Archive pour le 24 novembre, 2015

Day 1 From chaos to light

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IL SIGNIFICATO DEL TEMPO DELL’AVVENTO

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/VITA%20CRISTIANA/tempoavventoCarmeloSAnnaCarpineto.htm

IL SIGNIFICATO DEL TEMPO DELL’AVVENTO

a cura del Monastero Carmelo Sant’Anna a Carpineto Romano     

INQUADRAMENTO LITURGICO Il tempo liturgico che va dai primi vespri del 2 dicembre fino ai primi vespri di Natale (esclusi) è quello dell’Avvento. Tale tempo liturgico ruota attorno a due  prospettive principali. La prima prospettiva è data dalla parola avvento (dal latino adventus che vuol dire venuta, arrivo) e sta ad indicare. La seconda prospettiva è escatologica, riguarda cioè la fine dei tempi, e indica la seconda venuta del Signore alla fine  dei tempi. Il Tempo di Avvento, dunque, ha una doppia caratteristica: preparazione alla  solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio  fra gli uomini, e contemporaneamente  è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato  all’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi. Le letture del Vangelo nelle singole domeniche hanno una caratteristica propria: si riferiscono  alla venuta del Signore alla fine dei  tempi (I domenica), a Giovanni Battista (Il e III domenica); agli antefatti  immediati della nascita del Signore (IV domenica). Le letture dell’Antico  Testamento sono profezie sul Messia e sul tempo messianico, tratte soprattutto dal  libro di Isaia. Le letture dell’Apostolo  contengono esortazioni e annunzi, in armonia con le caratteristiche di questo  tempo. Il colore liturgico è il viola. Nel corso dell’Avvento si celebra la solennità dell’Immacolata Concezione di Maria, la Vergine Madre del Signore e Madre nostra. Il tempo d’Avvento è tempo mariano per eccellenza perché Maria è in « dolce attesa » del Figlio. Anche noi siamo chiamati a diventare « generatori di Dio », come diceva il carmelitano beato Tito Brandsma.   PREPARIAMOCI AD ACCOGLIERE IL SIGNORE GESÙ Eccoci giunti al tempo forte dell’Avvento: viene il Signore Gesù. Chi di noi dovendo ricevere in casa un amico o un illustre ospite non la riordinerebbe, preparando fin nei minimi dettagli ogni cosa, pranzo compreso? Tutti ci daremmo da fare per rendere gradita la visita dell’amico. Ecco, viene Gesù. Che facciamo? « A te Signore, elevo l’anima mia, Dio mio in te confido; che io non sia confuso » (Sl 24,1). Fissiamo lo sguardo su Gesù, lo accogliamo nella nostra vita, nella nostra interiorità. Importante è creare silenzio in noi, silenzio di intimità, silenzio di ascolto della Parola, silenzio per il Signore. « Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle tue vie » (Is 63, 16). Pratichiamo, dunque, la giustizia, in noi e attorno a noi. Camminiamo sulle vie del Signore, con rettitudine, con amore. Il cambiamento inizia in noi, dentro di noi. Da noi, non dagli altri. Il Signore ci concede « tutti i doni, quelli della Parola e quelli della scienza » (1Cor 1, 3): ma i doni vengono dal Signore non sono nostri. Il Vangelo di Marco di questa prima domenica di Avvento ci richiama continuamente con questi termini: state attenti, vegliate, vigilate. Rientrare in noi, custodire la Parola, fare silenzio. Si ricomincia l’Avvento con animo lieto, vigilanti, con buona volontà. Si parte con entusiasmo, ordunque! Concedici, Signore la perseveranza, la fedeltà, la costanza. Da Te ogni dono di grazia, di sapienza, di scienza per vigilare, per amare, per ascoltare, per servire. Tu vieni, vieni sempre, e ci prendi per mano, ci conduci, ci porti a Te. Tu ci metti a custodire la casa in attesa del tuo ritorno: che non ci si addormenti in questa attesa perchè Tu torni, tu vieni, vieni sempre. Donaci uno sguardo di fede, uno sguardo lungimirante per vedere lontano, per leggere la storia, questa storia che viviamo, con Te presente.

