Archive pour novembre, 2015

CHI MINACCIA IL CRISTIANESIMO – ENZO BIANCHI

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CHI MINACCIA IL CRISTIANESIMO – ENZO BIANCHI

É un tempo triste perché il cristianesimo appare minacciato nel suo specifico, e minacciato non da chi lo avversa o addirittura lo perseguita bensì, come sovente accade nella storia, dai credenti stessi. Perché?  “Questo è un tempo triste per chi non possiede la verità e crede nel dialogo e nella libertà”, così si esprimeva recentemente Gustavo Zagrebelsky. E io aggiungerei che è un tempo triste anche per molti cattolici che certo non pensano di possedere la verità ma, pur mettendo la loro fede in Dio e in Gesù Cristo che lo ha narrato, sanno che la verità precede sempre i credenti: questi la ricercano con una conoscenza sempre limitata, relativa, provvisoria, in attesa che si manifesti pienamente con la Venuta del Signore. Sì, è un tempo triste perché il cristianesimo appare minacciato nel suo specifico, e minacciato non da chi lo avversa o addirittura lo perseguita bensì, come sovente accade nella storia, dai credenti stessi. Perché?  Innanzitutto perché sta emergendo – e trova chi gli conferisce pieni diritti e legittimazione – un cristianesimo finora inedito (lo si può forse definire post-cristiano) che non ha più come fondamento e ispirazione la parola di Dio contenuta nelle Scritture, un cristianesimo che non vuole più essere giudicato sul suo essere o meno “evangelo”, un cristianesimo che preferisce essere declinato come “religione civile”, capace di fornire un’anima alla società, una coesione a identità politiche, diventando così quella morale comune che oggi sembra deducibile solo a partire dalle religioni. In quest’ottica pare che l’unico interesse sia che la chiesa rappresenti un elemento centrale della vita della società, e poco importa se questo significa che il vangelo perda il suo primato, che non ci sia più possibilità di profezia, che finiscano per prevalere logiche di potere… Se è possibile un uso religioso della politica e un uso politico della religione attraverso una libera contrattazione, perché rifiutarlo? Se la chiesa è una riserva di etica, perché non lasciare che altri vi attingano? E se la religione appare l’unico legame della tradizione nazionale, perché non usarla? Se l’imperatore invita a palazzo e si mostra riconoscente verso il servizio apprestato alla società dai cristiani, perché disertare il palazzo? E se queste scelte appaiono vincenti, perché mai averne paura? Sì, non più la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini, non più la sua parola sono criterio di autenticità e comunione, ma un progetto politico riguardante la presenza e il peso della chiesa nella società. La fede è così mondanizzata e la chiesa politicizzata, a tal punto da essere ferita nella sua qualità comunionale.  Son passati quasi quarant’anni da quando accogliemmo con gioia la pubblicazione di un piccolo libro che chiedeva di guardare alla crisi del cattolicesimo di allora – dovuta soprattutto al misconoscimento del primato della fede attraverso una ideologizzazione politica – come al “caso serio” (questo il titolo dello scritto di Hans Urs von Balthasar): oggi la situazione pare ribaltata, ma avremmo bisogno che risuonasse nuovamente questo grido di allarme, questo forte appello alla vigilanza in una situazione che pare caratterizzata da torpore e afasia da parte di molti cristiani. Sì, emerge ormai un cristianesimo senza fede intesa come quella adesione a Gesù Cristo che si traduce in una sequela, in una vita totalmente coinvolta nella sua vita fino, diciamolo chiaramente, alla croce. Ciò che invece conta ed è determinante non è più la sequela – questa faticosa, esigente, perseverante condotta di vita che si vuole secondo il vangelo – bensì il riconoscimento della civiltà cristiana, il saperne leggere e difendere l’eredità storica e culturale, l’esaltazione e la posta in rilievo dei suoi simboli. Non importa più la coerenza tra quel che si vive, personalmente e comunitariamente, e le esigenze poste da Cristo ai suoi discepoli in materia di sessualità, di matrimonio, di capacità di condivisione, di giustizia, di riconciliazione e di pace… in una parola: non si guarda più se in una persona sono presenti quelle “obbedienze” al vangelo che “fanno” il cristiano, nonostante e al di là delle fragilità umane che sempre lo accompagneranno; si guarda invece alla capacità di assumere il cristianesimo come identità culturale, come istanza religiosa nel pluralismo delle fedi, come possibilità di coesione in un mondo frammentario e diviso.  Accanto a questo cristianesimo di cristiani che difettano di sensus fidei e di sensus ecclesiae, (di senso della fede cristiana e di senso della chiesa), c’è poi la presenza di altri che si dicono atei, non credenti in Dio, che non hanno mai avuto interesse per la vita ecclesiale, che sovente hanno addirittura deriso e disprezzato la fede cristiana, ma che oggi si presentano come “nuovi alleati”, capaci di convergere con visioni cattoliche in materia di etica, provvidenziali difensori dei valori e delle tradizioni cristiane. Costoro, individuati alcuni anni fa come intellettuali o politici cui i cattolici potevano fare riferimento per un dialogo fruttuoso, sono stati poi giudicati “vicini alla chiesa” per le posizioni politiche assunte e ora paiono divenuti quasi gli unici partners del dialogo che i cattolici dovrebbero tessere con i non credenti, più affidabili di quegli autentici cristiani che, con faticosa e fedele perseveranza, cercano di tradurre il vangelo nella loro vita quotidiana e nella compagnia degli uomini.  Così si costringe la chiesa ad assumere, nei criteri di intervento e nei metodi, la logica della lobby, del gruppo di pressione, e si rischia di offuscare la sua forza profetica e la sua trasparenza di serva del vangelo. E’ un pericolo che molti paiono ignorare, ma che altri non solo sembrano assecondare, ma giudicare un’occasione provvidenziale da sfruttare assumendo la logica aggressiva dell’adunata e della battaglia. E’ forse questa la via del dialogo che la chiesa ha scelto come irreversibile con il concilio Vaticano II? No, su questa strada il dialogo con i laici, i non cristiani, diventa una debole possibilità e, di fatto, si costruiscono nuovi muri e si rischia il ritorno a una situazione già conosciuta e che credevamo alle spalle per sempre: quella della contrapposizione tra clericali e anticlericali, tra una parte dei credenti tentati dall’arroganza e quei non credenti che si nutrono di logiche laiciste. Abbiamo bisogno, oggi più che mai, per evitare uno scontro che si consumerebbe non tra grandi religioni ma al loro interno e, nella stessa area culturale, tra quanti credono e quanti non credono, di una laicità dello stato riconosciuta e confermata da tutti. Il cardinale Ratzinger ha scritto che qualora si tentasse “una teologizzazione della politica, allora ci sarebbe una ideologizzazione della fede … e la politica non si desume dalla fede ma dalla ragione. In questo senso lo stato dev’essere uno stato laico, profano nel senso positivo”.  Sì, lo stato deve essere laico e deve sapere che la società civile, invece, laica non è: per questo lo stato deve difendere la libertà di coscienza e vigilare su una coesistenza pacifica tra tutte le componenti della società, opponendosi a ogni forma di violenza utilizzata per promuovere convinzioni religiose e morali. Tuttavia, senza fare della sua laicità un’ideologia laicista, lo stato deve promuovere quella laicità che Ricoeur chiamava “laicità di confronto”, una laicità capace di rispetto per le religioni, le loro manifestazioni pubbliche e le loro convinzioni, proposte anche alla società nella dialettica democratica: lo stato deve cioè svolgere un ruolo attivo ispirato a una sua neutralità positiva, capace di garantire il pluralismo e di tutelare i diritti delle minoranze. I laici, rinunciando a una laicità che sia ideologia statale, sapranno praticare un dialogo con i credenti, accogliendo il confronto democratico con le loro istanze espresse in termini etico-antropologici senza definirle fondamentaliste, ma cogliendone invece la possibile qualità di servizio all’uomo? Sono disponibili ad accettare che le esperienze religiose forniscano liberamente un contributo specifico alla società e alla democrazia? E i cattolici sono oggi in grado di assumere questa laicità, di non temerla ma, anzi, di saperla difendere? Io sono convinto che molti tra i credenti e i laici possano addirittura farsi sentinelle di questo compito: sono tutti coloro che cercano insieme agli altri uomini vie di pace, di giustizia e di qualità della convivenza, sono tanti uomini e donne mossi dalla “com-passione”, cioè dalla solidarietà attiva con chi soffre, dal farsi carico anche delle fatiche degli altri, dal condividere l’affascinante e laboriosa ricerca di un mondo maggiormente a misura d’uomo, che significa sostenibile dai più deboli, dagli ultimi.

Cristo Re dell’Universo

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DOMENICA 34A TEMPO ORDINARIO – B / CRISTO, RE DELL’UNIVERSO – 25 NOVEMBRE 2012 –

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DOMENICA 34A TEMPO ORDINARIO – B / CRISTO, RE DELL’UNIVERSO – 25 NOVEMBRE 2012 –

