Archive pour novembre, 2015

STORIA DEL GIUBILEO – GIUBILEO DEL 2000

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STORIA DEL GIUBILEO – GIUBILEO DEL 2000

Nella tradizione cattolica il Giubileo è un grande evento religioso. E’ l’anno della remissione dei peccati e delle pene per i peccati, è l’anno della riconciliazione tra i contendenti, della conversione e della penitenza sacramentale e, di conseguenza, della solidarietà, della speranza, della giustizia, dell’impegno al servizio di Dio nella gioia e nella pace con i fratelli. L’anno giubilare è soprattutto l’anno di Cristo, portatore di vita e di grazia all’umanità. Le sue origini si ricollegano all’Antico Testamento. La legge di Mosé aveva fissato per il popolo ebraico un anno particolare: « Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel Paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, Né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo, esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest’anno del giubileo, ciascuno tornerà in possesso del suo » (Libro del Levitico). La tromba con cui si annunciava questo anno particolare era un corno d’ariete, che in ebraico si dice « Yobel », da cui deriva la parola « Giubileo ». La celebrazione di quest’anno comportava, tra l’altro, la restituzione delle terre agli antichi proprietari, la remissione dei debiti, la liberazione degli schiavi e il riposo della terra. Nel Nuovo Testamento Gesù si presenta come Colui che porta a compimento l’antico Giubileo, essendo venuto a « predicare l’anno di grazia del Signore » (Isaia). Il Giubileo del 2000 assume un’importanza speciale perché, facendosi quasi ovunque il computo del decorso degli anni a partire dalla venuta di Cristo nel mondo, vengono celebrati i duemila anni dalla nascita di Cristo (prescindendo dall’esattezza del computo cronologico). Non solo, ma si tratta del primo Anno Santo a cavallo tra la fine di un millennio e la fine di un altro: il primo Giubileo, infatti, fu indetto da Papa Bonifacio VIII nel 1300. Il Giubileo dell’anno 2000 vuole essere, così, una grande preghiera di lode e di ringraziamento per il dono dell’Incarnazione del Figlio di Dio e della Redenzione da lui operata. Il Giubileo, comunemente, viene detto « Anno santo », non solo perché si inizia, si svolge e si conclude con solenni riti sacri, ma anche perché è destinato a promuovere la santità di vita. E’ stato istituito infatti per consolidare la fede, favorire le opere di solidarietà e la comunione fraterna all’interno della Chiesa e nella società, richiamare e stimolare i credenti ad una più sincera e coerente professione di fede in Cristo unico Salvatore. Il Giubileo può essere: ordinario, se legato a scadenze prestabilite; straordinario, se viene indetto per qualche avvenimento di particolare importanza. Gli Anni Santi ordinari, celebrati fino ad oggi, sono 25; quello del 2000 sarà il ventiseiesimo. La consuetudine di indire Giubilei straordinari risale al XVI secolo: la loro durata è varia, da pochi giorni ad un anno. Gli ultimi Anni Santi straordinari di questo secolo sono quelli del 1933, indetto da Pio XI per il XIX centenario della Redenzione, del 1983, indetto da Giovanni Paolo II per i 1950 anni della Redenzione. Nel 1987 Giovanni Paolo II ha indetto anche un Anno Mariano.

STORIA DEI GIUBILEI Il primo Giubileo ordinario fu indetto nel 1300 da Papa Bonifacio VIII, della nobile famiglia dei Caetani, con la Bolla « Antiquorum Habet Fida Relatio ». Ne fu occasione remota l’ondata di spiritualità, di perdono, di fratellanza che si stava diffondendo in tutta la cristianità in contrapposizione agli odi e alle violenze dominanti in quell’epoca. L’occasione immediata è da riallacciare alla voce, iniziata a circolare nel dicembre 1299, secondo la quale nell’anno centenario i visitatori della basilica di San Pietro avrebbero ricevuto una « pienissima remissione dei peccati ». L’enorme afflusso di pellegrini a Roma indusse Bonifacio VIII a concedere l’indulgenza per tutto l’anno 1300 e, in futuro, ogni cento anni. Tra i pellegrini di questo primo Giubileo vanno ricordati: Dante, Cimabue, Giotto, Carlo di Valois, fratello del re di Francia, con sua moglie Caterina. Dante Alighieri ne conserva un’eco in alcuni versi del Canto XXXI del Paradiso della « Divina Commedia ». Dopo il trasferimento della sede del Papa ad Avignone (1305-77) vennero formulate numerose richieste perché il secondo Giubileo fosse indetto nel 1350 e non nel 1400. Clemente VI acconsentì e ne fissò la scadenza ogni 50 anni. Alle basiliche da visitare, San Pietro e San Paolo fuori le mura, aggiunse quella di San Giovanni in Laterano. Successivamente, Urbano VI decise di spostare la cadenza a 33 anni, in riferimento al periodo della vita terrena di Gesù. Alla sua morte, il nuovo pontefice, Bonifacio IX, diede inizio all’Anno Santo del 1390. L’avvicinarsi della fine del secolo e l’afflusso consistente di pellegrini lo indussero ad indire un nuovo Giubileo nel 1400. Finito lo scisma d’Occidente, Martino V indisse l’Anno Santo per il 1425, introducendo due novità: la coniazione di una speciale medaglia commemorativa e l’apertura della Porta Santa a San Giovanni in Laterano. Secondo quanto stabilito da Urbano VI, il nuovo Giubileo si sarebbe dovuto celebrare nel 1433, ma non fu così. Solo sotto il pontificato di Nicolò V venne indetto un Giubileo per il 1450. Paolo II, con una Bolla del 1470, stabilì che in futuro il Giubileo si svolgesse ogni 25 anni. Ad indire il successivo, nel 1475, fu Sisto IV: per questa occasione il Papa volle che Roma fosse abbellita con nuove importanti opere, tra cui la Cappella Sistina e il ponte Sisto sul Tevere. In quel tempo, a Roma, lavorarono i più grandi artisti dell’epoca: Verrocchio, Signorelli, Ghirlandaio, Botticelli, Perugino, Pinturicchio, Melozzo da Forlì. Nel 1500 Alessandro VI volle che le porte Sante delle quattro basiliche venissero aperte contemporaneamente, riservando a sé l’apertura della Porta Santa di San Pietro. Clemente VII aprì solennemente, il 24 dicembre 1524, il nono Giubileo, nel quale si cominciava ad avvertire la grande crisi che di lì a poco avrebbe investito l’Europa con la riforma protestante. Ad indire il Giubileo per il 1550 fu Paolo III ma ad aprirlo fu Giulio III. Il notevole afflusso di pellegrini provocò non pochi problemi di assistenza, cui provvide in modo particolare San Filippo Neri con la « Confraternita della Santa Trinità ». Nel 1575, sotto il pontificato di Gregorio XIII, confluirono a Roma oltre 300.000 persone da tutta l’Europa. I successivi Anni Santi del XVII secolo furono indetti da Clemente VIII (1600), Urbano VIII (1625), Innocenzo X (1650), Clemente X (1675). A Innocenzo X, promotore del Giubileo nel 1700, è legata una delle maggiori opere caritative di Roma: l’ospizio di san Michele a Ripa. Intanto, crescevano le iniziative per venire incontro alle esigenze dei pellegrini, come accadde anche nel 1725, sotto il pontificato di Benedetto XIII. Predicatore instancabile nell’Anno Santo del 1750 (indetto da Benedetto XIV) fu San Leonardo da Porto Maurizio, che eresse nel Colosseo 14 edicole per il pio esercizio della Via Crucis e una grande croce in mezzo all’arena. Clemente XIV promulgò il Giubileo per il 1775 ma non poté aprirlo perché morì tre mesi prima dell’apertura solenne ( al quale provvide il nuovo pontefice Pio VI). La difficile situazione della Chiesa al tempo dell’egemonia napoleonica non permise a Pio VII di indire un Giubileo per il 1800. Oltre mezzo milione di pellegrini giunse a Roma nel 1825: Leone XII sostituì per le consuete visite dei fedeli la basilica di San Paolo fuori le mura, distrutta dall’incendio del 1823, con la basilica minore di Santa Maria in Trastevere. Venticinque anni dopo lo svolgimento dell’Anno Santo non fu consentito dalle vicende della Repubblica Romana e del temporaneo esilio di Pio IX. Lo stesso pontefice poté però indire quello del 1875, privato delle cerimonie di apertura e di chiusura della Porta Santa a causa dell’occupazione di Roma da parte delle truppe di Vittorio Emanuele II. Spettò a Leone XIII indire il ventiduesimo Giubileo per l’inizio del XX secolo dell’era cristiana, caratterizzato da sei beatificazioni e due canonizzazioni (quelle di San Giovanni Battista de La Salle e di Santa Rita da Cascia). Nel 1925, Pio XI volle che in concomitanza dell’Anno Santo fosse proposta all’attenzione dei fedeli la preziosa opera delle missioni e esortò i fedeli a pregare per la pace tra i popoli al fine di lucrare le indulgenze. Nel 1950, pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, Pio XII promulgò il successivo Giubileo indicandone le finalità: santificazione delle anime mediante la preghiera e la penitenza e l’incrollabile fedeltà a Cristo e alla Chiesa; azione per la pace e tutela dei Luoghi Santi; difesa della Chiesa contro i rinnovati attacchi dei suoi nemici e impetrazione della vera fede per gli erranti, gli infedeli e i senza Dio; attuazione della giustizia sociale e opere di assistenza a favore degli umili e dei bisognosi. Nel corso di quest’anno fu la proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria al cielo (1· novembre 1950). L’ultimo Giubileo ordinario risale al 1975 e fu indetto da Paolo VI, che ne presentò sinteticamente gli obiettivi con i termini « Rinnovamento » e « Riconciliazione ».

