Archive pour le 25 novembre, 2015

Divine Mercy Rosary Candle

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PENTECOSTE 2012 OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – (IL VENTO E LA PAURA)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120527_pentecoste.html

CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – (IL VENTO E LA PAURA)

Basilica Vaticana

Domenica, 27 maggio 2012

Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di celebrare con voi questa Santa Messa, animata oggi anche dal Coro dell’Accademia di Santa Cecilia e dall’Orchestra giovanile – che ringrazio -, nella Solennità di Pentecoste. Questo mistero costituisce il battesimo della Chiesa, è un evento che le ha dato, per così dire, la forma iniziale e la spinta per la sua missione. E questa «forma» e questa «spinta» sono sempre valide, sempre attuali, e si rinnovano in modo particolare mediante le azioni liturgiche. Stamani vorrei soffermarmi su un aspetto essenziale del mistero della Pentecoste, che ai nostri giorni conserva tutta la sua importanza. La Pentecoste è la festa dell’unione, della comprensione e della comunione umana. Tutti possiamo constatare come nel nostro mondo, anche se siamo sempre più vicini l’uno all’altro con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, e le distanze geografiche sembrano sparire, la comprensione e la comunione tra le persone sia spesso superficiale e difficoltosa. Permangono squilibri che non di rado portano a conflitti; il dialogo tra le generazioni si fa faticoso e a volte prevale la contrapposizione; assistiamo a fatti quotidiani in cui ci sembra che gli uomini stiano diventando più aggressivi e più scontrosi; comprendersi sembra troppo impegnativo e si preferisce rimanere nel proprio io, nei propri interessi. In questa situazione, possiamo trovare veramente e vivere quell’unità di cui abbiamo bisogno? La narrazione della Pentecoste negli Atti degli Apostoli, che abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr At 2,1-11), contiene sullo sfondo uno degli ultimi grandi affreschi che troviamo all’inizio dell’Antico Testamento: l’antica storia della costruzione della Torre di Babele (cfr Gen 11,1-9). Ma che cos’è Babele? E’ la descrizione di un regno in cui gli uomini hanno concentrato tanto potere da pensare di non dover fare più riferimento a un Dio lontano e di essere così forti da poter costruire da soli una via che porti al cielo per aprirne le porte e mettersi al posto di Dio. Ma proprio in questa situazione si verifica qualcosa di strano e di singolare. Mentre gli uomini stavano lavorando insieme per costruire la torre, improvvisamente si resero conto che stavano costruendo l’uno contro l’altro. Mentre tentavano di essere come Dio, correvano il pericolo di non essere più neppure uomini, perché avevano perduto un elemento fondamentale dell’essere persone umane: la capacità di accordarsi, di capirsi e di operare insieme. Questo racconto biblico contiene una sua perenne verità; lo possiamo vedere lungo la storia, ma anche nel nostro mondo.  Con il progresso della scienza e della tecnica siamo arrivati al potere di dominare forze della natura, di manipolare gli elementi, di fabbricare esseri viventi, giungendo quasi fino allo stesso essere umano. In questa situazione, pregare Dio sembra qualcosa di sorpassato, di inutile, perché noi stessi possiamo costruire e realizzare tutto ciò che vogliamo. Ma non ci accorgiamo che stiamo rivivendo la stessa esperienza di Babele. E’ vero, abbiamo moltiplicato le possibilità di comunicare, di avere informazioni, di trasmettere notizie, ma possiamo dire che è cresciuta la capacità di capirci o forse, paradossalmente, ci capiamo sempre meno? Tra gli uomini non sembra forse serpeggiare un senso di diffidenza, di sospetto, di timore reciproco, fino a diventare perfino pericolosi l’uno per l’altro? Ritorniamo allora alla domanda iniziale: può esserci veramente unità, concordia? E come? La risposta la troviamo nella Sacra Scrittura: l’unità può esserci solo con il dono dello Spirito di Dio, il quale ci darà un cuore nuovo e una lingua nuova, una capacità nuova di comunicare. E questo è ciò che si è verificato a Pentecoste. In quel