Archive pour novembre, 2015

LE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE NEL MONDO PAGANO

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LE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE NEL MONDO PAGANO

(Storia del cristianesimo, Tesi on line)

Bousset e Reitzenstein sostengono che all’inizio ci fosse una contrapposizione tra comunità ellenistica e comunità palestinese. La comunità ellenistica (Antiochia, Asia Minore, Grecia) poneva al centro della propria vita religiosa la venerazione cultuale del Cristo Risorto, mentre la comunità palestinese era di stampo apocalittico e la sua fede centrale era nell’attesa del prossimo ritorno del Cristo. Posta in questi termini la contrapposizione è inaccettabile. Nelle principali città dell’Asia e della Grecia sorgono delle comunità che sono molto lontane dalle speranze messianiche e dalla tradizione legalistica della religione giudaica e tendono a organizzarsi secondo il modello delle sinagoghe ellenistiche o di altre associazioni cultuali. Sono le chiese che Paolo ha fondato o con cui è entrato in relazione: Efeso, Filippi, Tessalonica, Corinto, e che esprimono la sua predicazione. Ci sono poi chiese improntate alla predicazione successiva dell’apostolo Giovanni: Efeso, Smirne, Pergamo, Sardi, Filadelfa, Laodicea, tutte citate nell’Apocalisse, che esprimono una tradizione diversa e in contrasto con quella paolina perchè più impregnate di tradizione giudaica. Luca e Paolo spiegano come in generale comunque le comunità cristiane vivano come corpo separato dalle comunità cittadine e facciano proselitismo personale. I ceti maggiormente raggiunti sono quelli medi e degli stranieri. Le comunità si distinguno per la forte solidarietà che lega i membri anche se le tensioni e i contrasti non mancano. Si ritirano in una casa di un membro della comunità dove esercitano i riti dell’eucarestia e del battesimo. L’origine dell’eucarestia, il sacramento della memoria e della salvezza, è sciolta da Paolo nella I lettera ai Corinzi e avviene ogni primo giorno della settimana. All’inizio si svolgeva nella cornice di un banchetto comune in un clima festoso di attesa escatologica, ma con il tempo, dati i numerosi incidenti, il rito si staccò dall’agape. L’origine del battesimo è più misteriosa. Non risulta che Gesù abbia mai battezzato e se l’ha fatto, l’ha fatto all’inizio della sua vicenda terrena. I Vangeli mettono in bocca al Cristo risorto il rito del battesimo (Marco e Matteo) che è la realizzazione della comunicazione di salvezza operata dalla morte e dalla risurrezione di Gesù e attua la remissione dei peccati e comunica il dono dello Spirito Santo. A questi due riti si aggiungono poi: – La celebrazione della domenica come giorno del Signore, non più come giorno del riposo dalla creazione ma come giorno del ricordo, memoria della risurrezione e attesa della parusia. – La pasqua, non più soltanto ricordo dell’uscita degli Ebrei dall’Egitto e della liberazione del peccato, ma la celebrazioone della morte e della risurrezione di Gesù come vero agnello pasquale col cui sacrificio ha sostituito e abrogato il sacrificio materiale degli agnelli. Per quanto riguarda le origini e gli sviluppi della gerarchia ecclesiastica, sappiamo ben poco. Prima il ruolo di direzione, dopo gli apostoli, era affidato a profeti e predicatori itineranti ma ben presto subentrarono esigenze di organizzazione che cedettero il passo a presbiteri e vescovi stabili, un collegio dei quali finirà per dirigere le singole comunità e da cui gradatamente emergerà la figura del vescovo monarchico.

di Gherardo Fabretti

Publié dans:storia della Chiesa |on 4 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

LA VITA DELLA PRIMA COMUNITA’ – ATTI DEGLI APOSTOLI 4,32-7,60

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LA VITA DELLA PRIMA COMUNITA’ – ATTI DEGLI APOSTOLI 4,32-7,60

Gesù aveva indicato come prima tappa della testimonianza la città di Gerusalemme e Luca ne ha già parlato a lungo, ma non è ancora entrato nel pieno della vita concreta della comunità. Sì, ne ha fatto una breve descrizione in 2,42-47, un brano che abbiamo giudicato troppo idilliaco: la perfezione non s’improvvisa. Ora però la comunità è maturata e si trova perseguitata. In questo contesto, come vive la sua vita cristiana? Luca descrive due quadri (4,32-35 e 5,12-16) nei quali vengono ripresi e approfonditi i temi del primo (2,42-47). In essi si parla dell’attività degli Apostoli, della vita di comunione dei cristiani, e di un sempre più crescente favore popolare. Si continua pure a parlare di Pietro, ma anche di tutti gli altri Apostoli. Con loro siamo di fronte ai veri garanti storici della vita di Gesù, a contatto diretto con la Tradizione Apostolica. Gli Apostoli sono travolti dalla persecuzione, ma nulla e nessuno li ferma nella loro testimonianza. Ad un certo punto si parla della comunità che si ristruttura con l’elezione di sette diaconi, tra cui spicca Stefano di cui si narra il martirio. Ce n’è a sufficienza per mettere le nostre comunità a confronto con la prima e per sentire il bisogno di rimotivare la fede e di renderla sempre più coraggiosa, attiva, audace e soprattutto caratterizzarla da un profondo senso comunitario e missionario. Ma perché tutto ciò s’incida davvero in noi, lasciamoci guidare nella meditazione dalla preghiera che i discepoli innalzarono a Dio dopo la liberazione di Pietro e Giovanni dal carcere: “O Signore, concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua Parola. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù”. Dopo aver pregato, il luogo in cui erano tremò e tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la Parola di Dio con franchezza. È questo che noi ora costateremo in continuità e lo vedremo sublimato nella passione di Stefano che morì nell’anno 36, a circa sei anni dalla Pasqua del Signore. Fraternità e amicizia (4,32-35)

Il titolo offre uno sguardo panoramico di come vive quella prima comunità. La prima frase è incisiva: “La moltitudine dei credenti aveva un cuore solo e un’anima sola” (v. 32a), un’espressione che ne richiama un’altra notissima: «Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima» (Dt 6,5). L’amore con cui si ama Dio è lo stesso con cui i credenti si amano a vicenda. È un amore in cui viene assorbita la totalità della persona: cuore e anima. Questo dà la possibilità di vivere totalmente rivolti agli altri e di realizzare quanto segue nel testo: “… e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro in comune” (v. 32b). “Tra gli amici, infatti, le cose sono in comune, perché l’amicizia si manifesta nella comunione” (Aristotele). Ma come avviene questa comunione? Lo dicono i vv. 34-35: “Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti (parola che sarà poi ridimensionata) possedevano campi o case le vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli e poi veniva distribuito secondo il bisogno di ciascuno”. Qui costatiamo come una vera comunione annulla le differenze sociali ed è logico che sia così. Infatti, se io vedo un mio fratello più bisognoso di me non sono in comunione con lui se non condivido quello che ho. Di qui una prima domanda: “Come nasce questa necessità?”. Nasce dall’ascolto della predicazione apostolica che rende testimonianza della Risurrezione di Gesù e che suscita “un amore generoso verso tutti” (v. 33). Così traduce Fabris nel modo più facile ed espressivo una frase che si potrebbe anche tradurre in modi diversi. Ma vi è una seconda domanda: “Era obbligatorio fare questo o era una scelta personale e libera? Luca risponde con due esempi. Innanzi tutto ci parla di un certo Giuseppe, soprannominato dagli Apostoli Barnaba, che significa “figlio della consolazione” (v. 36). Se lo hanno soprannominato così, significa che era una persona pronta all’aiuto degli altri e perciò non ci meraviglia quello che ha fatto. “Essendo padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli Apostoli” (v. 37). Si spogliò di tutto e si diede all’apostolato. Lo ritroveremo ancora e sempre in atteggiamento d’aiuto. Non così invece si sono comportati Anania e la moglie Saffira. Anche loro hanno venduto un podere, ma poi insieme hanno deciso di consegnarne solo una parte come se fosse tutto il ricavato dalla vendita. Pietro si accorse che non erano sinceri e che stavano ingannando la comunità. Perciò disse: “Anania, perché mai satana si è impossessato del tuo cuore e hai mentito allo Spirito Santo? Prima di vendere il tuo podere non era forse tua proprietà e una volta venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. Innanzi tutto è chiaro che la condivisione è una scelta libera, è un’azione che deve nascere da un senso di vera comunione. Il loro gesto invece non è stato un gesto di comunione, come quello di Zaccheo che ha dato solo la metà di quello che aveva, meritandosi da Gesù la frase: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19,9). Il loro gesto fu pura apparenza e il rimprovero di Pietro assai duro: “Voi avete mentito allo Spirito Santo, a Dio, che santifica con la sua presenza la comunità; avete leso la santità della Chiesa. La loro non purezza di cuore, cioè la loro mancanza di lealtà, di sincerità, di rettitudine e il loro morboso attaccamento al denaro sono l’opposto dall’essere un cuore solo e un’anima sola e perciò si escludono da se stessi dalla comunità. Il fatto è che di fronte al rimprovero di Pietro caddero morti. “E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa”. Si tratta di un “timore reverenziale” che dà alla comunità il senso della presenza di Dio e del suo Spirito, fonte vera di comunione. Ogni comunità cristiana sa che per essere “un cuore solo e un’anima sola” i poveri debbono contare in essa. Non si tratta di fare l’elemosina, ma di condividere come fratelli.

