Archive pour le 30 novembre, 2015

El Greco, St. Andrew the Apostle

El Greco, St. Andrew the Apostle dans immagini sacre standrew

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SANT’ ANDREA APOSTOLO – 30 NOVEMBRE

http://www.santiebeati.it/dettaglio/22000

SANT’ ANDREA APOSTOLO

30 NOVEMBRE

BETHSAIDA DI GALILEA – PATRASSO (GRECIA), CA. 60 DOPO CRISTO

All’apostolo Andrea spetta il titolo di ‘Primo chiamato’. Ed è commovente il fatto che, nel Vangelo, sia perfino annotata l’ora («le quattro del pomeriggio») del suo primo incontro e primo appuntamento con Gesù. Fu poi Andrea a comunicare al fratello Pietro la scoperta del Messia e a condurlo in fretta da Lui. La sua presenza è sottolineata in modo particolare nell’episodio della moltiplicazione dei pani. Sappiamo inoltre che, proprio ad Andrea, si rivolsero dei greci che volevano conoscere Gesù, ed egli li condusse al Divino Maestro. Su di lui non abbiamo altre notizie certe, anche se, nei secoli successivi, vennero divulgati degli Atti che lo riguardano, ma che hanno scarsa attendibilità. Secondo gli antichi scrittori cristiani, l’apostolo Andrea avrebbe evangelizzato l’Asia minore e le regioni lungo il mar Nero, giungendo fino al Volga. È perciò onorato come patrono in Romania, Ucraina e Russia. Commovente è la ‘passione’ – anch’essa tardiva – che racconta la morte dell’apostolo, che sarebbe avvenuta a Patrasso, in Acaia: condannato al supplizio della croce, egli stesso avrebbe chiesto d’essere appeso a una croce particolare fatta ad X (croce che da allora porta il suo nome) e che evoca, nella sua stessa forma, l’iniziale greca del nome di Cristo. La Legenda aurea riferisce che Andrea andò incontro alla sua croce con questa splendida invocazione sulle labbra: «Salve Croce, santificata dal corpo di Gesù e impreziosita dalle gemme del suo sangue… Vengo a te pieno di sicurezza e di gioia, affinché tu riceva il discepolo di Colui che su di te è morto. Croce buona, a lungo desiderata, che le membra del Signore hanno rivestito di tanta bellezza! Da sempre io ti ho amata e ho desiderato di abbracciarti… Accoglimi e portami dal mio Maestro».

Patronato: Pescatori Etimologia: Andrea = virile, gagliardo, dal greco Emblema: Croce decussata, Rete da pescatore