mattino, cinquanta giorni dopo la Pasqua, un vento impetuoso soffiò su Gerusalemme e la fiamma dello Spirito Santo discese sui discepoli riuniti, si posò su ciascuno e accese in essi il fuoco divino, un fuoco di amore capace di trasformare. La paura scomparve, il cuore sentì una nuova forza, le lingue si sciolsero e iniziarono a parlare con franchezza, in modo che tutti potessero capire l’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto. A Pentecoste dove c’era divisione ed estraneità, sono nate unità e comprensione. Ma guardiamo al Vangelo di oggi, nel quale Gesù afferma: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13). Qui Gesù, parlando dello Spirito Santo, ci spiega che cos’è la Chiesa e come essa debba vivere per essere se stessa, per essere il luogo dell’unità e della comunione nella Verità; ci dice che agire da cristiani significa non essere chiusi nel proprio «io», ma orientarsi verso il tutto; significa accogliere in se stessi la Chiesa tutta intera o, ancora meglio, lasciare interiormente che essa ci accolga. Allora, quando io parlo, penso, agisco come cristiano, non lo faccio chiudendomi nel mio io, ma lo faccio sempre nel tutto e a partire dal tutto: così lo Spirito Santo, Spirito  di unità e di verità, può continuare a risuonare nei nostri cuori e nelle menti degli uomini e spingerli ad incontrarsi e ad accogliersi a vicenda. Lo Spirito, proprio per il fatto che agisce così, ci introduce in tutta la verità, che è Gesù, ci guida nell’approfondirla, nel comprenderla: noi non cresciamo nella conoscenza chiudendoci nel nostro io, ma solo diventando capaci di ascoltare e di condividere, solo nel «noi» della Chiesa, con un atteggiamento di profonda umiltà interiore. E così diventa più chiaro perché Babele è Babele e la Pentecoste è la Pentecoste. Dove gli uomini vogliono farsi Dio, possono solo mettersi l’uno contro l’altro. Dove invece si pongono nella verità del Signore, si aprono all’azione del suo Spirito che li sostiene e li unisce. La contrapposizione tra Babele e Pentecoste riecheggia anche nella seconda lettura, dove l’Apostolo dice: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne” (Gal 5,16). San Paolo ci spiega che la nostra vita personale è segnata da un conflitto interiore, da una divisione, tra gli impulsi che provengono dalla carne e quelli che provengono dallo Spirito; e noi non possiamo seguirli tutti.  Non possiamo, infatti, essere contemporaneamente egoisti e generosi, seguire la tendenza a dominare sugli altri e provare la gioia del servizio disinteressato. Dobbiamo sempre scegliere quale impulso seguire e lo possiamo fare in modo autentico solo con l’aiuto dello Spirito di Cristo. San Paolo elenca – come abbiamo sentito – le opere della carne, sono i peccati di egoismo e di violenza, come inimicizia, discordia, gelosia, dissensi; sono pensieri e azioni che non fanno vivere in modo veramente umano e cristiano, nell’amore. E’ una  direzione che porta a perdere la propria vita. Invece lo Spirito Santo ci guida verso le altezze di Dio, perché possiamo vivere già in questa terra il germe di vita divina che è in noi. Afferma, infatti, san Paolo: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace» (Gal 5,22).  E notiamo che l’Apostolo usa il plurale per descrivere le opere della carne, che provocano la dispersione dell’essere umano, mentre usa il singolare per definire l’azione dello Spirito, parla di «frutto», proprio come alla dispersione di Babele si contrappone l’unità di Pentecoste. Cari amici, dobbiamo vivere secondo lo Spirito di unità e di verità, e per questo dobbiamo pregare perché lo Spirito ci illumini e ci guidi a vincere il fascino di seguire nostre verità, e ad accogliere la verità di Cristo trasmessa nella Chiesa. Il racconto lucano della Pentecoste ci dice che Gesù prima di salire al cielo chiese agli Apostoli di rimanere insieme per prepararsi a ricevere il dono dello Spirito Santo. Ed essi si riunirono in preghiera con Maria nel Cenacolo nell’attesa dell’evento promesso (cfr At 1,14). Raccolta con Maria, come al suo nascere, la Chiesa anche quest’oggi prega: «Veni Sancte Spiritus! – Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore!». Amen.