Apostoli e discepoli insieme (5,12-15)

Contempliamo questo indimenticabile quadro della prima comunità: “Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per mezzo degli Apostoli. Tutti erano soliti stare insieme e concordi nel portico di Salomone. E nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. E più che mai Dio aggiungeva (traduciamo così un passivo) credenti nel Signore (= nel Cristo Risorto), una moltitudine di uomini e donne” (vv. 12-14). La comunità qui appare in tutta la sua bellezza e la sua unità: Apostoli e discepoli insieme e concordi e, allo stesso tempo, si presenta come un gruppo giudaico ben separato dagli altri e in continua crescita. Questa realtà è tutta opera di Dio che opera prodigi per mezzo degli Apostoli e che suscita la fede in molti altri. Il loro inserimento nella tradizione ebraica è evidente. Si riuniscono, infatti, nel Tempio, il luogo più sacro del giudaismo e partecipano alle preghiere prescritte a tutti gli Ebrei. Nei versetti 15-16 Luca evidenzia Pietro e continuerà a farlo anche in seguito. È Pietro che più degli altri opera prodigi tanto che la gente porta i suoi ammalati e li depone dove pensavano che passasse affinché almeno la sua ombra toccasse qualcuno di loro. L’ombra era vista come continuazione della persona con tutti i suoi poteri. Questa immagine della comunità è quella che più sottolinea il favore e l’entusiasmo del popolo e questo non poteva non irritare i detentori del potere.

Gli Apostoli davanti al Sinedrio (5,17-42)

“Allora il sommo sacerdote reagì e con lui tutti gli appartenenti al gruppo dei sadducei, fece arrestare gli Apostoli e li gettò nel carcere pubblico. Ma durante la notte l’angelo del Signore aprì le porte della prigione, li fece uscire e ordinò loro di ritornare nel Tempio e di annunciare tutt’intero il messaggio della vita”. È fantastica questa opposizione: alla reazione del sommo sacerdote c’è la controreazione di Dio. Infatti, l’antica espressione “l’angelo del Signore” indica l’efficace e potente presenza di Dio, che comanda agli Apostoli di ritornare nel Tempio e di predicare “il messaggio della vita”, cioè la Risurrezione di Gesù fonte di vita per chi l’accoglie. Quando al mattino si riunì il Sinedrio rimasero tutti perplessi sapendo dagli inviati al carcere che dentro non c’erano gli Apostoli. Non sapevano cosa fare, ma poi arrivò uno a dire che erano nel Tempio e che insegnavano. Li mandarono a prendere e quando li ebbero davanti il sommo sacerdote disse loro: “Non vi avevamo proibito di non insegnare più nel nome di «costui»? Ed ecco avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell’uomo” (v. 32). Non osa pronunciare il nome di Gesù. Ma lo fa Pietro, le cui parole cercano di coinvolgere i sinedriti. Inizia dicendo: “Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini”, poi continua: “Il Dio dei nostri padri (mio e vostro) ha risuscitato Gesù che voi avete fatto giustiziare appendendolo alla croce. Ebbene Dio lo ha innalzato alla sua destra facendolo guida e salvatore per concedere a Israele (e voi siete parte di Israele come noi) la possibilità di convertirsi e di ottenere il perdono dei peccati. È di questi fatti che siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ci ha dato” (vv. 29-32). È fantastico come Pietro con poche e incisive parole riassuma il Kerigma primitivo, cioè il primo annuncio cristiano invitando anche il Sinedrio alla conversione. Non l’hanno ascoltato, anzi si esasperarono ancor di più e volevano farli uccidere. Ma si alzò un uomo saggio del partito dei farisei e disse loro: “Se questo movimento è di origine umana si distruggerà da solo, ma se è da Dio, correte il pericolo di combattere contro Dio” (v. 38). Lo ascoltarono, anche se decisi a continuare la persecuzione. Comunque, prima di rilasciarli, li fecero flagellare. Ed essi uscirono dal Sinedrio contenti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù e continuarono nel Tempio e nelle case ad annunciare che Gesù è il Messia.

Una comunità da ristrutturare (6.1-7)

Gli Apostoli sono oramai travolti dall’entusiasmo dell’annuncio, ma ci sono anche i concreti problemi comunitari. Si accorsero che non potevano più pensare a tutto e che il loro compito fondamentale era quello dell’annuncio. Così di fronte al malcontento degli Ellenisti (giudei di lingua greca) verso gli Ebrei (di lingua ebraica) perché venivano trascurate le loro vedove nell’assistenza quotidiana, “i Dodici convocarono l’assemblea dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la Parola di Dio per il servizio delle mense»”. Perciò proposero di eleggere sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza per questo incarico. L’assemblea elesse “Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas e Nicola e li presentarono agli Apostoli che, dopo aver pregato, imposero loro le mani”, segno del dono dello Spirito. Nessun compito, infatti, può essere affidato nella comunità cristiana senza questo rito, perché è lo Spirito che guida ogni apostolato. La nota che Luca aggiunge a questo evento dice che l’organizzazione della comunità in compiti diversi aumenta l’efficacia della sua missione. Lo dimostra quanto segue: “La Parola di Dio si diffondeva e aumentava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede”.

Processo e martirio di Stefano (6,8-7,60)

Luca, ha già fatto risaltare il nome di Stefano nella lista dei sette, ora lo presenta non solo dedito al servizio delle mense, ma anche fortemente impegnato nel ministero della Parola. Nessuno dei suoi avversari “riusciva a resistere alla sapienza e allo spirito con cui egli parlava” (6,10). Perciò sobillarono il popolo e lo condussero davanti al Sinedrio dove falsi testimoni dichiararono: “Lo abbiamo udito affermare che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo (= il Tempio) e sovvertirà i costumi tramandateci da Mosè. Tutti quelli che sedevano nel Sinedrio lo fissavano e videro il suo volto come quello di un angelo” (6,14-15). Il sommo sacerdote gli concesse la parola e Stefano diede inizio a un lungo discorso di accusa contro i suoi giudici che, continuando a “resistere allo Spirito Santo”, non fanno che ripetere il peccato dei loro antenati. Non possiamo soffermarci sull’intero discorso, il più lungo e più bello degli Atti; ci limitiamo a evidenziare un aspetto assai significativo. Chi ascolta Stefano si accorge che egli pensa a Gesù rifiutato dal suo popolo e poi costituito da Dio salvatore di Israele. Forse proprio per questo cita due casi simili nell’antica storia d’Israele. Giuseppe, figlio di Giacobbe, è stato rifiutato e venduto dai suoi fratelli, ma Dio era con lui e in Egitto lo rese salvatore di coloro che l’avevano rifiutato. Mosè è stato rifiutato dal suo popolo: “Chi ti ha costituito giudice su di noi?”. Ma Dio, nella terra di Madian, gli parlò dal roveto ardente e lo elesse salvatore del suo popolo. Ma poi, pensando al continuo rifiuto degli inviati di Dio, attacca i suoi giudici dicendo: “Gente testarda… Quale dei profeti i vostri padri non hanno rifiutato e perseguitato? Essi uccisero quelli che preannuciavano la venuta del «Giusto» del quale ora voi siete divenuti traditori e uccisori. Voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata” (7,52-53). Non l’avesse mai detto. Si infuriarono contro Stefano che, fissando il cielo, concluse il suo discorso dicendo: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”, cioè: Gesù è davvero risorto e Dio lo ha esaltato alla sua destra. Si turarono le orecchie, si scagliarono su di lui e lo trascinarono fuori dalla città, come Gesù (vedi Eb 13,12). Deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo e si misero a lapidare Stefano il quale pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio Spirito”, e poi, piegate le ginocchia urlò forte: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Morì come Gesù, che, innalzato sulla croce, disse: “Padre, perdonali, non sanno quello che fanno” (Lc 23,34); e prima di spirare disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Stefano è il discepolo che annuncia Gesù con la sua stessa vita, il vero testimone. E con la sua morte egli dice tutta la sua fedeltà al Dio dei padri.