di Paolo Farinella, prete

Con la domenica di oggi che la liturgia dedica a «Cristo Re dell’universo» si conclude ogni anno liturgico dell’intero ciclo, A-B-C. Con domenica prossima, con la 1a di Avvento, inizia l’anno C con cui concludiamo il ciclo liturgico triennale con il risultato che avremo proclamato, ascoltato e letto le parti più importanti di tutta la Bibbia. Siamo alla fine dunque, ma siamo anche all’inizio: un anno si chiude e un altro comincia e forse dovremmo riflettere sul senso del tempo come dimensione dell’anima, come incarnazione dell’eternità. Per i Greci il tempo è una tragedia perché scandisce il ritmo del fato che è come una prigione da cui nessuno può scampare. Per l’uomo biblico, il tempo è «un evento» perché segna e rivela l’irruzione imprevista e imprevedibile di Dio nella storia di Israele che così comincia a misurare il suo tempo con il metro dell’eternità. Per la Bibbia infatti, il tempo non è più uno scorrere inesorabile, ma un andare in alto mentre si va avanti. Sant’Agostino si domanda: «Che cosa dunque è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più»1 perché il tempo è una dimensione dell’anima, un processo dello spirito che deve contemporaneamente coordinare e armonizzare il mondo finito e il mondo eterno che coesistono nel cuore umano. Finitezza ed eternità non convivono l’una accanto all’altra, ma coesistono in una simbiosi di unità. Solo Gesù vive questa dimensione in modo perfetto: si dice infatti che la sua esistenza è «singolare» in quanto in lui e solo in lui l’umano e il divino coincidono. Non così in noi, ma in modo simile condividiamo i due versanti della vita: viviamo la finitezza che accade nel succedersi degli eventi e nel limite dell’esperienza e allo stesso tempo sperimentiamo la stabilità dell’eternità di cui nutriamo un desiderio infinito: «Per te ci hai fatti e il nostro cuore è inquieto finché in te non trovi pace»2. La fine di un ciclo liturgico ci introduce in questa dimensione e ci impone una riflessione, quasi un esame di coscienza, una valutazione di senso. Cosa è stato questo anno per noi, come singoli e come comunità eucaristica? Abbiamo lasciato che il Signore si avvicinasse di più e partecipasse alla nostra vita, alle nostre scelte? Ci siamo lasciati vivere dalla rassegnazione senza speranza oppure abbiamo vissuto consapevoli che la nostra vita è abitata dallo Spirito Santo? Abbiamo fatto un po’ più di amicizia con noi stessi o siamo rimasti come prima, delusi e non soddisfatti di noi stessi? A che punto è la stima che abbiamo per noi, se Dio ci ha concesso un anno ancora per mettere a fuoco l’immagine che noi siamo di lui? Dio ci ama di un amore singolare e personale perché noi lo rendiamo visibile e partecipato. Questo è il senso del tempo. Per i Greci il tempo è una condanna, raffigurata dal simbolo del cerchio [?] che esprime l’eterno ritorno delle cose, sempre uguali e sempre nelle mani del fato che inesorabile decide la sorte di ciascuno. Non serve impegnarsi e scegliere perché il destino ci ha segnati fin dal principio. Il tempo è rassegnazione che bisogna lenire assecondandolo e divertendosi. L’uomo greco non ha prospettive perché gli dèi non sono meno degli esseri umani e anch’essi sono soggetti al fato che provano a cambiare, ma raramente vi riescono. Gli dèi greci sono la proiezione esasperata dell’incapacità umana. Il tempo è una condanna. Per i Romani il tempo è un compito e si raffigura nel segno di un vettore (?) che procede sempre in avanti come le legioni romane alla conquista del mondo. Il tempo è la testimonianza alla potenza romana che avanza e domina. Pur ammettendo che c’è un destino, il pensiero romano vede la storia come conquista della volontà e il tempo come dimensione dell’uomo che «è responsabile del proprio futuro»3. Se per i Greci tutto dipendeva dagli dèi capricciosi, per i Romani tutto dipende dalla propria capacità di imporsi. Il tempo romano è una mèta senza fine che bisogna costruire per raggiungere. Per gli ebrei e i cristiani il tempo è un movimento di qualità, raffigurato da una spirale [?] che rappresenta da una parte un perenne ritorno come ripresa del punto precedente, ma da una prospettiva sempre più alta e sempre più avanti. Il tempo ebraico-cristiano recupera il passato, ma lo proietta sul futuro. E’ la sintesi perfetta del tempo greco e di quello romano e per la rivelazione cristiana è caratterizzato dal «kairòs – [occasione favorevole/propizia]» cioè dall’evento di qualità che segna una svolta e un progresso nel divenire umano. E’ la sacramentalità del «memoriale» (in ebr. «zikkaròn») che non è il ricordo che richiama solo cose passate e finite, ma è «memoria» che rivive in modo nuovo gli eventi passati che richiama e ricorda. Il pastore vede «oggi» la pecora che partorisce un agnellino e ricorda che anche lo scorso anno è avvenuto lo stesso evento. Nel vivere «oggi» questo evento, in modo sperimentale, ma anche nuovo, prende atto che il gregge è aumentato, che la sua vita è cambiata e che la benedizione di Dio è stata grande. «Memoriale – zikkaròn» è essere oggi quello che si è stati ieri, ma con una novità in più, una ricchezza o povertà in più. Il tempo è la coscienza di ciò che avviene, è la conoscenza di ciò che accade. L’ebreo che vive il tempo come dimensione memoriale della vita, entra in una dinamica celebrativa e partecipa al mondo di Dio attraverso la lode, il sacrificio e la comunione di vita e si vede proiettato in un avvenire di speranza e di prosperità. Il tempo è la Shekinàh di Dio che dimora tra noi e la coscienza di appartenere a Dio. Per i cristiani che assumono in pieno il senso ebraico del tempo, c’è un fatto nuovo e imprevisto: il tempo è il «luogo» dell’incarnazione del Lògos eterno che semina il germe della divinità nella fragilità umana (cf Pr 8,22-31; Sir 24,1-22; Gv 1,1-18) e anche il punto di partenza della risurrezione di Gesù. Nell’«ora» del «mistero pasquale» il tempo diventa eterno e l’eternità diventa temporale. Celebrare l’Eucaristia quindi non significa solo compiere un rito, ma spalancare le porte della finitezza all’onnipotenza di Dio e anticipare «qui e ora» quella dimensione del Regno di Dio di cui siamo parte e a cui nel contempo aspiriamo. La solennità di Cristo, re dell’universo, è prendere coscienza che tutto ciò sta accadendo mentre lo celebriamo e lo viviamo per grazia e potenza dello Spirito Santo. Lo facciamo con le parole dell’Apocalisse (Ap 5,12; 1,6): «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore: a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli». Spirito Santo, tu, prepari il mondo all’incontro con Cristo, signore della Storia, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu sveli il mistero del Figlio dell’uomo come Figlio di Dio, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu guidi i popoli e le nazioni a riconoscere in Gesù il loro Messia, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu rendi saldo il mondo degli uomini sulla roccia della fede, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu manifesti lo splendore della santità di Dio negli avvenimenti, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu sei il testimone fedele vivente nei martiri della fede per amore, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu custodisci il tuo popolo come popolo di sacerdoti per il regno, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu convochi i popoli al raduno finale davanti all’Amen di Dio, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu ci introduci nel regno di Colui che è che era e che viene, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu susciti nei credenti l’accoglienza di Cristo, re dei Giudei, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu ti ci doni la consapevolezza che non siamo del mondo, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu sei la verità che ci forma alla testimonianza del Signore, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, tu vuoi i nostri cuori per farne gli strumenti del regno dei cieli, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, rinnova i nostri cuori, raduna i dispersi in un unico popolo, Veni, Sancte Spiritus. Spirito Santo, Padre dei poveri, fiamma d’amore, vieni e resta con noi, Veni, Sancte Spiritus. La fine di un anno liturgico non è mai una tragedia per la fede cristiana perché è anche l’inizio del nuovo ciclo. Nel momento in cui termina qualcosa, nulla finisce e tutto riparte di nuovo con una novità: un anno in più di esperienza di Spirito Santo. Nessuno parte mai da zero, ma tutti siamo l’anello di un processo che va verso il compimento. E’ questo il senso sereno della speranza cristiana che ci invita a fare un esame di coscienza senza angoscia e senza recriminazioni. Prendiamo atto di ciò che questo anno è stato e regaliamolo al Signore, invocando lo Spirito per avere più luce e più forza nel prossimo anno. Vogliamo invocare il Nome santo di Dio su ogni individuo, uomo e donna, bambini e anziani, senza escludere alcuno: (italiano) Nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. (ebraico) Beshèm ha’av vehaBèn veRuàch haKodèsh. Esaminare la propria coscienza significa non perdere mai il contatto con se stessi e con la dimensione umana delle nostre relazioni. Stare davanti a Dio significa «sapere» che Dio è davanti a noi non come un contabile fiscale, ma come «colui che salva» (Yeoshuà – Gesù). Ci lasciamo quindi pervadere dalla dolcezza dell’abbandono che l’amore sa sperimentare. Esaminiamo la nostra coscienza. [Breve, ma reale pausa] Signore Gesù Cristo, tu hai detto che il tuo Regno non è di questo mondo, Maràn athà! Kyrie, elèison. Cristo Gesù, Creatore e Redentore del mondo e della Storia, Maràn athà! Christe, elèison. Signore che chiami uomini e donne a collaborare alla tua salvezza, Maràn athà! Pnèuma, elèison. Cristo Gesù che non fai concorrenza ai potenti del mondo, Maràn athà! Christe, elèison. Signore, tu sei il Re che si fa servo per lavare i piedi dei suoi figli e figlie, Maràn athà! Kyrie, elèison. Dio onnipotente, che ci hai voluto dare nel tuo Figlio Gesù il modello di ogni autorità quando si è presentato come colui che serve a tavola, abbi misericordia di noi, perdona i nostri peccati, specialmente quelli di omissione, e rendici degni di varcare la soglia del tuo Regno, Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen. GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente [breve pausa 1-2-3]

Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3] Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3] Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen. Preghiamo (colletta). O Dio, fonte di ogni paternità, che hai mandato il tuo Figlio per farci partecipi del suo sacerdozio regale, illumina il nostro spirito, perché comprendiamo che servire è regnare, e con la vita donata ai fratelli confessiamo la nostra fedeltà al Cristo, primogenito dei morti e dominatore di tutti i potenti della terra. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen. MENSA DELLA PAROLA Prima lettura Dn 7,13-14. La liturgia riporta due versetti del capitolo 7 del libro di Daniele, il più importante scritto dell’apocalittica giudaica4, corrente di pensiero molto diffusa al tempo di Gesù. Non è opera di un solo autore, ma è una raccolta di racconti edificanti con sogni e visioni come profezia di un prossimo futuro. Lo scritto vuole offrire una visione della storia che dia coraggio e speranza ai Giudei al tempo della persecuzione di Antioco IV Epifane (164 a.C.). Questa speranza è una persona misteriosa, il Figlio dell’uomo a cui Dio affida la salvezza dell’umanità redenta che alla luce del mistero pasquale acquista il volto del Figlio di Dio, nato da Maria di Nàzaret: Gesù/Jehoshuà/Dio è salvezza. Dal libro del profeta Daniele Dn 7,13-14 13 Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. 14 Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto. – Parola di Dio. Salmo responsoriale 93/92, 1ab; 1c-2; 5. Il salmo è un trionfale inno a Dio creatore e salvatore d’Israele: la sua presenza si manifesta nella gloria della sua potenza (v. 1), nel creato (vv. 1c-2), ma anche nella Toràh e nel culto del tempio (v. 5). Nulla è estraneo a Dio perché non esiste più la separazione tra sacro e profano: la liturgia del tempio risuona e si confonde con la lode dell’universo. Celebrare l’Eucaristia significa sperimentare il Dio creatore, celebrato come redentore e ascoltato nella Parola che è il Figlio incarnato che diventa vita. Rit. Il Signore regna, si veste di splendore. 1. 1 Il Signore regna, si riveste di maestà: si riveste il Signore, si cinge di forza. Rit. 3. 5 Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti! La santità si addice alla tua casa 2. È stabile il mondo, non potrà vacillare. 2 Stabile è il tuo trono da sempre. Rit. per la durata dei giorni, Signore. Rit. Seconda lettura Ap 1,5-8. L’Apocalisse è una lettera, forse una liturgia che alla fine del sec. I d.C. l’autore dedica alle chiese dell’Asia Minore. Il brano di oggi riporta parte dell’indirizzo di dedica, modificato per mettere in risalto la centralità di Cristo che al v. 5 viene qualificato con tre titoli: testimone fedele perché ha vissuto fino alla morte nella coerenza della testimonianza; primogenito dei morti perché vince la morte (1Cor 15,20; Rm 6,9); principe dei re della terra perché ha ricevuto da Dio ogni potere (cf Is 55,44; Dn 7,13-14). L’espressione del v. 8 «Colui che è, che era e che viene» è la migliore traduzione del Nome stesso di Dio, rivelato a Mosè sul Sinai, e cioè Yhwh visto nel dinamismo della salvezza che si fa storia, quella storia che è il luogo dove Dio parla e incontra l’umanità: «Io-Sono colui che sono stato e sono stato colui che sarò» (cf Es 3,7). La pienezza però del Nome santo di Dio è «Gesù/Jehoshuà/Dio è salvezza» che noi riceviamo, ascoltiamo e condividiamo nella santa Eucaristia, il sacramento del Lògos che si fa carne, cioè storia umana (cf Gv 1,14). Dal libro dell’Apocalisse di Giovanni apostolo Ap 1,5-8 5 Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, 6 che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. 7 Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! 8 Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente! – Parola di Dio. Vangelo Gv 18,33-37. Il sinedrio giudaico aveva il potere di condannare a morte, ma non quello di eseguire l’esecuzione che Roma aveva avocato a se come segno di potere e dominio. Si capisce perché l’accusa dei Giudei contro Gesù è di usurpazione del titolo di re. Secondo i Giudei, infatti,, Pilato, custode dei diritti dell’imperatore (Lc 23,2) non può non condannarlo a morte per «lesa maestà». Pilato, invece, in Gv interroga Gesù con il quale instaura un dialogo profondo, a differenza dei Sinottici, dove Gesù tace ad imitazione del Servo sofferente (Is 53,7). Tutto il racconto della passione secondo Gv è imperniato sulla regalità di Cristo e sulla sua investitura ad opera dei soldati romani, inconsapevoli rappresentanti del mondo pagano che riconoscono in Gesù il Re universale di un regno di pace e di amore. La regalità di Cristo non è di questo mondo, perché egli offre la sua vita per il suo popolo e per i pagani, a differenza dei potenti della terra che prendono la vita dei loro popoli per soddisfare i propri bisogni e interessi. Il trono di gloria di questo re «atipico» è il trono della croce, lo stesso in cui è assiso nell’Eucaristia che noi riviviamo. Questo è il motivo per cui il Crocifisso non potrà mai essere utilizzato come segno distintivo di «una» civiltà perché esclude tutte le altre. La laicità di Cristo è la premessa della sua missione universale. Canto al Vangelo Cf Mc 11,10 Alleluia. Benedetto colui che viene nel nome del Signore! / Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Alleluia. Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 18,33-37 In quel tempo, 33 Pilato rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». 34 Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». 35 Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». 36 Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». 37 Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». – Parola del Signore. Spunti di omelia Domenica scorsa, 23a del tempo ordinario – B, abbiamo riflettuto sul tema della fine del mondo e abbiamo meditato sul tempo supplementare che Dio concede in vista della conversione dell’umanità, finalizzata al riconoscimento di Gesù come Signore. Oggi, ultima domenica dell’anno liturgico, la chiesa c’invita a riflettere sulla realtà del Regno di Dio o meglio sulla regalità di Gesù. Considerata l’importanza e l’equivocità di questa festa, oggi rischiamo di fare una riflessione spiritualistica astratta che è il contrario di ciò che deve essere l’omelia e cioè l’inveramento della Parola, almeno come sforzo, nell’oggi della storia che viviamo. Per capire il vangelo di oggi è necessario riflettere sui molteplici contesti in cui questa Parola viene proclamata, altrimenti si perde di vista l’obiettivo e il punto di partenza. E’ un’omelia diversa dalla precedenti e speriamo che nessuno dica che è una lezione di storia o una riflessione politica. Da un altro punto di vista è solo ascolto della Parola. Il tema di «Cristo Re» è un po’ fuori moda perché estraneo all’orizzonte della nostra cultura che vive e si sviluppa in un contesto di democrazia, reale o fittizia che sia: anche i molti re e regine che esistono ancora sono solo poco più che simbolici perché esprimono monarchie parlamentari, con l’unico vantaggio di essere re e regine (e seguito) mantenuti gratis dai rispettivi popoli, felici di pagare più tasse per mantenere uno stuolo di fannulloni. La regalità di Cristo è un argomento da usare con prudenza perché spesso è stato utilizzato ideologicamente per giustificare scelte clericali e/o politiche di natura mondana in compromesso o in contrapposizione ai regni degli uomini. Con l’avvallo della gerarchia, e spesso con il suo sprone e madrinaggio, nella Chiesa cattolica prendono sempre più piede movimenti e gruppi che vogliono riportare la Chiesa indietro nell’orologio della storia. Per loro il concilio ecumenico Vaticano II è una sciagura e espressamente accusano di eresia Paolo VI (forse il più grande papa del XX secolo), mentre di papa Giovanni dicono più subdolamente che non era in grado di capire la portata del danno che faceva alla Chiesa convocando il concilio. Questi movimenti e gruppi sono alleati con i «teo-con» di turno, cioè con quel tentativo organizzato di pensiero che si ispira ai valori religiosi (teo) in chiave conservatrice in economia, politica e ambito sociale (con). Essi sono espressioni del mondo dei ricchi che non vogliono cambiare né stile di vita né strumenti economici, né tanto meno vogliono sentire parlare di re-distribuzione della ricchezza secondo giustizia. Per questi neo pagani l’unica giustizia è il loro tornaconto e l’accumulo della ricchezza senza limiti. Il concetto che sta alla base della loro visione di vita è il fatalismo funzionale: se uno nasce ricco o povero è un segno di Dio e non bisogna ribellarsi allo stato di vita in cui uno si trova. Compito della Chiesa, in questo contesto, è richiamare i ricchi al loro dovere di «compassione» verso i poveri di cui bisogna farsi carico attraverso apposite istituzioni caritatevoli: i poveri, visto che non è possibile eliminarli, sono necessari per aiutare i ricchi a salvarsi con un po’ di elemosina nelle grandi occasioni o nelle feste in cui si può essere riveriti e visti. Senza poveri, il mondo è più povero perché i ricchi a chi fanno l’elemosina o per chi organizzano beneficenze, detratte le spese? I gruppi religiosi che contestano il concilio Vaticano II hanno come obiettivo di ritornare allo stato ante-concilio: alla società ordinata cristianamente attraverso l’educazione morale che è compito specifico della Chiesa e attraverso l’ordine pubblico che è compito dello Stato, il cui potere è sottomesso a quello della Chiesa che rappresenta una realtà più alta e superiore perché eterna5. Questi gruppi usano immagini, programmi e terminologia militare se non militarista: «Milites – Soldati» oppure «Legio – Legione» oppure «Opus – Opera/Organiz-zazione» che alla loro visione della storia arruolano Cristo o la Madonna per portare la guerra al mondo, avendo dimenticato che è quel mondo che «Dio ha tanto amato da dare il suo figlio unigenito» (Gv 3,16). Altri si fanno scudo di sigle più apparentemente spirituali, ma dietro le quali si nascondono potenti organizzazioni politico-economiche che mentre condannano il mondo «moderno», non disdegnano di fare affari con esso e con «mammona iniquitatis» (Mt 6,24) come l’Opus Dei, Comunione e Liberazione (attraverso la Compagnia delle Opere) , ecc. Tutti fanno riferimento all’ideale di instaurare in terra il «Regno di Cristo», ma ognuno piega il Cristo alla propria ideologia. Non sanno o forse lo sanno bene che il loro modo di usare la religione è strumentale e ideologico: leggono la Scrittura in modo fondamentalista, rifiutano il metodo storico-critico, ma sottomettono la Bibbia alla loro visione di pensiero che contrabbandano come «teologia» perché identificano il loro stesso pensiero con la rivelazione immutabile di Dio. Non leggono né tanto meno interpretano la storia, ma storcono i fatti a seconda delle loro convenienze. Spesso queste organizzazioni sono solo paraventi di psudo-spiritualità per coprire affari sporchi e comportamenti indegni. Quando il potere e il clericalismo entrano in collusione, perde sempre la spiritualità, la trasparenza della missione e l’autenticità della profezia del vangelo che da antagonista dei poteri mondani si trasforma in supporto del potere costituito anche quando fa scelte che opprimo i poveri e gli indifesi. Il profeta Amos ne è testimone. In questi contesti si usa l’ideologia di Cristo-Re, interpretato al modo pagano e si tralascia il Cristo-Pastore che contesta sulla terra ogni potere politico o religioso per affermare la primazia della persona e della coscienza, espressione suprema della Presenza/Shekinàh di Dio. Essi non sanno (o fanno finta di non sapere) che la festa di oggi fu istituita nel 1925 da Pio XI, quando in Europa cominciava a profilarsi il regime nazista e in Italia si rafforzava quello fascista. La festività di Cristo Re volle essere un ridimensionamento della superbia umana che pretendeva di governare il mondo con la sopraffazione e la dittatura. Il nazifascismo sacralizzò il potere anche perché voleva sostituire la religione e il papa fu profeta che anticipò il loro «relativismo» dichiarando con Cristo Re che nessun potere ha qualifiche di divinità. Se il linguaggio della festa odierna è vecchio e anacronistico perché ormai fuori contesto storico, non così il suo contenuto, se siamo capaci di assaporare la Parola di Dio. Istituendo la festa di un Dio «regale», il papa Pio XI volle porre la Chiesa al riparo dai pericoli «millenaristici» temporali che di lì a poco nazismo e fascismo avrebbero messo in pratica. Allo stesso modo il papa reagiva contro il clericalismo che è sempre stato la mala pianta della Chiesa. Come spesso accade, pochi percepirono queste intenzioni del papa, ma ognuno interpretò la festa secondo la propria ideologia e preoccupazione. Il papa fu profeta, ma la festa fu accolta dalla maggioranza dei cattolici e dal clericalismo di sistema come uno strumento ulteriore per difendere il regno di Dio, identificato con il potere che la Chiesa terrena «deve» esercitare sui regni «amici» della terra, contro la modernità che si connotava di laicismo spesso acritico. Sul versante interno alla Chiesa, il papa con questa festa volle tacitare ogni residuo clericalismo, affermando che «Cristo-Re» nulla ha da spartire con i regni di questa terra perché la sua regalità poggia sul mistero della croce e della sofferenza del Figlio dell’Uomo: il «Re-Pastore» offre la vita per le sue pecore (Gv 10,11.15) perché nulla vada perduto tra quanti Dio ha creato e redento (cf Gv 6,39;17,12). Il clericalismo è l’ateismo della fede. Nota. Il papa contro il laicismo afferma la centralità di Cristo «Re dell’universo» contestando la pretesa di quanti vogliono instaurare il paradiso in terra. Bisogna considerare bene il contesto storico: nel 1918 in Russia si era diffuso il leninismo, foriero di inumane tragedie che dureranno 70 anni; nel 1919 nascono i partiti comunisti cinese e italiano e Mussolini organizza il partito fascista come strumento unico dello Stato autoritario; nel 1920 nasce il partito nazista che fin dalla sua prima manifestazione pubblica si prospetta come «totalizzante» contro Dio. Tutta l’Europa sta ponendo le basi per la tragedia che culminerà nella seconda guerra mondiale. Allo stesso modo, il papa istituisce la festa di «Cristo Re» contro un nemico interno alla Chiesa non meno pericoloso di quelli esterni: il clericalismo che, mettendo da parte Cristo, coltivava l’eresia della centralità salvifica della Chiesa come depositaria di ogni potere (spirituale e politico: la teoria delle due spade) che ella dispensa con benignità a chi vuole. E’ evidente che questa concezione pagana del potere clericale era finalizzata all’esaltazione sulla terra del potere ecclesiastico inteso come strumento divino per instaurare non il Regno di Dio, ma il regno dei sacerdoti. All’interno del mondo cattolico, nel contempo, vi era una porzione di Chiesa che spiritualmente sognava un aggiornamento profondo della Chiesa di fronte alle sfide della modernità e, da questo punto di vista «ecumenico» e teologico, giudicò l’istituzione della festa di Cristo-Re un ostacolo alla riconciliazione con il mondo moderno e un impedimento sul cammino dell’ecumenismo. Dopo 40 anni accogliendo in parte le istanze di rinnovamento del popolo di Dio, fu un concilio ecumenico a promulgare la costituzione «Gaudium et Spes», in cui si affermò con forza che la creazione e le realtà terrestri hanno uno statuto di autonomia insito nella natura stessa della realtà. Il concilio riportò la formula e il contenuto dell’espressione «regno di Dio» al suo senso genuinamente biblico, di cui il vangelo di oggi ci da un saggio. La Chiesa «di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio»6. Alla luce della dottrina conciliare, la festa di Cristo-Re è riportata al suo senso genuino e originale: la memoria che come Cristo, anche il suo corpo, la Chiesa «è nel mondo», ma «non è del mondo» (Gv 17,11.13). Il brano del vangelo è tratto dal complesso dei capitoli 18-19 di Gv cioè dal contesto della passione, del processo e di quegli eventi che culmineranno nella morte regale di Cristo. In appendice ne diamo uno schema letterario. Gli Ebrei fin dal monte Sinai con il contratto di alleanza avevano accettato la regalità di Dio su di loro codificata nella Toràh. Questa regalità era esercitata per delega: da Mosè, nel deserto, dai Giudici dopo l’insediamento in Palestina, dai re d’Israele in epoca sedentaria, ma nessuno ha mai messo in discussione la supremazia di Dio su Israele che anzi si considera «proprietà» del Signore (Es 19,5; Gl 4,2). Avviene un fatto nuovo. Alla domanda di Pilato se deve crocifiggere «il vostro re», i Giudei rispondono: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). E’ il momento drammatico: Israele rinnega l’alleanza del Sinai, abdica dalla regalità di Dio e cessa di essere la «proprietà» che Dio ha trapiantato dall’Egitto (Sal 80/79,9). Non ha più Dio come re, ma ha scelto come suo sovrano l’imperatore romano che l’opprime e si fa onorare come divinità. E’ la piena e totale apostasia che si consuma nell’idolatria. Costoro accusano Gesù di usurpare il titolo regale che spetta al loro «dio» che è Cesare e infatti si aspettano che il procuratore Pilato difenda i diritti dell’imperatore (Lc 23,2) e condanni Gesù per lesa maestà. Pilato fa le sue indagini e interroga Gesù, che nei Sinottici resta «muto» diventando l’icona visibile del Servo di Yhwh che restò «muto» davanti ai carnefici (Is 53,7). In Gv Gesù risponde svelando ancora una volta il disegno di Dio e il vero senso della sua «regalità». Gesù capisce che la domanda del procuratore romano viene dai Giudei ed è ad essi che risponde con grande chiarezza distinguendo i due livelli: il mondo del potere e il mondo della grazia: «il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36) che è una costante del suo vangelo (cf Gv 8,23; 17,14). Pilato non capisce né può capire perché non crede e senza fede non può comprendere la differenza tra «cielo e terra». Egli pertanto prende una parte della risposta di Gesù e indaga se la sua affermazione di essere re può insidiare il potere romano e quindi il suo posto: «Dunque tu sei re?» (Gv 18,37). Accortosi che non costituisce un pericolo, cerca di liberalo, ma cozza contro l’apostasia dei Giudei che vogliono Cesare e non Gesù come loro Messia e Re. Gesù, usando gli schemi del suo tempo, si serve del simbolismo del re, ma tiene a precisare che il suo regno non è di questo mondo (cf Gv 18,36): esso si estende a tutti i regni della terra perché è universale, ma non s’identifica con alcuno perché non è nazionale o, ancora peggio, nazionalista. Ogni volta che lo si vuole fare re, Gesù fugge (cf Gv 6,15) perché per lui «essere re» significa essere l’unico mediatore dell’alleanza con il creato e con tutta l’umanità. Egli è re al modo di Davide che conduce le pecore ai pascoli erbosi, le protegge nelle valli tenebrose, le cura con amore (cf Salmo 23/22). Egli è re perché obbediente fino alla morte di croce (cf Fil 2,8) si carica dei peccati dell’umanità e ne fa la sua corona regale simbolo del suo regno di misericordia: egli è re perché perdona7e muore al posto di coloro che sono condannati. L’Eucaristia che celebriamo è lo spazio di questa «regalità» donata che lo Spirito Santo ci fa comprendere e sperimentare che i nuovi segni della regalità di Dio sono il pane che si spezza per nutrire i peccatori e il vino che si versa come ristoro per coloro che erano persi e che sono riportati in vita. Cristo è Re solo perché è Servo. Professione di Fede (rinnovo delle promesse battesimali) La festa della regalità di Cristo ci richiama alla nostra consacrazione battesimale che ci inserisce come membra vive del popolo di Dio, popolo sacerdotale, regale e profetico (1Pt 2,9). Essere un popolo regale significa che non siamo schiavi, ma figli liberati e liberi per un regno di amore. Con questi sentimenti rinnoviamo le promesse del nostro battesimo, avendo la coscienza di essere membra vive della Chiesa nostra Madre. Credete in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra? Credo. Credete in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che nacque da Maria vergine, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre? Credo. Credete nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna? Credo. Questa è la nostra fede. Questa è la fede della Chiesa. Questa fede noi ci gloriamo di professare in Cristo Gesù nostro Signore. Amen. Preghiera universale [Intenzioni libere] MENSA EUCARISTICA Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo: «23Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24). Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano. Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace. [La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico] Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna. Benedetto nei secoli il Signore. Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente. Il Signore riceva dalle tue mani il sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa. Preghiamo (sulle offerte). Accetta, o Padre, questo sacrificio di riconciliazione e per i meriti del Cristo tuo Figlio concedi a tutti i popoli il dono dell’unità e della pace. Egli vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.  