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SALMO 27 (26) : IL SIGNORE È MIA LUCE E MIA SALVEZZA, DI CHI AVRÒ PAURA?

http://www.cistercensi.info/monari/2001/m20010308.htm

PREGARE I SALMI – SALMO 27 (26)

IL SIGNORE È MIA LUCE E MIA SALVEZZA, DI CHI AVRÒ PAURA?

Giovedì – 08 marzo 2001

Introduzione Il cammino della Quaresima, che stiamo cercando di percorrere con la grazia del Signore, ci chiede anzitutto un impegno di preghiera che dobbiamo imparare dal Signore. Egli ci insegna come ci si rivolge a lui, come si risponde alla sua Parola e ci si dispone a ricevere la sua grazia. Per questo facciamo il cammino di riflessione sui Salmi, perché attraverso i Salmi è Dio stesso che ci mette sulla bocca le parole giuste e dentro al cuore gli atteggiamenti e le decisioni giuste, quindi sintonizza la nostra vita sulla sua volontà, le sue parole e le sue promesse. Allora con fiducia ci presentiamo davanti al Signore, lo preghiamo perché apra il nostro cuore ad accogliere il suo insegnamento e ci doni una fede e un abbandono grande alla sua volontà.

Preghiamo con il Salmo 27 (26) «[1]Di Davide.

Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore? [2]Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere.

[3]Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia.

[4]Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario.

[5]Egli mi offre un luogo di rifugio nel giorno della sventura. Mi nasconde nel segreto della sua dimora, mi solleva sulla rupe. [6]E ora rialzo la testa sui nemici che mi circondano; immolerò nella sua casa sacrifici d’esultanza, inni di gioia canterò al Signore.

[7]Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. [8]Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»; il tuo volto, Signore, io cerco.

[9]Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza. [10]Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto.

[11]Mostrami, Signore, la tua via, guidami sul retto cammino, a causa dei miei nemici.

[12]Non espormi alla brama dei miei avversari; contro di me sono insorti falsi testimoni che spirano violenza. [13]Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi. [14]Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore».