Preghiamo Guarda, o Dio nostro Padre, le difficoltà che oggi incontriamo nell’annuncio e lascia che io ti rivolga a nome di tutte le comunità la preghiera che la prima comunità, travolta dalla persecuzione, ti ha rivolto: “Concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua Parola. Stendi la tua mano perché anche oggi si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù. Ed effondi su di noi la pienezza della Spirito Santo perché solo con la sua forza possiamo camminare nella storia con Gesù, tuo Figlio”. Amen!

Mario Galizzi sdb

Paul the Apostle, by Rembrandt Harmensz van Rijn c. 1657

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https://en.wikipedia.org/wiki/Paul_the_Apostle

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IL BAAL SHEM TOV, TRA VITA, ESTASI E LEGGENDA – Di: Rav Alberto Moshe Somekh

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IL BAAL SHEM TOV, TRA VITA, ESTASI E LEGGENDA

Di: Rav Alberto Moshe Somekh

10/07/2014, Milano

Un secolo creativo. Indubbiamente, il Settecento europeo seppe esprimere anche nel mondo ebraico la sua straordinaria carica innovativa. Come? Con il chassidismo. Di questo movimento “di risveglio”, come lo definisce Gershon Scholem, “che rappresenta tuttora una forza effettiva per migliaia e migliaia di ebrei”, si ha spesso un’immagine parziale. In realtà “gli scritti dei Chassidim presentavano un pensiero più originale di quello dei loro avversari razionalisti – i Maskilim- e… la rinata cultura ebraica poteva ricevere più di un efficace stimolo dall’eredità del chassidismo”. Alle origini del movimento si collocano due fenomeni: uno che possiamo definire storico-sociale, l’altro spirituale. Se fino alla metà del Seicento gli Ebrei in Polonia e nelle terre limitrofe godevano di un relativo benessere che aveva permesso una certa fioritura degli studi, le stragi dei cosacchi di Chmielnicki, nel 1648, capovolsero la situazione. I massacri antisemiti provocarono la morte di decine di migliaia di Ebrei e ne misero in serio pericolo le condizioni economiche. Soggetti ad una forte pressione fiscale, gli Ebrei abbandonarono le città, trovandosi non di rado a vendersi come servi ai proprietari terrieri al cui servizio si erano messi come contadini. L’antisemitismo cresceva sotto la spinta della Chiesa, che sovente reiterava nei loro confronti la secolare accusa di omicidio rituale e faceva bruciare il Talmud nelle piazze. Se la Lituania non fu praticamente toccata dalla crisi e riuscì a mantenere la sua superiorità culturale, le province della Volinia e della Podolia risentirono profondamente dei mutamenti politici ed economici in atto.

All’abbattimento morale e spirituale dell’ebraismo polacco fece eco il fallimento del movimento messianico sabbatiano. Shabbetay Tzvì, nato a Smirne nel 1626, dopo essersi più volte proclamato Messia, fu imprigionato dal Sultano nel 1666 e per sfuggire alla condanna a morte preferì convertirsi all’Islam. Fu allora che il suo discepolo Natan di Gaza diede forza al movimento, interpretando l’apostasia del maestro come un segno positivo. La dottrina si diffuse anche in Polonia ed avrebbe avuto forza attraverso la predicazione di Jacob Frank (1726-1791), fondatore di una setta di ispirazione sabbatiana. Non è chiaro se e quali rapporti diretti abbia effettivamente avuto il primo chassidismo con gli esponenti del sabbatianesimo. Anche se quest’ultimo fu condannato dai Chassidim, cionondimeno alcuni aspetti della dottrina chassidica originaria potrebbero avere capovolto, come vedremo, un ascendente sabbatiano.

Si attribuisce la nascita del movimento chassidico alla figura semileggendaria di R. Israel ben Eli’ezer Ba’al Shem Tov (acronimo: Be.sh.t., 1700-1760 ca.). Narrare la sua vicenda biografica è tutt’altro che semplice, dal momento che non è sempre agevole distiguere, nelle fonti che lo riguardano, fra la realtà e le numerose leggende (raccolte nei Shivchè ha-Be.sh.t, “lodi del Be.sh.t”), con cui i suoi discendenti e discepoli hanno alimentato il mito della sua personalità carismatica. Nato in Podolia da genitori anziani e poveri e rimasto presto orfano, inizialmente si guadagnò da vivere come insegnante elementare nel cheder. A quattordici anni incontrò il figlio di un certo rav Adam, che lo iniziò allo studio della Qabbalah. Sull’identità di questo personaggio ci sono svariate ipotesi: secondo alcuni si trattava di un cripto-sabbatiano. A vent’anni, Israel si sposta nella città di Brody, il cui Rabbino, Abraham Kitower, attratto dalla sua emergente personalità, gli concede in sposa sua figlia. Inizialmente il matrimonio fu osteggiato dall’altro figlio di rav Kitower, Ghershon, preoccupato dalle oscure origini del cognato: ma successivamente, proprio Ghershon sarebbe diventato uno dei suoi principali sostenitori. Ritiratosi sui Carpazi, visse sette anni scavando l’argilla che la moglie rivendeva in città. Il giorno del suo 36° compleanno gli venne rivelato dal cielo che era giunto per lui il momento di rivelarsi al mondo. Cominciò così a girare per la Podolia, operando guarigioni ed esorcisimi come erano soliti fare i Ba’alè Shem (lett. “detentori del Nome Divino”) dell’epoca, facendo uso di cognizioni di Qabbalah pratica ma soprattutto, nel suo caso, della preghiera. Si stabilì a Mesebitz, dove in pochi anni radunò intorno a sé un gran numero di discepoli, che formarono il centro del chassidismo nascente. Il primo elemento che distinse subito il Chassidismo rispetto ad altri movimenti mistici fu il suo carattere “di massa” e non limitato a pochi iniziati. Peraltro, il Chassidismo non elaborò una forma di pensiero né un linguaggio originale. Esso si basava sull’interpretazione della Qabbalah che ne aveva dato R. I. Luria e in particolare sulla teoria dello tzimtzum (lett. “contrazione”) e della shevirat kelim (lett. “rottura dei recipienti o vasi”). La Divinità o Eyn Sof (lett. “infinito”) si sarebbe “contratto” per lasciare spazio al mondo creato. A sua volta la creazione sarebbe avvenuta per stadi, il primo dei quali coincise con la emanazione da parte della Divinità stessa di dieci canali di luce, le Sefirot. Ma i “recipienti” destinati a contenerle non avrebbero retto la forza della luce e si sarebbero rotti, provocando una dispersione della luce Divina nel mondo. Da allora, il Male e il Bene sono mescolati. Compito degli ebrei è andare alla ricerca di queste nitzotzot (lett. “scintille”) di luce e separarle dalle qelippot (lett. “bucce”), distillando il Bene in modo che il Male non abbia più ragion d’essere. La novità del pensiero chassidico consiste nell’aver introdotto in tutto ciò il concetto di elevazione. Il Male va sublimato ed elevato, piuttosto che separato. In che modo? Sebbene non sia vero che lo studio della Torah fosse negletto dai Chassidim ed essi insistessero sul fatto che l’Ebreo deve adempiere i precetti della Torah, la preghiera assume in questa dottrina certamente un’importanza preponderante. Ma lungi dall’essere un’esperienza di raccoglimento, si trattò invece di “movimento”. I Chassidim delle origini si distinguevano per il modo talvolta scomposto con cui pregavano, suscitando non di rado l’opposizione dei tradizionalisti. Anche la danza poteva essere per i Chassidim uno strumento di elevazione. La preghiera perseguita mediante la giusta kawwanah (lett. “intenzione, concentrazione”) “permette di raggiungere quell’annullamento del proprio essere che è condizione indispensabile per poter vedere Dio oltre il velo delle realtà create”. Servire la Divinità con sentimenti di gioia (hitlahavùt) è un’altra caratteristica del Chassidismo (e dell’Ebraismo), rispetto ad altri movimenti mistici. R. Israel ammonisce i suoi discepoli ad evitare “i troppi digiuni, che contribuiscono alla melancolia e alla tristezza”. Lo scopo di tutto è raggiungere la deveqùt, l’“adesione” al Divino. L’uomo deve perseguire questa finalità in ogni esperienza della vita e non solo mentre è intento ad eseguire un precetto, perché “allorché la persona tratta delle sue necessità materiali e il suo pensiero aderisce al Divino, sarà benedetta”. L’altro elemento che distingue il Chassidismo dalla Qabbalah luriana è la dottrina dello Tzaddiq (lett. “giusto”). Ci sono personalità le cui caratteristiche spirituali si distinguono da quelle degli uomini comuni. Gli Tzaddiqim hanno un livello superiore di deveqùt che consente loro di elevare fino a Dio le preghiere e le intenzioni dei loro discepoli, promuovendone la Teshuvah (lett. “ritorno a Dio”). Ma per far ciò lo Tzaddiq deve in prima persona confrontarsi con il Male, sprofondare in esso (mediante il solo pensiero!), per realizzare completamente il tiqqùn (lett. “riparazione”). Qui c’è la differenza rispetto al sabbatianesimo, in cui l’atto di abiura del cosiddetto Messia era stato percepito come necessario al processo di redenzione. Nel Chassidismo, viceversa, il processo di discesa non implica alcun distacco dalla sorgente Divina: al contrario, se lo Tzaddiq vuole risollevarsi dal profondo e risollevare i trasgressori con sé, deve saper preservare costantemente la propria deveqùt. Allorché ci si allontana da Dio, l’amore di un altro essere umano verso di noi sarà la nostra salvezza. Un giorno un padre si lamentava in presenza del Ba’al Shem Tov: “Mio figlio si è sviato da Dio; cosa debbo fare?” Gli rispose: “Amarlo di più!”