Martirologio Romano: Festa di sant’Andrea, Apostolo: nato a Betsaida, fratello di Simon Pietro e pescatore insieme a lui, fu il primo tra i discepoli di Giovanni Battista ad essere chiamato dal Signore Gesù presso il Giordano, lo seguì e condusse da lui anche suo fratello. Dopo la Pentecoste si dice abbia predicato il Vangelo nella regione dell’Acaia in Grecia e subíto la crocifissione a Patrasso. La Chiesa di Costantinopoli lo venera come suo insigne patrono. Tra gli apostoli è il primo che incontriamo nei Vangeli: il pescatore Andrea, nato a Bethsaida di Galilea, fratello di Simon Pietro. Il Vangelo di Giovanni (cap. 1) ce lo mostra con un amico mentre segue la predicazione del Battista; il quale, vedendo passare Gesù da lui battezzato il giorno prima, esclama: « Ecco l’agnello di Dio! ». Parole che immediatamente spingono Andrea e il suo amico verso Gesù: lo raggiungono, gli parlano e Andrea corre poi a informare il fratello: « Abbiamo trovato il Messia! ». Poco dopo, ecco pure Simone davanti a Gesù; il quale « fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni: ti chiamerai Cefa” ». Questa è la presentazione. Poi viene la chiamata. I due fratelli sono tornati al loro lavoro di pescatori sul “mare di Galilea”: ma lasciano tutto di colpo quando arriva Gesù e dice: « Seguitemi, vi farò pescatori di uomini » (Matteo 4,18-20). Troviamo poi Andrea nel gruppetto – con Pietro, Giacomo e Giovanni – che sul monte degli Ulivi, “in disparte”, interroga Gesù sui segni degli ultimi tempi: e la risposta è nota come il “discorso escatologico” del Signore, che insegna come ci si deve preparare alla venuta del Figlio dell’Uomo « con grande potenza e gloria » (Marco 13). Infine, il nome di Andrea compare nel primo capitolo degli Atti con quelli degli altri apostoli diretti a Gerusalemme dopo l’Ascensione. E poi la Scrittura non dice altro di lui, mentre ne parlano alcuni testi apocrifi, ossia non canonici. Uno di questi, del II secolo, pubblicato nel 1740 da L.A. Muratori, afferma che Andrea ha incoraggiato Giovanni a scrivere il suo Vangelo. E un testo copto contiene questa benedizione di Gesù ad Andrea: « Tu sarai una colonna di luce nel mio regno, in Gerusalemme, la mia città prediletta. Amen ». Lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. E qui subisce il martirio per crocifissione: appeso con funi a testa in giù, secondo una tradizione, a una croce in forma di X; quella detta poi “croce di Sant’Andrea”. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre. Nel 357 i suoi resti vengono portati a Costantinopoli; ma il capo, tranne un frammento, resta a Patrasso. Nel 1206, durante l’occupazione di Costantinopoli (quarta crociata) il legato pontificio cardinale Capuano, di Amalfi, trasferisce quelle reliquie in Italia. E nel 1208 gli amalfitani le accolgono solennemente nella cripta del loro Duomo. Quando nel 1460 i Turchi invadono la Grecia, il capo dell’Apostolo viene portato da Patrasso a Roma, dove sarà custodito in San Pietro per cinque secoli. Ossia fino a quando il papa Paolo VI, nel 1964, farà restituire la reliquia alla Chiesa di Patrasso.

Autore: Domenico Agasso 

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SIA SANTIFICATO IL TUO NOME – DI PIERO STEFANI, BIBLISTA

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SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

IL PADRE NOSTRO COME BREVIARIO DELL’INTERA SCRITTURA

DI PIERO STEFANI, BIBLISTA

La preghiera dei cristiani

Il Padre nostro è la preghiera per eccellenza del cristiano. Ciò avviene per molte ragioni, una delle quali, forse la principale, sta nel fatto che la sua formulazione è in tutto e per tutto evangelica. Non è una costruzione di riferimenti tratti dai vangeli, come per esempio l’Ave Maria, ma è una preghiera già compiutamente presente in Matteo (6,9-13). Letto sotto questa angolatura, il Padre nostro è paragonabile al Benedictus (Lc 1, 68-79), al Magnificat (Lc 1,46-55) e al Nunc dimittis (Lc 2,29-32), testi quotidianamente recitati nella liturgia delle ore. Tuttavia a queste ultime tre grandi preghiere, pur pronunciate da labbra sante come quelle di Zaccaria, Maria e Simeone, non si possono riferire le parole più convenienti per qualificare il Padre nostro: «la preghiera che Gesù ci ha insegnato». Quella di Matteo non è l’unica versione presente nei vangeli. Ve ne è un’altra in Luca legata in modo più stretto all’atto di pregare compiuto dallo stesso Gesù. La sua ambientazione è, in genere, considerata più prossima allo spirito originario della preghiera: «Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore insegnaci a pregare come Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione”» (Lc 11,1-4). In questa formulazione più sintetica risulta con evidenza che il Padre nostro (ma in Luca manca l’aggettivo possessivo) nasce come una preghiera distintiva di un gruppo. Come i seguaci di Giovanni Battista avevano una loro preghiera così i discepoli di Gesù. Anche per questo motivo il Padre nostro, fin dall’antichità, è considerato un riassunto dell’intero messaggio evangelico: «Breviarium totius evangelii» (Tertulliano). A ben pensarci, si tratta di una specie di paradosso. In esso infatti Gesù non ha nessun altro ruolo se non quello di insegnare a pregare. Ogni richiesta è rivolta al Padre, senza che il Figlio vi svolga una funzione di mediatore. Non sono parole che salgono al Padre «per Cristo, con Cristo e in Cristo». Se così si potesse dire, la preghiera esprime la fede di Gesù e non quella in Gesù. Per questo motivo essa si inscrive completamente nel messaggio biblico. Letto in un certo modo il Padre nostro si presenta, perciò, come un breviario tanto dell’Antico quanto del Nuovo Testamento. Lo è a partire dalla prima domanda, a un tempo nota a tutti e difficile da comprendere: «sia santificato il tuo nome». Nulla più di questa frase sembra concentrare in se stessa il senso della preghiera biblica.