PREGHIERA EUCARISTICA III8 – Prefazio: Cristo re dell’universo

Il Signore sia con voi E con il tuo spirito. In alto i nostri cuori Sono rivolti al Signore. Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio. E’ cosa buona e giusta. È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno. Apparve «uno, simile ad un figlio di uomo… tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto» (Dn7,13.14). Tu con olio di esultanza hai consacrato Sacerdote eterno e Re dell’universo il tuo unico Figlio, Gesù Cristo. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Kyrie, elèison, Christe, elèison, Pnèuma, elèison. Egli sacrificando se stesso immacolata vittima di pace sull’altare della Croce, operò il mistero dell’umana redenzione; assoggettate al suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. Osanna nell’alto dei cieli. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria, della tua santità. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli, ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei cori celesti, proclamiamo con voce incessante l’inno della tua gloria: Santo, Santo, Santo, il Signore Dio dell’universo. Kyrie, elèison, Christe, elèison, Pnèuma, elèison. Padre veramente santo, a te la lode da ogni creatura. Per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, nella potenza dello Spirito Santo fai vivere e santifichi l’universo, e continui a radunare intorno a te un popolo, che da un confine all’altro della terra offra al tuo nome il sacrificio perfetto. Il Signore regna, si riveste di maestà; si riveste il Signore, si cinge di forza (cf Sal 93/92,1). Ora ti preghiamo umilmente:manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri. Cristo, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. (cf Eb 7,24). Nella notte in cui fu tradito, egli prese il pane, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI. Egli è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra (cf Ap 1,5). Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI. «A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen» (Ap 1, 5-6). FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME. «Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore» (Mc 12,29)

Mistero della fede. Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice annunziamo la tua morte, proclamiamo la tua risurrezione, attendiamo il tuo ritorno: Maràn, athà – Signore nostro, vieni. Celebrando il memoriale del tuo Figlio, morto per la nostra salvezza, gloriosamente risorto e asceso al cielo, nell’attesa della sua venuta ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e santo. «Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!» (Ap 1,8). Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione; e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito. Benedetto colui che viene nel nome del Signore! / Benedetto il suo Regno che viene!(cf Mc 11,10). Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito, perché possiamo ottenere il regno promesso insieme con i tuoi eletti: con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con i tuoi santi apostoli, i gloriosi martiri, e tutti i santi e le sante, nostri intercessori presso di te. Disse Pilato a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» (Gv 18.33-34). Per questo sacrificio di riconciliazione dona, Padre, pace e salvezza al mondo intero. Conferma nella fede e nell’amore la tua Chiesa pellegrina sulla terra: il tuo servo e nostro Papa …, il Vescovo …, il collegio episcopale, il clero, le persone che vogliamo ricordare…N.N.… e il popolo che tu hai redento. Vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide (cf Ap 7,9 ). Ascolta la preghiera di questa famiglia, che hai convocato alla tua presenza nel giorno in cui il Cristo ha vinto la morte e ci ha resi partecipi della sua vita immortale. Il Signore è il nostro Re-Pastore che ci conduce alla santa montagna del raduno finale. Gloria al Padre a al Figlio e allo Spirito Santo, unico Dio, Santa Trinità. Ricongiungi a te, Padre misericordioso, tutti i tuoi figli ovunque dispersi. «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, o beata Trinità» (cf Ord. Messa). Accogli nel tuo regno i nostri fratelli defunti e tutti i giusti che, in pace con te, hanno lasciato questo mondo; ricordiamo tutti i defunti… N.N. … concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere per sempre della tua gloria, in Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale tu, o Dio, doni al mondo ogni bene. «Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”» (Gv 18,36). Dossologia [è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio] Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. Padre nostro in aramaico: Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo: Padre nostro che sei nei cieli Avunà di bishmaià sia santificato il tuo nome itkaddàsh shemàch venga il tuo regno tettè malkuttàch sia fatta la tua volontà tit?abed re?utach come in cielo così in terra kedì bishmaià ken bear?a. Dacci oggi il nostro pane quotidiano Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh e rimetti a noi i nostri debiti ushevùk làna chobaienà come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà e non abbandonarci alla tentazione veal ta?alìna lenisiòn ma liberaci dal male. ellà pezèna min beishià. Amen! Antifona di comunione Gv 18,37 «Io sono re e sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità». Dopo la Comunione Da Giorgio La Pira, Le Città sono vive Quando Cristo mi giudicherà, io so di certo che Egli mi farà questa domanda: Come hai moltiplicato, a favore dei tuoi fratelli, i talenti privati e pubblici che ti ho affidato? Cosa hai fatto per sradicare dalla società la miseria dei tuoi fratelli e, quindi, la disoccupazione che ne è la causa fondamentale? Né potrò addurre, a scusa della mia inazione o della mia inefficace azione, le ragioni “scientifiche” del sistema economico. Abbiamo una missione trasformante da compiere: dobbiamo mutare – quanto è possibile – le strutture di questo mondo per renderle al massimo adeguate alla vocazione di Dio. Siamo dei laici: padri di famiglia, insegnanti, operai, impiegati, industriali, artisti, commercianti, militari, uomini politici, agricoltori e così via; il nostro stato di vita ci fa non solo spettatori, ma necessariamente attori dei più vasti drammi umani. Si resta davvero stupiti quando, per la prima volta, si rivela alla nostra anima l’immenso campo di lavoro che Dio ci mette davanti… Il nostro piano di santificazione è sconvolto: noi credevamo che bastassero le mura silenziose dell’orazione! Credevamo che chiusi nella fortezza interiore della preghiera, noi potevamo sottrarci ai problemi sconvolgitori del mondo; e invece nossignore… L’elemosina non è tutto: è appena l’introduzione al nostro dovere di uomini e di cristiani; le opere anche organizzate della carità non sono ancora tutto; il pieno adempimento del nostro dovere avviene solo quando noi avremo collaborato, direttamente o indirettamente, a dare alla società una struttura giuridica, economica e politica adeguata al comandamento principale della carità. Abbiamo veramente compreso che la perfezione individuale non disimpegna da quella collettiva? Che la vocazione cristiana è un carico che comanda di spendersi, senza risparmio, per gli altri? Problemi umani, problemi cristiani; niente esonero per nessuno. Preghiamo. O Dio nostro Padre, che ci hai nutriti con il pane della vita immortale, fa’ che obbediamo con gioia a Cristo, Re dell’universo, per vivere senza fine con lui, nel suo regno glorioso. Egli vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. Benedizione e saluto finale Il Signore, Redentore dell’Universo e Pastore della Chiesa sia con voi. E con il tuo spirito. Il Signore siede Re in eterno: benedice il suo popolo nella pace. Ci benedica l’Alfa e l’Omega, il Principio e il Fine. Sia benedetto il Nome del Signore invocato su di voi. Rivolga il Signore il suo Nome su di noi e ci doni il suo Spirito. Rivolga il Signore il suo Volto su di voi e vi doni la sua Pace. Sia sempre il Signore davanti a noi per guidarci. Sia sempre il Signore dietro di voi per difendervi dal male. Sia Sempre il Signore accanto a noi per confortarci e consolarci. E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre. Amen! La messa finisce come rito, continua nella vita di testimonianza. Andiamo in Pace. Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo in pace. Supplemento alla Domenica 34a Tempo Ordinario-B – Cristo Re (Riportiamo dello schema completo, solo l’atto III, rimandando per gli altri all’appendice della liturgia del Venerdì Santo dell’anno B e cioè: Atto I: Nel Giardino – Atto II: Da Anna – Atto IV: Sul calvario – Atto V: Al sepolcro). ATTO III: DA PILATO (18,29-19,15) A vv. 18,33.37; 19,3.14-15: TEMA SPECIALE: La regalità di Gesù proclamata/rifiutata inconsapevolmente da:      a) 18, 33.37; 19,14: Pilato: “Tu sei il e dei Giudei?…Dunque tu sei re?… Ecco il vostro re!” b) 19,3: Soldati: “Salve, re dei Giudei!” c) 19,15: Giudei: “Non abbiamo altro re che Cesare” B

19,1-3: GESTO CENTRALE: L’INCORONAZIONE       C

18,36 e 39. 5.11: DICHIARAZIONE IMPORTANTE: a) Prima dell’incoronazione:    1) v. 18,36: Prima dichiarazione di Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo” 2) v. 18,39: Prima dichiarazione di Pilato: “Io non trovo in lui nessuna colpa” b) Dopo l’incoronazione:    1) 19,5: Seconda dichiarazione di Pilato: “Ecco l’uomo!” 2) 19,11: Seconda dichiarazione di Gesù: “Non avresti potere su di me se non dall’alto”    B’

18,29.33.38; 19,4.8.13: COPPIA DI TRE SCENE (Pilato esce, entra ed esce): a) Tre scene prima dell’incoronazione: L’INCORONAZIONE REGALE fatta per burla diventa una profezia ed è il punto centrale del racconto: sta in mezzo alla coppia delle TRE SCENE dove Giudei, Pilato, soldati (cioè il potere) credono di governare il mondo, mentre ruotano attorno a Gesù che immobile è il fulcro degli eventi e della storia.    1) 18,29: “Uscì dunque Pilato verso di loro” 2) 18,33: “Pilato allora rientrò nel pretorio” 3) 18,38: “Detto questo uscì di nuovo vero i Giudei” b) Tre scene dopo l’incoronazione:    1) 19,4: “Pilato intanto uscì di nuovo e disse loro” 2) 19,8: “[Pilato] entrato di nuovo nel pretorio disse a Gesù” 3) 19,13: “Fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale/Litòstroto”        A’ 19,16-18: 3° INTERMEZZO:Partenza dei personaggi verso un altro luogo _______________________________ © Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica Domenica 34a del Tempo Ordinario – B – Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova Paolo Farinella, prete – 25/11/2012 – San Torpete – Genova NOTE

1 «Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio» (Confessioni, XI, 14,17; PL 32). 2 «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te» (Confessioni,1,1, PL 32). 3 «Escit suas quisque faber fortunas – Ognuno è artefice del proprio destino», frase attribuita ad Appius Claudius Caecus (ca. 340 – ca. 273 a.C.) da Gaio Sallustio Crespo (85 ca –35/36 a.C.) nella sua opera Ad Caesarem de Re Publica I,1); cf anche W. Morel, ed., Sententiarum Fragmenta. Fragmenta Poetarum Latinorum Epicorum et Lyricorum, Teubner, Leipzig 1927, 5-6. 4 Sull’apocalittica e l’escatologia cf la nostra introduzione alla Domenica precedente, 33a del tempo ordinario – B; cf G. Ravasi, Introduzione all’Antico Testamento, Ed. Piemme, Casale Monferrato 1991, 126. 5 «A tenere buona l’anarchia ci pensano i poliziotti, a tenere buone le inquietudini evangeliche ci pesano i burocrati di Dio» (E. Balducci, «Prefazione», in M. Melchiori, Insegnare Dio, Guaraldi Editore, Firenze 1973, XI). 6 Concilio ecumenico Vaticano II, Cost. dogmatica Lumen Gentium – Luce delle Genti n. 5, in Enchiridon Vaticanum, vol. I/289-290, qui 290. 7 Per una visione complessiva del brano all’interno dell’intero racconto della passione (Gv 18-19) rimandiamo alla liturgia del Venerdì Santo, dove diamo la divisione settenaria dei due capitoli giovannei che convergono verso il punto centrale dell’incoronazione di spine di Gesù da parte dei soldati che inconsciamente riconoscono la regalità messianica di Cristo. In appendice riportiamo solo lo schema del terzo atto con lo schema teologico. 8 La Preghiera eucaristica III è stata composta ex novo su richiesta di Paolo VI in attuazione alla riforma liturgica voluta dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Non ha un prefazio proprio, ma mobile e per questo, forse, ha finito per essere scelta, nella pratica, come la preghiera eucaristica della domenica.  