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO - CHASSIDISMO |on 3 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

PATROLOGIA e PATRISTICA

http://www.paginecattoliche.it/patristica.htm

PATROLOGIA e PATRISTICA

Vocaboli di origine protestante. Nella teologia luterana del sec. XVII si cominciò a parlare di una « theologia patristica » nel senso di una collezione di testimoni dei Padri per i singoli dogmi. Questo concetto teologico del termine « patristica » si confuse con il concetto letterario di « patrologia », che come termine fu usato per la prima volta dal teologo luterano Johs Gerhardus (m. nel 1637) nella sua opera Patrologia, sive de primitivae Ecclesiae christianae Doctorum vita ac lucubrationibus opuspostumum (lena 1653). Ma se i due termini « patrologia » e « patristica » sono di origine protestante, i due concetti, quello teologico e l’altro letterario, per valutare gli scrittori ecclesiastici della Chiesa antica, si trovano già nella letteratura cattolica. Il concetto di « Padre » è di carattere dogmatico, avendo la sua base nella prova dogmatica della tradizione, mentre l’esigenza di considerare gli scrittori antichi sotto un aspetto letterario si manifesta già nel De viris illustribus di s. Girolamo. Partendo dal concetto dogmatico di « padre » la patristica (o patrologia) si avvicina, come disciplina teologica, alla dogmatica o alla storia dei dogmi; seguendo la strada iniziata da s. Girolamo si arriva alla « storia della letteratura cristiana antica », cioè a una disciplina particolare della storia della Chiesa. La scienza cattolica ha scelto e l’una e l’altra via. L’opera, già citata di s. Girolamo (ed. di C. A. Bernoulli; Friburgo in Br. 1895, di E. C. Richardson, Lipsia 1896; v.: H. Edmonds, 2a ed., in Altertum, Lipsia 1941, P. 348 sg.) resa pubblica nell’anno 392, è in fondo nient’altro che un catalogo, il quale non esclude né scrittori giudaici (Filone, Flavio Giuseppe e Giusto di Tiberiade), né autori scismatici ed eretici e annovera nel suo elenco letterario anche gli Evangelisti. L’operetta aveva scopo apologetico, perché voleva dimostrare contro Celso, Porfirio e l’imperatore Giuliano che nella Chiesa non erano mai mancati filosofi eloquenti e dottori. Nella forma Girolamo ha copiato Svetonio, nel contenuto dipende da Eusebio (Historia ecclesiastica e Chronicon), ma non mancano notizie che si basino su letture proprie. La critica di testi biblici è assai libera, il profilo dello stile caratteristico di singoli autori è superficiale (non paragonabile con la critica letteraria di Fozio; sull’opera di Girolamo, cf. C. A. Bernoulli, Der Schriftstellerkatalog des Hieronymus, Friburgo in Br. 1895; St. von Sychowski, Hieronymus als Literaturhistoriker, Munster 1894; A. Feder, Studien zum Schriftstellerkatalog des hl. Hieronymus, Friburgo 927; P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident, Parigi 1943, P. 78 sg.). Verso il 480 il sacerdote semipelagiano Gennadio di Marsiglia scrisse una continuazione dell’opera di s. Girolamo; perciò la maggior parte dei manoscritti di Girolamo contiene anche la continuazione di Gennadio. L’opera di Gennadio è più accurata, più teologica di quella di Girolamo, ma rivela anche la sua posizione semipelagiana (13. Czapla, Gennadius als Literaturhistoriker, Munster 1898; F. Diekamp, Wann hat Gennadius seinen Schriftstellerkatalog verfasst, in Romische Quartalschr., 12 [1898], P. 411 sg.; A. Feder, Der Semipelagianismus im Schriftstellerkatalog des G., in Scholastik, 2 [1927], P. 481 sg.; id., Die Entstehung und Veróffentlichung des gennadianischen Schriftstellerkatalogs, ibid., 8 [1933], p. 27 sg.; id., Zusatze des Gennadian. Schriftstellerkatalogs, ibid., P. 380 sg.; P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident, Parigi 1943, P. 221 sg.). Continuatori di s. Girolamo e Gennadio con particolari interessi per gli scrittori spagnoli furono Isidoro di Siviglia (tra il 615 e il 618: PL 83, 1081-1106) e il suo discepolo Ildefonso di Toledo (m. nel 667: PL 96, 195 sg.; cf. G. V. Dzialowski, Isidor und Ildefons als Literaturhistoriker, Munster 1898; F. Schutte, Studien úber den Schriftstellerkatalog des hl. Isidor, in M. Sdralek, Kirchengeschichtliche Abhandlungen, Breslavia 902, P. 75 sg.; M. Ihm, Beitráge zur alten Geschichte und griech.-rómischen Altertumskunde [Festschrift fur 0. Hirschfeld], Berlino 1903, P. 341 sg.; H. Koeppler, in Journal of theolog. studies, 38 [1936], p. 16 sg.). Mentre in Bisanzio Fozio riprese lo studio dei Padri insieme con quello degli autori antichi (il suo Myriobiblon = Biblioteca : PG 103-104), nell’Occidente la letteratura dei De viris illustribus fu di nuovo iniziata nel sec. XI da Sigeberto di Gembloux (m. nel 1112: PL 16o, 547 sg.), in Belgio da Onorio di Autun (ca. il 1122) nel suo De luminaribus Ecclesiae (PL 172, 197 sg.) e dal cosiddetto Anonymus Mellicensis (De scriptoribus ecclesiasticis: PL 213, 959 sg.) e nel sec. XV da Giovanni Tritemio. Tutti questi autori si basano per l’epoca patristica su s. Girolamo e Gennadio. Le loro opere sono importanti per la conoscenza degli scrittori della loro epoca; per la ricostruzione del testo di Girolamo e Gennadio questa tradizione indiretta è di scarso valore (v. A. Feder, Studien Zum Schriftstellerkatalog des hl. Hieronymus, Friburgo in Br. 1927, P. 90). La linea di questi « nomenclatores » (v. I. A. Fabricius, Bibliotheca ecclesiastica, Amburgo 1718) fu continuata con Giovanni Gerhardus, Giuseppe Húlsemann ecc. da parte dei luterani, e con s. Roberto Bellarmino nel suo Liber de scriptoribus ecclesiasticis (Roma 1613), edizione aumentata da F. Labbé (Parigi 1670) e da Casimiro Oudin (ivi 1682), da parte cattolica. Il primo grande tentativo di una trattazione critica dell’antica letteratura cristiana fu dato da Louis Ellies Du Pin (m. nel 1719) con la sua Nouvelle bibliothèque des auteurs ecclésiastiques, ecc. (Parigi 1686-1711) in 47 voll. (v. Reusch, Index der verbotenen Búcher, Il, i, p. 586). Il libro, che fu messo all’Indice, suscitò molte polemiche letterarie (M. Petit-Didier, R. Simon, R. Ceillier ed altri). La mancanza di rispetto nel linguaggio ed il gallicanismo furono le cause principali della condanna di questa opera. Un lavoro di pregio è l’Apparatus ad Bibliothecam maximam Patrum veterum (Parigi 1604), di Le Nourry, ma il capolavoro critico-storico sono i famosi Mémoires pour servir à l’histoire ecclésiastique des six premiers siècles di L. S. Le Nain de Tillemont ([n. nel 1698], Parigi 1693-1712) in 16 voll., opera che ancora oggi viene consultata con profitto dagli studiosi. Nel campo protestante sono da menzionare in quest’epoca i lavori di William Cave, James Usher, John E. Grabe (v.), John Pearson, H. Dodwell, anglicani che per difendere la loro posizione