PAOLO VISTO DA LUCA

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UN ANNO CON SAN PAOLO

PAOLO VISTO DA LUCA

Carlo Ghidelli – Arcivescovo di Lanciano – Orlona

È risaputo che Luca è stato discepolo di Paolo, avendolo seguito durante alcuni suoi viaggi missionari. La sua fortuna consiste proprio nell’aver potuto crescere alla scuola di Paolo, ascoltandone la predicazione e facendo tesoro dei suoi insegnamenti. Se Luca ha ritenuto opportuno scrivere, oltre al terzo Vangelo, anche gli Atti degli Apostoli, lo si deve certamente alla ricchezza di notizie che egli aveva raccolto sul conto di Paolo e al desiderio di trasmettere ai suoi lettori quanto aveva imparato direttamente dal suo maestro. Di Paolo Luca ci offre un ritratto un po’ diverso da quello che ricaviamo dalle sue Lettere: non un ritratto totalmente altro, ma certamente un ritratto più sereno, meno drammatico. Luca infatti racconta, mentre Paolo polemizza; ed è ovvio che, cambiando il genere letterario, cambiano anche le fattezze del personaggio in questione. Forse in Luca gioca l’ammirazione per il maestro e il suo affetto per l’apostolo; certamente egli si è lasciato conquistare dalla forte personalità di Paolo e in qualche modo ne è stato plasmato. Ma quali sono i tratti caratteristici di questo ritratto? Anzitutto dal racconto della seconda parte degli Atti, quella appunto dedicata ai viaggi missionari dell’apostolo, emerge un Paolo che ha molto in comune con gli altri apostoli, (anche lui come i Dodici deve dire ciò che ha visto e udito: cfr. At 22,15), ma lui non ha visto le stesse cose (cfr. At 1,22). La manifestazione che segna la sua conversione è messa in relazione più con altre manifestazioni successive (cfr. At 26,16) che non con le apparizioni ai testimoni nel corso dèi quaranta giorni (cfr. At 1,3). Luca mostra di essere pienamente consapevole di questo fatto ed è forse questa la ragione per la quale egli ha ritenuto suo imprescindibile dovere rendere testimonianza scritta e perenne della viva predicazione di Paolo quale, in parte almeno, egli ha potuto ascoltare. In secondo luogo il Paolo di Luca presenta un’altra nota caratteristica, quella della ufficialità. Mi spiego: Luca riferisce spesso e volentieri ciò che Paolo ebbe a dire e a fare dinanzi alle pubbliche autorità, sia giudaiche (cfr. At 22,1 ss.) sia romane (cfr. At 24,10 ss.; 25,10 ss.; 26,2 ss.); e ciò non emerge in modo altrettanto forte dalle Lettere di Paolo. Questo rilievo ci porta a considerare la rilevanza e l’incidenza sociale che ebbero sia la predicazione sia la presenza di Paolo nei diversi ambienti da lui praticati. Ne risulta che con Paolo il cristianesimo ha varcato decisamente i confini, non solo geografici, della Palestina e, potremmo dire, ha acquisito diritto di cittadinanza nel mondo intero. Questo è il grande vanto di Paolo, non quello di avere inventato o fondato il cristianesimo. Infatti, mentre il genere letterario dei Vangeli è come un unicum nella letteratura antica, quello delle lettere è invece un genere letterario assai comune e quelle di Paolo non hanno nulla da invidiare, per esempio, alle lettere di Seneca. Paolo per Luca costituisce il modello numero uno della missionarietà: nessun apostolo, neppure Pietro che pure ha ricevuto da Gesù il massimo incarico, ha espresso un’ansia missionaria pari a quella di Paolo: instancabile, capace di assommare il lavoro quotidiano alle fatiche della predicazione, sempre pronto a pagare di persona, per amore di colui che lo ha afferrato e strappato da ogni altra attrattiva. «Ecco, ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni» (At 20,22-23). È con questa convinzione che Paolo affronta ogni singola tappa dei suoi viaggi missionari. Rileggendo i racconti lucani dei viaggi missionari di Paolo, se si leggono – come è doveroso fare – in profondità, si ricava un’altra impressione: in essi Paolo appare piuttosto come colui che si è dedicato in primissimo luogo alla plantatio ecclesiarum, cioè alla piantagione della Chiesa di Cristo nelle varie città e regioni pagane nelle quali arrivava come predicatore. Glielo ha detto Gesù stesso: «Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22,21). Paolo non è stato un costruttore di Chiese, ma un suscitatore di comunità ecclesiali, che poi ha affidato ad alcuni suoi discepoli e collaboratori. Ma è soprattutto nel discorso agli anziani di Efeso che Paolo ha fatto venire a Mileto (cfr. At 20,18-35) che noi possiamo cogliere quella profonda spiritualità missionaria che lo rende modello insuperabile per ogni evangelizzatore. Per Paolo essere missionario vuol dire assumere l’atteggiamento del servo-schiavo che non può sottrarsi al mandato ricevuto (cfr. anche 1Cor 9,1618); vuol dire sopportare ogni genere di prove per amore del Vangelo; vuol dire non risparmiarsi mai per nessun motivo nelle fatiche fisiche; vuol dire affidarsi in piena fiducia ai disegni della divina provvidenza; vuol dire offrire tutto se stesso in sacrificio gradito a Dio; vuoI dire saper rinunciare a tutto pur di guadagnare qualcuno a Cristo; vuoI dire resistere ai lupi rapaci che cercano solo di danneggiare il gregge; vuoI dire vegliare giorno e notte nella preghiera e nella custodia di coloro che sono stati affidati alle sue cure di pastore; vuol dire esortare e scongiurare nel nome del Signore; vuoI dire credere nella efficacia della Parola; vuol dire testimoniare il proprio disinteresse intrecciando lavoro e predicazione; vuol dire infine porre la propria gioia nel dare più che nel ricevere. A ragione questo discorso è stato qualificato da Jacques Dupont come il testamento pastorale di Paolo perché, a ben considerare, esso racchiude le regole principali di un’azione pastorale ineccepibile. Non è affatto difficile riconoscere in questo discorso i tratti essenziali della spiritualità di san Paolo, tratti che, ovviamente, dovrebbero essere anche quelli della spiritualità di ogni pastore d’anime.

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