La relazione in un passivo impersonale L’espressione «sia santificato il tuo nome» è insolita non fosse altro perché è formulata come una richiesta. Non è una constatazione: “il tuo nome è santo”; non è neppure un comando: “santificate il nome del Signore nelle vostre vite”. Un comando viene rivolto da un superiore a un inferiore mentre, quando si prega, non è concesso di dare ordini. Nei precetti biblici Dio prescrive e gli uomini sono tenuti a ubbidire. Le cose stanno diversamente nella preghiera. In essa chi è in basso si indirizza a chi è in alto. Nel caso di Dio la differenza è infinita. Lo stesso fatto di potersi rivolgere a lui è, quindi, già di per sé un ardire: lo si può compiere solo perché gli orecchi di Dio sono rivolti verso il basso. L’espressione «sia santificato il tuo nome» non è una domanda diretta, come avviene nelle preghiere di richiesta; in questo caso, infatti, dovrebbe suonare così: “Padre, santifica il tuo nome”. Nella preghiera insegnata da Gesù si fa infatti ricorso a un passivo impersonale, quasi si trattasse di un’esclamazione sospesa tra cielo e terra. Gli studiosi della Bibbia chiamano questa forma “passivo divino”. Con tale formulazione si intende che là dove compare un verbo coniugato al passivo privo di complemento di agente bisogna supporre che si stia alludendo a Dio senza nominarlo. «Sia santificato il tuo nome» è domanda posta sulle labbra umane e non già una promessa divina. Chi santifica e chi viene santificato? È inoltre possibile santificare quel che in se stesso si presenta già come massimamente santo? Questioni antiche, le quali, non di rado, trovarono risposte conformi a schemi consolidati: «Noi non intendiamo augurare a Dio che il suo nome sia santificato dalla nostra preghiera, ma che venga santificato in noi. Chi, infatti, potrebbe presumere di santificare Dio, quando è lui stesso che santifica?» (Cipriano). «Perché domandare che il nome di Dio sia santificato? Esso è santo di sua natura; a che scopo perciò domandare che sia santificato quel che è già santo? Ancora, quando chiedi che il nome di Dio sia santificato è per te che preghi o non piuttosto per Dio? In realtà a ben riflettere è per te» (Agostino).