TERTIO MILLENNIO ADVENIENTE Il 10 novembre 1994 il Papa ha promulgato la Lettera apostolica Tertio Millennio adveniente indirizzata all’Episcopato, al clero, ai religiosi e ai fedeli circa la preparazione al Giubileo del 2000. Il documento è composto di una breve introduzione e di cinque capitoli. Nell’introduzione viene focalizzato l’argomento centrale: la celebrazione del Giubileo è la celebrazione dell’Incarnazione redentrice del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Il primo capitolo, « Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi… », sottolinea il significato e l’importanza della nascita di Gesù Cristo. Egli è il Figlio di Dio, si è fatto uno di noi per rivelare il disegno di Dio nei riguardi di tutta la creazione e, in particolare, nei riguardi dell’uomo. Questo è il punto essenziale che differenzia il cristianesimo dalle altre religioni: è Dio stesso che viene in persona a parlare di sé all’uomo e a mostrargli la via sulla quale è possibile raggiungerlo. L’Incarnazione di Gesù Cristo testimonia che Dio cerca l’uomo per indurlo ad abbandonare le vie del male. Questo recupero si realizza attraverso il sacrificio di Cristo stesso sulla croce. La religione dell’Incarnazione è quindi la religione della Redenzione. Il capitolo II, Il Giubileo dell’anno 2000, illustra la motivazione dell’Anno Santo e di quello di fine millennio in particolare. Dio, con l’Incarnazione, si è calato dentro la storia dell’uomo. L’eternità è entrata nel tempo e manifesta che Cristo è il signore del tempo. Per questo, nel cristianesimo, il tempo ha un’importanza fondamentale e nasce il dovere di santificarlo. Su tale sfondo diventa comprensibile l’usanza dei Giubilei, che ha inizio nell’Antico Testamento e ritrova la sua continuazione nella storia della Chiesa. Il Giubileo, per la Chiesa, è un anno di grazia del Signore, un anno della remissione dei peccati e delle pene per i peccati, un anno di riconciliazione tra tutti i contendenti. Nella vita delle singole persone i Giubilei sono legati alla data di nascita e, per i cristiani, sono anche anniversari del Battesimo, della Cresima, della prima Comunione, dell’ordinazione sacerdotale o episcopale, del matrimonio. Ma anche le comunità e le istituzioni celebrano i loro giubilei; e tutti, quelli personali o comunitari, religiosi o civili, rivestono un ruolo importante e significativo. In questo contesto, i duemila anni dalla nascita di Cristo rappresentano un Giubileo straordinariamente grande non soltanto per i cristiani, ma per l’intera umanità, dato il ruolo di primo piano esercitato dal cristianesimo in questi due millenni. Il capitolo III, La preparazione del Grande Giubileo, evidenzia i vari eventi che hanno contribuito e contribuiscono al cammino di preparazione verso il Duemila. Innanzitutto il Concilio Vaticano II, « evento provvidenziale concentrato sul mistero di Cristo e della sua Chiesa ed insieme aperto al mondo », attraverso il quale la Chiesa ha avviato la preparazione prossima al Giubileo del secondo millennio. La migliore preparazione alla scadenza bimillenaria della nascita di Cristo, afferma il Papa, sarà appunto il rinnovato impegno di attuazione dell’insegnamento del Concilio alla vita di ciascuno e di tutta la Chiesa. Nel cammino di preparazione al 2000 si inserisce la serie di Sinodi, iniziata dopo il Concilio: generali e continentali, regionali, nazionali e diocesani. Il tema di fondo è quello dell’evangelizzazione. Specifici compiti e responsabilità, in vista del Grande Giubileo, spettano al Vescovo di Roma: in questa prospettiva hanno operato tutti i pontefici del secolo che sta per concludersi, in particolare con le encicliche a sfondo sociale e i messaggi per la Giornata della Pace, pubblicati a partire dal 1968. Inoltre, l’attuale pontefice, sin dalla prima enciclica (la Redemptor hominis), ha parlato in modo esplicito dell’Anno Santo del 2000, invitando a vivere il periodo di attesa come un « nuovo avvento ». Allo stesso scopo sono stati orientati, e continueranno ad esserlo, i pellegrinaggi del Papa nelle Chiese particolari di tutti i continenti: Giovanni Paolo II auspica di visitare, entro il 2000, Sarajevo, il Libano, Gerusalemme e la Terra Santa e « tutti quei luoghi che si trovano sul cammino del popolo di Dio dell’Antica Alleanza, a partire dai luoghi di Abramo e di Mosè, attraverso l’Egitto e il Monte Sinai, fino a Damasco ». Anche i Giubilei locali o regionali per la celebrazione di importanti anniversari hanno un ruolo di svolgere nella preparazione al Grande Giubileo, che raccoglie pure i frutti degli Anni Santi (quello ordinario del 1975, indetto da Paolo VI, e quello straordinario del 1983, indetto da Giovanni Paolo II) dell’ultimo scorcio di questo secolo, dell’Anno Mariano 1987-88 e dell’Anno della Famiglia, il cui contenuto si collega strettamente con il mistero dell’Incarnazione e con la storia stessa dell’uomo. Il capitolo IV della Lettera apostolica, dal titolo La preparazione immediata, prospetta uno specifico programma di iniziative per il Grande Giubileo, attraverso due fasi: la prima (1994-96), a carattere antepreparatorio, ha avuto lo scopo di ravvivare nei cristiani la consapevolezza del valore e del significato che il Giubileo del 2000 riveste nella storia umana; la seconda (1997-99), la fase propriamente preparatoria, è orientata alla celebrazione del mistero di Cristo Salvatore. La struttura ideale per tale triennio è trinitaria: il 1997 è dedicato alla riflessione su Cristo; il 1998 sarà dedicato allo Spirito Santo e alla sua presenza santificatrice all’interno delle Chiese; il 1999 sarà incentrato su Dio Padre, dal quale Cristo è stato mandato e al quale è ritornato. Questi i tratti salienti sottolineati da Giovanni Paolo II per il cammino di preparazione: una dimensione storica della coscienza. « La Porta Santa del Giubileo del 2000 – scrive – dovrà essere simbolicamente più grande delle precedenti, perché l’umanità, giunta a quel traguardo, si lascerà alle spalle non soltanto un secolo, ma un millennio. E’ bene che la Chiesa imbocchi questo passaggio con la chiara coscienza di ciò che ha vissuto nel corso degli ultimi dieci secoli. Essa non può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi, nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi »; un’esigenza ecumenica, che il Papa ricorda ovunque nella sua Lettera, invitando ad opportune iniziative ecumeniche, così che le diverse confessioni cristiane si possano presentare al Grande Giubileo se non unite, almeno prossime a superare le storiche divisioni. Anche perché i peccati che hanno pregiudicato l’unità esigono un maggiore impegno di penitenza e di conversione; un impegno sociale, secondo la descrizione contenuta nella Bibbia, che pone in risalto l’ispirazione sociale della pratica giubilare (destinazione universale dei beni, ripristino dell’uguaglianza tra tutti i figli d’Israele); la memoria dei martiri. Una Chiesa che non si ricorda dei suoi martiri di ieri o non riconosce più i suoi martiri di oggi non può rivendicare l’onore di essere la Chiesa di Cristo. Qui Giovanni Paolo afferma che « nel nostro secolo sono ritornati i martiri » e « non devono andare perdute nella Chiesa le loro testimonianze ». Per questo motivo è previsto l’aggiornamento dei martirologi, in particolare per il riconoscimento dell’eroicità delle virtù di uomini e donne che hanno realizzato la loro vocazione cristiana nel matrimonio. Per quanto riguarda il triennio della fase preparatoria, nel corso del 1997 la Chiesa sarà impegnata ad avvicinare i cristiani alla riscoperta della Bibbia, del Battesimo, della catechesi per mirare all’obiettivo prioritario del Giubileo, il rinvigorimento della fede e della testimonianza dei cristiani. Nel 1998 si punterà alla riscoperta della presenza e dell’azione dello Spirito, agente principale della nuova evangelizzazione, valorizzando i segni di speranza presenti in quest’ultimo scorcio di secolo, in campo civile ed ecclesiale. Il terzo ed ultimo anno di preparazione, secondo le indicazioni di Giovanni Paolo II, dovrà spingere ad intraprendere un cammino di autentica conversione, riscoprendo il sacramento della Penitenza e mettendo in risalto la virtù teologale della carità; sarà sottolineata l’opzione preferenziale della Chiesa per i poveri e gli emarginati. Il Giubileo potrebbe essere un momento opportuno per pensare ad una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale. La vigilia del Duemila, inoltre, sarà una grande occasione per il dialogo interreligioso: potrebbero prevedersi incontri tra i rappresentanti delle grandi religioni mondiali. La celebrazione del Grande Giubileo avverrà contemporaneamente in Terra Santa, a Roma e nelle Chiese locali del mondo intero. Nella fase celebrativa l’obiettivo sarà la glorificazione della Trinità. A Roma si terrà il Congresso eucaristico internazionale. La dimensione ecumenica e universale potrebbe essere sottolineata da un incontro pancristiano. Il quinto e ultimo capitolo della Tertio Millennio adveniente, intitolato « Gesù Cristo è lo stesso (…) sempre », esalta la missione della Chiesa, chiamata a continuare l’opera stessa di Cristo. La Chiesa, come l’evangelico granellino di senape, cresce fino a diventare un grande albero, capace di coprire con le sue fronde l’intera umanità. Sin dai tempi apostolici prosegue senza sosta la sua missione salvifica all’interno dell’universale famiglia umana. Con la caduta dei grandi sistemi anticristiani nel continente europeo, del nazismo prima e poi del comunismo, si impone il compito urgente di offrire nuovamente all’Europa il messaggio liberante del Vangelo, e l’attenzione della Chiesa si rivolge in modo particolare alle giovani generazioni.

LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA

(questa parte non mi sembr utile metterla)

Publié dans:GIUBILEO (IL) |on 26 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

Divine Mercy Rosary Candle

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Publié dans:immagini sacre |on 25 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

PENTECOSTE 2012 OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – (IL VENTO E LA PAURA)

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CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – (IL VENTO E LA PAURA)