Lunedì 19 Novembre,2012 Ore: 16:53 [Chiudi/Close] «Il Dialogo – Periodico di Monteforte Irpino» Prima Pagina/Home Page: www.ildialogo.org Direttore Responsabile: Giovanni Sarubbi Registrazione Tribunale di Avellino n.337 del 5.3.1996 Note legali — La redazione — Regolamento Forum

 

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22 NOVEMBRE 2015 | 34A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO B | OMELIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/8-Ordinario/34a-Domenica_Cristo_Re-B-2015/10-34a-Domenica-Cristo_Re-B-2015-UD.htm

22 NOVEMBRE 2015 | 34A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO B | OMELIA

Per cominciare

L’anno liturgico si conclude con la festa di Gesù Cristo, re dell’universo. La liturgia ci propone Gesù come messia glorificato, che si presenta al Padre insieme a un’umanità fedele e pentita. Come un re crocifisso, che proclama la propria regalità anche nel momento della sconfitta.

La Parola di Dio Daniele 7,13-14. Il profeta Daniele, in una visione apocalittica, descrive la glorificazione di Gesù, simbolicamente presentato come « figlio d’uomo », a cui Dio dà potere, gloria e regno eterno. Apocalisse 1,5-8. In una grandiosa visione, l’Apocalisse descrive la gloria di Gesù, alfa e omega dell’umanità, che ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue. Egli viene sulle nubi e ogni uomo si batterà il petto, anche quelli che lo hanno crocifisso. Giovanni 18,33b-37. Imprigionato e indifeso davanti a Pilato, Gesù dà la più chiara affermazione della propria identità regale. « Io sono re », dice. Ma il suo regno non è di questo mondo.

Riflettere

o Per sedici volte Gesù viene chiamato « re » nel vangelo e per ben dodici volte nei testi della Passione. E lo è realmente. Da prima che nasca, l’angelo dice a Maria: « Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine » (Lc 1,28-33). o Gesù però rifiuterà sistematicamente potere, gloria e onori. Scrive Carlo Carretto: « Nella nostra infanzia, che è l’infanzia del popolo di Dio, cercavamo un Dio potente, un Dio che ci risolvesse i problemi, un Dio che eliminasse i cattivi, che vincesse i nemici in modo visibile a tutti. E invece? Apparve come un bambino. Si realizzò come un povero operaio, non si servì del divino per trovare il pane. Non si alleò coi potenti per dominare i popoli. Non si buttò giù dal tempio per fare i miracoli inopportuni che noi attendevamo per aumentare le nostre sicurezze ». o Quando, dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci lo vogliono proclamare re, Gesù si ritira in preghiera. Anche gli apostoli si stupiscono e non comprendono il significato di quel defilarsi. Dopo un pomeriggio passato a fare miracoli, Gesù passa la notte in preghiera e gli apostoli gli dicono: « Tutti ti cercano… » (Mc 1,37). Ma Gesù li invita ad andare altrove. o Continua Carretto: « Quando venne la prova non scappò. E non si fece nemmeno aiutare dai suoi angeli. Come uomo, uomo vero, uomo uomo, accettò il processo, accettò la condanna, prese la croce sulle spalle, marciò piangendo verso il luogo dei cranio dove stava per essere crocifisso ». o Solo davanti a Pilato Gesù non nega la sua identità e la proclama nel modo più esplicito. Gesù gli risponde: « Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo ». Ma aggiunge: « Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù » (Gv 18,36-37). o Gesù afferma la propria regalità nel momento in cui è più indifeso. Dopo che i soldati lo hanno arrestato e legato, dopo che Anna e Caifa lo hanno già fatto fustigare e Erode lo ha deriso come un re da burla e i soldati di Pilato lo hanno umiliato e maltrattato. Eppure Pilato prende sul serio le parole di Gesù e sembra convinto della sua innocenza. o Il dialogo tra Gesù e Pilato è costruito con grande abilità narrativa, quasi cinematografica. Pilato rappresenta il potere romano e non ha simpatia per gli ebrei. Capisce che c’è sotto un pretesto per condannare Gesù e farebbe volentieri un dispetto alle autorità che glielo hanno consegnato. o Tanto è vero che sulla croce farà mettere in tre lingue (ebraico, latino e greco), la motivazione della condanna, che proclama la regalità di Gesù, e non cede all’invito di cambiarla: « Quel che ho scritto, ho scritto ». o « Io sono re », dice Gesù a Pilato. Ma precisa di quale regalità di tratta: « per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce ». A queste parole, per il procuratore romano assolutamente incomprensibili, Pilato risponde: « Che cos’è la verità? ». o Pilato non si aspetta da Gesù nessuna risposta. Ma Gesù avrebbe potuto dirgli intanto: « Sono io la verità » (Gv 14,6). Perché è lui la verità che illumina ogni cosa. « Come si può amare Dio se non si ama la verità? Poiché Dio è verità », dice sant’Ambrogio. o Ma per Gesù la verità non è soltanto qualcosa di intellettuale, bensì indica una realtà accolta come propria e vissuta nella fedeltà, così come ha fatto lui che è vissuto interamente per il Padre. o Gesù osserva ogni cosa e ogni situazione e la riveste, la illumina di verità, restituendole il senso pieno, profondo, genuino: vede la vedova che offre più dei maestri della legge; a chi gli chiede di risolvere un problema di eredità, dice: « Guardatevi dalla cupidigia ». Una verità che rende liberi, perché restituisce l’uomo all’uomo nella genuinità della prima creazione. o È questo il messaggio che Gesù vuole che venga diffuso nel mondo, per costruire il suo regno di verità, nella verità. Non un regno che si opponga e faccia concorrenza a quello terreno, ma il regno di chi ogni giorno vive « consacrato alla verità » (Gv 17,17).

Attualizzare * « Cristo regni! », proclamavano alcuni decenni fa i giovani dell’azione cattolica salutandosi. E si sentivano come l’esercito schierato a difesa della chiesa, del papa e del vangelo. * Ormai il clima è profondamente cambiato anche rispetto al 1925, quando Pio XI ha istituito questa festa in quell’anno santo, in piena epoca fascista. Papa Achille Ratti sottolineava, più o meno esplicitamente, che i regni di questo mondo restano tutti ridimensionati di fronte alla regalità di Cristo. * Pensando ai tanti sovrani della storia, dai reali d’Italia, a quelli d’Inghilterra, di Spagna e di ogni nazione, non possiamo non sorridere. Gente in carne e ossa, che ha rivelato così spesso un’umanità debole e ferita, vivendo nella sfacciataggine del lusso, in scelte di vita lontane da quelle del popolo. Esercitando nella storia il loro potere con la prepotenza, la violenza e l’ingiustizia. * L’odierna solennità ci lascia molti messaggi. Ci dice anzitutto che Gesù più di ogni altro ha una dignità regale: * Gesù è l’alfa e l’omega, il nuovo e definitivo Adamo. Noi siamo stati creati a immagine e somiglianza di lui. * Gesù ci ha riscattati con la sua morte e la sua risurrezione e ora siamo suoi. Egli siede per sempre glorioso alla destra del Padre. * La storia avrà un termine e si concluderà con un giudizio. Gesù ne sarà il giudice. Non sarà semplice reggere il suo sguardo, quando ci guarderemo dentro e vedremo la nostra distanza da lui. * Ma non dimentichiamo che Gesù è il buon pastore, che accoglie la pecora che si è persa, e perdona il buon ladrone pentito. San Francesco di Sales diceva che se in quel giorno avesse dovuto essere giudicato da Dio o da sua madre, che pure lo amava incondizionatamente, avrebbe preferito essere giudicato da Dio. * Gesù ha inaugurato il regno di Dio, che è stato oggetto della sua predicazione. Un regno di pace e di fratellanza, di trasformazione profonda delle persone e dei rapporti umani. In cui gli sforzi di tutti e le risorse umane vengono usate per eliminare le disuguaglianze, le povertà, la fame, le ingiustizie, le malattie. * Gesù ci rivela il senso della nostra vita: siamo costruttori del regno, oppure persone che lo boicottano, perché chi non si muove e non prende posizione, di fatto se ne disinteressa e pensa a sé. Costruire il regno di Dio è lo scopo finale per cui esistiamo e ci diciamo cristiani. * Più di ogni altro Gesù è poi investito di una dignità regale, perché ha vissuto la sua regalità nel servizio e nell’amore. * Egli ci ha amati per primo: « Mi ha amato e ha dato se stesso per me », dice Paolo (Gal 2,20). Fino in fondo, fino alla croce, si è fatto uno di noi, nella fedeltà della sua vocazione umana e divina. * Con lui possiamo e dobbiamo avere un vero rapporto personale. Egli è il nostro re e signore e ci chiede di amarlo: « Pietro mi ami più di costoro? » (Gv 21,15-17). Gesù è degno di essere amato, ed è amabile come nessun altro, ma si fa conoscere solo a chi lo ama. Dice: « A chi mi ama mi manifesterò » (Gv 14,21).

Il generoso tra i generosi Un beduino del deserto incontra un sapiente e gli domanda: « È vero che un giorno saremo giudicati dall’Altissimo? ». « Certo », rispose il saggio. « Ma dall’Altissimo in persona? », chiede il beduino con un sorriso. « Certo! ». E il beduino rideva felice. E pensava: « L’Altissimo è il generoso tra i generosi… ».

« Per chi cammini? Chi è il tuo signore? » Un rabbino esce di casa e cammina tra ville e prati per distendersi. Vede tra attorno alle più belle costruzioni una guardia che gira attorno alle ville e le custodisce. Si accorge che una fa un giro molto largo e gli domanda: « Per chi cammini tu? ». E la guardia a lui: « E tu, per chi cammini? ». Da quel giorno, il rabbino per un po’ di tempo non ha più avuto il coraggio di uscire di casa.

 

Mosaic of Our Lady of Sorrow – Holy Sepulcher

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Publié dans:immagini sacre |on 19 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

COSE DA BUTTARE

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COSE DA BUTTARE

Buttiamo via i mormorii Cosa c’è di peggio in una Chiesa che dei credenti che mormorano? Si lamentano di tutto e di tutti, non gli va bene assolutamente niente. Loro stessi non fanno nulla ma giudicano severamente l’operato di chi s’impegna per l’opera di Dio. La Scrittura ci fa un identikit dei mormoratori: « Sono dei mormoratori, degli scontenti; camminano secondo le loro passioni; la loro bocca proferisce cose incredibilmente gonfie, e circondano d’ammirazione le persone per interesse » (Giuda 1:16). Dio c’invita a buttare via dal nostro cuore i mormorii: « Non mormorate, come alcuni di loro mormorarono, e perirono colpiti dal distruttore » (1 Corinzi 10:10). Ogni credente desideroso di fare la volontà di Dio, deve fare ogni cosa senza mormorii: « Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute » (Filippesi 2:14).

Buttiamo via le nostre giustificazioni Se abbiamo la tendenza a giustificare le nostre debolezze e l’amore per le cose del mondo, smettiamola! Il Seme, cioè la Parola di Dio che è caduto fra le spine, rappresenta coloro che hanno udito, ma se ne vanno e restano soffocati dalle cure e dalle ricchezze e dai piaceri della vita e non arrivano a maturità: « Quello che è caduto tra le spine sono coloro che ascoltano, ma se ne vanno e restano soffocati dalle preoccupazioni, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non arrivano a maturità » (Luca 8:14). Quante scuse a volte troviamo, per giustificare le nostre debolezze: « Tutti insieme cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: « Ho comprato un campo e ho necessità di andarlo a vedere; ti prego di scusarmi ».Un altro disse: « Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi ». Un altro disse: « Ho preso moglie, e perciò non posso venire » (Luca 14:18-20). Buttiamo via le nostre giustificazioni e l’amore per le cose del mondo: « Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno » (1 Giovanni 2:15-17).A

Buttiamo via tutte quelle abitudini che non ci permettono di leggere e meditare la Parola di Dio Talvolta ci sono abitudini che ci tolgono il tempo per la lettura e la meditazione della Parola di Dio. Ricordiamoci che senza cibo e senza acqua, l’uomo muore. Allo stesso modo, senza la Parola di Dio, l’uomo è destinato alla morte spirituale. Colui che trascura la Parola di Dio, vede il suo cuore indurirsi giorno dopo giorno: « Perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile, sono divenuti duri d’orecchi, e hanno chiuso gli occhi, affinché non vedano con gli occhi e non odano con gli orecchi, non comprendano con il cuore, non si convertano, e io non li guarisca » (Atti 28:27). Non è forse vero che mentre l’uomo parla a Dio attraverso la preghiera, Dio parla all’uomo attraverso la Sua Parola? Dio vuole comunicare la Sua volontà: « Questo libro della legge non si allontani mai dalla tua bocca, ma meditalo, giorno e notte; abbi cura di mettere in pratica tutto ciò che vi è scritto; poiché allora riuscirai in tutte le tue imprese, allora prospererai » (Giosuè 1:8). È Dio che dette questo consiglio a Giosuè che resta valido per ogni generazione. Deve essere presente in ogni sincero credente questo desiderio: « Mi alzo prima dell’alba e grido; io spero nella tua parola. Gli occhi miei prevengono le veglie della notte, per meditare la tua parola » (Salmo 119:147,148). Quanto tempo dedichiamo alla TV? Quanto tempo perdiamo in cose futili ed inutili? Torniamo alla Parola di Dio se vogliamo vedere l’aurora: « Alla legge! Alla testimonianza! » Se il popolo non parla così, non vi sarà per lui nessuna aurora! » (Isaia 8:20).

