chi non si impegna, chi attende tutto dagli altri, chi dice: « Chi me lo fa fare? »; c’è chi non crede al valore della sua azione, la ritiene una goccia troppo piccola nel grosso mare dei problemi dell’uomo. C’è chi moltiplica e aggrava i motivi di sofferenza, di dolore, di lotta; chi specula sul dolore altrui. Non possiamo dimenticare che è l’irresponsabilità e spesso anche la malvagità umana a creare nel mondo tante situazioni di sofferenza: dagli incidenti stradali all’inquinamento, dalla guerra a ogni forma di violenza e di terrorismo o di oppressione. Ma c’è naturalmente anche chi si pone di fronte alla sofferenza umana con un atteggiamento di grande disponibilità, chi si propone di diventare in qualche modo la coscienza dei distratti e dei disimpegnati, e lotta per la liberazione dell’uomo. Costoro rendono possibili dei rapporti umani diversi, creano una solidarietà nuova tra gli uomini, in modo da rendere possibile il cammino del mondo. Comunque di fronte al dolore l’atteggiamento dell’uomo di fede non può essere quello di abbandonarsi al fatalismo, rinunciando alla lotta, ma neanche quello di darsi al vittimismo, alla disperazione o alla ribellione. Il dolore infatti è un grande richiamo alla precarietà della condizione umana, un invito a dare un senso alla propria vita, a vivere con maggior coerenza per sé e per gli altri. II dolore, anche quello imprevedibile, legato alle forze apparentemente irrazionali della natura, diventa un invito a vigilare, a usare tutto il tempo a nostra disposizione per completare il nostro cammino di conversione. Quanto alla parabola del fico sterile, è prima di tutto un appello urgente alla conversione. Bisogna cominciare una buona volta a prendere sul serio questo impegno, credere che la nostra conversione sia possibile, anzi che non è più logico rimandarla a domani. Spesso si vive a occhi chiusi, ci si lascia andare vivendo alla giornata, schiavi del passato e delle nostre abitudini. Il giudizio di Dio pare tardare a venire, anzi dai nostri errori e dalle nostre mancanze, dalla nostra arroganza e dall’indifferenza, sembra quasi che traiamo vantaggi. Non possiamo dimenticare che prima o poi la giustizia di Dio ci cadrà addosso. Non solo, sarà la storia a farci pagare duramente i nostri errori, dal momento che il futuro ci darà i frutti di ciò che stiamo seminando oggi. La conversione è un impegno urgente, ma dobbiamo perdere ogni affanno. È sempre sbagliato pretendere troppo da noi e dagli altri. Insomma, esiste anche il rovescio della medaglia: da una parte c’è chi rimanda sempre il momento di prendere la vita sul serio, e dall’altra chi non è mai contento di se stesso. La conversione nasce più da un atteggiamento di apertura e di disponibilità a Dio che dallo sforzo personale. Essere disponibili e docili è già lavorare per la propria conversione, è già essersi messi sulla strada giusta. Specialmente nei confronti degli altri, non si può diventare rigidi e incomprensibili. Dovremmo dare per principio fiducia a coloro che siamo soliti giudicare con severità. L’uomo compie il male d’istinto e a malincuore: gli sfugge, non vorrebbe. Qualche volta è addirittura convinto di fare il bene proprio mentre sta sbagliando. Il bene invece lo compie a occhi aperti e diventa il frutto di scelte precise e faticose, compiute contro la propria pigrizia e li proprio egoismo. È normale che una scelta di vita positiva abbia bisogno di tempi lunghi, di decisioni maturate attraverso un lento tirocinio. C’è chi manda tutto all’aria perché qualcosa va storto, chi si stanca di faticare e di lottare. Questo vale per i rapporti umani, nel campo educativo, nell’impegno morale e ascetico personale… Non si può dimenticare che quando qualcosa ha preso una piega sbagliata in noi o attorno a noi, per rimettere le cose a posto ci vorrà lo stesso sforzo e probabilmente lo stesso tempo che c’è voluto per rompere l’equilibrio precedente.

Nelle avversità egli esamina ciascuno di noi « Sentiamo e soffriamo le infermità proprie della natura umana, ma noi consideriamo questo non una punizione, ma una prova. Le afflizioni irrobustiscono il coraggio e le disgrazie sono spesso scuola di virtù: infatti le energie dello spirito e del corpo intorpidiscono, se non si allenano nella fatica. Non è dunque che Dio non ci possa aiutare o che ci disprezzi, proprio lui che governa e ama tutti noi, ma nelle avversità egli esamina e giudica ciascuno di noi; nei pericoli pesa l’animo dei singoli e fino al momento della morte valuta la volontà dell’uomo, ben sicuro che niente è perduto per lui. Perciò come l’oro per il fuoco, così noi veniamo provati con le difficoltà » (Minucio Felice).