dogmatica erano costretti ad occuparsi dei Padri. Accanto ad essi si possono ancora menzionare gli studi di Le Clere, Dallaeus e Oudin. Dei lavori riguardanti la storia della letteratura antica cristiana nell’epoca moderna si ricordano: J. A. Móhler, Patrologie (vol. 1 [unico], Ratisbona 1840); J. Nirschl, Lehrbuch der Patrologie und Patristik (3 voli., Magonza 1881-85), I. Fessler, Institutiones Patrologiae (2.a ed. di Jungmann, Innsbruck 1890-96); Ad. Harnack, Geschichte der altkirchlichen Literatur bis auf Eusebius (3 voll., Lipsia 1893-1904); H. Kihn, Patrologie (Paderborn 1904-1908); O. Bardenhewer, Patrologie (3 II ed. Friburgo 19 io); id., Geschichte der altchristlichen Literatur (5 voli., ivi 1913-32); H. Jordan, Geschichte der altchristlichen Lìteratur (Lipsia 1911); I. Tixeront, Mélanges de patrologie et d’histoìre des dogmes (Parigi 1921); H. Lietzmann, Christliche Literatur (Lipsia 1923); F. Cayré, Précis de Patrologie (2 voll., Parigi 1927-1930); B. Steidle, Patrologia (Friburgo 1937); U. Mannucci, Istituzioni di patrologia (ed. di A. Casamassa, Roma 1948-5o); E. I. Goodspeed, A History of early christian literature (Chicago 1942); B. Altaner, Patrologie (2a ed., Friburgo 1950; anche in trad. it. riveduta da A. Ferrua, Torino 1944); J. Quasten, Patrology, I. The Beginnings of Patristic Literature (Utrecht-Bruxelles 1950). Opere speciali che riguardano la patristica greca : K. Krumbacher-A. Ehrhard, Geschichte der byzantinischen Literatur (2a ed., Monaco 1897); O. Stahlin, Die altchristliche griechische Literatur, in W. v. Christ, Geschichte der griechischen Literatur (2 voli., 6a ed., ivi 1924); A. Puech, Littérature grecque chrétienne (Parigi 1928); I. M. Campbell, The Greek Fathers (Londra 1929). Sulla conoscenza dei Padri greci nella Chiesa latina v. : P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident (Parigi 1943); A. Siegmund, Die Uberlieferung der griechischen Literatur in der lateinischen Kirche bis zum 12. Jahrhundert (Monaco 1949). Opere speciali sulla patristica latina : P. Monceaux, Histoire littéraire de l’Afrique chrétienne (7 voll., Parigi 1901-23); R. Pichon, Etudes sur l’histoire de la littérature latine dans les Gaules (ivi 1906); W. S. Teuffel, Geschichte der romischen Literatur (III, 6a ed., Lipsia 1913; gli autori cristiani sono trattati da E. Klostermann); M. Schanz, G. Hosius, G. Kruger, Geschichte der rom. Literatur (III, 3a ed., ivi 1922; IV, I, ivi 1914; IV, II, ivi 1920); la letteratura cristiana è trattata da G. Kruger); U. Moricca, Storia della letteratura latina cristiana, 3 voli., in 5 tomi (Torino 1915-1934); P. Monceaux, Histoire de la littérature latine chrétienne (Parigi 1924); C. Weymann, Beitráge zur Geschichte der christlich-lateinischen Poesie (Monaco 1926); N. Terzaghi, Storia della letteratura latina da Tiberio a Giustiniano (Milano 1934); L. Salvatorelli, Storia della letteratura latina cristiana (ivi 1936); E. Bickel, Lehrbuch der Geschichte der rómischen Literatur (Heidelberg 1938); P. de Labriolle, Histoire de la littérature latine chrétienne, 3a ed. di G. Barzy (2 Voll., Parigi 1947); P. Courcelle, Histoire littéraire des grandes invasions germaniques (ivi 1948); E. Dellers, Clavis Patrum latinorum (Steenbrugge 1951, in Sacris erudiri, III). La trasmissione dei Padri nella vita della Chiesa durante il medioevo e ì tempi moderni è stata trattata negli ottimi studi di J. de Ghellinck, Patrìstique et moyen-áge (3 voll., Bruxelles 1946-48). I riflessi della letteratura cristiana sulla letteratura europea sono studiati da E. R. Curtius, Europáische Literatur und lateinisches Mittelalters (Berna 1948). LA PUBBLICAZIONE DEI TESTI PATRISTICI. È stato l’umanesimo che ha dato l’impulso alla prima stampa dei testi patristici. Alcune di queste pubblicazioni hanno il valore di un manoscritto perché molti codici di allora sono andati perduti. Le prime edizioni critiche uscirono nei sec. XVII e XVIII. Come editori sono da menzionare Fronton le Due (« Ducaeus », m. nel 1624), l’editore di Crisostomo e Giovanni Damasceno, Jacques Sirmond (m. nel 1651), Jean Garnier (m. nel 1681), Fr. Combefis (m. nel 1679), I. B. Cotelier (m. nel 1686) e i grandi rappresentanti della Congregazione benedettina di S. Mauro (V. MAURINI): I. L. D’Achéry (m. nel 1685), Jean Mabillon (v.), R. Massuet (m. nel 1716, editore di s. Ireneo), P. Constant (m. nel 1721), Le Nourry (m. nel 1724), Julien Garnier (m. nel 1725, editore di Basilio), Ch. de la Rue (m. nel 1739, editore di Origene), B. de Montfaucon (v.), P. Maran (m. nel 1762). Le prime grandi collezioni sono la Sacra bibliotheca veterum Patrum (Colonia 1618-22) o Maxima bibliotheca veterum Patrum (27 voll., Lione 1677). Ancora di valore oggi è la Bibliotheca veterum Patrum di Andrea Gallandi (14 Voll., Venezia 1764-81; 2.a ed. ivi 1788). In fondo, la grande Patrologia di J.-P. Migne (v.) è la continuazione di queste vecchie Bibliothecae Patrum . Il Migne poteva aumentare la sua edizione in seguito alle numerose pubblicazioni dei card. A. Mai (v.) e Jean Baptiste Pitra (v.); per l’edizione del Migne v. ancora F. Cavallera, Patrologiae cursus completus. Series graeca. Indices (Parigi 1912); Th. Hopfner, Index locupletissimus (ivi 1928 sg.). Edizioni critiche di tutti gli scrittori ecclesiastici latini dal I al VII sec. sono state progettate dall’Accademia di Vienna (dal 1866). Finora sono stati pubblicati di questo Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum (CSEL o CV) 70 voll. Una collezione corrispondente per i Padri greci è Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte (GCS o CB, pubblicati dall’Accademia di Berlino (dal 1897), finora 4, voll. Alla preparazione dei testi greci serve la collezione : Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, ed. O. V. Gebhardt e A. Harnack (Lipsia 1882 sg.). Questa collezione ha la sua corrispondente nella collezione: Texts and Studies. Contributions to Biblical and Patristic Literature, ed. I. A. Robinson (Cambridge 1891) ed in un senso più largo in Studi e testi (pubblicazioni della Biblioteca Vaticana, Roma 1900 sgg.; v. A. M. Albareda, Nel cinquantesimo di « Studi e testi », Città del Vaticano 1950). Delle collezioni per usi scolastici vanno nominati Florilegium Patristicum, ed. B. Geyer e I. Zellinger (44 fase., Bonn 1904 sg.); Cambridge Patristic Texts, ed. A. I. Mason (Cambridge 1899 sg.); Textes et documents pour l’étude historique du christianisme ed. H. Hemmer P. Lejay (20 Voli., Parigi 1904-12), Testi cristiani, con versione italiana di G. Manacorda (Firenze 1930 sg.); Corona Patrum Salesiana (Sanctorum Patrum graecorum et latinorum opera selecta, addita interpretatione vulgari), ed. P. Ricaldone (Torino 1937 sg.); Sources chrétiennes, ed. H. de Lubac e i. Daniélou (Parigi 1941 sg.).