Buttiamo via gli aspetti negativi del nostro carattere Un’espressione che l’apostolo Paolo usa al riguardo è: « Gettare via »: « Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! » (Efesini 4:31). Il nostro temperamento deve essere controllato dallo Spirito Santo. Nel momento in cui ciò non avviene, ecco manifestarsi i frutti della carne: « Ora le opere della carne sono manifeste, e sono: fornicazione, impurità, dissolutez-za, dolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese, divisioni, sètte, invidie, ubriachezze, orge e altre simili cose; circa le quali, come vi ho già detto, vi preavviso: chi fa tali cose non erediterà il regno di Dio » (Galati 5:19-21). Un temperamento controllato dallo Spirito Santo, produrrà invece il frutto dello Spirito: « Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo; contro queste cose non c’è legge. Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche guidati dallo Spirito » (Galati 5:22-25). Non giustifichiamoci dietro la famosa frase: « Questo è il mio carattere », perché dicendo questo, affermiamo che Dio non può fare più nulla per noi. Dio ci ama così come siamo ma ci ama così tanto da non lasciarci come siamo: « Io quindi corro così; non in modo incerto; lotto al pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato » (1 Corinzi 9:26,27).

Buttiamo via la nostra ansia Quanta apprensione si nasconde talvolta nella nostra vita, che facilmente si trasforma in ansia. Domandiamoci: « Siamo o no figli di Dio? Dio è nostro Padre? » Se soltanto rispondiamo di si a queste domande, non dobbiamo temere di nulla: « Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? Non siate dunque in ansia, dicendo: « Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo? » Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di sé stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno » (Matteo 6:25-34). Notiamo in questi versetti l’invito del Signore: « Non siate in ansia ». Gettiamo via da noi ogni sollecitudine ansiosa, perché Dio si prende cura di noi: « Io, il Signore, il tuo Dio, fortifico la tua mano destra e ti dico: Non temere, io ti aiuto! Non temere, Giacobbe, vermiciattolo, e Israele, povera larva. Io ti aiuto », dice il Signore. « Il tuo salvatore è il Santo d’Israele » (Isaia 41:13,14).

Buttiamo via la nostra pigrizia A volte capita d’incontrare cristiani particolarmente pigri: hanno voglia di non fare nulla. La pigrizia è un pericolo da non trascurare. Il grande re Davide cadde in un vortice di peccati a causa della pigrizia: « L’anno seguente, nella stagione in cui i re cominciano le guerre, Davide mandò Ioab con la sua gente e con tutto Israele a devastare il paese dei figli di Ammon e ad assediare Rabba; ma Davide rimase a Gerusalemme. Una sera Davide, alzatosi dal suo letto, si mise a passeggiare sulla terrazza del palazzo reale; dalla terrazza vide una donna che faceva il bagno. La donna era bellissima » (2 Samuele 11:1,2). Se la pigrizia trovò posto nel cuore di Davide, può trovarla anche nel nostro e in quel caso grande sarà la nostra rovina: « Fino a quando, o pigro, te ne starai coricato? Quando ti sveglierai dal tuo sonno? Dormire un po’, sonnecchiare un po’, incrociare un po’ le mani per riposare. La tua povertà verrà come un ladro, la tua miseria, come un uomo armato » (Proverbi 6:9-11). La via del pigro conduce velocemente alla povertà come dimostrano i seguenti versetti: – Proverbi 13:4 « Il pigro desidera, e non ha nulla, ma l’operoso sarà pienamente soddisfatto. – Proverbi 15:19 « La via del pigro è come una siepe di spine, ma il sentiero degli uomini retti è piano ». – Proverbi 19:15,24 « La pigrizia fa cadere nel torpore, e la persona indolente patirà la fame ». Il pigro tuffa la mano nel piatto e non fa neppure tanto da portarla alla bocca ». – Proverbi 20:4 « Il pigro non ara a causa del freddo; alla raccolta verrà a cercare, ma non ci sarà nulla ». – Proverbi 21:25 « I desideri del pigro lo uccidono, perché le sue mani rifiutano di lavorare ». – Proverbi 26:15 « Il pigro tuffa la mano nel piatto; e gli sembra fatica riportarla alla bocca ». – Ecclesiaste 10:18 « Per la pigrizia sprofonda il soffitto; per la rilassatezza delle mani piove in casa ». Buttiamo via da noi la pigrizia: « Quanto allo zelo, non siate pigri; siate ferventi nello spirito, servite il Signore » (Romani 12:11). Rimbocchiamoci le maniche perché le campagne sono bianche da mietere e gli operai sono pochi: « E diceva loro: « La mèsse è grande, ma gli operai sono pochi; pregate dunque il Signore della mèsse perché spinga degli operai nella sua mèsse » (Luca 10:2).

Buttiamo via i giudizi Gesù dice – e la nostra esperienza lo ha più volte dimostrato – che è più facile vedere la pagliuzza che è nell’occhio del fratello, che la trave che è nel nostro occhio, è più facile che ingoiamo il cammello, mentre filtriamo il moscerino. I difetti degli altri sono come gli anabbaglianti della macchina: sono sempre quelli degli altri che ci danno fastidio: « Non giudicate, affinché non siate giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo? O, come potrai tu dire a tuo fratello: « Lascia che io ti tolga dall’occhio la pagliuzza », mentre la trave è nell’occhio tuo? Ipocrita, togli prima dal tuo occhio la trave, e allora ci vedrai bene per trarre la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello » (Matteo 7:1-5). È facile giudicare gli altri, più difficile giudicare noi stessi: « Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d’ossa di morti e d’ogni immondizia. Così anche voi, di fuori sembrate giusti alla gente; ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità » (Matteo 23:27,28). L’ipocrita era una maschera teatrale, dietro la quale si nascondeva l’attore. Buttiamo via da noi questa maschera, mostriamo il nostro vero volto, perché solo così saremo meno severi con gli altri. Talvolta capita che proprio quando viviamo una vita non conforme alla volontà di Dio, che diventiamo troppo severi con gli altri, come accadde a Davide: « Davide si adirò moltissimo contro quell’uomo e disse a Natan: « Com’è vero che il Signore vive, colui che ha fatto questo merita la morte e pagherà quattro volte il valore dell’agnellina, per aver fatto una cosa simile e non aver avuto pietà ». Allora Natan disse a Davide: « Tu sei quell’uomo! » (2 Samuele 12:5-7). Impara ad essere tollerante verso gli sbagli degli altri come lo sei con te stesso e soprattutto guarda gli altri non dimenticando che Gesù è morto anche per loro.

Buttiamo via la gelosia e l’invidia Secondo un’enciclopedia, la gelosia è: « Invidia, rivalità », mentre l’invidia è: « Sentimento di rancore e d’astio per la felicità o le qualità degli altri ». La gelosia che porta alla contesa è prova di carnalità nella chiesa: « Fratelli, io non ho potuto parlarvi come a spirituali, ma ho dovuto parlarvi come a carnali, come a bambini in Cristo. Vi ho nutriti di latte, non di cibo solido, perché non eravate capaci di sopportarlo; anzi, non lo siete neppure adesso, perché siete ancora carnali. Infatti, dato che ci sono tra di voi gelosie e contese, non siete forse carnali e non vi comportate come qualsiasi uomo »? (1 Corinzi 3:1-3). Invidia e gelosia verso dei fratelli sono dunque sentimenti negativi presenti in coloro che non gioiscono del bene e delle qualità altrui, ma se ne irritano perché le vorrebbero per sé. È mancanza di amore e di sottomissione a Dio nello accettare la « misura della fede » che Lui ci ha assegnata. Gelosia per un dono di predicazione che può farci ombra, per una famiglia ordinata e sottomessa a Dio, per un’intesa profonda fra coniugi, per l’apprezzamento che altri fratelli ottengono. Invidia e gelosia, finché non generano contese e altri guai, possono non trasparire all’esterno, ma rodono il nostro rapporto col fratello e rovinano la nostra vita spirituale. Un esame interessante sarebbe accertare quando proviamo nel nostro cuore (spesso senza rendercene chiaramente conto) il compiacimento per le disgrazie degli altri. Se riusciamo ad essere sinceri fino in fondo, credo che dovremmo vergognarci e gridare al Signore. Tendenziosità, sospetto, cattiva intenzione presunta negli altri, modo negativo di considerare il fratello, compiacimento per gli errori altrui: tutti sentimenti purtroppo diffusi che restano dentro, ma che avvelenano sovente i rapporti e preparano a guasti più clamorosi.

Buttiamo via l’ira e la collera Quest’impeto dell’animo improvviso e violento che si rivolge contro qualcuno o qualcosa, quest’infiammarsi, accendersi, avvampare, ardere d’ira, non deve essere presente nella vita del credente: « Sia ogni uomo lento all’ira, perché l’ira dell’uomo non mette in opera la giustizia di Dio » (Giacomo 1:19). L’ira dell’uomo è sempre vista negativamente. Nella parabola del figlio prodigo, il fratello maggiore si adira e non vuole entrare nel banchetto d’amore: « Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare. Ma egli rispose al padre: « Ecco, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici; ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato » (Luca 15:28-30). L’ira è sempre condannata da Gesù: « Chiunque s’adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale » (Matteo 5:22). Ira e collera sono fra le cose da deporre: « Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, collera, malignità, calunnia; e non vi escano di bocca parole oscene » (Colossesi 3:8). Le parole di Efesini 4:26: « Adiratevi e non peccate, il sole non tramonti sopra la vostra collera », non esortano all’ira, significano piuttosto: « Mostrate sdegno, però, attenti a non peccare » (TILC) e non rimanete in quest’atteggiamento. « Sia tolta via ogni ira » (v. 31). Fruga negli angoli più remoti della tua vita, forse si è ammucchiata tanta spazzatura: non risparmiarla, buttala via.

Publié dans:meditazioni |on 19 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

LA PATRISTICA DEI PRIMI DUE SECOLI

http://www.parodos.it/filosofia/ppatristica.htm

LA PATRISTICA DEI PRIMI DUE SECOLI

(metto solo la prima parte)

Padri apologisti danno il via all’attività filosofica cristiana con testi scritti in difesa della loro fede contro i persecutori. Marciano Aristide si rivolge all’imperatore Antonino Pio con un’apologia in difesa del cristianesimo.

Carattere della patristica Quando il cristianesimo, per difendersi dagli attacchi polemici e dalle persecuzioni, nonché per garantire la propria unità contro sbandamenti ed errori, dovette venire in chiaro dei propri presupposti teoretici e organizzarsi in un sistema di dottrine, si presentò come l’espressione compiuta e definitiva della verità che la filosofia greca aveva cercata, ma solo imperfettamente e parzialmente raggiunta. Una volta postosi sul terreno della filosofia, il cristianesimo tenne ad affermare la propria continuità con la filosofia greca ed a porsi come l’ultima e più compiuta manifestazione di essa. Giustificò questa continuità con l’unità della ragione (logos), che Dio ha creata identica in tutti gli uomini di tutti i tempi e alla quale la rivelazione cristiana ha dato l’ultimo e più sicuro fondamento; e con ciò affermò implicitamente l’unità della filosofia e della religione. Quest’unità non è un problema, per gli scrittori cristiani dei primi secoli: è piuttosto un dato o un presupposto, che guida e sorregge tutta la loro ricerca. E anche quando stabiliscono un’antitesi polemica tra dottrina pagana e cristiana (come è nel caso di Taziano), questa antitesi è posta sul terreno comune della filosofia e presuppone quindi la continuità tra cristianesimo e filosofia. Era naturale, da questo punto di vista, che si tentasse da un lato di interpretare il cristianesimo mediante concetti desunti dalla filosofia greca e così di riportarlo a tale filosofia, dall’altro di ricondurre il significato di quest’ultima allo stesso cristianesimo. Questo duplice tentativo, che in realtà è uno solo, costituisce l’essenza dell’elaborazione dottrinale che il cristianesimo subì nei primi secoli dell’èra volgare. In questa stessa elaborazione i Padri della Chiesa furono frequentemente aiutati e ispirati, com’era inevitabile, dalle dottrine delle grandi scuole filosofiche pagane; e specialmente dagli Stoici essi attinsero molte delle loro ispirazioni, spingendosi talora (come accadde a Tertulliano) sino ad accettare tesi apparentemente incompatibili con il cristianesimo, come quella della corporeità di Dio. Il periodo di questa elaborazione dottrinale è la patristica. Padri della Chiesa sono gli scrittori cristiani dell’antichità, che hanno contribuito alla elaborazione dottrinale del cristianesimo e la cui opera è stata accettata e fatta propria dalla Chiesa. Il periodo dei Padri della Chiesa si può considerare chiuso con la morte di Giovanni Damasceno per la Chiesa greca (754 circa) e con quella di Beda il Venerabile (735) per la Chiesa latina. Questo periodo può essere distinto in tre parti. La prima, che va sino al 200 circa, è dedicata alla difesa del cristianesimo contro i suoi avversari pagani e gnostici. La seconda, che va dal 200 sino al 450 circa, è dedicata alla formulazione dottrinale delle credenze cristiane. L’ultima, che va dal 450 sino alla fine della patristica, è contrassegnata dalla rielaborazione e sistemazione delle dottrine già formulate.