Omelia “Credere” significa: avere fiducia in Dio più di quanto si abbia paura del mondo o della vita o degli altri o anche di noi stessi. La fede, non è solo questione di sapere o pensare qualche cosa della realtà, ma è un atteggiamento che coinvolge tutta la nostra esistenza (la fede si gioca nel suo confronto con la paura di fronte alla realtà del mondo che ci circonda). Il Salmo che abbiamo ascoltato nasce da qui: si può descrivere come una lotta tra la paura e la speranza. Di fatto, se avete notato, incomincia dicendo: «Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura?», di chi avrò terrore? Il problema è proprio la paura e il terrore. La conclusione del Salmo è l’invito ad una speranza salda: «[14]Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore». In realtà il Salmo che abbiamo ascoltato ha dato da pensare agli esegeti per questo motivo: Nella prima parte che è chiaramente un Salmo di fiducia, anzi qualcuno ha detto: “una fede trionfante, così robusta che non ha ostacoli o impedimenti sul suo cammino”. Poi si arriva alla seconda parte, dal versetto 7 in poi, dove invece ci troviamo di fronte a una supplica, a una richiesta accompagnata da angoscia e timore. È sempre la fede, ma questa volta non più trionfante; è la fede supplice che si presenta davanti a Dio nell’atteggiamento del mendicante che chiede. Dicono gli esegeti che questo modo di procedere non sta bene insieme, sarebbe più giusto (si capirebbe meglio) l’inverso, cioè incominciare con la supplica: io nella miseria mi rivolgo al Signore e chiedo il suo aiuto e il suo sostegno, e poi continuo con la fiducia e con la sicurezza di essere esaudito da Dio. Addirittura qualcuno pensa che il nostro Salmo non sia un Salmo, ma due Salmi: una preghiera di fiducia e una preghiera di domanda e di supplica. In realtà, la coerenza nel nostro Salmo c’è ed è molto profonda, vera e preziosissima per noi. Per capirlo dovete tenere presente che il protagonista è una persona minacciata, con un’autentica paura nel profondo del suo cuore; è circondato da avversari, quindi da tutte le parti sembra non ci sia scampo; è accusato da falsi testimoni (nell’antichità i falsi testimoni sono una delle piaghe più gravi, tremende e distruttive della vita sociale e personale); è oppresso dalla violenza e vede i suoi avversari come delle bestie feroci che vengono per “dilaniargli la carne”. Però è un uomo di una fede robustissima, e di fronte a questa situazione di paura reagisce fin dall’inizio con una fede incrollabile e lo ripete a se stesso: «Il Signore è mia luce e mia salvezza… di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita» (il “baluardo” è la fortezza della mia vita), di chi avrò terrore? Ma si capisce: proprio il fatto che lo dica con questa insistenza, significa che ha bisogno di riscoprire la fede e di farla scendere in profondità; ha bisogno di scriverla nelle radici del suo cuore dove sta sperimentando la paura; ha bisogno di esorcizzare la paura, di allontanarla, di riuscire a controllarla e a vincerla. Parte da questo e poi cerca la sicurezza nel tempio e va a pregare; e lì innalza al Signore la sua supplica, senza censurare niente, ma lasciando che la paura gli salga dal cuore in modo pieno, ma trasformando la sua paura in preghiera. Notate, la seconda parte del Salmo, dal versetto 7 in poi, contiene dieci imperativi che fanno impressione: «Ascolta, Signore, la mia voce», «abbi pietà di me», «rispondimi», «non nascondermi il tuo volto», «non respingere con ira il tuo servo», «non lasciarmi», «non abbandonarmi», «mostrami la tua via», «guidami sul retto cammino… Insomma per dieci volte si rivolge al Signore con una supplica appassionata e urgente, è il suo appello a Dio. Finalmente, al termine di questa supplica, tutto sembra quietarsi e ritrovare serenità in una specie di invito che l’orante (il salmista) rivolge a se stesso: «[14]Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore». Potremmo dire che la lotta è stata combattuta e vinta. Ma proprio l’insistenza su questi imperativi significa che non è stata né rimane una lotta facile: la fede si gioca all’interno di un contesto di difficoltà, di prova e di fatica.