Padre è chi si prende cura La linea interpretativa adottata dai Padri della Chiesa è costante. A loro appariva difficile sia che la proposizione del Padre nostro non fosse domanda, sia che essa riguardasse direttamente la vita di Dio. Nessuno degli antichi commenti sembra cogliere che nella preghiera di Gesù si tratta non del nome di Dio in quanto tale, bensì di quello relazionale di Padre. La paternità comporta per necessità una relazione di figliolanza. La santificazione del nome di Dio inteso come Padre sfocia nella costituzione delle sue creature come figli. La santificazione, perciò, è a un tempo in Lui ed è in noi. Essa, all’interno della fede, consiste nello stabilire quale paternità sia quella di Dio e quale modo di agire essa proponga all’uomo. Nel vangelo di Matteo, in un passo vicino alla sezione in cui è riportato il Padre nostro, è contenuto l’invito a cercare il regno di Dio e (reso alla lettera) la giustizia di lui (Mt 6,33). Quel «di lui» si riferisce al «Padre celeste». Qui in effetti si parla non della legislazione di un mondo perfetto, ma dell’esercizio della giustizia e della paternità propria del Dio che, in quanto Padre, sfama quotidianamente gli uccelli e riempie di splendore i gigli del campo (Mt 6,26-30). La paternità è dunque costituita dall’atto di prendersi cura, secondo la misura della giustizia, delle proprie creature. Non vi è distinzione alcuna tra giustizia e santità.

 

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LA CONVERSIONE DELL’INNOMINATO SPIEGA QUELLA DI MANZONI, DI GIOVANNI FIGHERA

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LA CONVERSIONE DELL’INNOMINATO SPIEGA QUELLA DI MANZONI, DI GIOVANNI FIGHERA

Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /04 /2014 -

Tag usati: alessandro_manzoni, giovanni_fighera, promessi_sposi Riprendiamo dal blog di Giovanni Fighera, La ragione del cuore, un articolo sui Promessi sposi di Alessandro Manzoni (è il quattordicesimo articolo sui Promessi sposi – rimandiamo agli altri del suo blog per ulteriori approfondimenti). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2014)