I Padri apologisti I PADRI APOSTOLICI del I secolo sono gli autori di Lettere che illustrano singoli punti della dottrina cristiana e regolano questioni di ordine pratico e religioso. Essi sono: l’autore della cosìddetta Lettera di Barnaba, Clemente Romano, Erma, Ignazio d’Antiochia e Policarpo. Ma questi scrittori ancora non affrontano problemi filosofici. La vera attività filosofica cristiana comincia con i PADRI APOLOGISTI nel II secolo. Questi Padri scrivono in difesa (apologia) del cristianesimo contro gli attacchi e le persecuzioni che gli vengono mossi. In questo periodo «i cristiani sono osteggiati dagli ebrei come stranieri e sono perseguitati dai pagani» (Epist. ad Diogn., 5, 17). Scrittori pagani adoperano contro il cristianesimo la satira e il dileggio (Luciano, Celso). I cristiani sono fatti oggetto all’odio delle plebi pagane e alle persecuzioni sistematiche dello stato. Da queste condizioni di fatto nascono le apologie. La più antica di cui si abbia notizia è la difesa presentata all’imperatore Adriano intorno al 124, in occasione di una persecuzione dei cristiani, da QUADRATO, discepolo degli apostoli. Di essa abbiamo solo un frammento, conservatoci da Eusebio (Hist. eccles , IV, 3, 2). Lapologia del filosofo MARCIANO ARISTIDE è stata ritrovata nel 1878 ed è diretta all’imperatore Antonino Pio (138-61). In essa si afferma già esplicitamente il principio che soltanto il cristianesimo è la vera filosofia. Difatti, solo i cristiani hanno quel concetto di Dio che deriva necessariamente dalla considerazione della natura. Concetti platonici vengono utilizzati in questa dimostrazione. L’ordine del mondo, quale appare nei cieli e sulla terra, fa pensare che tutto sia mosso con necessità e che Dio sia colui che muove e governa tutto. Aristide insiste sull’irraggiungibilità e l’ineffabilità dell’essenza divina, per contrapporre il monoteismo rigoroso del cristianesimo alle credenze dei barbari, che hanno adorato elementi materiali, dei Greci che hanno attribuito ai loro dèi debolezze e passioni umane, e dei Giudei, che pur ammettendo un solo Dio, servono piuttosto gli angeli che Lui. Ma la prima grande figura di Padre apologista e il vero fondatore della patristica è Giustino.

Giustino

GIUSTINO nacque, probabilmente, nel primo decennio del secolo II a Flavia Neapolis, l’antica Sichem, ora Nablus in Palestina. Egli stesso ci descrive la sua formazione spirituale. Figlio di genitori pagani, frequentò i rappresentanti delle varie scuole filosofiche, Stoici, Peripatetici e Pitagorici, e professò a lungo le dottrine dei Platonici. Finalmente, trovò nel cristianesimo ciò che cercava e da allora con la parola e con gli scritti Io difese, come l’unica vera filosofia. Visse a Roma molto tempo e vi fondò una scuola; e a Roma subì il martirio tra il 163 e il 167. Delle opere che ci rimangono solo tre sono sicuramente autentiche: il Dialogo con Trifone giudeo e due Apologie. La prima e più importante di queste è diretta all’imperatore Antonino Pio e deve essere stata composta negli anni 150-55. La seconda, che è un supplemento o un’appendice della prima, fu occasionata dalla condanna di tre cristiani, rei soltanto di professarsi tali. Il Dialogo con Trifone giudeo riferisce una disputa che ebbe luogo ad Efeso tra Giustino e Trifone ed è diretto sostanzialmente a dimostrare che la predicazione di Cristo realizza e completa l’insegnamento del Vecchio Testamento. La dottrina fondamentale di Giustino è che il cristianesimo è «la sola filosofia sicura ed utile» (Dial., 8) e che esso è il risultato ultimo e definitivo al quale la ragione deve giungere nella sua ricerca. Giacché la ragione non è che il Verbo di Dio, cioè il Cristo, del quale partecipa tutto il genere umano. «Noi imparammo – egli dice (Apol. prima, 46) – che il Cristo è il primogenito di Dio e che è la ragione, della quale partecipa tutto il genere umano. E coloro che vissero secondo ragione sono cristiani, anche se furono creduti atei; come fra i Greci Socrate, Eraclito e altri come loro; e tra i barbari, Abramo e Anania e Azaria e Misael ed Elia. Sicché anche quelli che nacquero prima e vissero senza ragione erano malvagi e nemici del Cristo e uccisori di coloro che vivono secondo ragione; ma quelli che vissero e vivono secondo ragione sono cristiani impavidi e tranquilli». Tuttavia questi cristiani avanti lettera non conobbero l’intera verità. C’erano in loro semi di verità, che essi non potettero intendere appieno (Ib., 44). Poterono certo, vedere oscuramente la verità mediante quel seme di ragione che era innato in essi. Ma altro è il seme e l’imitazione, altro è lo sviluppo compiuto e la realtà, da cui il seme e l’imitazione si generano (Apol. sec., 13). Qui la dottrina stoica delle ragioni seminali viene adoperata a fondare la continuità del cristianesimo con la filosofia greca, a riconoscere nei maggiori filosofi greci gli anticipatori del cristianesimo e a giustificare l’opera della ragione mediante l’identificazione di essa con Cristo. Questa stessa dottrina consente a Giustino l’identificazione completa tra il cristianesimo e la verità filosofica. «Tutto ciò che è stato detto di vero appartiene a noi cristiani; giacché, oltre Dio, noi adoriamo ed amiamo il Logos del Dio ingenito e ineffabile, il quale si fece uomo per noi, per guarirci delle nostre infermità partecipando di esse» (Ib., 13). Dio è l’eterno, l’ingenerato, l’ineffabile: la conoscenza di Dio è un fatto inesplicabile, radicato nella natura stessa degli uomini (Apol. sec., 6). Accanto a lui e al disotto di lui vi è l’altro Dio, il Logos coesistente e generato prima della creazione, per mezzo del quale Dio creò e ordinò tutte le cose (Ib., 5). Come una fiamma non diminuisce quando ne accende un’altra, così è accaduto a Dio per la creazione del Logos (Dial., 48). Dopo il Padre e il Logos c’è lo Spirito Santo, detto da Giustino lo Spirito profetico, al quale gli uomini debbono le virtù e i doni profetici (Apol. prima, 6). L’uomo è stato creato da Dio libero di fare il bene ed il male. Se l’uomo non avesse libertà, non avrebbe merito del bene né colpa del male compiuto (Apol. prima, 43). L’anima dell’uomo è immortale soltanto per opera di Dio: senza di questa, con la morte ritornerebbe nel nulla (Dial., 6). Ma anche il corpo è destinato a partecipare dell’immortalità dell’anima. Dovrà venire infatti, secondo l’annunzio dei profeti, una seconda parusia del Cristo; e questa volta egli verrà in gloria, accompagnato dalla legione degli angeli: risusciterà i corpi e rivestirà di immortalità quelli dei giusti, mentre condannerà al fuoco eterno quelli degli iniqui (Apol. prima, 52).

Altri Padri apologisti Scolaro di Giustino a Roma fu TAZIANO l’Assiro, nato in Siria e convertitosi a Roma dopo essersi acquistato un nome come filosofo. Più tardi, probabilmente nel 172, si separò dalla Chiesa per passare agli Gnostici. Taziano è autore di un’apologia intitolata Discorsi ai Greci che è in realtà una critica dell’ellenismo. Lo scritto di Taziano è essenzialmente polemico. Egli accusa di immoralità i pensatori e i poeti greci e si diffonde in invettive contro di loro. Agli errori dei Greci contrappone la dottrina cristiana intorno a Dio ed al mondo, al peccato e alla redenzione. Il Logos è la potenza razionale di Dio ed è nato da lui attraverso un atto di partecipazione, non di separazione. Come una fiaccola ne accende tante senza che la sua luce diminuisca, così il Logos non esaurisce la potenza di ragione del suo generatore (Or. ad Graec., 5). Nell’uomo egli distingue l’anima e lo spirito. Lo spirito solo è immagine e similitudine di Dio (Ib., 12). L’anima non è un’essenza semplice ma è composta di più parti. La sua esistenza è legata al corpo e non è separabile da esso, perciò non è immortale (Ib., 15). Soltanto per la loro unione con lo spirito, l’anima e il corpo partecipano dell’immortalità. Attraverso lo spirito, l’uomo può riunirsi con Dio. Egli deve disprezzare la materia, della quale si servono i demoni per perderlo, e rivolgersi esclusivamente alla vita spirituale (Ib., 16). ATENAGORA di Atene è autore di un’apologia intitolata Supplica per i cristiani diretta a Marco Aurelio o Commodo e perciò composta tra il 176 e il 180, probabilmente nel 177. Lo scritto si propone di confutare le tre accuse che comunemente venivano lanciate contro i cristiani: l’ateismo, i conviti tiestei e l’incesto alla foggia di Edipo. La prima accusa è demolita mediante l’esposizione della dottrina cristiana di Dio; contro le altre due vengono addotti i capisaldi della morale cristiana. Nella Supplica ricorre per la prima volta una prova razionale della unicità di Dio. Se esistessero più divinità, non potrebbero esistere nello stesso luogo perché, essendo tutte ingenerate, non potrebbero cadere sotto un tipo o modello comune. Dovrebbero dunque esistere in luoghi diversi. Ma non possono esistere in luoghi diversi perché lo spazio al di là del mondo è la sede di un unico Dio che è essenza sopra-mondana e così non vi è spazio per altre divinità. Un’altra divinità potrebbe esistere in un altro mondo o intorno ad un altro mondo; ma in tal caso essa non giungerebbe a noi e per la limitatezza della sua sfera d’azione essa non sarebbe la vera divinità (Suppl. pro crist., 8). Perciò anche i poeti e filosofi greci hanno conosciuto l’unicità di Dio, per quanto la chiara, sicura e compiuta conoscenza di essa ci sia stata data soltanto attraverso i profeti (Ib., 7). Il Logos generato dal Padre e coeterno con lui, è il modello, la forza creatrice di tutte le cose create, mentre lo Spirito Santo è un efflusso di Dio, simile al raggio del sole (Ib., 24). TEOFILO di Antiochia fu vescovo di questa città e ci ha lasciato tre libri Ad Autolico, che sono tre scritti indipendenti, di cui il terzo è stato composto intorno al 181-82 e i primi due poco avanti. Alla sfida di Autolico: «Mostrami il tuo Dio», Teofilo risponde: «Mostrami il tuo uomo ed io ti mostrerò il mio Dio». Dio infatti è visto solo da coloro che hanno bene aperti gli occhi dell’anima. Come non si può vedere la faccia dell’uomo sullo specchio coperto di ruggine così l’uomo, quando è in peccato, non può scorgere Dio (Ad Autol., I, 2). Alla domanda: «Tu che lo vedi, descrivimi l’aspetto di Dio», Teofilo risponde: «Ascoltami: la bellezza di Dio è indicibile e ineffabile e non si può vedere con gli occhi corporei» (Ib., I, 3). Dio che è eterno, quindi ingenerato e immutabile, è il creatore di tutto: tutto egli fece dal nulla, affinché attraverso le sue opere si comprendesse la sua grandezza. Perciò egli diventa visibile attraverso la sua creazione. «Come l’anima umana che è invisibile agli uomini viene conosciuta attraverso i movimenti del corpo così Dio, che non può essere visto dagli occhi umani, può essere visto e conosciuto attraverso la sua provvidenza e le sue opere» (Ib., I, 5). Il tramite della creazione divina è il Logos. Dio mediante il Logos e la sapienza ha creato tutte le cose (Ib., I, 7). Il Logos è il consigliere di Dio, la mente e la prudenza di lui (Ib., Il, 22). Per la prima volta Teofilo ha usato la parola trinità (trias) per indicare la distinzione delle persone divine. I tre giorni della creazione della luce di cui parla la Genesi «sono immagini della trinità, di Dio, del suo Verbo, della sua sapienza» (Ib., II, 15). Sotto il nome di Giustino ci è stata tramandata una Lettera a Diogneto che certamente non appartiene a Giustino per la diversità dello stile e della dottrina. L’autore risponde ai dubbi proposti da un pagano che si interessa del cristianesimo. La composizione della Lettera deve cadere non prima del 160, verosimilmente alla fine del II secolo. L’autore risponde a tre dubbi di Diogneto. Al culto pagano e giudaico la Lettera contrappone il culto cristiano del Dio invisibile e creatore. La religione cristiana non è una scoperta umana ma una rivelazione divina: Dio ha mandato suo Figlio, l’eterna Verità e l’eterna Parola, a insegnare agli uomini la vera religione; e il Figlio di Dio è venuto nel mondo non come signore ma come salvatore e liberatore e ci ha avviati alla salvezza con l’amore (Ep. ad Diogn., 7). Con il titolo Irrisione dei filosofi pagani di ERMIA filosofo, ci è giunto un piccolo scritto polemico nel quale si mettono sarcasticamente in luce le contraddizioni dei filosofi greci nella loro dottrina intorno all’anima umana ed ai principi fondamentali delle cose. Lo scritto appartiene probabilmente alla fine del II secolo.