Speranza nel dolore « Un tremito, un sussulto, un lungo minuto, poi non più case, ospedali, scuole, caserme, non più uomini, ma solo freddi corpi dai cui volti traspare soltanto un’enorme voglia di vivere e una calma di morte. Un attimo solo, ed ecco madri senza più figli, figli senza più madri, spose senza più mariti, sposi senza più mogli. Restano soltanto nell’aria fredda grigie colline di ciò che era vivo e che ora è segno di morte. Ma ecco che il silenzio, nell’aria invernale, sui morti, sulle macerie, d’un tratto s’è rotto: è arrivato l’elicottero, l’ambulanza, l’esercito; è arrivato l’uomo a salvare suo fratello » (Paola Dessanti).

Don Umberto DE VANNA sdb

 

 

The City of Jerusalem

The City of Jerusalem dans immagini sacre jerusalem

http://www.kidsbiblemaps.com/jerusalem.html

Publié dans:immagini sacre |on 25 février, 2016 |Pas de commentaires »

MARIA MADDALENA, COLEI CHE HA COMPRESO L’AMORE

http://www.gliscritti.it/approf/2008/papers/lonardo250308.htm

MARIA MADDALENA, COLEI CHE HA COMPRESO L’AMORE

di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito l’articolo che don Andrea Lonardo ha scritto il 18/3/2008 per la rubrica In cammino verso Gesù (la rubrica pubblica ogni due settimane un breve articolo di approfondimento sul Gesù storico e la rilevanza del suo vangelo) del sito Romasette di Avvenire

Il Centro culturale Gli scritti (19/3/2008)

“Tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento” (Gv 12,3). Maria, a Betania, non utilizza il prezioso olio profumato di vero nardo assai prezioso per se stessa, come avrebbe fatto ogni altra donna. In ogni cultura il profumarsi è strumento per piacersi e per piacere, per attirare l’attenzione sulla propria persona, per sedurre (nel senso etimologico della parola “se-ducere” cioè “condurre a sé”), per catturare l’olfatto. Maria vuole che sia il Signore a risplendere nella sua bellezza e vuole che il suo profumo avvolga tutti coloro che sono nella casa. Non solo mai il Cristo è stato innamorato della Maddalena, ma neanche lei mai lo è stata di lui! Questa illazione, che non trova alcun fondamento nei testi evangelici e nemmeno negli apocrifi, è piuttosto segno di una delle povertà del nostro tempo che non conoscendo altra forma di amore che quella dell’innamoramento –ed evidentemente neanche questa troppo bene!- non può che proiettare questo cliché su Gesù. La banalità di un recente romanzetto che viene incontro all’esigenza contemporanea di gossip rinchiude, ad esempio, tutta la vicenda all’interno di una storia di sesso e potere, mettendo in scena un Cristo che non muore in croce per amore, ma che anzi è preoccupato di dar vita ad una stirpe regale, fondatore di una monarchia che lotterà contro altre stirpi di potenti. La pretesa di coinvolgere in questa mistificazione Leonardo da Vinci ed una delle sue più grandi opere –il Cenacolo è, in realtà, un’altissima meditazione sul tradimento di Giuda e sul mistero dell’amore del Cristo che coscientemente si offre alla morte per la salvezza- la dice lunga sul livello culturale di questa operazione di cassetta. L’unzione di Betania rende evidente, invece, che Maria non vuole il Cristo per sé, ma vuole che risplenda per tutti. Ella, nel perdono ricevuto, aveva compreso che in quell’uomo era Dio stesso che l’aveva visitata ed aveva intuito che per il perdono di tutti egli era venuto. Maria ha così accolto l’amore, divenendo una discepola, una credente, una cristiana. Il suo gesto diviene presagio di quell’offerta che si sta per compiere sul Golgota, perché il mondo riceva la misericordia di Dio: “Essa ha fatto ciò che era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura” (Mc 14,8). La grande questione è qui evidentemente la morte in croce: su quel legno avverrà la realizzazione dell’amore “fino alla fine” che cambierà la storia del mondo. Maria intuisce che lì sarà glorificato il Figlio di Dio ed il suo amore e si pone a servizio di questo dono di sé per tutti che Gesù sta per portare a compimento. Lei comprende, mentre Giuda si rifiuta di vedere, che i poveri avranno bisogno della Pasqua ben più che dei denari che si sarebbero potuti ottenere con la vendita di quell’unguento. L’evangelista Marco ci riporta un’espressione straordinaria del Cristo che spinge lo sguardo ancora più in là: “In verità, vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto” (Mc 14,9). La morte in croce e la resurrezione sono vangelo e diverranno annunzio che sarà portato a tutte le nazioni, perché chiunque trovi in esso la speranza. Il profumo del Cristo non inebrierà solo quella piccola casa di Betania, ma la sua fragranza e la sua bellezza riempiranno il mondo intero. Ed espressione della verità, della realtà di questo annuncio di gioia, sarà anche il racconto di questa donna che ha creduto ed ha ricevuto la vita nuova -una nuova vita che sembrava a lei impossibile come la resurrezione di Lazzaro- nell’incontro con il Signore Gesù. La tradizione medioevale vuole che la Maddalena sia stata la prima evangelizzatrice della Francia, insieme a Marta ed a Lazzaro, e che quest’ultimo sia stato il primo vescovo di Marsiglia, già allora porto fiorente sul Mediterraneo. Lazzaro, colui al quale il Signore aveva ridato la vita, morirà martire, decapitato per rendere l’estrema testimonianza della fede nella resurrezione del suo Signore (la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine sintetizza tutta la tradizione medioevale a proposito). La Maddalena avrebbe così speso i suoi anni nella penitenza, vivendo come eremita, come consacrata, in una grotta ancora oggi meta di pellegrinaggi nota come la Sainte Baume, portata in cielo ogni giorno dagli angeli a pregare i salmi con i santi e con il suo Signore. San Francesco ebbe una particolare venerazione per la Maddalena, che era ormai divenuta la patrona degli eremiti; per questo motivo si trovano spesso, negli eremi francescani, delle cappelle a lei dedicate. Per questo stesso motivo Giotto fu incaricato di affrescare una intera cappella, nella basilica inferiore di Assisi, con le storie della Maddalena ed è un peccato che molti dei pellegrini e dei visitatori della città umbra nemmeno sappiano che il pittore non si è limitato a dipingere le storie del poverello, ma ha, al contempo, rappresentato per noi le storie della donna che ha compreso l’amore, contemplando la Pasqua del suo Signore. N.B. Per chi desiderasse approfondire il significato iconografico del Cenacolo di Leonardo in Santa Maria delle Grazie a Milano è possibile consultare on-line l’articolo di Andrea Lonardo, Dal Codice da Vinci di Dan Brown ad una più rispettosa lettura iconografica del Cenacolo di Leonardo. Per la difficile questione esegetica delle diverse Marie presenti nei vangeli, vedi una scheda di Gianfranco Ravasi, disponibile on-line con il titolo Maddalena, gli equivoci da sfatare Per altri articoli e studi di d.Andrea Lonardo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici

 

Publié dans:biblica, BIBLICA APPROFONDIMENTI |on 25 février, 2016 |Pas de commentaires »

LA LAICITÀ NEL CRISTIANESIMO E NELL’ISLAM

http://www.finesettimana.org/pmwiki/?n=Db.Sintesi?num=180

LA LAICITÀ NEL CRISTIANESIMO E NELL’ISLAM

(la laicità nell’islam la potete leggere nel sito)

Un terreno di dialogo e di confronto tra religioni e culture

sintesi delle relazioni di Adel Jabbar e Brunetto Salvarani Verbania Pallanza, 21 maggio 2006 la laicità nel cristianesimo

(Brunetto Salvarani) da una storiella irlandese Un prete, un imam e un rabbino hanno una vivace discussione teologica, durante la quale ciascuno cerca di convincere l’altro della bontà delle proprie opinioni. La discussione diventa sempre più accesa, perfino violenta. Ad un certo punto, dall’alto appare un angelo, che li interrompe, e dice loro: « Signori! Signori! Esprimete ciascuno un augurio, un desiderio, e io lo realizzerò ». Una proposta magnifica. Il prete non ha bisogno di riflettere a lungo e dice: « Per me è semplice: eliminate tutti i musulmani da questo paese e sarò contento ». L’imam, a sua volta, non si sofferma molto a riflettere e dice: « Per me è chiaro, eliminate tutti i cattolici da questo paese e sarò strafelice ». Il rabbino invece non dice nulla. Allora l’angelo, incuriosito, si volge verso di lui e chiede: « Ma voi ebrei non avete nulla da dire? » E il rabbino risponde: « No, no, io non ho nessun desiderio, ma, mi raccomando, signor angelo, realizzi pure i desideri di questi due … e sarò soddisfattissimo! » Se riteniamo che la suesposta soluzione « scontro di civiltà » non sia la preferibile, proviamo a percorrere altre strade.