APPROFONDENDO IL SIGNIFICATO DELL’AVVENTO Tempo di grazia, tempo di luce, tempo di risveglio… Dio nasce in un profondo silenzio. Il mese di novembre, mese in cui abbiamo ricordato i nostri defunti,  si chiude con la prima domenica di Avvento. Entriamo nel mese che sancisce l’inizio dell’anno liturgico. Avvento significa attesa, ma anche silenzio, interiorità, intimità. Vorremmo che l’attesa, in silenzio e preghiera, fosse condivisa con Maria, madre di Gesù,  per ripensare a tutta la storia della salvezza che proprio in Gesù trova compimento. Gesù il Verbo, la Parola del Padre che diventa uomo in tutto tranne che nel peccato. Attendere amorevolmente in preghiera il Natale del Signore perché l’amore del Padre si manifesta attraverso il Figlio Suo Unigenito, e Figlio di Maria Vergine. Dicembre è il mese che ci lascia estasiati davanti allo spettacolo della neve che riveste di splendida veste monti, alberi, tetti delle case. Splendore di bellezza è la natura così rivestita e, a prescindere dal freddo, tanta pura bellezza ci fa gioire, di più, ci riscalda il cuore con sentimenti nuovi. Non lasciamo raffreddare i cuori in questo mese, ascoltiamo il silenzio ovattato del soffice cadere della neve lenta e pur tuttavia frettolosa e, nell’attesa del grande avvenimento, nella natura potremmo rinvenire simboli di quel che accadrà nella « notte di luce », del 24/25 dicembre. Il Verbo di Dio verrà nel silenzio… verrà in fretta perché l’Amore vuole subito manifestarsi. Ecco, proprio come la neve silenziosa e frettolosa. L’amore nasce nel silenzio ma in tutta fretta. Troppi secoli, infatti, erano passati dalla caduta di Adamo ed Eva e la nascita del Salvatore. L’Amore aveva davvero atteso troppo! E finalmente contempleremo l’Amore, la tenerezza di un Dio fatto bambino, fatto uomo come noi. Se ci saremo ben preparati nel silenzio, nella preghiera, Gesù ci abbraccerà, di colmerà l’anima dei suoi doni, primo fra tutti la pace, poi la gioia e ancora l’amore. Abbracciàti a Gesù sarà più leggero vivere, e abbracciati a Lui impareremo l’arte più difficile: amare non a parole ma fattivamente e con tenerezza. Gesù ci farà dono di ciò che oggi manca: i valori. Ma il dono dei doni è sentire: « Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Dio ama ».   L’AVVENTO E MARIA Siamo alla prima Domenica di Avvento e si può dire che ci troviamo anche all’inizio della preparazione alla novena dell’Immacolata. Riflettiamo insieme: Dio scende fino a noi, soltanto per Amore. Che faremo noi? Ciò che possiamo e dobbiamo fare, è questo: vivere nella gioia che il Signore viene a salvarci e sforzarci di convertirci dal profondo del cuore. La conversione la dimostriamo in un unico modo: amando Dio e i fratelli. Amare vuol dire: perdonarci e perdonare. Talora non perdoniamo a noi stessi di essere come siamo e allora diventa difficile perdonare agli altri: manca la pace nel nostro cuore, manca l’accettazione dei nostri limiti. Come possiamo accettare gli altri? L’amore scaturisce da un cuore in pace con se stesso, in armonia con se stesso: facciamo unità dentro di noi e faremo unità con gli altri. L’Avvento ci porta ad approfondire la conoscenza di Gesù per vedere se siamo o no sua trasparenza. Gesù, infatti, è trasparenza del Padre. Cerchiamo di essere trasparenza del Figlio obbediente al Padre in profonda umiltà. Come si apre l’anno liturgico e si conclude. Con la celebrazione della Solennità di Cristo Re abbiamo chiuso l’anno liturgico, ora con l’Avvento riapriamo l’anno liturgico. E’ come se dicessimo: una vita nasce, una vita muore. In questo alternarsi è racchiusa la nostra vita e in questo alternarsi dobbiamo realizzare la nostra salvezza. Il Signore ci dà l’opportunità per realizzarla se ci poniamo con docile disponibilità all’ascolto dello Spirito. L’anno liturgico ci facilita un cammino costante, scandito dalla Parola, dal tempo di Dio. L’Avvento è una prima tappa, la prima opportunità offertaci dal Signore per riflettere sul mistero dell’Incarnazione, che celebreremo solennemente il 24 e il 25 dicembre. Il Cristo, nostro Signore, si è incarnato nel seno della Vergine Maria, per salvare l’uomo, per salvarci tutti, riscattarci dal peccato originale, dalla morte antica. Salvare l’uomo prendendo un corpo di carne come il nostro e sperimentando con esso quanto l’uomo sperimenta di sentimenti, di dolore, di gioia, di debolezza, di fame e di sete, di sofferenza, di fatica e di insuccesso. L’Avvento è un momento davvero favorevole per far memoria di quanto il Signore ha compiuto di meraviglie per l’uomo, per noi. E’ questa una contemplazione che deve portarci al rendimento di grazie a Dio. Guardiamo Maria, la Stella, e andiamo insieme ai pastori all’incontro inafferrabile di Colui che nella Notte del tempo nasce nel nostro tempo, luce senza fine. La sua venuta ci doni la pace, l’amore, la concordia e la fraternità.per non rallegrarci da soli. Prepariamoci insieme al Natale del Figlio di Dio, con l’amore, con la preghiera, con la carità fraterna. Guardiamo Maria e impariamo da Lei a essere uomini e donne di fede, di silenzio, di preghiera, di ascolto della Parola di Dio. Con l’augurio, così, di vivere una meravigliosa festa di Maria e un fruttuoso Avvento.  