Basilica Vaticana

Domenica, 27 maggio 2012

Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di celebrare con voi questa Santa Messa, animata oggi anche dal Coro dell’Accademia di Santa Cecilia e dall’Orchestra giovanile – che ringrazio -, nella Solennità di Pentecoste. Questo mistero costituisce il battesimo della Chiesa, è un evento che le ha dato, per così dire, la forma iniziale e la spinta per la sua missione. E questa «forma» e questa «spinta» sono sempre valide, sempre attuali, e si rinnovano in modo particolare mediante le azioni liturgiche. Stamani vorrei soffermarmi su un aspetto essenziale del mistero della Pentecoste, che ai nostri giorni conserva tutta la sua importanza. La Pentecoste è la festa dell’unione, della comprensione e della comunione umana. Tutti possiamo constatare come nel nostro mondo, anche se siamo sempre più vicini l’uno all’altro con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, e le distanze geografiche sembrano sparire, la comprensione e la comunione tra le persone sia spesso superficiale e difficoltosa. Permangono squilibri che non di rado portano a conflitti; il dialogo tra le generazioni si fa faticoso e a volte prevale la contrapposizione; assistiamo a fatti quotidiani in cui ci sembra che gli uomini stiano diventando più aggressivi e più scontrosi; comprendersi sembra troppo impegnativo e si preferisce rimanere nel proprio io, nei propri interessi. In questa situazione, possiamo trovare veramente e vivere quell’unità di cui abbiamo bisogno? La narrazione della Pentecoste negli Atti degli Apostoli, che abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr At 2,1-11), contiene sullo sfondo uno degli ultimi grandi affreschi che troviamo all’inizio dell’Antico Testamento: l’antica storia della costruzione della Torre di Babele (cfr Gen 11,1-9). Ma che cos’è Babele? E’ la descrizione di un regno in cui gli uomini hanno concentrato tanto potere da pensare di non dover fare più riferimento a un Dio lontano e di essere così forti da poter costruire da soli una via che porti al cielo per aprirne le porte e mettersi al posto di Dio. Ma proprio in questa situazione si verifica qualcosa di strano e di singolare. Mentre gli uomini stavano lavorando insieme per costruire la torre, improvvisamente si resero conto che stavano costruendo l’uno contro l’altro. Mentre tentavano di essere come Dio, correvano il pericolo di non essere più neppure uomini, perché avevano perduto un elemento fondamentale dell’essere persone umane: la capacità di accordarsi, di capirsi e di operare insieme. Questo racconto biblico contiene una sua perenne verità; lo possiamo vedere lungo la storia, ma anche nel nostro mondo.  Con il progresso della scienza e della tecnica siamo arrivati al potere di dominare forze della natura, di manipolare gli elementi, di fabbricare esseri viventi, giungendo quasi fino allo stesso essere umano. In questa situazione, pregare Dio sembra qualcosa di sorpassato, di inutile, perché noi stessi possiamo costruire e realizzare tutto ciò che vogliamo. Ma non ci accorgiamo che stiamo rivivendo la stessa esperienza di Babele. E’ vero, abbiamo moltiplicato le possibilità di comunicare, di avere informazioni, di trasmettere notizie, ma possiamo dire che è cresciuta la capacità di capirci o forse, paradossalmente, ci capiamo sempre meno? Tra gli uomini non sembra forse serpeggiare un senso di diffidenza, di sospetto, di timore reciproco, fino a diventare perfino pericolosi l’uno per l’altro? Ritorniamo allora alla domanda iniziale: può esserci veramente unità, concordia? E come? La risposta la troviamo nella Sacra Scrittura: l’unità può esserci solo con il dono dello Spirito di Dio, il quale ci darà un cuore nuovo e una lingua nuova, una capacità nuova di comunicare. E questo è ciò che si è verificato a Pentecoste. In quel mattino, cinquanta giorni dopo la Pasqua, un vento impetuoso soffiò su Gerusalemme e la fiamma dello Spirito Santo discese sui discepoli riuniti, si posò su ciascuno e accese in essi il fuoco divino, un fuoco di amore capace di trasformare. La paura scomparve, il cuore sentì una nuova forza, le lingue si sciolsero e iniziarono a parlare con franchezza, in modo che tutti potessero capire l’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto. A Pentecoste dove c’era divisione ed estraneità, sono nate unità e comprensione. Ma guardiamo al Vangelo di oggi, nel quale Gesù afferma: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13). Qui Gesù, parlando dello Spirito Santo, ci spiega che cos’è la Chiesa e come essa debba vivere per essere se stessa, per essere il luogo dell’unità e della comunione nella Verità; ci dice che agire da cristiani significa non essere chiusi nel proprio «io», ma orientarsi verso il tutto; significa accogliere in se stessi la Chiesa tutta intera o, ancora meglio, lasciare interiormente che essa ci accolga. Allora, quando io parlo, penso, agisco come cristiano, non lo faccio chiudendomi nel mio io, ma lo faccio sempre nel tutto e a partire dal tutto: così lo Spirito Santo, Spirito  di unità e di verità, può continuare a risuonare nei nostri cuori e nelle menti degli uomini e spingerli ad incontrarsi e ad accogliersi a vicenda. Lo Spirito, proprio per il fatto che agisce così, ci introduce in tutta la verità, che è Gesù, ci guida nell’approfondirla, nel comprenderla: noi non cresciamo nella conoscenza chiudendoci nel nostro io, ma solo diventando capaci di ascoltare e di condividere, solo nel «noi» della Chiesa, con un atteggiamento di profonda umiltà interiore. E così diventa più chiaro perché Babele è Babele e la Pentecoste è la Pentecoste. Dove gli uomini vogliono farsi Dio, possono solo mettersi l’uno contro l’altro. Dove invece si pongono nella verità del Signore, si aprono all’azione del suo Spirito che li sostiene e li unisce. La contrapposizione tra Babele e Pentecoste riecheggia anche nella seconda lettura, dove l’Apostolo dice: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne” (Gal 5,16). San Paolo ci spiega che la nostra vita personale è segnata da un conflitto interiore, da una divisione, tra gli impulsi che provengono dalla carne e quelli che provengono dallo Spirito; e noi non possiamo seguirli tutti.  Non possiamo, infatti, essere contemporaneamente egoisti e generosi, seguire la tendenza a dominare sugli altri e provare la gioia del servizio disinteressato. Dobbiamo sempre scegliere quale impulso seguire e lo possiamo fare in modo autentico solo con l’aiuto dello Spirito di Cristo. San Paolo elenca – come abbiamo sentito – le opere della carne, sono i peccati di egoismo e di violenza, come inimicizia, discordia, gelosia, dissensi; sono pensieri e azioni che non fanno vivere in modo veramente umano e cristiano, nell’amore. E’ una  direzione che porta a perdere la propria vita. Invece lo Spirito Santo ci guida verso le altezze di Dio, perché possiamo vivere già in questa terra il germe di vita divina che è in noi. Afferma, infatti, san Paolo: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace» (Gal 5,22).  E notiamo che l’Apostolo usa il plurale per descrivere le opere della carne, che provocano la dispersione dell’essere umano, mentre usa il singolare per definire l’azione dello Spirito, parla di «frutto», proprio come alla dispersione di Babele si contrappone l’unità di Pentecoste. Cari amici, dobbiamo vivere secondo lo Spirito di unità e di verità, e per questo dobbiamo pregare perché lo Spirito ci illumini e ci guidi a vincere il fascino di seguire nostre verità, e ad accogliere la verità di Cristo trasmessa nella Chiesa. Il racconto lucano della Pentecoste ci dice che Gesù prima di salire al cielo chiese agli Apostoli di rimanere insieme per prepararsi a ricevere il dono dello Spirito Santo. Ed essi si riunirono in preghiera con Maria nel Cenacolo nell’attesa dell’evento promesso (cfr At 1,14). Raccolta con Maria, come al suo nascere, la Chiesa anche quest’oggi prega: «Veni Sancte Spiritus! – Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore!». Amen.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, PENTECOSTE |on 25 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

SALMO 27 (26) : IL SIGNORE È MIA LUCE E MIA SALVEZZA, DI CHI AVRÒ PAURA?

http://www.cistercensi.info/monari/2001/m20010308.htm

PREGARE I SALMI – SALMO 27 (26)

IL SIGNORE È MIA LUCE E MIA SALVEZZA, DI CHI AVRÒ PAURA?

Giovedì – 08 marzo 2001

Introduzione Il cammino della Quaresima, che stiamo cercando di percorrere con la grazia del Signore, ci chiede anzitutto un impegno di preghiera che dobbiamo imparare dal Signore. Egli ci insegna come ci si rivolge a lui, come si risponde alla sua Parola e ci si dispone a ricevere la sua grazia. Per questo facciamo il cammino di riflessione sui Salmi, perché attraverso i Salmi è Dio stesso che ci mette sulla bocca le parole giuste e dentro al cuore gli atteggiamenti e le decisioni giuste, quindi sintonizza la nostra vita sulla sua volontà, le sue parole e le sue promesse. Allora con fiducia ci presentiamo davanti al Signore, lo preghiamo perché apra il nostro cuore ad accogliere il suo insegnamento e ci doni una fede e un abbandono grande alla sua volontà.

Preghiamo con il Salmo 27 (26) «[1]Di Davide.

Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore? [2]Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere.

[3]Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia.

[4]Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario.

[5]Egli mi offre un luogo di rifugio nel giorno della sventura. Mi nasconde nel segreto della sua dimora, mi solleva sulla rupe. [6]E ora rialzo la testa sui nemici che mi circondano; immolerò nella sua casa sacrifici d’esultanza, inni di gioia canterò al Signore.

[7]Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. [8]Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»; il tuo volto, Signore, io cerco.

[9]Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza. [10]Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto.

[11]Mostrami, Signore, la tua via, guidami sul retto cammino, a causa dei miei nemici.

[12]Non espormi alla brama dei miei avversari; contro di me sono insorti falsi testimoni che spirano violenza. [13]Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi. [14]Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore».

Omelia “Credere” significa: avere fiducia in Dio più di quanto si abbia paura del mondo o della vita o degli altri o anche di noi stessi. La fede, non è solo questione di sapere o pensare qualche cosa della realtà, ma è un atteggiamento che coinvolge tutta la nostra esistenza (la fede si gioca nel suo confronto con la paura di fronte alla realtà del mondo che ci circonda). Il Salmo che abbiamo ascoltato nasce da qui: si può descrivere come una lotta tra la paura e la speranza. Di fatto, se avete notato, incomincia dicendo: «Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura?», di chi avrò terrore? Il problema è proprio la paura e il terrore. La conclusione del Salmo è l’invito ad una speranza salda: «[14]Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore». In realtà il Salmo che abbiamo ascoltato ha dato da pensare agli esegeti per questo motivo: Nella prima parte che è chiaramente un Salmo di fiducia, anzi qualcuno ha detto: “una fede trionfante, così robusta che non ha ostacoli o impedimenti sul suo cammino”. Poi si arriva alla seconda parte, dal versetto 7 in poi, dove invece ci troviamo di fronte a una supplica, a una richiesta accompagnata da angoscia e timore. È sempre la fede, ma questa volta non più trionfante; è la fede supplice che si presenta davanti a Dio nell’atteggiamento del mendicante che chiede. Dicono gli esegeti che questo modo di procedere non sta bene insieme, sarebbe più giusto (si capirebbe meglio) l’inverso, cioè incominciare con la supplica: io nella miseria mi rivolgo al Signore e chiedo il suo aiuto e il suo sostegno, e poi continuo con la fiducia e con la sicurezza di essere esaudito da Dio. Addirittura qualcuno pensa che il nostro Salmo non sia un Salmo, ma due Salmi: una preghiera di fiducia e una preghiera di domanda e di supplica. In realtà, la coerenza nel nostro Salmo c’è ed è molto profonda, vera e preziosissima per noi. Per capirlo dovete tenere presente che il protagonista è una persona minacciata, con un’autentica paura nel profondo del suo cuore; è circondato da avversari, quindi da tutte le parti sembra non ci sia scampo; è accusato da falsi testimoni (nell’antichità i falsi testimoni sono una delle piaghe più gravi, tremende e distruttive della vita sociale e personale); è oppresso dalla violenza e vede i suoi avversari come delle bestie feroci che vengono per “dilaniargli la carne”. Però è un uomo di una fede robustissima, e di fronte a questa situazione di paura reagisce fin dall’inizio con una fede incrollabile e lo ripete a se stesso: «Il Signore è mia luce e mia salvezza… di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita» (il “baluardo” è la fortezza della mia vita), di chi avrò terrore? Ma si capisce: proprio il fatto che lo dica con questa insistenza, significa che ha bisogno di riscoprire la fede e di farla scendere in profondità; ha bisogno di scriverla nelle radici del suo cuore dove sta sperimentando la paura; ha bisogno di esorcizzare la paura, di allontanarla, di riuscire a controllarla e a vincerla. Parte da questo e poi cerca la sicurezza nel tempio e va a pregare; e lì innalza al Signore la sua supplica, senza censurare niente, ma lasciando che la paura gli salga dal cuore in modo pieno, ma trasformando la sua paura in preghiera. Notate, la seconda parte del Salmo, dal versetto 7 in poi, contiene dieci imperativi che fanno impressione: «Ascolta, Signore, la mia voce», «abbi pietà di me», «rispondimi», «non nascondermi il tuo volto», «non respingere con ira il tuo servo», «non lasciarmi», «non abbandonarmi», «mostrami la tua via», «guidami sul retto cammino… Insomma per dieci volte si rivolge al Signore con una supplica appassionata e urgente, è il suo appello a Dio. Finalmente, al termine di questa supplica, tutto sembra quietarsi e ritrovare serenità in una specie di invito che l’orante (il salmista) rivolge a se stesso: «[14]Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore». Potremmo dire che la lotta è stata combattuta e vinta. Ma proprio l’insistenza su questi imperativi significa che non è stata né rimane una lotta facile: la fede si gioca all’interno di un contesto di difficoltà, di prova e di fatica.