Ripercorriamo il cammino del Salmo nelle sue due parti. Prima parte del Salmo «[1]Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore?». Si potrebbe pensare che il Salmo è già risolto, che sia già finito lì: se uno pensa le preghiere che sta dicendo, evidentemente la paura e il terrore sono già stati superati e sconfitti. Ma quale paura? Quale terrore? Potete immaginarlo il più grande possibile: un avversario? No, molti avversari insieme! Molti avversari che hanno una forza superiore al salmista. Ma non interessa; qualunque situazione di minaccia possa circondare la persona di fede è radicalmente spazzata via dall’affermazione iniziale: «Il Signore è mia luce e mia salvezza». Se è così, che cosa può fare piombare l’uomo nell’angoscia, nella tenebra, nella sconfitta e nella morte? Evidentemente niente. San Paolo scriveva nella Lettera ai Romani: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8, 31); quale forza mondana o sovramondana può distruggere la vita di chi sta sostenuto e protetto da Dio? Se dovessi confrontarmi con le forze del mondo che mi circondano, sarei preso inevitabilmente dalla paura e sarei uno sconfitto. Siccome, Dio è il mio Dio, è per me «luce», «salvezza» e «difesa», per questo tutte le minacce non sono capaci di scalfire la fiducia. La minaccia che mi opprime mi getterebbe in un baratro profondo di tenebra, ma lì «il Signore è mia luce». Il rapporto tra Dio e la luce è tradizionale in tutte le religioni e si trova frequentemente nella Bibbia: «Dio si avvolge della luce come di un manto» (Sal 104, 2); il primo segno della sua opera creatrice è proprio il fatto di far uscire la luce di mezzo le tenebre (cfr. Gen 1, 3-5); a Gerusalemme dice: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore risplende sopra di te» (Is 60, 1). Dunque, la tua vita può essere, dal punto di vista mondano, circondata dalle tenebre. Non si capisce bene dove siamo, dove stiamo andando e il significato delle esperienze che viviamo… ma «il Signore è mia luce». A volte può sembrare che la vita sfugga dal nostro controllo, che l’amarezza o la tristezza piombino inevitabili sopra di noi; ma «il Signore è mia luce». Ricordate il Salmo 23 (dell’ultima Scuola della Parola): «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla» (Sal 23, 1). E ancora: se i nemici mi circondano e da tutte le parti «mi assalgono» e io non ho delle difese che mi possono proteggere… però “il Signore è mio baluardo”. “Baluardo” vuole dire: una fortezza costruita in un luogo imprendibile, dove i nemici non riescono a giungere. Allora possiamo cercare di capire meglio tentando di descrivere la minaccia con una serie di immagini. «[2]Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere. [3]Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia». Dicevo: prendiamo delle immagini per capire chi sono i nostri nemici e il significato dell’esperienza che viviamo. La prima è l’immagine di bestie feroci: “i malvagi sono lì per straziarmi la carne”, cioè per lacerare e divorare la carne; ma in realtà la presenza del Signore è sufficiente difesa: «sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere». La seconda è un’immagine di guerra: “un esercito si accampa e circonda la mia vita”, ma anche in mezzo alla battaglia «il mio cuore non teme… anche allora ho fiducia». Torno a dire: prendete queste cose dette dalla fede del salmista, ma accompagnate da una realtà interiore di paura profonda contro la quale stiamo combattendo e dalla quale cerchiamo di difenderci, attraverso il riferimento e a quello che crediamo del Signore. Continua il nostro salmista nel ricercare il rapporto con Dio. Dicevamo: “Dio è la mia difesa e il mio baluardo”. Ma questa difesa-baluardo diventa molto concreta: il tempio di Gerusalemme. Il tempio di Gerusalemme è costruito su