Non è un ragionamento, ma un incontro che decide dell’esistenza: non un discorso o una morale, ma un affetto e un abbraccio! Manzoni nei Promessi sposi ci descrive la conversione dell’Innominato, a metà del romanzo, in posizione centrale, a testimonianza dell’importanza dell’episodio. Fallito il matrimonio a sorpresa, come abbiamo visto, Lucia e Renzo fuggono da Pescarenico: Lucia trova rifugio in un convento di Monza nella convinzione di trovare quella protezione di cui altrove non potrebbe godere; Renzo si trasferisce a Milano dove ingenuamente si trova coinvolto nei tumulti popolari scaturiti dalla carestia. Don Rodrigo medita il rapimento di Lucia, ma, una volta scoperto il suo nascondiglio pressola Monaca di Monza, comprende che l’unica possibilità per riuscire nell’impresa è ricorrere al sostegno dell’Innominato. Questi è un personaggio realmente esistito. La Marchesa Margherita Provana Di Collegno, che conosceva bene Manzoni, scrive sul suo diario: «Sentii da Manzoni che l’Innominato è un Visconti, ed è personaggio verissimo». L’identificazione più attendibile dell’Innominato sarebbe con Francesco Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Gera d’Adda. Il fatto sorprendente è che Manzoni è un discendente di Bernardino da parte di madre. L’autore de I promessi sposi è, quindi, parente dell’Innominato. Un amico molto stretto di Alessandro Manzoni come Hermes Visconti afferma che lo scrittore, raccontando la conversione dell’Innominato, ha voluto svelare anche il segreto della sua. In sintesi questa è la vita di Francesco Bernardino Visconti. Nato nel 1579 inprovincia di Bergamo, a soli diciassette anni inizia la sua attività criminale insieme con la sua banda, commette numerosi delitti. Contro di lui vengono emesse più grida. Fugge nel cantone dei Grigioni fino a quando ritornerà in Italia stabilendosi nel castello di Chiuso. La conversione avviene durante la visita pastorale di Federigo Borromeo nel lecchese. L’ultima notizia storica dell’Innominato risale al 1647 quando Francesco Bernardino lascia tutta la sua eredità all’oratorio di S. Maria delle Grazie a Bagnolo Cremasco. Una volta ancora, come nel caso della Monaca di Monza, Manzoni cambia considerevolmente la data della vicenda (anticipandola) per trasformare l’Innominato in un protagonista del romanzo. Il vero poetico, potremmo dire, trionfa sul vero storico in due fondamentali deroghe della storia. Nel Fermo e Lucia l’Innominato viene designato con il titolo di Conte del Sagrato in riferimento ad un omicidio avvenuto sul sagrato di una chiesa. Ne I promessi sposi Manzoni sceglie un nome che conferisce al personaggio un’aura di eroicità e di grandezza. L’autore ci descrive con acume psicologico la situazione esistenziale in cui si trova l’Innominato quando Don Rodrigo si reca da lui  per chiedere il rapimento di Lucia. Il ribaldo assume su di sé l’impegno senza neppure aver dato all’interlocutore il tempo di spiegare. È un’abitudine al male che lo induce a dire subito sì, ma non appena Don Rodrigo, che neppure conosce, se ne va, inizia a percepire una «cert’uggia», come un fastidio fisico sempre più crescente, come un peso allo stomaco che sempre più si fa sentire, quando non si è digerito eppure si continua a mangiare. Infatti, all’inizio, l’Innominato nei primi tempi che perpetrava  i suoi delitti sentiva  una sorta di rimorso che cercava di cacciare e che, poi, scomparve. Il cuore, finché non è ancora ottenebrato, oscurato e corrotto funge da criterio  di giudizio con cui paragoniamo quanto ci accade e anche, quando ne siamo inconsapevoli, ci dice se quanto facciamo è buono per noi: la cartina di tornasole è, infatti, la letizia, che scaturisce da una corrispondenza tra quanto accade e quanto desidera autenticamente il nostro cuore. Ora, dopo tanti anni di delitti e omicidi, non si riprende la coscienza dell’Innominato ormai annichilita, il suo non è un rimorso di coscienza, ma un peso fisico, come l’evidenza concreta, oggettiva delle sue azioni, che gli stanno tutte davanti e «sono lui», ovvero lo seguono anche se lui ne è inconsapevole. Da tempo, però, l’Innominato iniziava a sentire anche il limite ontologico dell’uomo, la vecchiaia e la morte: quella stessa morte che una volta, quando era giovane, destava in lui sentimenti di lotta e sollecitava ancor più il suo coraggio, ora, invece, gli appare come qualcosa che lo riguarda, lui, singolarmente, e che deve essere affrontata non in campo aperto, ma nel buio della sua camera, come un «giudizio individuale», «una ragione indipendente dall’esempio». Di fronte alla morte si percepisce solo e ancor più solo, perché lui si sente per delitti e sopraffazioni molto più avanti di tutti gli altri. Inoltre, quel Dio che l’Innominato non ha mai negato o affermato, perché lui ha sempre vissuto come se non esistesse, ora gli sembra che gli gridi dentro di sé «Io sono, però», espressione che riecheggia l’ebraico «Iahvé». Una voce gli sembra, infatti, dire: «Fingi e vivi come se io non esistessi, io comunque ci sono e prima o poi con me dovrai fare i conti». Ebbene, in mezzo a questa crisi, giunge al castello dell’Innominato quella Lucia che il collega di ribalderie Egidio, l’amante della Monaca di Monza, ha facilmente fatto rapire. Quella ragazza debole e apparentemente senz’armi appare all’Innominato non certo indifesa. La fede non l’abbandona in questo momento difficile. Di fronte al suo carceriere esclama: «In nome di Dio…», ponendo così un dito nella piaga dell’Innominato che risponde: «Dio, Dio, … sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola. Di farmi…?». Allora Lucia pronuncia quella frase che salverà l’Innominato: «Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!». Anche una semplice frase, un istante possono servire per la nostra salvezza o la salvezza altrui: è il concetto di merito cristiano, per cui non c’è istante che, se offerto a Dio, non possa valere per la salvezza di sé e del mondo. Qui, sarà ben presto evidente che poche parole pronunciate con fede e per fede si stamperanno nella mente sconvolta del ribaldo e nella notte che sta per sopraggiungere lo tratterranno da un folle gesto.

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