Ripercorriamo il cammino del Salmo nelle sue due parti. Prima parte del Salmo «[1]Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore?». Si potrebbe pensare che il Salmo è già risolto, che sia già finito lì: se uno pensa le preghiere che sta dicendo, evidentemente la paura e il terrore sono già stati superati e sconfitti. Ma quale paura? Quale terrore? Potete immaginarlo il più grande possibile: un avversario? No, molti avversari insieme! Molti avversari che hanno una forza superiore al salmista. Ma non interessa; qualunque situazione di minaccia possa circondare la persona di fede è radicalmente spazzata via dall’affermazione iniziale: «Il Signore è mia luce e mia salvezza». Se è così, che cosa può fare piombare l’uomo nell’angoscia, nella tenebra, nella sconfitta e nella morte? Evidentemente niente. San Paolo scriveva nella Lettera ai Romani: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8, 31); quale forza mondana o sovramondana può distruggere la vita di chi sta sostenuto e protetto da Dio? Se dovessi confrontarmi con le forze del mondo che mi circondano, sarei preso inevitabilmente dalla paura e sarei uno sconfitto. Siccome, Dio è il mio Dio, è per me «luce», «salvezza» e «difesa», per questo tutte le minacce non sono capaci di scalfire la fiducia. La minaccia che mi opprime mi getterebbe in un baratro profondo di tenebra, ma lì «il Signore è mia luce». Il rapporto tra Dio e la luce è tradizionale in tutte le religioni e si trova frequentemente nella Bibbia: «Dio si avvolge della luce come di un manto» (Sal 104, 2); il primo segno della sua opera creatrice è proprio il fatto di far uscire la luce di mezzo le tenebre (cfr. Gen 1, 3-5); a Gerusalemme dice: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore risplende sopra di te» (Is 60, 1). Dunque, la tua vita può essere, dal punto di vista mondano, circondata dalle tenebre. Non si capisce bene dove siamo, dove stiamo andando e il significato delle esperienze che viviamo… ma «il Signore è mia luce». A volte può sembrare che la vita sfugga dal nostro controllo, che l’amarezza o la tristezza piombino inevitabili sopra di noi; ma «il Signore è mia luce». Ricordate il Salmo 23 (dell’ultima Scuola della Parola): «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla» (Sal 23, 1). E ancora: se i nemici mi circondano e da tutte le parti «mi assalgono» e io non ho delle difese che mi possono proteggere… però “il Signore è mio baluardo”. “Baluardo” vuole dire: una fortezza costruita in un luogo imprendibile, dove i nemici non riescono a giungere. Allora possiamo cercare di capire meglio tentando di descrivere la minaccia con una serie di immagini. «[2]Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere. [3]Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia». Dicevo: prendiamo delle immagini per capire chi sono i nostri nemici e il significato dell’esperienza che viviamo. La prima è l’immagine di bestie feroci: “i malvagi sono lì per straziarmi la carne”, cioè per lacerare e divorare la carne; ma in realtà la presenza del Signore è sufficiente difesa: «sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere». La seconda è un’immagine di guerra: “un esercito si accampa e circonda la mia vita”, ma anche in mezzo alla battaglia «il mio cuore non teme… anche allora ho fiducia». Torno a dire: prendete queste cose dette dalla fede del salmista, ma accompagnate da una realtà interiore di paura profonda contro la quale stiamo combattendo e dalla quale cerchiamo di difenderci, attraverso il riferimento e a quello che crediamo del Signore. Continua il nostro salmista nel ricercare il rapporto con Dio. Dicevamo: “Dio è la mia difesa e il mio baluardo”. Ma questa difesa-baluardo diventa molto concreta: il tempio di Gerusalemme. Il tempio di Gerusalemme è costruito su un colle, su una roccia; il tempio ha per definizione il diritto di asilo, chi vi entra è protetto; è un luogo custodito e difeso dal Signore; quindi il tempio diventa l’immagine della protezione di Dio. Per cui: «[4]Una cosa ho chiesto al Signore»; chiedi una cosa sola e io te la darò, ma ne hai da chiedere una sola. Allora devi trovare proprio quella che conta più di tutto; guardi tutti i tuoi desideri e i progetti e tiri fuori quello a cui non puoi assolutamente rinunciare: «[4]Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario». Dunque, “una cosa sola: abitare con Dio”. Il Salmo 16 (15), del Levita, dice che quando la terra promessa è stata divisa tra tutte le tribù d’Israele, a lui della tribù di Levi è toccata la parte migliore, perché la parte migliore è l’essere senza terra e avere al suo posto Dio; la tribù di Levi è senza terra perché la sua eredità è il Signore, ha solo il Signore come sicurezza e protezione per vivere (cfr. Nm 18, 20). Il nostro salmista (ragiona in questo modo) cerca una cosa sola: non la forza militare né la ricchezza economica, ma la comunione con il Signore; il tempio come luogo di pienezza di vita e di esperienza, dove si può contemplare la bellezza di Dio. Vuole dire: l’esperienza del tempio è come fare l’esperienza di una teofania. Domenica prossima avremo il racconto della “trasfigurazione”, ecco è qualche cosa del genere: l’esperienza che hanno fatto i discepoli quando “il Signore li ha portati in disparte su un monte alto” (Mt 17, 1) e davanti a loro si è trasfigurato, e Pietro è arrivato a dire quella espressione: «Signore, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende» (Lc 9, 33). Questa è l’esperienza della gioia, della pienezza della vita. Il salmista ragiona così: desidera «abitare nella casa del Signore tutti i giorni della sua vita», cioè essere ospitato da Dio dentro la sua tenda. Quando si accoglie uno nella propria tenda si assume la responsabilità di farlo vivere e di proteggerlo. Se il Signore si prende questa responsabilità nei nostri confronti, allora in noi c’è l’esperienza della libertà e della gioia: il Signore diventa la rupe, la roccia, su cui io edifico la mia sicurezza (cfr. Lc 6, 48). L’abbiamo già detto: in ebraico il verbo “credere” esprime l’immagine di una persona che si aggrappa ad una roccia e riceve la sua solidità. Noi siamo radicalmente deboli, in qualche modo mossi dalle situazioni del mondo, ma aggrappandoci a questa roccia riceviamo solidità perché è Dio stesso. «[5]Egli mi offre un luogo di rifugio nel giorno della sventura. Mi nasconde nel segreto della sua dimora, mi solleva sulla rupe. [6]E ora rialzo la testa sui nemici che mi circondano; immolerò nella sua casa sacrifici d’esultanza, inni di gioia canterò al Signore». “Alzerò la testa”, quindi non sono più impaurito e umiliato dalla presenza di avversari odiatori che sono più forti di me; la sicurezza, che mi viene dal Signore e dal tempio, mi dà una dignità e una libertà senza riserve. «Rialzo la testa sui nemici che mi circondano»; i nemici appaiono ormai senza forza e senza la capacità di minacciare. «Immolerò nella casa del Signore sacrifici di esultanza». “I sacrifici di esultanza” sono i sacrifici della ter’uah, che era il grido di guerra (cfr. Nm 10, 5 della Bibbia di Gerusalemme); quando si va all’assalto s’incomincia con un grande grido che serve a dare coraggio a chi va all’assalto e a spaventare i nemici. Questo grido diventa una preghiera, una lode, un’espressione liturgica; evidentemente un inno marziale ma trasformato in supplica e ringraziamento a Dio: «inni di gioia canterò al Signore». Siamo impauriti, ma siccome abbiamo fede nel Signore – come salvezza, luce e difesa – proclamiamo la nostra sicurezza, la fede e la speranza senza ambiguità. Seconda parte del Salmo

Siamo arrivati al tempio e lì, davanti al Signore, lasciamo che la paura che abbiamo dentro si esprima; non la comprimiamo né la censuriamo ma lasciamo che diventi preghiera: «[7]Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. [8]Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco». Allora ci rivolgiamo al Signore perché abbiamo un «grido» da esprimere. “Un grido” non è un urlo. “L’urlo” è qualche cosa di non articolato, che esprime la paura ma senza metterla in parole, non riesce a tradurre la paura in espressioni significative. Il nostro «grido» è una voce che innalziamo al Signore, non è rivolta al nulla come a volte può essere un urlo; è rivolto a degli orecchi che sanno percepire e a un cuore che sa rispondere: “ascolta” – «rispondimi». In mezzo a questi due verbi ci sta quello che noi crediamo: «abbi pietà di me!». Vuole dire: riconosco di essere in una condizione di povertà, di miseria e di debolezza, e ho bisogno che il Signore intervenga e faccia sua la mia condizione di povertà, la vinca con l’energia e la forza che lui solo possiede: «abbi pietà di me!». In questo rivolgerci al Signore il salmista ci dice: stiamo lasciando che il nostro cuore si esprima e trovi la direzione giusta dei suoi desideri e progetti. «[8]Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto». Vuole dire: ho interrogato il mio cuore e gli ho detto: “Che cosa debbo fare? Come debbo reagire a questa paura che mi attanaglia?”. E il cuore gli ha risposto: “cerca il volto di Dio”. In concreto significa andare al tempio ma non semplicemente con i piedi e le gambe, ma con il desiderio e la decisione di appartenere a Dio: «Cercate il suo volto». Vuole dire: il salmista aveva il desiderio e la fiducia in Dio in modo profondo, e quando è venuto il momento della prova il cuore lo ha indirizzato giusto e lo ha orientato verso Dio: «Il tuo volto Signore io cerco». Qui viene fuori quell’immagine che è frequentissima nella Bibbia: l’immagine del “volto di Dio” perché il Dio della Bibbia ha una faccia. Chiaramente, quando dico “il volto di Dio” non debbo immaginare dei lineamenti come la mia faccia o la vostra. Quando si dice che “Dio ha una faccia” significa: Dio ha un’identità, che è quella e nient’altro, ha dei lineamenti che sono suoi caratteristici e non si possono confondere. Quando un Ebreo ha cominciato a conoscere il Signore – attraverso tutte le esperienze di liberazione o la Parola dei profeti – pian piano ha imparato a conoscere il volto di Dio. “Il volto di Dio” non è quello che può insegnare un filosofo che ragioni in astratto sull’essenza divina. Un filosofo può dire che Dio è l’essere onnipotente, eterno, onnisciente, immenso, uno, bontà… ma in fondo queste affermazioni su Dio sono ancora generiche. Se uno vuole comprendere il volto di Dio deve lasciarsi afferrare dagli avvenimenti in cui Dio ha operato nella storia d’Israele – e noi diremmo innanzitutto: nella vita e nella morte di Gesù Cristo –, e pian piano, meditandoli e interiorizzandoli, lasciare che stampino nel suo cuore l’immagine di Dio. Dio è il Signore che ci ha liberato dall’Egitto, ci ha condotto nel deserto, ci ha dato una terra, ci ha mandato i profeti, ci ha mandato in esilio e dall’esilio ci ha fatto ritornare; Dio è il Signore che in Gesù Cristo si è fatto uno di noi, è passato facendo del bene, ha donato se stesso per noi e per i nostri peccati e per fare di noi il suo popolo. Insomma, il volto di Dio è quello; non astratto, ma legato ad avvenimenti concreti della storia della salvezza e, in ultima analisi, legato a Gesù Cristo. In fondo la vita religiosa non è altro che questo: «cercare il volto di Dio». Imparare a vedere il volto di Dio non come lo vorremmo noi, secondo i nostri desideri, ma come lo ha fatto conoscere Lui, secondo la sua rivelazione. «[9]Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza». “Non nascondermi il tuo volto” si capisce, perché se Dio nasconde da noi il suo volto noi siamo, dice un Salmo, come coloro che “scendono nella fossa” (cfr. Sal 28, 1); non è possibile vivere se Dio allontana da noi il suo sguardo e il suo volto; la nostra vita viene dall’origine di quella sorgente. Dunque, Signore, «non nascondermi il tuo volto, non mi respingere», non mi abbandonare, sei il «Dio della mia salvezza. [4]Una cosa sola ho chiesto… di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita». L’importanza di questo è la vicinanza di Dio, e il salmista lo esprime con un’immagine che vuole significare il massimo dell’amore che sia immaginabile o pensabile: «[10]Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto». Lo dovete intendere così: “se anche mio padre o mia madre fossero capaci di abbandonarmi, il Signore però è colui che mi ha raccolto”. Vuole dire: dal punto di vista umano e psicologico la paternità e la maternità sono l’immagine dell’amore più grande che si possa pensare; ebbene, l’amore, la premura e l’intimità con Dio è infinitamente più grande. Dice Isaia: “Anche se una madre dovesse dimenticare i suoi figli, (cosa evidentemente impossibile), «io non ti dimenticherò mai… ti ho scritto sulle palme delle mie mani» (Is 49, 15-16); c’è un tatuaggio sulla mano di Dio che è il volto del suo popolo, Dio ce l’ha davanti a sé per sempre, è incancellabile. «Il Signore mi ha raccolto». Allora, «[11]Mostrami, Signore, la tua via, guidami sul retto cammino, a causa dei miei nemici. [12]Non espormi alla brama dei miei avversari; contro di me sono insorti falsi testimoni che spirano violenza». Dunque, il Signore ci salvi e ci indirizzi nella via giusta, nel sentiero piano e corretto. A questo punto la preghiera può terminare con la fiducia piena e con la sicurezza; abbiamo in qualche modo lasciato venire fuori la paura, però l’abbiamo trasformata in preghiera. Allora «[13]Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi». S’intende: “la terra dei viventi” è questa vita, è il nostro mondo. Spero “di contemplare la bontà del Signore” anche al di là della “terra dei viventi”. Ma il salmista fa riferimento a questa terra, alla vita di tutti i giorni, al lavoro, alla famiglia, ai rapporti con gli altri; desidera, anzi è certo, che in questa esistenza quotidiana lui potrà vivere e trovare Dio; potrà sperimentare la vicinanza di Dio nelle piccole cose della vita di tutti i giorni, nella sua benedizione quotidiana, nel cibo e nella bevanda, nel vestito e nell’amicizia, nel lavoro e nella speranza, negli uccelli del cielo e nei gigli del campo… tutti questi sperimentano la provvidenza di Dio: Io «[13]Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi». L’ultimo versetto è una specie di riflessione o di invito che il salmista rivolge a se stesso. Chiaramente si capisce: se io mi rivolgo questo invito vuole dire che ne ho bisogno, mi rendo conto della mia fragilità, che non sono così stabile come sarebbe giusto desiderare. Allora lo dico a me stesso: «[14]Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore». All’inizio della seconda Lettera ai Corinzi san Paolo dice: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché anche noi possiamo, consolati da Dio, consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione attraverso la consolazione che abbiamo ricevuto dal Signore» (2 Cor 1, 3-4). Credo che il Salmo vada in questa direzione, perché il salmista ha conosciuto la paura. In filigrana, se uno ci sta attento, si accorge che dietro c’è un’esperienza di disorientamento, ma che a questa situazione di paura e di disorientamento ha risposto con una fede grande, ripetendo a se stesso quelle cose di Dio che ha sempre conosciuto; ha sempre saputo che Dio è salvezza, luce e baluardo, che Dio è una rupe sicura… lo ha sempre detto e imparato nella preghiera d’Israele. Allora lo ridice a se stesso e pian piano, con questo atteggiamento di preghiera davanti al Signore, ritrova l’equilibrio e la speranza piena per sé, ma la ritrova per poterla dire anche agli altri, per poter dire all’uomo che c’è una forza di salvezza che è più grande di tutte le nostre paure, più grande del mondo, della vita e anche di nostri limiti che ci possono fare paura. Il senso sta in quello che dicevamo all’inizio: “credere” vuole dire fidarsi di Dio più di quanto abbiamo paura del mondo, della vita, degli altri o di noi stessi. Non riusciamo a togliere del tutto la paura; dobbiamo però misurarci con la paura e lo possiamo a partire dalla fede in Dio, dalla contemplazione del “volto di Dio” che abbiamo conosciuto nella rivelazione della Bibbia e di Gesù Cristo e si manifesta a noi come un amore – un Dio di amore – più grande di quello che possiamo noi stessi immaginare: «[10]Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto». L’amore del Signore è più grande di qualunque tipo di amore che umanamente possiamo immaginare o sperimentare. * Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore, ma dall’Ufficio Pastorale.