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Il martirio di San Paolo

Il martirio di San Paolo dans immagini sacre paul
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BENEDETTO XVI – SALMO 126, OGNI FATICA È VANA SENZA IL SIGNORE (2005)

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BENEDETTO XVI – SALMO 126, OGNI FATICA È VANA SENZA IL SIGNORE

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 31 agosto 2005

Salmo 126 Ogni fatica è vana senza il Signore Vespri – Mercoledì 3a settimana

1. Il Salmo 126, ora proclamato, presenta davanti ai nostri occhi uno spettacolo in movimento: una casa in costruzione, la città con le sue guardie, la vita delle famiglie, le veglie notturne, il lavoro quotidiano, i piccoli e i grandi segreti dell’esistenza. Ma su tutto si leva una presenza decisiva, quella del Signore che aleggia sulle opere dell’uomo, come suggerisce l’avvio incisivo del Salmo: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori» (v. 1) Una società solida nasce, certo, dall’impegno di tutti i suoi membri, ma ha bisogno della benedizione e del sostegno di quel Dio che, purtroppo, spesso è invece escluso o ignorato. Il Libro dei Proverbi sottolinea il primato dell’azione divina per il benessere di una comunità e lo fa in modo radicale affermando che «la benedizione del Signore arricchisce, non le aggiunge nulla la fatica» (Pr 10,22). 2. Questo Salmo sapienziale, frutto della meditazione sulla realtà della vita di ogni giorno, è costruito sostanzialmente su un contrasto: senza il Signore, invano si cerca di erigere una casa stabile, di edificare una città sicura, di far fruttificare la propria fatica (cfr Sal 126,1-2). Col Signore, invece, si ha prosperità e fecondità, una famiglia ricca di figli e serena, una città ben munita e difesa, libera da incubi e insicurezze (cfr vv. 3-5). Il testo si apre con l’accenno al Signore raffigurato come costruttore della casa e sentinella che veglia sulla città (cfr Sal 120,1-8). L’uomo esce al mattino per impegnarsi nel lavoro a sostegno della famiglia e a servizio dello sviluppo della società. È un lavoro che occupa le sue energie, provocando il sudore della sua fronte (cfr Gn 3,19) per l’intero arco della giornata (cfr Sal 126,2). 3. Ebbene, il Salmista non esita ad affermare che tutto questo lavoro è inutile, se Dio non è al fianco di chi fatica. Ed afferma che Dio premia invece persino il sonno dei suoi amici. Il Salmista vuole così esaltare il primato della grazia divina, che imprime consistenza e valore all’agire umano, pur segnato dal limite e dalla caducità. Nell’abbandono sereno e fedele della nostra libertà al Signore, anche le nostre opere diventano solide, capaci di un frutto permanente. Il nostro «sonno» diventa, così, un riposo benedetto da Dio, destinato a suggellare un’attività che ha senso e consistenza. 4. Si passa, a questo punto, all’altra scena tratteggiata dal nostro Salmo. Il Signore offre il dono dei figli, visti come una benedizione e una grazia, segno della vita che continua e della storia della salvezza protesa verso nuove tappe (cfr v. 3). Il Salmista esalta in particolare «i figli della giovinezza»: il padre che ha avuto figli in gioventù non solo li vedrà in tutto il loro vigore, ma essi saranno il suo sostegno nella vecchiaia. Egli potrà, così, affrontare con sicurezza il futuro, divenendo simile a un guerriero, armato di quelle «frecce» acuminate e vittoriose che sono i figli (cfr vv 4-5). L’immagine, desunta dalla cultura del tempo, ha lo scopo di celebrare la sicurezza, la stabilità, la forza di una famiglia numerosa, come si ripeterà nel successivo Salmo 127, in cui è tratteggiato il ritratto di una famiglia felice. Il quadro finale raffigura un padre circondato dai suoi figli, che è accolto con rispetto alla porta della città, sede della vita pubblica. La generazione è, quindi, un dono apportatore di vita e di benessere per la società. Ne siamo consapevoli ai nostri giorni di fronte a nazioni che il calo demografico priva della freschezza, dell’energia, del futuro incarnato dai figli. Su tutto, però, si erge la presenza benedicente di Dio, sorgente di vita e di speranza. 5. Il Salmo 126 è stato spesso usato dagli autori spirituali proprio per esaltare questa presenza divina, decisiva per procedere sulla via del bene e del regno di Dio. Così il monaco Isaia (morto a Gaza nel 491) nel suo Asceticon (Logos 4,118), ricordando l’esempio degli antichi patriarchi e profeti, insegna: «Si sono posti sotto la protezione di Dio implorando la sua assistenza, senza mettere la loro fiducia in qualche fatica che avessero compiuto. E la protezione di Dio è stata per loro una città fortificata, perché sapevano che senza l’aiuto di Dio essi erano impotenti e la loro umiltà faceva loro dire con il Salmista: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode”» (Recueil ascétique, Abbaye de Bellefontaine 1976, pp. 74-75).

PAPA FRANCESCO – LA FAMIGLIA – 33. LA PORTA DELL’ACCOGLIENZA

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 18 novembre 2015

LA FAMIGLIA – 33. LA PORTA DELL’ACCOGLIENZA

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Con questa riflessione siamo arrivati alle soglie del Giubileo, è vicino. Davanti a noi sta la  porta, ma non solo la porta santa, l’altra: la grande porta della Misericordia di Dio – e quella è una porta bella! -, che accoglie il nostro pentimento offrendo la grazia del suo perdono. La porta è generosamente aperta, ci vuole un po’ di coraggio da parte nostra per varcare la soglia. Ognuno di noi ha dentro di sé cose che pesano. Tutti siamo peccatori! Approfittiamo di questo momento che viene e varchiamo la soglia di questa misericordia di Dio che mai si stanca di perdonare, mai si stanca di aspettarci! Ci guarda, è sempre accanto a noi. Coraggio! Entriamo per questa porta! Dal Sinodo dei Vescovi, che abbiamo celebrato nello scorso mese di ottobre, tutte le famiglie, e la Chiesa intera, hanno ricevuto un grande incoraggiamento a incontrarsi sulla soglia di questa porta aperta. La Chiesa è stata incoraggiata ad aprire le sue porte, per uscire con il Signore incontro ai figli e alle figlie in cammino, a volte incerti, a volte smarriti, in questi tempi difficili. Le famiglie cristiane, in particolare, sono state incoraggiate ad aprire la porta al Signore che attende di entrare, portando la sua benedizione e la sua amicizia. E se la porta della misericordia di Dio è sempre aperta, anche le porte delle nostre chiese, delle nostre comunità, delle nostre parrocchie, delle nostre istituzioni, delle nostre diocesi, devono essere aperte, perché così tutti possiamo uscire a portare questa misericordia di Dio. Il Giubileo significa la grande porta della misericordia di Dio ma anche le piccole porte delle nostre chiese aperte per lasciare entrare il Signore – o tante volte uscire il Signore – prigioniero delle nostre strutture, del nostro egoismo e di tante cose. Il Signore non forza mai la porta: anche Lui chiede il permesso di entrare. Il Libro dell’Apocalisse dice: «Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Ma immaginiamoci il Signore che bussa alla porta del nostro cuore! E nell’ultima grande visione di questo Libro dell’Apocalisse, così si profetizza della Città di Dio: «Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno», il che significa per sempre, perché «non vi sarà più notte» (21,25). Ci sono posti nel mondo in cui non si chiudono le porte a chiave, ancora ci sono. Ma ce ne sono tanti dove le porte blindate sono diventate normali. Non dobbiamo arrenderci all’idea di dover applicare questo sistema a tutta la nostra vita, alla vita della famiglia, della città, della società. E tanto meno alla vita della Chiesa. Sarebbe terribile! Una Chiesa inospitale, così come una famiglia rinchiusa su sé stessa, mortifica il Vangelo e inaridisce il mondo. Niente porte blindate nella Chiesa, niente! Tutto aperto! La gestione simbolica delle “porte” – delle soglie, dei passaggi, delle frontiere – è diventata cruciale. La porta deve custodire, certo, ma non respingere. La porta non dev’essere forzata, al contrario, si chiede permesso, perché l’ospitalità risplende nella libertà dell’accoglienza, e si oscura nella prepotenza dell’invasione. La porta si apre frequentemente, per vedere se fuori c’è qualcuno che aspetta, e magari non ha il coraggio, forse neppure la forza di bussare. Quanta gente ha perso la fiducia, non ha il coraggio di bussare alla porta del nostro cuore cristiano, alle porte delle nostre chiese… E sono lì, non hanno il coraggio, gli abbiamo tolto la fiducia: per favore, che questo non accada mai. La porta dice molte cose della casa, e anche della Chiesa. La gestione della porta richiede attento discernimento e, al tempo stesso, deve ispirare grande fiducia. Vorrei spendere una parola di gratitudine per tutti i custodi delle porte: dei nostri condomini, delle istituzioni civiche, delle stesse chiese. Spesso l’accortezza e la gentilezza della portineria sono capaci di offrire un’immagine di umanità e di accoglienza all’intera casa, già dall’ingresso. C’è da imparare da questi uomini e donne, che sono custodi dei luoghi di incontro e di accoglienza della città dell’uomo! A tutti voi custodi di tante porte, siano porte di abitazioni, siano porte delle chiese, grazie tante! Ma sempre con un sorriso, sempre mostrando l’accoglienza di quella casa, di quella chiesa, così la gente si sente felice e accolta in quel posto. In verità, sappiamo bene che noi stessi siamo i custodi e i servi della Porta di Dio, e la porta di Dio come si chiama? Gesù! Egli ci illumina su tutte le porte della vita, comprese quelle della nostra nascita e della nostra morte. Egli stesso l’ha affermato: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9). Gesù è la porta che ci fa entrare e uscire. Perché l’ovile di Dio è un riparo, non è una prigione! La casa di Dio è un riparo, non è una prigione, e la porta si chiama Gesù! E se la porta è chiusa, diciamo: “Signore, apri la porta!”. Gesù è la porta e ci fa entrare e uscire. Sono i ladri, quelli che cercano di evitare la porta: è curioso, i ladri cercano sempre di entrare da un’altra parte, dalla finestra, dal tetto ma evitano la porta, perché hanno intenzioni cattive, e si intrufolano nell’ovile per ingannare le pecore e approfittare di loro. Noi dobbiamo passare per la porta e ascoltare la voce di Gesù: se sentiamo il suo tono di voce, siamo sicuri, siamo salvi. Possiamo entrare senza timore e uscire senza pericolo. In questo bellissimo discorso di Gesù, si parla anche del guardiano, che ha il compito di aprire al buon Pastore (cfr Gv 10,2). Se il guardiano ascolta la voce del Pastore, allora apre, e fa entrare tutte le pecore che il Pastore porta, tutte, comprese quelle sperdute nei boschi, che il buon Pastore si è andato a riprendere. Le pecore non le sceglie il guardiano, non le sceglie il segretario parrocchiale o la segretaria della parrocchia; le pecore sono tutte invitate, sono scelte dal buon Pastore. Il guardiano – anche lui – obbedisce alla voce del Pastore. Ecco, potremmo ben dire che noi dobbiamo essere come quel guardiano. La Chiesa è la portinaia della casa del Signore, non è la padrona della casa del Signore. La Santa Famiglia di Nazareth sa bene che cosa significa una porta aperta o chiusa, per chi aspetta un figlio, per chi non ha riparo, per chi deve scampare al pericolo. Le famiglie cristiane facciano della loro soglia di casa un piccolo grande segno della Porta della misericordia e dell’accoglienza di Dio. E’ proprio così che la Chiesa dovrà essere riconosciuta, in ogni angolo della terra: come la custode di un Dio che bussa, come l’accoglienza di un Dio che non ti chiude la porta in faccia, con la scusa che non sei di casa. Con questo spirito ci avviciniamo al Giubileo: ci sarà la porta santa, ma c’è la porta della grande misericordia di Dio! Ci sia anche la porta del nostro cuore per ricevere tutti il perdono di Dio e dare a nostra volta il nostro perdono, accogliendo tutti quelli che bussano alla nostra porta.

 

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