la laicità secondo le Scritture La laicità, per il cristiano, è in primo luogo un dato fondante della rivelazione biblica, già chiaramente presente nel Primo Testamento. Nasce con la creazione narrata nel Genesi, con la netta distinzione fra il Dio creatore e il mondo sua creatura, quale contestazione della sacralizzazione della terra che era caratteristica dei culti della fertilità cananei; viene confermata dalla linea strategica della fedeltà alla terra, che però non deve diventare idolo, che trova il suo culmine, a mio parere, nella Lettera agli esiliati di Babilonia di Geremia 29; e trova un’ulteriore radicalizzazione nell’incarnazione di Gesù di Nazaret, fino alla straordinaria pagina del suo colloquio con la donna di Samaria (Gv 4), in cui egli annuncia l’approssimarsi del tempo in cui Dio sarà adorato in Spirito e verità, e non più negli spazi sacri di questa o quella religione. Lo stesso Paolo farà sua tale indicazione a più riprese, e soprattutto nella Prima Lettera ai cristiani di Corinto (7,29-31), dove – in ragione del fatto che il tempo ormai si è accorciato (letteralmente, ha imbrigliato le vele) – i credenti sono chiamati a comportarsi nel mondo come se non ne usassero appieno, poiché la sua scena sta passando. Questa visione della laicità propria delle Scritture ebraico-cristiane è stata poco vissuta e praticata nella storia del cristianesimo, nella quale hanno spesso prevalso occupazione del potere, commistione e competizione tra potere religioso e altri poteri. Così in realtà la distanza, la distinzione, il rispetto della diversità, sono rimaste molto più nella lettera che nella sostanza del vivere da cristiani. Il laicismo da una parte, teso a espungere l’ambito delle religioni dall’ambito pubblico, e il clericalismo dall’altra hanno poi prodotto una diffusa ignoranza sulle religioni e sullo stesso cristianesimo. Secondo un’indagine Eurisko dello scorso anno il 60 per cento degli italiani non sa mettere in sequenza cronologica Abramo, Mosé, Gesù, Mohammad. Nello stesso tempo però si invocano le radici cristiane e l’identità cattolica, magari anche da parte di atei devoti. Nell’attuale stagione in cui i tempi sacri, gli spazi sacri, i ricordini e le madonnine tornano prepotentemente alla ribalta questa visione della laicità è ancora più difficile da accogliere. Ha prevalso una visione della laicità per sottrazione, al negativo: togliere il religioso dallo spazio pubblico. Occorre invece una laicità in positivo, per addizione, per arricchire lo spazio pubblico con il contributo di tutti. E’ necessario il passaggio ad una laicità non di pura garanzia o di pura distinzione, ad una laicità capace di riconoscere particolari tradizioni che nel loro impiantarsi non ledano i diritti di nessuno, ma semmai, arricchiscano la comunità di nuovi valori e nuovi costumi: una laicità fondata su un patto in cui sogetti diversi, portatori di tradizioni e valori diversi, accettano di convivere nella stessa comunità civile, liberi di esprimere la propria identità ma anche tenuti a riconoscere e a rispettare le norme che quella comunità si è liberamente data.