Day 1 From chaos to light

Day 1 From chaos to light dans immagini sacre 20%20LALIBERTE%20AU%20COMMENCEMENT%20DIEU%20CREA
http://www.artbible.net/1T/Gen0101_1Chaos_light/pages/20%20LALIBERTE%20AU%20COMMENCEMENT%20DIEU%20CREA.htm

Publié dans:immagini sacre |on 24 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

IL SIGNIFICATO DEL TEMPO DELL’AVVENTO

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/VITA%20CRISTIANA/tempoavventoCarmeloSAnnaCarpineto.htm

IL SIGNIFICATO DEL TEMPO DELL’AVVENTO

a cura del Monastero Carmelo Sant’Anna a Carpineto Romano     

INQUADRAMENTO LITURGICO Il tempo liturgico che va dai primi vespri del 2 dicembre fino ai primi vespri di Natale (esclusi) è quello dell’Avvento. Tale tempo liturgico ruota attorno a due  prospettive principali. La prima prospettiva è data dalla parola avvento (dal latino adventus che vuol dire venuta, arrivo) e sta ad indicare. La seconda prospettiva è escatologica, riguarda cioè la fine dei tempi, e indica la seconda venuta del Signore alla fine  dei tempi. Il Tempo di Avvento, dunque, ha una doppia caratteristica: preparazione alla  solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio  fra gli uomini, e contemporaneamente  è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato  all’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi. Le letture del Vangelo nelle singole domeniche hanno una caratteristica propria: si riferiscono  alla venuta del Signore alla fine dei  tempi (I domenica), a Giovanni Battista (Il e III domenica); agli antefatti  immediati della nascita del Signore (IV domenica). Le letture dell’Antico  Testamento sono profezie sul Messia e sul tempo messianico, tratte soprattutto dal  libro di Isaia. Le letture dell’Apostolo  contengono esortazioni e annunzi, in armonia con le caratteristiche di questo  tempo. Il colore liturgico è il viola. Nel corso dell’Avvento si celebra la solennità dell’Immacolata Concezione di Maria, la Vergine Madre del Signore e Madre nostra. Il tempo d’Avvento è tempo mariano per eccellenza perché Maria è in « dolce attesa » del Figlio. Anche noi siamo chiamati a diventare « generatori di Dio », come diceva il carmelitano beato Tito Brandsma.   PREPARIAMOCI AD ACCOGLIERE IL SIGNORE GESÙ Eccoci giunti al tempo forte dell’Avvento: viene il Signore Gesù. Chi di noi dovendo ricevere in casa un amico o un illustre ospite non la riordinerebbe, preparando fin nei minimi dettagli ogni cosa, pranzo compreso? Tutti ci daremmo da fare per rendere gradita la visita dell’amico. Ecco, viene Gesù. Che facciamo? « A te Signore, elevo l’anima mia, Dio mio in te confido; che io non sia confuso » (Sl 24,1). Fissiamo lo sguardo su Gesù, lo accogliamo nella nostra vita, nella nostra interiorità. Importante è creare silenzio in noi, silenzio di intimità, silenzio di ascolto della Parola, silenzio per il Signore. « Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle tue vie » (Is 63, 16). Pratichiamo, dunque, la giustizia, in noi e attorno a noi. Camminiamo sulle vie del Signore, con rettitudine, con amore. Il cambiamento inizia in noi, dentro di noi. Da noi, non dagli altri. Il Signore ci concede « tutti i doni, quelli della Parola e quelli della scienza » (1Cor 1, 3): ma i doni vengono dal Signore non sono nostri. Il Vangelo di Marco di questa prima domenica di Avvento ci richiama continuamente con questi termini: state attenti, vegliate, vigilate. Rientrare in noi, custodire la Parola, fare silenzio. Si ricomincia l’Avvento con animo lieto, vigilanti, con buona volontà. Si parte con entusiasmo, ordunque! Concedici, Signore la perseveranza, la fedeltà, la costanza. Da Te ogni dono di grazia, di sapienza, di scienza per vigilare, per amare, per ascoltare, per servire. Tu vieni, vieni sempre, e ci prendi per mano, ci conduci, ci porti a Te. Tu ci metti a custodire la casa in attesa del tuo ritorno: che non ci si addormenti in questa attesa perchè Tu torni, tu vieni, vieni sempre. Donaci uno sguardo di fede, uno sguardo lungimirante per vedere lontano, per leggere la storia, questa storia che viviamo, con Te presente.

APPROFONDENDO IL SIGNIFICATO DELL’AVVENTO Tempo di grazia, tempo di luce, tempo di risveglio… Dio nasce in un profondo silenzio. Il mese di novembre, mese in cui abbiamo ricordato i nostri defunti,  si chiude con la prima domenica di Avvento. Entriamo nel mese che sancisce l’inizio dell’anno liturgico. Avvento significa attesa, ma anche silenzio, interiorità, intimità. Vorremmo che l’attesa, in silenzio e preghiera, fosse condivisa con Maria, madre di Gesù,  per ripensare a tutta la storia della salvezza che proprio in Gesù trova compimento. Gesù il Verbo, la Parola del Padre che diventa uomo in tutto tranne che nel peccato. Attendere amorevolmente in preghiera il Natale del Signore perché l’amore del Padre si manifesta attraverso il Figlio Suo Unigenito, e Figlio di Maria Vergine. Dicembre è il mese che ci lascia estasiati davanti allo spettacolo della neve che riveste di splendida veste monti, alberi, tetti delle case. Splendore di bellezza è la natura così rivestita e, a prescindere dal freddo, tanta pura bellezza ci fa gioire, di più, ci riscalda il cuore con sentimenti nuovi. Non lasciamo raffreddare i cuori in questo mese, ascoltiamo il silenzio ovattato del soffice cadere della neve lenta e pur tuttavia frettolosa e, nell’attesa del grande avvenimento, nella natura potremmo rinvenire simboli di quel che accadrà nella « notte di luce », del 24/25 dicembre. Il Verbo di Dio verrà nel silenzio… verrà in fretta perché l’Amore vuole subito manifestarsi. Ecco, proprio come la neve silenziosa e frettolosa. L’amore nasce nel silenzio ma in tutta fretta. Troppi secoli, infatti, erano passati dalla caduta di Adamo ed Eva e la nascita del Salvatore. L’Amore aveva davvero atteso troppo! E finalmente contempleremo l’Amore, la tenerezza di un Dio fatto bambino, fatto uomo come noi. Se ci saremo ben preparati nel silenzio, nella preghiera, Gesù ci abbraccerà, di colmerà l’anima dei suoi doni, primo fra tutti la pace, poi la gioia e ancora l’amore. Abbracciàti a Gesù sarà più leggero vivere, e abbracciati a Lui impareremo l’arte più difficile: amare non a parole ma fattivamente e con tenerezza. Gesù ci farà dono di ciò che oggi manca: i valori. Ma il dono dei doni è sentire: « Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Dio ama ».   L’AVVENTO E MARIA Siamo alla prima Domenica di Avvento e si può dire che ci troviamo anche all’inizio della preparazione alla novena dell’Immacolata. Riflettiamo insieme: Dio scende fino a noi, soltanto per Amore. Che faremo noi? Ciò che possiamo e dobbiamo fare, è questo: vivere nella gioia che il Signore viene a salvarci e sforzarci di convertirci dal profondo del cuore. La conversione la dimostriamo in un unico modo: amando Dio e i fratelli. Amare vuol dire: perdonarci e perdonare. Talora non perdoniamo a noi stessi di essere come siamo e allora diventa difficile perdonare agli altri: manca la pace nel nostro cuore, manca l’accettazione dei nostri limiti. Come possiamo accettare gli altri? L’amore scaturisce da un cuore in pace con se stesso, in armonia con se stesso: facciamo unità dentro di noi e faremo unità con gli altri. L’Avvento ci porta ad approfondire la conoscenza di Gesù per vedere se siamo o no sua trasparenza. Gesù, infatti, è trasparenza del Padre. Cerchiamo di essere trasparenza del Figlio obbediente al Padre in profonda umiltà. Come si apre l’anno liturgico e si conclude. Con la celebrazione della Solennità di Cristo Re abbiamo chiuso l’anno liturgico, ora con l’Avvento riapriamo l’anno liturgico. E’ come se dicessimo: una vita nasce, una vita muore. In questo alternarsi è racchiusa la nostra vita e in questo alternarsi dobbiamo realizzare la nostra salvezza. Il Signore ci dà l’opportunità per realizzarla se ci poniamo con docile disponibilità all’ascolto dello Spirito. L’anno liturgico ci facilita un cammino costante, scandito dalla Parola, dal tempo di Dio. L’Avvento è una prima tappa, la prima opportunità offertaci dal Signore per riflettere sul mistero dell’Incarnazione, che celebreremo solennemente il 24 e il 25 dicembre. Il Cristo, nostro Signore, si è incarnato nel seno della Vergine Maria, per salvare l’uomo, per salvarci tutti, riscattarci dal peccato originale, dalla morte antica. Salvare l’uomo prendendo un corpo di carne come il nostro e sperimentando con esso quanto l’uomo sperimenta di sentimenti, di dolore, di gioia, di debolezza, di fame e di sete, di sofferenza, di fatica e di insuccesso. L’Avvento è un momento davvero favorevole per far memoria di quanto il Signore ha compiuto di meraviglie per l’uomo, per noi. E’ questa una contemplazione che deve portarci al rendimento di grazie a Dio. Guardiamo Maria, la Stella, e andiamo insieme ai pastori all’incontro inafferrabile di Colui che nella Notte del tempo nasce nel nostro tempo, luce senza fine. La sua venuta ci doni la pace, l’amore, la concordia e la fraternità.per non rallegrarci da soli. Prepariamoci insieme al Natale del Figlio di Dio, con l’amore, con la preghiera, con la carità fraterna. Guardiamo Maria e impariamo da Lei a essere uomini e donne di fede, di silenzio, di preghiera, di ascolto della Parola di Dio. Con l’augurio, così, di vivere una meravigliosa festa di Maria e un fruttuoso Avvento.  