un colle, su una roccia; il tempio ha per definizione il diritto di asilo, chi vi entra è protetto; è un luogo custodito e difeso dal Signore; quindi il tempio diventa l’immagine della protezione di Dio. Per cui: «[4]Una cosa ho chiesto al Signore»; chiedi una cosa sola e io te la darò, ma ne hai da chiedere una sola. Allora devi trovare proprio quella che conta più di tutto; guardi tutti i tuoi desideri e i progetti e tiri fuori quello a cui non puoi assolutamente rinunciare: «[4]Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario». Dunque, “una cosa sola: abitare con Dio”. Il Salmo 16 (15), del Levita, dice che quando la terra promessa è stata divisa tra tutte le tribù d’Israele, a lui della tribù di Levi è toccata la parte migliore, perché la parte migliore è l’essere senza terra e avere al suo posto Dio; la tribù di Levi è senza terra perché la sua eredità è il Signore, ha solo il Signore come sicurezza e protezione per vivere (cfr. Nm 18, 20). Il nostro salmista (ragiona in questo modo) cerca una cosa sola: non la forza militare né la ricchezza economica, ma la comunione con il Signore; il tempio come luogo di pienezza di vita e di esperienza, dove si può contemplare la bellezza di Dio. Vuole dire: l’esperienza del tempio è come fare l’esperienza di una teofania. Domenica prossima avremo il racconto della “trasfigurazione”, ecco è qualche cosa del genere: l’esperienza che hanno fatto i discepoli quando “il Signore li ha portati in disparte su un monte alto” (Mt 17, 1) e davanti a loro si è trasfigurato, e Pietro è arrivato a dire quella espressione: «Signore, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende» (Lc 9, 33). Questa è l’esperienza della gioia, della pienezza della vita. Il salmista ragiona così: desidera «abitare nella casa del Signore tutti i giorni della sua vita», cioè essere ospitato da Dio dentro la sua tenda. Quando si accoglie uno nella propria tenda si assume la responsabilità di farlo vivere e di proteggerlo. Se il Signore si prende questa responsabilità nei nostri confronti, allora in noi c’è l’esperienza della libertà e della gioia: il Signore diventa la rupe, la roccia, su cui io edifico la mia sicurezza (cfr. Lc 6, 48). L’abbiamo già detto: in ebraico il verbo “credere” esprime l’immagine di una persona che si aggrappa ad una roccia e riceve la sua solidità. Noi siamo radicalmente deboli, in qualche modo mossi dalle situazioni del mondo, ma aggrappandoci a questa roccia riceviamo solidità perché è Dio stesso. «[5]Egli mi offre un luogo di rifugio nel giorno della sventura. Mi nasconde nel segreto della sua dimora, mi solleva sulla rupe. [6]E ora rialzo la testa sui nemici che mi circondano; immolerò nella sua casa sacrifici d’esultanza, inni di gioia canterò al Signore». “Alzerò la testa”, quindi non sono più impaurito e umiliato dalla presenza di avversari odiatori che sono più forti di me; la sicurezza, che mi viene dal Signore e dal tempio, mi dà una dignità e una libertà senza riserve. «Rialzo la testa sui nemici che mi circondano»; i nemici appaiono ormai senza forza e senza la capacità di minacciare. «Immolerò nella casa del Signore sacrifici di esultanza». “I sacrifici di esultanza” sono i sacrifici della ter’uah, che era il grido di guerra (cfr. Nm 10, 5 della Bibbia di Gerusalemme); quando si va all’assalto s’incomincia con un grande grido che serve a dare coraggio a chi va all’assalto e a spaventare i nemici. Questo grido diventa una preghiera, una lode, un’espressione liturgica; evidentemente un inno marziale ma trasformato in supplica e ringraziamento a Dio: «inni di gioia canterò al Signore». Siamo impauriti, ma siccome abbiamo fede nel Signore – come salvezza, luce e difesa – proclamiamo la nostra sicurezza, la fede e la speranza senza ambiguità. Seconda parte del Salmo