BIBLIOGRAFIA: Letteratura patristica: A. Ehrhard, Die altchristl. Liter. und ihre Erforschung seit 1880, Friburgo i, Br. 1894, continuazione, 1900; F. DrexI, io Jahre griechischer Patristik, in Bursians Jahresberichte uber die Fortschritte der klassisch. Altertumswiss., 220 (1929), pp. 131-263; ibid., 230 (1931), PI. 163-273; I. Martin, Christ-latein. Dichter, ibid., (1929), pp. 65-140; W. Wilbrand, Die altchrist.-Latein. Liter., ibid., 256 (1930), pp. 157-206; G. Kruger, A Decade of Research in early christ. Liter. (1921-30), in Harvard Theolog. Review, 26 (1933), p. 173 sg.; G. Madoz, Un decenio de estudios patrísticos en Espana (1931-40), in Rev. espanola de teol., 1 (1940, PI). 919-62; id., Segundo decenio de estudios sobre patrística espanola 1941-50 (Estudios Onienses, sez. I, Vol. 5), Madrid 1951; B. Altaner, DerStand der Patrologisch. Wissensch. und das Problem einer neuen altchristl. Literaturgesch., in Misc. Giov. Mercati, 1, Città del Vaticano 1946, p. 483 sg.; I. De Ghellinck, Les recherches batristiques, progrès et problèmes, in Mélanges F. Cavallera, Tolosa 1948, p. 65 sg.; Dix années d’études byzantines, Bibliogr. internat. 1939-48, Parigi 1949. Erik Peterson (Tratto dall’Enciclopedia Cattolica)

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Jesus Christ Pantocrator (Detail from deesis mosaic) from Hagia Sophia

 Jesus Christ Pantocrator (Detail from deesis mosaic) from Hagia Sophia dans immagini sacre 800px-Christ_Pantocrator_mosaic_from_Hagia_Sophia_2744_x_2900_pixels_3.1_MB

https://en.wikipedia.org/wiki/Christ_Pantocrator

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SALMO 16 (15) FIDUCIA, OLTRE LA MORTE.

http://www.padresalvatore.altervista.org/Salmo16.htm

SALMO 16 (15) FIDUCIA, OLTRE LA MORTE.

(Padre Salvatore)

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene».
Per i santi, che sono sulla terra,
uomini nobili, è tutto il mio amore.
Si affrettino altri a costruire idoli:
io non spanderò le loro libagioni di sangue
né pronunzierò con le mie labbra i loro nomi.

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è magnifica la mia eredità.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce.
Io pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alla mia destra, non posso vacillare.
Di questo gioisce il mio cuore,
esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,

perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,
né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

VERSIONE DI D.M. TUROLDO

Fa’ che il tuo cuore sia la mia custodia,
ove riponga tranquillo la fiducia, Signore.

Ho detto a Dio: Signore,
tu sei il mio unico bene.

Non più simulacri di santi,
potenze profane adorate sulla terra:
sequela di idolo, di un dio straniero,
molta pena con sé comporta.

Non più verserò le lor libagioni di sangue,
né il lor nome infetti più la mia bocca.

E’ lui, il Signore, la mia porzione,
mio calice, mio destino.

Delizioso è quanto mi hai dato in sorte,
veramente splendida è la mia eredità.

Benedico il Signore che la mente m’ispira
e i reni miei illumina pure la notte.

Sono fissi al Signore gli occhi miei per sempre,
con lui a fianco, incertezza non scuote.
Gioiscono cuore e sensi per questo e tripudiano:
tutto il mio essere riposa sicuro.

Non è da te abbandonare una vita agli Inferi,
lasciare che la fossa inghiotti un fedele.
Tu la via alla vita m’insegnerai:
oh, la gioia al vedere il tuo volto,
solo gioia lo starti vicino!

Il Sal 16 (15) è un salmo di fiducia.
La speranza che esso esprime, la potremmo chiamare “neotestamentaria”, perché sa sfidare il limite invalicabile dello Sheol e della stessa morte.
La tradizione cristiana ha considerato il Sal 16 messianico. L’Apostolo Pietro, dopo la Pentecoste, utilizzò i vv. 8-11 nella sua apologia del Cristo risorto (At 2,25-28.31); e Paolo, argomentò in modo analogo, citando lo stesso salmo, nel suo discorso nella sinagoga d’Antiochia di Pisidia (At 13,35).
In questa prospettiva il salterio monastico utilizza questo salmo per i primi vespri della Domenica, anticipando, con ciò, il mistero della risurrezione che si celebra nella Pasqua settimanale.
Il Salterio romano usa il salmo 15 (16) per la compieta del giovedì, ponendo l’accento sul tema della fiducia, presente nel salmo e nell’ora liturgica celebrata.
Il lezionario dei Santi lo applica a san Francesco e ad altri Santi Religiosi che hanno scelto Dio come “unico bene”.
Il testo liturgico attuale deriva dalla versione greca dei LXX, secondo l’uso degli Atti degli Apostoli. Anche così, possiamo dare a questo salmo il titolo “Il canto della mistica” (G. F. RAVASI), perché narra un’esperienza assolutizzante di Dio, quale, appunto fu quella di Francesco d’Assisi.
Stando al testo ebraico, cui si rifà la versione di TUROLDO, l’esperienza religiosa descritta dal salmo, è più tormentata e sofferta, perché è la narrazione della crisi di fede di un levita che è ritornato al suo Dio, dopo un periodo d’apostasia e di sincretismo. “I santi”, cui si sono versate “libagioni di sangue”, sono i Baal il cui culto prevedeva anche il sacrificio cruento dei primogeniti.
Più che un salmo francescano, risulta essere, allora, una confessione agostiniana. Il Salmista potrebbe dire con il Vescovo d’Ippona: “Tardi t’amai Bellezza sempre antica e sempre nuova. Tardi t’amai!”.

“Adonai, tu sei il mio TOV”
Dio tu sei il mio bene, la bontà che mi avvolge, la bellezza che mi affascina (v. 2). Dio è ora percepito come “il bene”, “la Bontà”, nel senso precisato da Gesù nella risposta al “giovane ricco” in Mc 10,18 e Mt 1917. Chi ha incontrato il Signore, scopre che tutti gli altri valori possono e debbono essere “venduti” per Lui (Mc 10,21).
“Adonai, tu sei il mio TOV!” Tradotto in latino: “O Bonitas!”. È l’esclamazione con cui il fondatore della Certosa, san Bruno, esprimeva la sua esperienza di Dio. È l’esperienza che lo Spirito Santo cerca di suggerire ad ognuno di noi.

Non più… non più… non più… (v. 3-4).
Il sì radicale detto a Dio suppone la rinuncia a tutto ciò che non è Dio. Richiede uno stacco definitivo dal passato idolatrico e sincretista (cf. 1Re 14,22-24) che hanno portato (forse) il sacerdote che prega nel salmo, fino alle “libagioni di sangue”, cioè al sacrificio cruento dei primogeniti (cf. Sal 106,35-38). La crisi, superata con una vera conversione, è stata molto più terribile di quella descritta da un altro Levita, nel Sal 73,28.
Adesso, però, anche la sola invocazione dei nomi dei Baal (che è una forma d’adesione all’idolo), sarà evitata. Ora la sua bocca canterà soltanto le lodi del Dio d’Israele.

“Il Signore è mia parte d’eredità” (v. 5).
È questo il corrispettivo dell’appartenenza reciproca (l’Alleanza) rinnovata tra il Signore e l’orante.

“Il Signore… i reni miei illumina pure la notte” (v. 7).
Dio è un patner serio. Da adesso in poi guida il suo fedele e fa in modo che la sua coscienza ( i “reni” come sede dell’emotività) suggerisca azioni conformi alla Legge divina. La stessa trasmissione della vita (altro significato dei reni) è guidata e protetta dall’intervento personale di Dio.

“Il Signore, sta alla mia destra” (v. 8).
A differenza dei Baal di cui toccavi solo un simulacro, l’invisibile Jhwh è un Dio di cui percepisci la presenza e la cui vicinanza non t’atterrisce, anzi ti dà pace e serenità.

“Non abbandonerai la mia vita nello Sheol” (v. 9).
L’uomo è fatto di fango ed è votato alla morte (cf. Gen 3,19); tuttavia se nei confronti di Dio è un fedele (chasid), il Signore lo strapperà dalle fauci dello Sheol. Così la morte non potrà dichiarare di aver vinto definitivamente sul credente. La fossa (Ebraico: shachat), non sarà automaticamente “corruzione” (Greco: diaphtorà, come traduce la LXX, ripresa dai testi citati dagli Atti degli Apostoli).