Publié dans:Tempi Liturgici: Avvento |on 24 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

FIAT LUX: LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE NELLA SACRA SCRITTURA

http://disf.org/simbologia-luce-sacra-scrittura

FIAT LUX: LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE NELLA SACRA SCRITTURA

Gennaio 2015

Filippo Serafini, docente di Sacra Scrittura, Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare, Roma   È difficile sottovalutare l’importanza della luce nella Bibbia, dato che essa compare fin dalla sua pagina iniziale, essendo la prima delle opere create (Gen 1,3: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu»), e si ritrova anche nella pagina conclusiva (Ap 22,5: «Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli»). Nella Bibbia l’uso concreto dei termini legati al campo semantico della luce (oltre al sostantivo «luce», in ebraico ’ôr e in greco phôs, pensiamo a vocaboli come «lampada», «lucerna», «lucernario», «illuminare», «brillare», «splendere», «rischiarare», ecc.) si intreccia con quello metaforico. Il nostro intendimento è di presentare soltanto alcuni punti fondamentali legati all’esperienza della luce così come viene esposta agli autori biblici. La luce nel Primo Testamento Conviene precisare fin dall’inizio che la concezione ebraica antica, che soggiace per lo meno ai testi dell’Antico Testamento, è diversa dalla nostra: mentre noi riconduciamo l’esperienza della luce sulla terra al ruolo fondamentale del sole, l’israelita sembra presupporre una certa indipendenza della luce. Certo il sole era considerato una fonte di luce, ma non l’unica perché anche le stelle e la luna lo sono (cfr. Gen 1,14-16; Is 30,26; 60,19; Ger 31,35; Ez 32,8; Sal 136,7-9) né si percepisce una maggiore importanza del sole nei confronti di luna e stelle (non si aveva idea che in realtà la luna riflette la luce solare, come noi ben sappiamo). A tale concezione soggiace forse l’esperienza della presenza di luce anche quando il sole non si vede (come con il cielo nuvoloso o all’aurora, nel momento in cui un chiarore compare al’orizzonte prima che il sole sorga). Questo spiega perché l’autore biblico possa immaginare in Gen 1 la creazione della luce, narrata nei vv. 3-5, come precedente la creazione degli astri, narrata nei vv. 14-19. Inoltre in questo testo la luce è associata primariamente al «giorno» («Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte», Gen 1,5) e l’idea fondamentale è appunto quella dell’alternarsi di giorno e notte, come ritmo ordinato del tempo all’interno del quale si inserisce la vita. La separazione tra luce e tenebre crea quindi l’«ordine» basilare e si contrappone alla situazione negativa descritta al v. 2, con il dominio delle tenebre (per un approfondimento su come vada interpretato il racconto di Gen 1 si veda P. Benvenuti – F. Serafini, Genesi e Big Bang, Assisi 2013). L’ordinato alternarsi di luce e tenebre non le mette comunque sullo stesso piano: rimane la superiorità della luce, per la quale vale il giudizio di «bontà» formulato da Dio stesso (Gen 1,4). D’altra parte, non c’è nemmeno, nella Bibbia, un dualismo ontologico tra luce e tenebre: è vero che le tenebre sono un simbolo negativo, associato al caos e alla desolazione (realtà che l’antico israelita percepiva come antitetiche alla creazione, cfr. Ger 4,23), ma poste entro i loro limiti e controllate dalle leggi volute dal creatore fanno parte dell’ordinamento del mondo (per questo Is 45,7 può mettere in bocca al Signore l’affermazione: «Io formo la luce e creo le tenebre»). Il racconto di Gen 1 propone quindi come scansione temporale fondamentale il giorno, nell’alternanza di luce e tenebre, dando priorità a questo aspetto rispetto alle suddivisioni del calendario basate sul corso della luna e del sole, come i mesi e le stagioni. La prima pagina della Bibbia si conclude con la «consacrazione» (Gen 2,3) del settimo giorno, che ha così un particolare legame con Dio: lo scopo del narratore e ricordare che la separazione fondamentale tra luce e tenebre non crea soltanto la possibilità per la vita, ma anche per la relazione fra l’uomo e Dio che è essenziale per la vita stessa. Nella predicazione profetica questo tema ritorna con l’evocazione del «giorno del Signore», come momento decisivo per la storia di Israele. Esso è collegato al giudizio e quindi appare come giorno di tenebra e ira per i peccatori (cfr., p. es., Gl 2,2; Am 5,18.20), un giorno in cui la luce degli astri si oscurerà (cfr., p. es., Is 13,9-10; Am 8,9); d’altra parte, poiché in esso si realizza la pienezza della presenza divina in mezzo agli uomini, è anche giorno di luce più intensa (cfr. Is 30,26) o un giorno senza tenebra (Zc 14,6-7: «In quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo: sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte, e verso sera risplenderà la luce»). L’immagine, quindi, assume i toni escatologici, fa riferimento, cioè, alla fine dei tempi, in cui Dio ristabilirà la pienezza e il suo splendore dominerà (cfr. Is 60,19 e il versetto di Apocalisse citato all’inizio). Si impone quindi l’associazione tra luce e vita che trova espressione in diversi passi ma sopratutto nella formula «luce della vita» (o «luce dei viventi»), che ricorre in Gb 33,30 e Sal 56,14 in contesti che richiamano la liberazione divina dal pericolo di morte. Per contrasto chi è morto non vede la luce (cfr., p. es., Sal 49,20) e gli inferi (še’ōl in ebraico) sono concepiti come «la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di oscurità e di disordine, dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,21-22). Dal punto di vista antropologico questo ha un riflesso nell’idea che la «luce degli occhi» sia associata alla salute e/o alla forza vitale dell’individuo, come appare in 1Sam 14,27: «Giònata… allungò la punta del bastone che teneva in mano e la intinse nel favo di miele, poi riportò la mano alla bocca e i suoi occhi si rischiararono» (cfr., in senso contrario, Sal 38,11). Su questo sfondo si comprendono i passi in cui il benessere rappresentato dalla luce degli occhi è associato alla legge divina (Sal 19,9) o alla sapienza (Qo 8,1). In senso ampio, quindi, la luce è simbolo della salvezza che è evidentemente, nella prospettiva biblica, un dono divino (cfr., p. es., Sal 18,29: «Signore, tu dai luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre»; Is 9,1: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse»). In questo ambito va compreso l’uso dell’espressione «luce del volto» di Dio (cfr. Sal 4,7; 44,4) e di quella analoga, secondo cui Dio «fa risplendere il suo volto» (cfr., p. es., Nm 6,25; Sal 31,7), che indicano il favore e la benedizione divina accordata ai suoi fedeli. La luce di Dio ha anche un risvolto etico, in quanto consente all’uomo di «camminare» (verbo che è una metafora della condotta morale) secondo la sua volontà e quindi in rettitudine (Is 2,5 usa l’espressione «camminiamo alla luce del Signore» per riprendere il concetto espresso al v. 3 con la frase «camminare per i suoi sentieri»). Non sorprende che quindi le tenebre notturne siano concepite come il momento favorevole per le opere dei malvagi (cfr., p. es., Gb 24,14-16), ma anche come la situazione in cui si trova il peccatore che, riconoscendo la sua colpa, confida nel riscatto da parte del Signore (Mi 7,8-9 «Non gioire di me, o mia nemica! Se sono caduta, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre, il Signore sarà la mia luce. Sopporterò lo sdegno del Signore perché ho peccato contro di lui, finché egli tratti la mia causa e ristabilisca il mio diritto, finché mi faccia uscire alla luce e io veda la sua giustizia»). Quest’idea del possibile riscatto dalla situazione di tenebra, accentua la colpevolezza di chi si vuole sottrarre alla luce, avvitandosi in una situazione negativa descritta magistralmente in Sap 17, che rilegge il racconto degli Egiziani avvolti dalle tenebre (una delle “piaghe” inviate da Dio per convincere il Faraone a liberare Israele) considerandoli il “tipo” degli avversari di Dio. Si noti come, essendo nell’Antico Testamento l’idea della giustizia divina strettamente connessa con quella della salvezza, anche a essa si applichi al metafora della luce; addirittura l’apparire della luce può essere poeticamente legato alla scomparsa di iniquità e ingiustizie (cfr. il bel passo poetico di Gb 38,12-15). Da tutto quanto appena si detto si comprende come la Legge, in quanto espressione della volontà divina e della sua giustizia, sia anch’essa «luce» per l’uomo (Is 51,4; Sal 119,105). Più direttamente è la presenza stessa di Dio che è luce, come appare nei racconti del Pentateuco che parlano della colonna di fuoco che guida il popolo (Es 13,21-22; 14,20) e in Is 60,1: «Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te». La straordinarietà della figura di Mosè è segnata anche dal fatto che la luce divina si riflette in qualche modo sul suo volto (cfr. Es 34,29-30.35). Va rilevato che in questi casi si fa sempre riferimento alla percezione umana della vicinanza di Dio, non compare nell’Antico Testamento una descrizione della realtà divina come «luce» (anche Sal 104,2, che descrive il Signore «avvolto di luce come di un manto», si colloca in un contesto che descrive la gloriosa manifestazione di Dio nel creato). La luce che viene nel mondo: il messaggio del Nuovo Testamento Nel Nuovo Testamento si ritrovano i valori simbolici della luce già individuati nell’Antico Testamento, ma con sottolineature peculiari e aspetti innovativi. Notiamo dapprima, però, un uso più concreto del termine: l’apparizione di una «luce dal cielo» (At 9,3; 22,6; 26,13) è legata all’epifania di Gesù Cristo a Paolo, così come l’apparizione di un angelo illumina la cella in cui Pietro è imprigionato (At 12,7); analogamente l’evento della trasfigurazione di Gesù è descritto facendo riferimento alla luce (cfr. Mt 17,2.5). Questa descrizione di particolari manifestazioni del divino come apparizioni di una «luce» si discosta dall’Antico Testamento che preferisce parlare del fuoco (cfr., p. es., Es 3,2; 19,18; 24,17). Probabilmente il riferimento alla luce, senza precisazione della sua fonte, veniva percepito dagli autori del Nuovo Testamento come rimando più adeguato alla trascendenza divina. Dal punto di vista antropologico, interessante è il detto di Mt 6,22-23, che paragona l’occhio umano a una lampada, secondo un’immagine comune sia nel mondo greco che in quello giudaico: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!». Si faccia attenzione che il riferimento finale alla «luce» è probabilmente sempre un immagine dell’occhio: come organo della vista è ciò che consente che ci sia luce nella persona. Il detto, quindi, non fa tanto riferimento a una “illuminazione interiore”, ma al valore dello sguardo sulla realtà che si vive e sui rapporti con gli altri, che può essere «semplice» (cioè retto, limpido, mite) o «cattivo» (cioè, malizioso, invidioso, cupido). L’occhio esprime l’intenzionalità fondamentale che il soggetto applica alla realtà e questa si riflette sulla sua situazione complessiva di vita (rappresentata dal «corpo»), descritta come luminosa o tenebrosa. Nel brano parallelo l’evangelista Luca aggiunge un versetto («Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere alcuna parte nelle tenebre, sarà tutto nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore», Lc 11,36) che sembra suggerire che la vita di colui che ha lo sguardo «semplice» sia capace di diffondere luce; con ciò ci si ricollega all’interpretazione matteana del detto sulla lampada che non va nascosta (Mt 5,14-16 «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli»). Come si vede il fine della testimonianza, data dalle opere buone che sgorgano dallo sguardo semplice sulla realtà, è la glorificazione di Dio, il riconoscimento della sua paternità e del suo operare nella storia. Infatti diversi detti collegano l’immagine della luce al processo del pubblico manifestarsi e quindi della rivelazione: così è per il detto sulla lampada che non si può nascondere in Mc 4,21-22 («Diceva loro: “Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce”»; cfr. Lc 8,16; 11,33) e per Mt 10,27 («Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze»; cfr. Lc 8,17; 12,2-3). Quello che Gesù annuncia, infatti, è di per se stesso destinato a diventare manifesto, in quanto espressione del disegno divino di salvezza che chiede all’uomo di essere accolto. Ma ciò significa, ovviamente, che Gesù stesso (o meglio: il Messia atteso) può essere definito «luce» (così in Mt 4,16, nella ripresa di Is 9,1; e in Lc 2,32): questo non tanto in relazione alla sua natura, ma piuttosto alla sua missione, che è quella di donare la salvezza divina (riprendendo quindi il valore simbolico della luce che si trova in diversi passi dell’Antico Testamento). La connessione fra luce e offerta della salvezza si può trovare anche nella parola apostolica (cfr At 13,47, dove Paolo e Barnaba applicano alla loro attività l’oracolo di Is 4,6, e Ef 3,8-9), ovviamente in quanto proclamazione del Vangelo di Gesù. Collegando questo a Mt 5,14-16 si vede come la vita dell’apostolo e discepolo debba essere improntata all’assoluta trasparenza luminosa del suo parlare e del suo agire in riferimento all’annuncio del Cristo. La rappresentazione della rivelazione divina con la metafora della luce viene ripresa nelle lettere paoline, con alcuni tratti caratteristici. Anzitutto sottolinea la possibilità per il credente di conoscere o comprendere la realtà salvifica che gli viene donata (2Cor 4,6: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo»; cfr. anche Ef 1,17-18: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi»). In questa stessa prospettiva il momento iniziale della vita cristiana, la conversione alla fede in Gesù Cristo può essere definita come «illuminazione» (cfr. Eb 6,4; Eb 10,32; secondo alcuni autori questi passi farebbero riferimento al battesimo, ma non è certo; l’uso del termine «illuminazione» per indicare il battesimo si trova però nel II secolo d.C, negli scritti di Giustino). In secondo luogo la manifestazione del Cristo è anche svelamento di ciò che si trova nella profondità del cuore umano (1Cor 4,5 «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode»; cfr. Ef 5,13 dove l’accento è però sulla condanna) e quindi vale come giudizio. In questo la prospettiva escatologica (cioè quella della fine dei tempi) e quella etica (relativa alla prassi quotidiana) si intrecciano. Infatti il cristiano, accogliendo la salvezza di Cristo, è reso già ora «capace di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (Col 1,12): in questo versetto si deve evidentemente intendere la «luce» come una metafora della comunione con la divinità. D’altra parte sono ripetuti gli inviti a vivere nella luce e a rifiutare le opere delle tenebre, dove l’immagine si riferisce senz’altro alla rettitudine dell’agire (cfr Rm 13,12; Ef 5,8-9); anzi il richiamo alla separazione primordiale fra luce e tenebre (2Cor 4,6) spiega anche la calda esortazione a uno stile di vita chiaramente distinto da quello dei non-credenti (2Cor 6,14 «Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre?»). L’idea della separazione e della distinzione rispetto ai non credenti, sia dal punto di vista etico sia da quello della speranza nella vita futura, soggiace probabilmente anche all’uso dell’espressione «figli della luce» (cfr. Lc 16,8; Gv 12,36; Ef 5,8; 1Ts 5,5) che non si trova nell’Antico Testamento, ma è frequente nei testi di Qumran. Nel Vangelo di Giovanni è Gesù stesso a definirsi «luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5; cfr. 12,35-36.46) e il significato dell’immagine è duplice: da una parte, infatti, sottolinea il ruolo di Gesù nella Rivelazione, anzi il suo essere la Rivelazione stessa (la «verità» nel linguaggio giovanneo) che va accolta con fede (non a caso la definizione di Gv 9,5 apre il racconto del miracolo di guarigione del cieco nato che non solo riacquista la vista, ma giunge alla fede); dall’altra la connessione fra luce e vita riprende il tema della salvezza, ovvero della pienezza di vita, offerta da Dio agli uomini in Gesù. La connessione tra luce e vita, che risale all’esperienza basilare dell’essere umano e che veniva affermata dal racconto di Gen 1, viene ripresa in forma marcatamente cristologica, affermando che tale connessione dipende dal “Verbo” sin dal «principio» (cfr. Gv 1,4 «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini») e va accolta dall’uomo credendo in Gesù di Nazareth. Chi rifiuta la sua persona si trova di fatto nelle «tenebre» (Gv 3,19-21; cfr. 11,9-10): in tal senso la rivelazione e l’offerta di salvezza sono anche giudizio, perché smascherano alcune situazioni o posizioni esistenziali come radicalmente opposte alla volontà divina di vita e quindi apportatrici di morte. Nella prima lettera di Giovanni la «luce» non è posta come predicato di Gesù, ma di Dio (1Gv 1,5: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna»). Questo non va inteso come una pura definizione dell’essenza divina, cosa che tra l’altro comporterebbe di intendere il vocabolo «luce» in senso concreto e non metaforico, perché il contesto immediatamente seguente mette in rapporto tale affermazione con la condotta concreta dei credenti, che devono «camminare nella luce» (1Gv 1,7). L’immagine serve quindi anzitutto a ricordare la relazione costante che il cristiano deve avere con Dio, riproducendo nella sua esistenza quotidiana ciò che ha accolto credendo alla rivelazione (cfr. 1Gv 2,9-10: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo»), inoltre richiama innegabilmente il fatto che Dio è fonte, per il credente, di ogni bene, di vita e di salvezza, secondo l’abituale significato della metafora nel Nuovo Testamento. Si può dire che l’affermazione di 1Gv 1,5 presupponga che la pienezza e la potenza di vita stiano anzitutto (o forse “soltanto”) in Dio. Per concludere… Al termine di questo breve percorso possiamo tornare a prendere in considerazione la prima e l’ultima pagina della Bibbia, che abbiamo evocato all’inizio. Se Gen 1 ci ricorda che la nostra vita è resa possibile dall’alternanza di luce e tenebre e scorre attraverso entrambe (anche a livello simbolico, visto che ogni esistenza umana ha luci e ombre), la grandiosa visione della Gerusalemme celeste in Ap 21,9–22,5 ci fa intravvedere il destino a cui l’umanità è chiamata in Cristo, quella pienezza di luce e di vita il cui desiderio è iscritto nell’intimo di ciascuno di noi.   Letture consigliate R. Vignolo – L. Giangreco, «Luce e tenebre», in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi, Temi Teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pp. 774-780. H. Ritt, «φῶς, φωτός, τό», in H. Balz – G. Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 20042, cc. 1853