Siamo arrivati al tempio e lì, davanti al Signore, lasciamo che la paura che abbiamo dentro si esprima; non la comprimiamo né la censuriamo ma lasciamo che diventi preghiera: «[7]Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. [8]Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco». Allora ci rivolgiamo al Signore perché abbiamo un «grido» da esprimere. “Un grido” non è un urlo. “L’urlo” è qualche cosa di non articolato, che esprime la paura ma senza metterla in parole, non riesce a tradurre la paura in espressioni significative. Il nostro «grido» è una voce che innalziamo al Signore, non è rivolta al nulla come a volte può essere un urlo; è rivolto a degli orecchi che sanno percepire e a un cuore che sa rispondere: “ascolta” – «rispondimi». In mezzo a questi due verbi ci sta quello che noi crediamo: «abbi pietà di me!». Vuole dire: riconosco di essere in una condizione di povertà, di miseria e di debolezza, e ho bisogno che il Signore intervenga e faccia sua la mia condizione di povertà, la vinca con l’energia e la forza che lui solo possiede: «abbi pietà di me!». In questo rivolgerci al Signore il salmista ci dice: stiamo lasciando che il nostro cuore si esprima e trovi la direzione giusta dei suoi desideri e progetti. «[8]Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto». Vuole dire: ho interrogato il mio cuore e gli ho detto: “Che cosa debbo fare? Come debbo reagire a questa paura che mi attanaglia?”. E il cuore gli ha risposto: “cerca il volto di Dio”. In concreto significa andare al tempio ma non semplicemente con i piedi e le gambe, ma con il desiderio e la decisione di appartenere a Dio: «Cercate il suo volto». Vuole dire: il salmista aveva il desiderio e la fiducia in Dio in modo profondo, e quando è venuto il momento della prova il cuore lo ha indirizzato giusto e lo ha orientato verso Dio: «Il tuo volto Signore io cerco». Qui viene fuori quell’immagine che è frequentissima nella Bibbia: l’immagine del “volto di Dio” perché il Dio della Bibbia ha una faccia. Chiaramente, quando dico “il volto di Dio” non debbo immaginare dei lineamenti come la mia faccia o la vostra. Quando si dice che “Dio ha una faccia” significa: Dio ha un’identità, che è quella e nient’altro, ha dei lineamenti che sono suoi caratteristici e non si possono confondere. Quando un Ebreo ha cominciato a conoscere il Signore – attraverso tutte le esperienze di liberazione o la Parola dei profeti – pian piano ha imparato a conoscere il volto di Dio. “Il volto di Dio” non è quello che può insegnare un filosofo che ragioni in astratto sull’essenza divina. Un filosofo può dire che Dio è l’essere onnipotente, eterno, onnisciente, immenso, uno, bontà… ma in fondo queste affermazioni su Dio sono ancora generiche. Se uno vuole comprendere il volto di Dio deve lasciarsi afferrare dagli avvenimenti in cui Dio ha operato nella storia d’Israele – e noi diremmo innanzitutto: nella vita e nella morte di Gesù Cristo –, e pian piano, meditandoli e interiorizzandoli, lasciare che stampino nel suo cuore l’immagine di Dio. Dio è il Signore che ci ha liberato dall’Egitto, ci ha condotto nel deserto, ci ha dato una terra, ci ha mandato i profeti, ci ha mandato in esilio e dall’esilio ci ha fatto ritornare; Dio è il Signore che in Gesù Cristo si è fatto uno di noi, è passato facendo del bene, ha donato se stesso per noi e per i nostri peccati e per fare di noi il suo popolo. Insomma, il volto di Dio è quello; non astratto, ma legato ad avvenimenti concreti della storia della salvezza e, in ultima analisi, legato a Gesù Cristo. In fondo la vita religiosa non è altro che questo: «cercare il volto di Dio». Imparare a vedere il volto di Dio non come lo vorremmo noi, secondo i nostri desideri, ma come lo ha fatto conoscere Lui, secondo la sua rivelazione. «[9]Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza». “Non nascondermi il tuo volto” si capisce, perché se Dio nasconde da noi il suo volto noi siamo, dice un Salmo, come coloro che “scendono nella fossa” (cfr. Sal 28, 1); non è possibile vivere se Dio allontana da noi il suo sguardo e il suo volto; la nostra vita viene dall’origine di quella sorgente. Dunque, Signore, «non nascondermi il tuo volto, non mi respingere», non mi abbandonare, sei il «Dio della mia salvezza. [4]Una cosa sola ho chiesto… di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita». L’importanza di questo è la vicinanza di Dio, e il salmista lo esprime con un’immagine che