educare al dialogo interreligioso e al pluralismo religioso La laicità di relazione, di apertura ha bisogno per affermarsi di un assiduo impegno nell’educare al pluralismo religioso e al dialogo interreligioso. Solo questa laicità può produrre un dialogo efficace, e nello stesso tempo soltanto un dialogo interreligioso serio può aiutarci a costruire delle relazioni di laicità. Il dialogo è difficile, ha bisogno di un investimento importante in termini di conoscenza e di educazione. In gioco sono scelte pastorali di fondo. Purtroppo nei documenti preparatori del quarto convegno ecclesiale di Verona non si trova traccia di questi argomenti. Il dubbio che il dialogo non sia fra le priorità della chiesa cattolica italiana è perfettamente legittimo. Sembra che tutto sia relegato alla settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Buone pratiche di dialogo invece esistono, di cui i giornali ufficiali parlano poco. Per esempio, l’esperienza della giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico: senza benedizioni dall’alto, l’ultimo venerdì di Ramadan, ormai da quattro anni, ci sono almeno un centinaio di chiese locali e di comunità musulmane locali, che riflettono, pensano, discutono, festeggiano l’ « Iftar », la rottura del digiuno, o organizzano una conferenza o una festa o una preghiera, o comunque qualche cosa che esprime un bisogno di dialogo, non intercettato dalle istituzioni ecclesiali. Molte esperienze di dialogo sono raccontate nel sito benemerito , sito di Monteforte Irpino provincia di Avellino, che raccoglie materiali, documenti, iniziative su questo tema. Occorre poi educare al pluralismo religioso, questione molto complicata. Sino al Vaticano II l’ecclesiologia dominante sul tema della salvezza era quella esclusivista (fuori della chiesa non c’è salvezza). Poi si è fatta strada quella inclusivista, che afferma che Gesù Cristo, unico mediatore di salvezza, in modo misterioso permea tutte le vie religiose. La strada del pluralismo religioso, che cerca di evitare annessioni e inclusioni, è più delicata e dibattuta. Nel mio libro Educare al pluralismo religioso. Bradford chiama Italia (EMI, Bologna, 2006), sostengo che l’educazione interculturale deve fare i conti con le religioni e con il pluralismo religioso e propongo un curricolo integrale, che Cem Mondialità ha recuperato da una città inglese vicina a Leeds, Bradford, dove è stato predisposto, con la collaborazione di tutti, del materiale che, in maniera comparativistica, presenta le diverse religioni presenti sul territorio, nell’interessante prospettiva di imparare le religioni, ma anche di imparare dalle religioni. La conoscenza intellettuale è il punto di partenza per aprirsi ai confronti. Se non si persegue questa prospettiva si corre il rischio di una balcanizzazione dell’ora di religione nelle nostre scuole, dove accanto all’ora di religione cattolica, ci sarà quella musulmana e così via, favorendo non il dialogo, ma la chiusura identitaria. La scuola dovrebbe favorire il confronto fra idee differenti, lo scambio di pareri e di visioni del mondo, la riflessione critica sulla realtà in trasformazione. Quindi dovremmo andare non tanto nella direzione dell’ora di bibbia o dell’ora di corano, ma nella direzione della formazione degli insegnanti, che devono sapere che cos’è la bibbia e cosa sono le religioni, per insegnare anche le altre materie, da lettere a storia dell’arte. E’ necessario fare entrare esplicitamente l’interpretazione a-confessionale della bibbia intesa come grande codice della cultura occidentale, e l’approfondimento – antropologico, fenomenologico, sociologico, storico, ecc – delle varie religioni, da coniugare rigorosamente al plurale. Chiudo con un racconto, che è una specie di sintesi di quello che ho cercato di dirvi all’inizio sul tema della laicità nella Scrittura, una sottolineatura di come la Scrittura e la sua laicità stiano in piedi se noi riusciamo a vivere questa doppia fedeltà, alla santità di Dio da una parte e alla santità dell’uomo dall’altra. E’ rischioso sottolineare solo una delle due dimensioni, perché la santità di Dio contro l’uomo, porta ai fondamentalismi, e la santità dell’uomo contro Dio porta ai relativismi. Un giorno Yehuda Amichai, grande poeta israeliano, stava seduto con due panieri di frutta, sui gradini accanto alla porta della cittadella di Gerusalemme. Ad un certo punto sentì una guida turistica che diceva: « Lo vedete quell’uomo con i panieri? proprio a destra della sua testa c’è un arco dell’epoca romana, proprio a destra della sua testa. » Scrive Amichai: « Io mi dissi: la redenzione verrà soltanto quando la loro guida dirà: « Vedete quell’arco dell’epoca romana? Non è molto importante. Ma lì vicino, più in basso, a sinistra, sta seduto un uomo che ha comprato la frutta e la verdura per la sua famiglia ».

la laicità nell’islam (sul sito)

(Adel Jabbar)

Publié dans:FEDE E CULTURA, LAICITÀ |on 25 février, 2016 |Pas de commentaires »

‘Story of Noah’, Lorenzo Ghiberti, circa 1420

http://www.womeninthebible.net/paintings_noah.htm'Story of Noah', Lorenzo Ghiberti, circa 1420  dans immagini sacre Story_of_Noah_copy_of_Gates_of_Paradise
http://www.womeninthebible.net/paintings_noah.htm

Publié dans:immagini sacre |on 24 février, 2016 |Pas de commentaires »
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