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L’Arcangelo Michele

L'Arcangelo Michele dans immagini sacre archangel-michael19

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IL LAICO È ESSENZIALMENTE UN TESTIMONIO – PAPA PAOLO VI * (1968)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_n.htm#DALLA CROCE ADORATA ALLA CROCE VISSUTA

IL LAICO È ESSENZIALMENTE UN TESTIMONIO – PAPA PAOLO VI * (1968)

Ogni fedele dovrebbe rendersi conto della propria definizione e della propria funzione nel quadro del disegno divino della salvezza. Basti a Noi richiamare alla vostra considerazione una parola, che ha molta fortuna nel discorso spirituale moderno: la parola «testimonianza». E’ una bella parola, molto densa di significato, apparentata con quell’altra, più grave e specifica, che suona «apostolato», di cui la testimonianza sembra essere una forma subalterna, ma assai estesa, che va dalla semplice professione cristiana, silenziosa e passiva, fino al vertice supremo, che si chiama martirio e che significa appunto testimonianza. Questo già dice come il termine, oggi tanto usato, di testimonianza nasconda, anzi manifesti molti aspetti della mentalità cristiana… Nel senso che ora ci interessa, la testimonianza è la trasmissione del messaggio cristiano; una trasmissione per via di esempio, per via di parola, per via di opere, per via di vita vissuta, di sacrificio in omaggio alla verità posseduta come valore; valore superiore al proprio stesso benessere e talvolta alla propria stessa incolumità. E’ una verità professata, con intenzione di comunicarla ad altri. Il che suppone tre cose fondamentali: la convinzione propria, personale dapprima; il che esige, a sua volta, una coscienza istruita e convinta: quale testimonianza cristiana può dare chi non ha sufficiente cognizione di Cristo? Chi non vive della sua parola e della sua grazia? La testimonianza non è una semplice professione esteriore, convenzionale; non è un mestiere abituale; è una voce della propria coscienza, è un frutto di vita interiore, è nel suo caso migliore (assicurato al discepolo fedele) il dono d’una ispirazione, che sorge limpida e imperiosa dal fondo dell’anima. Ed è un atto di maturità e di coraggio, al quale il cristiano dovrebbe essere sempre preparato; ce lo insegna San Pietro: dovete essere sempre pronti a dar soddisfazione a chiunque vi chieda ragione della speranza che è in voi (1 Pt. 3, 15). La seconda cosa fondamentale, riguardante la testimonianza cristiana, è la funzione ch’essa esercita nell’economia religiosa cristiana: questa economia, cioè questo disegno, questo piano che regge tutto il sistema dei nostri rapporti con Dio e con Cristo, si fonda sulla testimonianza. Una testimonianza a catena: Cristo è il primo grande testimonio di Dio, Verbo lui stesso di Dio, il Maestro che domanda fede nella sua Persona, nella sua parola, nella sua missione. Poi vengono gli Apostoli, i testimoni oculari e auricolari; ricordate l’incisiva parola dell’evangelista Giovanni: Noi abbiamo veduto e lo attestiamo (1 Gv. 1, 2). E S. Agostino che commenta «Dio ha voluto avere uomini per testimoni» (In Ep. ad Parthos, P.L. 35, 1979). E Gesù, congedandosi dai suoi Apostoli: Voi mi sarete testimoni (Atti 1, 8). E questo ci insegna finalmente una terza cosa: il fine della testimonianza. A che cosa tende; e nella pratica nostra, a che cosa deve tendere: a produrre la fede. Il testimonio è un operatore di fede. Il Concilio ne parla continuamente (cfr. Lumen Gentium, 10-12; Ad Gentes 21; etc.). La testimonianza cristiana è il servizio alla verità che Cristo ha lasciato al mondo; è la trasmissione di questa eredità di salvezza. Ora la conclusione, figli carissimi, è questa: «Il laico – il fedele cristiano – è per essenza un testimonio. Il suo stato è quello della testimonianza». Non è un maestro qualificato, non è un ministro sacerdotale. E’ teste di ciò che la Chiesa insegna e che lo Spirito Santo gli fa accettare e in certo modo sperimentare, vivere. Ma quale grande missione quella di essere testimoni di Cristo! Ciascuno di voi lo può e lo deve essere!

