IS 40,1-5.9-11 – CONSOLATE, CONSOLATE IL MIO POPOLO » – COMMENTO
IS 40,1-5.9-11 - CONSOLATE, CONSOLATE IL MIO POPOLO » –
PRIMA LETTURA DOMENICA 10 GENNAIO
CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche
(STRALCIO)
La prima lettura ci riporta il bellissimo inizio del cosiddetto « libro della consolazione » d’Israele, che abbraccia i cc. 40-55, che ormai gli studiosi attribuiscono concordemente al Deutero-Isaia, un profeta anonimo della fine dell’esilio. Il brano si presenta come un coro a più voci. Apre il canto Dio stesso che annuncia la fine della schiavitù: « Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati » (Is 40,1-2). La liberazione avviene non come un fatto meccanico, o per una felice combinazione di eventi e di rapporti di forza, ma perché Gerusalemme « ha scontato la sua iniquità », cioè si è convertita pagando il « doppio » di quello che aveva rubato al Signore: come i ladri che dovevano restituire il « doppio » (Es 22,3)! Come si vede, il fatto politico è riassorbito nella dimensione religiosa dell’evento.
« Nel deserto preparate la via al Signore » A questo punto si inserisce una « voce » misteriosa, che il profeta lascia volutamente nell’anonimo per creare un clima di maggiore attenzione, la quale esorta a « preparare » la via al Signore che sta per ritornare nella sua terra, conducendosi dietro vittoriosamente il suo popolo: « Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato » (vv. 3-5). Nei testi babilonesi si parla in termini analoghi di « vie » processionali o trionfali, preparate per determinate divinità o per il re vittorioso. Il riferimento al « deserto », oltre che una precisa indicazione delle steppe siriane che avrebbero dovuto attraversare i deportati in Babilonia, vuol essere soprattutto un rimando all’esperienza del primo Esodo, con tutti i prodigi che lo avevano accompagnato. Anche adesso Dio manifesterà la sua « gloria » nei prodigi che accompagneranno questa nuova liberazione: tanto che « ogni uomo la vedrà » (v. 5) con i propri occhi e quasi la toccherà con le proprie mani.
« Il Signore Dio viene con potenza » Subito dopo il profeta immagina che uno si distacchi dal gruppo dei reduci e si affretti a portare il buon annuncio alla città di Gerusalemme, che ancora giace nella sua tristezza e nella sua desolazione: « Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce, con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere, annunzia alle città di Giuda: « Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri »" (vv. 9-11). È il grande « Avvento » del Dio che « salva » nella sua terra: è perciò una « venuta » di riconciliazione e di amore! Con il popolo che ritorna dall’esilio anche Gerusalemme rifiorisce. Il prodigio è pertanto duplice: il ritorno d’Israele alle sue sorgenti e il « rifiorire » di ciò che era rimasto, quale simbolo di un mondo ormai in dissoluzione. L’immagine conclusiva del brano è bellissima: Dio, che pur è potente e detiene nel suo pugno lo scettro del « dominio » (v. 10), è rassomigliato ad un « pastore », pieno di premura e di delicatezza verso gli « agnellini » appena nati e verso le « pecore madri » (v. 11). La potenza e l’amore disarmato, direi quasi infantile e materno nello stesso tempo, in lui non si contraddicono!
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