vuole significare il massimo dell’amore che sia immaginabile o pensabile: «[10]Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto». Lo dovete intendere così: “se anche mio padre o mia madre fossero capaci di abbandonarmi, il Signore però è colui che mi ha raccolto”. Vuole dire: dal punto di vista umano e psicologico la paternità e la maternità sono l’immagine dell’amore più grande che si possa pensare; ebbene, l’amore, la premura e l’intimità con Dio è infinitamente più grande. Dice Isaia: “Anche se una madre dovesse dimenticare i suoi figli, (cosa evidentemente impossibile), «io non ti dimenticherò mai… ti ho scritto sulle palme delle mie mani» (Is 49, 15-16); c’è un tatuaggio sulla mano di Dio che è il volto del suo popolo, Dio ce l’ha davanti a sé per sempre, è incancellabile. «Il Signore mi ha raccolto». Allora, «[11]Mostrami, Signore, la tua via, guidami sul retto cammino, a causa dei miei nemici. [12]Non espormi alla brama dei miei avversari; contro di me sono insorti falsi testimoni che spirano violenza». Dunque, il Signore ci salvi e ci indirizzi nella via giusta, nel sentiero piano e corretto. A questo punto la preghiera può terminare con la fiducia piena e con la sicurezza; abbiamo in qualche modo lasciato venire fuori la paura, però l’abbiamo trasformata in preghiera. Allora «[13]Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi». S’intende: “la terra dei viventi” è questa vita, è il nostro mondo. Spero “di contemplare la bontà del Signore” anche al di là della “terra dei viventi”. Ma il salmista fa riferimento a questa terra, alla vita di tutti i giorni, al lavoro, alla famiglia, ai rapporti con gli altri; desidera, anzi è certo, che in questa esistenza quotidiana lui potrà vivere e trovare Dio; potrà sperimentare la vicinanza di Dio nelle piccole cose della vita di tutti i giorni, nella sua benedizione quotidiana, nel cibo e nella bevanda, nel vestito e nell’amicizia, nel lavoro e nella speranza, negli uccelli del cielo e nei gigli del campo… tutti questi sperimentano la provvidenza di Dio: Io «[13]Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi». L’ultimo versetto è una specie di riflessione o di invito che il salmista rivolge a se stesso. Chiaramente si capisce: se io mi rivolgo questo invito vuole dire che ne ho bisogno, mi rendo conto della mia fragilità, che non sono così stabile come sarebbe giusto desiderare. Allora lo dico a me stesso: «[14]Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore». All’inizio della seconda Lettera ai Corinzi san Paolo dice: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché anche noi possiamo, consolati da Dio, consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione attraverso la consolazione che abbiamo ricevuto dal Signore» (2 Cor 1, 3-4). Credo che il Salmo vada in questa direzione, perché il salmista ha conosciuto la paura. In filigrana, se uno ci sta attento, si accorge che dietro c’è un’esperienza di disorientamento, ma che a questa situazione di paura e di disorientamento ha risposto con una fede grande, ripetendo a se stesso quelle cose di Dio che ha sempre conosciuto; ha sempre saputo che Dio è salvezza, luce e baluardo, che Dio è una rupe sicura… lo ha sempre detto e imparato nella preghiera d’Israele. Allora lo ridice a se stesso e pian piano, con questo atteggiamento di preghiera davanti al Signore, ritrova l’equilibrio e la speranza piena per sé, ma la ritrova per poterla dire anche agli altri, per poter dire all’uomo che c’è una forza di salvezza che è più grande di tutte le nostre paure, più grande del mondo, della vita e anche di nostri limiti che ci possono fare paura. Il senso sta in quello che dicevamo all’inizio: “credere” vuole dire fidarsi di Dio più di quanto abbiamo paura del mondo, della vita, degli altri o di noi stessi. Non riusciamo a togliere del tutto la paura; dobbiamo però misurarci con la paura e lo possiamo a partire dalla fede in Dio, dalla contemplazione del “volto di Dio” che abbiamo conosciuto nella rivelazione della Bibbia e di Gesù Cristo e si manifesta a noi come un amore – un Dio di amore – più grande di quello che possiamo noi stessi immaginare: «[10]Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto». L’amore del Signore è più grande di qualunque tipo di amore che umanamente possiamo immaginare o sperimentare. * Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore, ma dall’Ufficio Pastorale.

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