* Udienza generale del 10 gennaio 1969. Osservatore Romano dell’11 gennaio 1968.

SAN COLOMBANO ABATE – 23 NOVEMBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

http://www.santiebeati.it/dettaglio/30200

SAN COLOMBANO ABATE

23 NOVEMBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

Irlanda c. 525-530 – Bobbio, Piacenza, 23 novembre 615

Colombano è uno dei rappresentanti del mondo monastico che danno origine a quella ‘peregrinatio pro Domino’, che costituì uno dei fattori dell’evangelizzazione e del rinnovamento culturale dell’Europa. Dall’Irlanda passò (c. 590) in Francia, Svizzera e Italia Settentrionale, creando e organizzando comunità ecclesiastiche e fondando vari monasteri, alcuni dei quali, per esempio Luxeuil e Bobbio, celebri per gli omonimi libri liturgici. La regola monastica che codifica la sua spiritualità è improntata a grande rigore e intende associare i monaci al sacrificio di Cristo. La sua prassi monastica ha influito sulla nuova disciplina penitenziale dell’Occidente. (Mess. Rom.)

Patronato: Motociclisti Etimologia: Colombano = dolce, delicato Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: San Colombano, abate, che di origine irlandese, fattosi pellegrino per Cristo per istruire nel Vangelo le genti della Francia, fondò insieme a molti altri monasteri quello di Luxeuil, che egli stesso governò in una stretta osservanza della regola; costretto all’esilio, attraversò le Alpi e fondò in Emilia il monastero di Bobbio, celebre per la disciplina e gli studi, dove, benemerito della Chiesa, morì in pace e il suo corpo fu deposto in questo giorno. Il santo abate Colombano è l’irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un santo «europeo», perché come monaco, missionario e scrittore ha lavorato in vari Paesi dell’Europa occidentale. Insieme agli irlandesi del suo tempo, egli era consapevole dell’unità culturale dell’Europa. In una sua lettera, scritta intorno all’anno 600 e indirizzata a Papa Gregorio Magno, si trova per la prima volta l’espressione «totius Europae, di tutta l’Europa», con riferimento alla presenza della Chiesa nel Continente (cfr Epistula I,1). Colombano era nato intorno all’anno 543 nella provincia di Leinster, nel sud-est dell’Irlanda. Educato nella propria casa da ottimi maestri che lo avviarono allo studio delle arti liberali, si affidò poi alla guida dell’abate Sinell della comunità di Cluain-Inis, nell’Irlanda settentrionale, ove poté approfondire lo studio delle Sacre Scritture. All’età di circa vent’anni entrò nel monastero di Bangor nel nord- est dell’isola, ove era abate Comgall, un monaco ben noto per la sua virtù e il suo rigore ascetico. In piena sintonia col suo abate, Colombano praticò con zelo la severa disciplina del monastero, conducendo una vita di preghiera, di ascesi e di studio. Lì fu anche ordinato sacerdote. La vita a Bangor e l’esempio dell’abate influirono sulla concezione del monachesimo che Colombano maturò col tempo e diffuse poi nel corso della sua vita. All’età di circa cinquant’anni, seguendo l’ideale ascetico tipicamente irlandese della «peregrinatio pro Christo», del farsi cioè pellegrino per Cristo, Colombano lasciò l’isola per intraprendere con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Dobbiamo infatti tener presente che la migrazione di popoli dal nord e dall’est aveva fatto ricadere nel paganesimo intere Regioni già cristianizzate. Intorno all’anno 590 questo piccolo drappello di missionari approdò sulla costa bretone. Accolti con benevolenza dal re dei Franchi d’Austrasia (l’attuale Francia), chiesero solo un pezzo di terra incolta. Ottennero l’antica fortezza romana di Anne-gray, tutta diroccata ed abbandonata, ormai coperta dalla foresta. Abituati ad una vita di estrema rinuncia, i monaci riuscirono entro pochi mesi a costruire sulle rovine il primo eremo. Così, la loro rievangelizzazione iniziò a svolgersi innanzitutto mediante la testimonianza della vita. Con la nuova coltivazione della terra cominciarono anche una nuova coltivazione delle anime. La fama di quei religiosi stranieri che, vivendo di preghiera e in grande austerità, costruivano case e dissodavano la terra, si diffuse celermente attraendo pellegrini e penitenti. Soprattutto molti giovani chiedevano di essere accolti nella comunità monastica per vivere, come loro, questa vita esemplare che rinnovava la coltura della terra e delle anime. Ben presto si rese necessaria la fondazione di un secondo monastero. Fu edificato a pochi chilometri di distanza, sulle rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Il monastero sarebbe poi diventato il centro dell’irradiazione monastica e missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Un terzo monastero fu eretto a Fontaine, un’ora di cammino più a nord. A Luxeuil Colombano visse per quasi vent’anni. Qui il santo scrisse per i suoi seguaci la Regula monachorum per un certo tempo più diffusa in Europa di quella di san Benedetto disegnando l’immagine ideale del monaco. È l’unica antica regola monastica irlandese che oggi possediamo. Come integrazione egli elaborò la Regula coenobialis, una sorta di codice penale per le infrazioni dei monaci, con punizioni piuttosto sorprendenti per la sensibilità moderna, spiegabili soltanto con la mentalità del tempo e dell’ambiente. Con un’altra opera famosa intitolata De poenitentiarum misura taxanda, scritta pure a Luxeuil, Colombano introdusse nel continente la confessione e la penitenza private e reiterate; fu detta penitenza «tariffata» per la proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza imposta dal confessore. Queste novità destarono il sospetto dei vescovi della regione, un sospetto che si tramutò in ostilità quando Colombano ebbe il coraggio di rimproverarli apertamente per i costumi di alcuni di loro. Occasione per il manifestarsi del contrasto fu la disputa circa la data della Pasqua: l’Irlanda seguiva infatti la tradizione orientale in contrasto con la tradizione romana. Il monaco irlandese fu convocato nel 603 a Châlon-sur-Saôn per rendere conto davanti a un sinodo delle sue consuetudini relative alla penitenza e alla Pasqua. Invece di presentarsi al sinodo, egli mandò una lettera in cui minimizzava la questione invitando i Padri sinodali a discutere non solo del problema della data della Pasqua, problema piccolo secondo lui, «ma anche di tutte le necessarie normative canoniche che da molti cosa più grave sono disattese» (cfr Epistula II,1). Contemporaneamente scrisse a Papa Bonifacio IV come qualche anno prima già si era rivolto a Papa Gregorio Magno (cfr Epistula I) per difendere la tradizione irlandese (cfr Epistula III). Intransigente come era in ogni questione morale, Colombano entrò poi in conflitto anche con la Casa reale, perché aveva rimproverato aspramente il re Teodorico per le sue relazioni adulterine. Ne nacque una rete di intrighi e manovre a livello personale, religioso e politico che, nell’anno 610, si tradusse in un decreto di espulsione da Luxeuil di Colombano e di tutti i monaci di origine irlandese, che furono condannati ad un definitivo esilio. Furono scortati fino al mare e imbarcati a spese della corte verso l’Irlanda. Ma la nave si incagliò a poca distanza dalla spiaggia e il capitano, vedendo in ciò un segno del cielo, rinunciò all’impresa e, per paura di essere maledetto da Dio, riportò i ed entusiasmo ai coetanei. monaci sulla terra ferma. Essi, invece di tornare a Luxeuil, decisero di cominciare una nuova opera di evangelizzazione. Si imbarcarono sul Reno e risalirono il fiume. Dopo una prima tappa a Tuggen presso il lago di Zurigo, andarono nella regione di Bregenz presso il lago di Costanza per evangelizzare gli Alemanni. Poco dopo però Colombano, a causa di vicende politiche poco favorevoli alla sua opera, decise di attraversare le Alpi con la maggior parte dei suoi discepoli. Rimase solo un monaco di nome Gallus; dal suo eremo si sarebbe poi sviluppata la famosa abbazia di Sankt Gallen, in Svizzera. Giunto in Italia, Colombano trovò un’accoglienza benevola presso la corte reale longobarda, ma dovette affrontare subito difficoltà notevoli: la vita della Chiesa era lacerata dall’eresia ariana ancora prevalente tra i longobardi e da uno scisma che aveva staccato la maggior parte delle Chiese dell’Italia settentrionale dalla comunione col Vescovo di Roma. Colombano si inserì con autorevolezza in questo contesto, scrivendo un libello contro l’arianesimo e una lettera a Bonifacio IV per convincerlo a fare alcuni passi decisi in vista di un ristabilimento dell’unità (cfr Epistula V). Quando il re dei longobardi, nel 612 o 613, gli assegnò un terreno a Bobbio, nella valle del Trebbia, Colombano fondò un nuovo monastero che sarebbe poi diventato un centro di cultura paragonabile a quello famoso di Montecassino. Qui giunse al termine dei suoi giorni: morì il 23 novembre 615 e in tale data è commemorato nel rito romano fino ad oggi. Il messaggio di san Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna. Con la sua vita ascetica e il suo comportamento senza compromessi di fronte alla corruzione dei potenti, egli evoca la figura severa di san Giovanni Battista. La sua austerità, tuttavia, non è mai fine a se stessa, ma è solo il mezzo per aprirsi liberamente all’amore di Dio e corrispondere con tutto l’essere ai doni da lui ricevuti, ricostruendo così in sé l’immagine di Dio e al tempo stesso dissodando la terra e rinnovando la società umana. Cito dalle sue Instructiones: «Se l’uomo userà rettamente di quelle facoltà che Dio ha concesso alla sua anima allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti. Il primo di essi è quello di amare il Signore con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amato, fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mondo» (cfr Instr. XI). Queste parole, il santo irlandese le incarnò realmente nella propria vita. Uomo di grande cultura scrisse anche poesie in latino e un libro di grammatica si rivelò ricco di doni di grazia. Fu un instancabile costruttore di monasteri come anche intransigente predicatore penitenziale, spendendo ogni sua energia per alimentare le radici cristiane dell’Europa che stava nascendo. Con la sua energia spirituale, con la sua fede, con il suo amore per Dio e per il prossimo divenne realmente uno dei Padri dell’Europa: egli mostra anche oggi a noi dove stanno le radici dalle quali può rinascere questa nostra Europa.

Autore: Papa Benedetto XVI (udienza generale 11.06.2008)

Publié dans:Santi, Santi: memorie facoltative |on 23 novembre, 2015 |Pas de commentaires »
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