Oh, la gioia al vedere il tuo volto! (v. 11b).
Vedere il volto di Dio è un modo per dire di essere nel Tempio, dove c’è gioia e delizia, sempre.

“Senza fine alla tua destra” (v. 11c).
È Cristo che canta. Lui che s’è assiso, per sempre, alla destra del Padre, in nostro favore (cf. Rm 8,34; Eb 10,12; 1Pt 3,22).

Preghiera
Dio, fonte d’ogni intelligenza e luce che illumini i cuori,
se tu ci accompagni nel nostro cammino,
a nessun’incertezza soccomberemo:
e quando saremo al termine del lungo viaggio,
riposeremo senza fine in te,
che sei la sola ragione della nostra gioia. Amen.

(David Maria Turoldo)

 

CARLO MARIA MARTINI – IL PECCATO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_ritrovaresestessi3.htm

CARLO MARIA MARTINI – IL PECCATO

Il rifiuto del disegno di Dio

«Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: « Dove sei? ». Rispose: « Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto ». Riprese: « Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’ albero di cui ti avevo comandato di non mangiare? ». Rispose l’uomo: « La donna che mi hai posta accanto mi ha dato dell’ albero e io ne ho mangiato ». Il Signore Dio disse alla donna: « Che hai fatto? ». Rispose la donna: « Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato ». Allora il Signore Dio disse al serpente: « Poiché tu hai fatto questo, sii maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. lo porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno »» (Genesi 3, 9-15). Questo dialogo serrato tra Dio e l’uomo fa emergere la confusione, l’oscurità, la vergogna del peccato dell’uomo. Quattro volte parla il Signore e i primi tre interventi sono domande precise: dove sei? chi ti ha fatto sapere che eri nudo? che cosa hai fatto? E le tre domande perentorie sono seguite da una terribile profezia che indica uno stato di inimicizia e di divisione all’interno dell’esperienza umana e della storia. Alle quattro parole di Dio, tre volte rispondono gli uomini e con risposte timide, incerte, reticenti e, in parte, menzognere. Adamo afferma di avere paura, paura di Dio. Denuncia così un rapporto falsato con quel Dio d’amore in cui non sa più riconoscere il Padre, il Misericordioso di cui non scopre più il volto. E aggiunge, accusando Eva: la donna che mi hai posto accanto mi ha dato dell’ albero e io ho mangiato. Denuncia quindi anche un suo rapporto irresponsabile con la compagna della sua vita, ributtando su di lei la colpa che gli rimorde nella coscienza. Da parte sua la donna, in timore e confusione, risponde: il serpente mi ha ingannata, mostrando un rapporto irresponsabile con se stessa, con la sua colpevolezza personale, con la chiarezza delle sue responsabilità. Nell’insieme, Adamo ed Eva, con le loro parole, sottolineano la divisione, l’oscurità, la confusione che derivano all’uomo dallo stato di peccato, cioè di lontananza da Dio. Dio, al principio, sogna una terra di pace e di benevolenza, in cui il lavoro non è opprimente e la convivenza non è guerra; a tale sogno l’uomo si ribella e lo splendore, l’immenso valore della libertà donatagli da Colui che l’ha creato e amato, si trasforma, nelle sue mani, in strumento di negazione, in un progetto alternativo a quello che gli era stato proposto. Ma la domanda rivolta dal Signore ad Adamo: «Dove sei?» è la domanda che Dio rivolge a ciascuno di noi che non abbiamo affidato pienamente la nostra vita al suo disegno di amore: dove siamo, a causa della non fiducia o della poca fiducia in lui? Adamo è l’uomo di tutti i tempi, che non accetta l’amore di Dio, che rifiuta la condizione di creatura e di figlio, che non vuole essere figlio adottivo di Dio, che si ribella a un Dio che lo serve. La sua paura ha segnato tutta la storia, ha segnato l’umanità che teme Dio immaginandolo come un tremendo punito re, che ha paura della morte, della sofferenza, di ogni forma di privazione o di pericolo. Rifiutando Dio, noi e la nostra società non andremo lontano e le conquiste del progresso potranno essere addirittura la nostra babele e la nostra morte. Nelle risposte che Adamo ed Eva danno al Signore noi troviamo che manca, in realtà, l’unica parola adeguata, l’unica parola che stenta a salire dalle labbra di ogni uomo, proprio perché si è perso di vista il vero volto di Dio: «Ho peccato contro di te!». E la risposta semplice di Davide, nel Salmo 50. In un brano del vangelo di Luca possiamo leggere un altro dialogo, corrispondente a quello avvenuto nel giardino dell’Eden tra Dio, Eva, Adamo e il serpente. E il racconto dell’ Annunciazione: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: « Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te ». A queste parole, ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: « Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’ Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine ». Allora Maria disse all’angelo: « Come è possibile? Non conosco uomo ». Le rispose l’angelo: « Lo Spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’ Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio… ». Maria disse: « Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto »» (cfr. Luca 1 26-38). Il testo della Genesi prevedeva che la maledizione contro il serpente si allargasse a una lotta incessante tra paura e speranza, tra rifiuto del progetto d’amore di Dio e piena accoglienza, prevedeva la vittoria definitiva del bene. Maria accoglie la Parola, il disegno di Dio ed è l’aurora della salvezza definitiva. Così una donna è la destinataria dell’ annuncio di un inizio nuovo e, di fronte a questa inattesa principalità di una donna che entra a far parte del progetto redentivo, ci domandiamo se davvero abbiamo compreso a fondo la rilevanza di questo evento che fa da eco a quel: «Porrò inimicizia tra te e la donna». Vuol dire che c’è un principio riconciliatore di Maria e, in lei, di ogni persona che partecipa al suo mistero. Un potere riconciliatore che il mondo non ha ancora riconosciuto e che la storia della Chiesa è destinata a esprimere. Anche il saluto: «piena di grazia», significa molte cose. Maria è bellissima, di una bellezza ontologica, è amata da Dio con amore gratuito e redentivo. Tale principalità della grazia che si china sull’umanità peccatrice e la riabilita è il fondamento della « buona notizia » ed è costitutivo, non contingente come lo è il peccato. La principalità del peccato era pervasiva, invadente, onnipresente, ma incapace di pervenire davvero al fondo dell’uomo: il peccato cioè attacca l’uomo fino in fondo e però non a fondo. La grazia, invece, risana fino in fondo e a fondo, ricostituendo nell’intimo l’uomo e l’umano. Contemplando questa nuova Eva ciascuno di noi – nonostante i peccati, le negligenze, le infedeltà, i timori – ritorna a credere nel chiarore delle origini, ritorna a inseguire la gioia e lo splendore di quei giorni in cui Dio scendeva nella brezza della sera a passeggiare nel giardino. Ritorna, ciascuno di noi, a essere motivo di speranza per il mondo.

Altre tipologie di peccato nella Bibbia Ancora nei primi capitoli della Genesi, la Bibbia ci presenta altre tre tipologie del peccato. Esse mostrano come i tre rapporti fondamentali che costituiscono la pienezza dell’uomo, l’ideale dell’umanità – il rapporto con Dio, il rapporto tra gli uomini e il rapporto con la terra – venga disconosciuto e pervertito.

Il racconto di Caino e Abele «Dopo un certo tempo, Caino offrì i frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: « Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo »» (Genesi 4, 3-7). Che cosa ha fatto Caino? Probabilmente la sua offerta era imperfetta o avara, non dettata da riverenza e amore verso il Signore. Tuttavia il peccato prende in lui forza e violenza quando egli si rattrista e non riesce ad accettare che il fratello sia migliore di lui, non riesce a vivere in pace con uno che ha un destino diverso dal suo. Caino non realizza quell’unità dei diversi che costituisce l’umanità e, anziché sentirsi spronato a salire al livello di Abele, vorrebbe che il fratello scendesse al suo. Vive la tristezza dell’invidia, che è una delle cause più gravi dello scatenarsi di guerre, di conflitti sociali, delle forme di razzismo che devastano l’umanità. Forme drammatiche ai nostri giorni e cresceranno di violenza in Europa a mano a mano che aumenterà il numero di persone di altre razze, di altre culture perché faremo grande fatica a vivere la fraternità con gli africani, con gli arabi, con gli asiatici, a vivere la dimensione dell’accoglienza dell’ altro, a cercare lo scambio, a rallegrarci del bene dell’ altro. Caino ha perduto il senso, il valore del rapporto con il fratello e giunge a uccidere. In tale situazione, non è più in grado di ascoltare la voce di Dio, tanto è vero che Caino la banalizza, se ne prende gioco. «Allora il Signore disse a Caino: « Dov’è Abele, tuo fratello? ». Rispose: « Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? »» (v. 9).

Il racconto dei figli di Dio e delle figlie degli uomini «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero le loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora il Signore disse: « li mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni ». C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi» (Genesi 6, 1-4). Il brano evoca leggende e saghe antiche di cui è difficile dire quale sia stato il contenuto vero. Lo scrittore sacro però ritiene questi brandelli di memorie per offrirci un quadro della dimenticanza, perdita e confusione di rapporti fondamentali. Il primo è di nuovo sul tema della fraternità, sul rapporto uomo-donna: «ne presero per mogli quante ne vollero». Leggiamo qui l’inizio della considerazione della donna quale oggetto, quale cosa; non come un « tu » con cui avviene uno scambio unico e indivisibile. La donna è vista come forma di possesso, non nella sua dignità pari a quella dell’uomo. C’è un altro aspetto che oggi sentiamo vivamente ed è dato dalla menzione un po’ oscura dei giganti, quasi che l’umanità si sia illusa e si possa illudere di creare uomini con poteri divini, superuomini. Pensiamo alla tremenda tentazione della biotecnologia: prendere in mano la vita, moltiplicarla, creare nuove razze di umanità, nuove forme del vivere, immaginare che la terra possa essere oggetto di sfruttamento totale e che l’uomo debba vivere in tubi stellari. Tutti progetti che la scienza, credendosi onnipotente, elabora senza più fermarsi e smarrendo il rapporto equilibrato dell’uomo con la terra. È quindi la perdita dell’ armonica relazione uomo-terra, uomo-corpo, dell’ attenzione ai ritmi dell’ esistenza, che certamente sono in continua evoluzione e l’uomo deve saper dominare, ma che non possono essere impunemente distrutti.

Il racconto della torre di Babele «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’ oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: « Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco ». li mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: « Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra ». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. li Signore disse: « Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro ». li Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Genesi 11, 1-9). È un racconto misterioso, allusivo, pieno di simboli e si riferisce a situazioni originarie dell’umanità; in questo senso è esemplare. Dice non soltanto ciò che è avvenuto, ma ciò che può avvenire, che avviene. Che cosa è accaduto? Il punto di partenza è una situazione di perfetta comunione: «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole». A un certo punto però si scopre il mattone. Mentre prima si costruiva con il legno, o mettendo le pietre una sull’ altra facendo una casa al massimo di un piano, con il mattone, strumento ben maneggevole e di costruzione leggera, l’uomo comincia a pensare di non avere più limiti alla sua possibilità operativa e di poter arrivare addirittura in cielo. Di per sé siamo di fronte a un fatto tecnico che non è né buono né cattivo. Tuttavia vi leggiamo dietro l’entusiasmo, la presunzione, l’ambizione che viene dalle scoperte; un po’ come oggi la scoperta del computer con cui posso imitare l’intelligenza e tenere il mondo m mano. «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (v. 4). Dalla soddisfazione della scoperta del mattone nasce un progetto esorbitante, la pretesa di un’impresa colossale, destinata a durare per sempre, a significare l’autosufficienza umana, la capacità che l’umanità ha di edificare se stessa in assoluto. Siamo noi che ci diamo gloria e siamo noi gli arbitri del nostro destino presente e futuro. Sottilmente, senza una dichiarazione esplicita, laicamente, è rotto il contatto con Dio. Perché, in verità, è Dio che dà un nome, che lancia un ponte verso l’uomo. Il peccato dunque non consiste nel proposito di costruire una torre, bensì nella rottura della coordinata del timore di Dio, della soggezione dell’uomo al Signore del cielo e della terra. Il testo biblico non fa applicazioni morali, ma le cogliamo nella conclusione del castigo divino: « »Scendiamo e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro ». li Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (vv. 7-9). Noi siamo in pieno dentro tale tentazione, molto più che nei secoli passati: le continue scoperte, infatti, ci fanno ritenere di non dover dipendere più da nessuno, di poter dare il nome a noi stessi. Quanto più assumiamo responsabilità sociali, civili, politiche, scientifiche, tanto più ci troviamo immersi in una mentalità che ha perduto le coordinate, le ha confuse, spinge a vivere situazioni che vanno dall’esaltazione alla depressione, situazioni di sfiducia nella vita, di scoraggiamento, di amarezza perché dalla voglia sfrenata di possedere tutto si passa facilmente al senso della propria povertà fisica, morale, spirituale e si finisce per non capire più nulla. Quello della torre di Babele è il racconto di una colpa collettiva; mentre il rifiuto del disegno di Dio da parte di Adamo ed Eva era espresso in termini individuali, il rifiuto della gente di Babele è narrato in termini collettivi. La radice di questo peccato è la pretesa dell’uomo di essere il centro di tutto, di non avere bisogno di Dio, di staccarsi dalla dipendenza creativa, magari senza negarla, ma agendo per proprio conto. E il fenomeno odierno di guazzabuglio culturale: idee, pensieri, progetti, filosofie che contrastano tutte con l’idea di servire l’uomo.

La discesa di Cristo agli inferi

La discesa di Cristo agli inferi dans immagini sacre anastasi

http://pennacreativa.altervista.org/page/17/

Publié dans:immagini sacre |on 1 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

DAI «DISCORSI» DI SANT’ATANÀSIO – SULLA RESURREZIONE

http://www.maranatha.it/Ore/def/LETTpage.htm

DAI «DISCORSI» DI SANT’ATANÀSIO, VESCOVO DI ANTIÒCHIA

(Disc. 5 sulla risurrezione di Cristo, 6-7. 9; PG 89, 1358-1359. 1361-1362)

Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo «Per questo Cristo é morto ed é ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14, 9). Ma «Dio non é Dio dei morti, bensì dei vivi» (Mt 22, 32). Perciò i morti sui quali domina colui che é risorto, non sono più morti, ma viventi; e domina su di loro la vita proprio perché vivano, senza temere più la morte, come «Cristo, risuscitato dai morti, non muore più» (Rm 6, 9). Così risuscitati e liberati dalla corruzione, non vedranno più la morte, ma parteciperanno alla risurrezione di Cristo, come Cristo fu partecipe della loro morte. Non per altro motivo infatti egli discese sulla terra, incatenata da antiche catene, se non per infrangere le porte di bronzo e spezzare le sbarre di ferro (cfr. Is 45, 2; Sal 106, 16) della morte e per trarre a sé dalla corruzione la nostra vita, donandoci la libertà al posto della schiavitù. Se non appare ancora ultimata l’opera di questo disegno divino (gli uomini infatti continuano a morire e i corpi si dissolvono nella morte), il fatto non deve certo per questo diventare motivo di diffidenza. Già in anticipo infatti abbiamo acquisito un pegno di tutti i beni futuri mediante le primizie con le quali siamo già stati innalzati al cielo e ci siamo seduti con colui che ci ha portati in alto con sé, come dice Paolo: «Con lui ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù» (Ef 2, 6). Raggiungeremo il completamento quando verrà il tempo prestabilito dal Padre, quando avremo lasciato l’infanzia e arriveremo allo stato di uomo perfetto. Così parve bene al Padre dei secoli, perché fosse stabile il dono concesso e non divenisse nuovamente precario per le infantili follie del nostro cuore. Sul fatto poi che il corpo del Signore sia risorto spirituale, cosa dobbiamo dire, quando Paolo dei corpi risuscitati afferma che «si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale» (2 Cor 15, 44), cioè corpi trasfigurati ad immagine della gloriosa trasfigurazione di Cristo, che precede come guida? L’Apostolo inoltre dice che questo fatto, a lui ben noto, si sarebbe avverato per tutto il genere umano per mezzo di Cristo, «il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3, 21). Se dunque la trasfigurazione é il cambiamento in un corpo spirituale e questo é conforme al corpo glorioso di Cristo, Cristo é certo risorto con un corpo spirituale; esso non é altro che il corpo «seminato ignobile» (cfr. 1 Cor 15, 43), ma mutato poi in glorioso. Egli avendo portato al Padre le primizie della nostra natura, gli condurrà pure tutto l’universo; lo ha promesso quando ha detto: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32).

Publié dans:Padri della Chiesa e Dottori |on 1 novembre, 2015 |Pas de commentaires »
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