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FIAT LUX: LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE NELLA SACRA SCRITTURA

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FIAT LUX: LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE NELLA SACRA SCRITTURA

Gennaio 2015

Filippo Serafini, docente di Sacra Scrittura, Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare, Roma   È difficile sottovalutare l’importanza della luce nella Bibbia, dato che essa compare fin dalla sua pagina iniziale, essendo la prima delle opere create (Gen 1,3: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu»), e si ritrova anche nella pagina conclusiva (Ap 22,5: «Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli»). Nella Bibbia l’uso concreto dei termini legati al campo semantico della luce (oltre al sostantivo «luce», in ebraico ’ôr e in greco phôs, pensiamo a vocaboli come «lampada», «lucerna», «lucernario», «illuminare», «brillare», «splendere», «rischiarare», ecc.) si intreccia con quello metaforico. Il nostro intendimento è di presentare soltanto alcuni punti fondamentali legati all’esperienza della luce così come viene esposta agli autori biblici. La luce nel Primo Testamento Conviene precisare fin dall’inizio che la concezione ebraica antica, che soggiace per lo meno ai testi dell’Antico Testamento, è diversa dalla nostra: mentre noi riconduciamo l’esperienza della luce sulla terra al ruolo fondamentale del sole, l’israelita sembra presupporre una certa indipendenza della luce. Certo il sole era considerato una fonte di luce, ma non l’unica perché anche le stelle e la luna lo sono (cfr. Gen 1,14-16; Is 30,26; 60,19; Ger 31,35; Ez 32,8; Sal 136,7-9) né si percepisce una maggiore importanza del sole nei confronti di luna e stelle (non si aveva idea che in realtà la luna riflette la luce solare, come noi ben sappiamo). A tale concezione soggiace forse l’esperienza della presenza di luce anche quando il sole non si vede (come con il cielo nuvoloso o all’aurora, nel momento in cui un chiarore compare al’orizzonte prima che il sole sorga). Questo spiega perché l’autore biblico possa immaginare in Gen 1 la creazione della luce, narrata nei vv. 3-5, come precedente la creazione degli astri, narrata nei vv. 14-19. Inoltre in questo testo la luce è associata primariamente al «giorno» («Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte», Gen 1,5) e l’idea fondamentale è appunto quella dell’alternarsi di giorno e notte, come ritmo ordinato del tempo all’interno del quale si inserisce la vita. La separazione tra luce e tenebre crea quindi l’«ordine» basilare e si contrappone alla situazione negativa descritta al v. 2, con il dominio delle tenebre (per un approfondimento su come vada interpretato il racconto di Gen 1 si veda P. Benvenuti – F. Serafini, Genesi e Big Bang, Assisi 2013). L’ordinato alternarsi di luce e tenebre non le mette comunque sullo stesso piano: rimane la superiorità della luce, per la quale vale il giudizio di «bontà» formulato da Dio stesso (Gen 1,4). D’altra parte, non c’è nemmeno, nella Bibbia, un dualismo ontologico tra luce e tenebre: è vero che le tenebre sono un simbolo negativo, associato al caos e alla desolazione (realtà che l’antico israelita percepiva come antitetiche alla creazione, cfr. Ger 4,23), ma poste entro i loro limiti e controllate dalle leggi volute dal creatore fanno parte dell’ordinamento del mondo (per questo Is 45,7 può mettere in bocca al Signore l’affermazione: «Io formo la luce e creo le tenebre»). Il racconto di Gen 1 propone quindi come scansione temporale fondamentale il giorno, nell’alternanza di luce e tenebre, dando priorità a questo aspetto rispetto alle suddivisioni del calendario basate sul corso della luna e del sole, come i mesi e le stagioni. La prima pagina della Bibbia si conclude con la «consacrazione» (Gen 2,3) del settimo giorno, che ha così un particolare legame con Dio: lo scopo del narratore e ricordare che la separazione fondamentale tra luce e tenebre non crea soltanto la possibilità per la vita, ma anche per la relazione fra l’uomo e Dio che è essenziale per la vita stessa. Nella predicazione profetica questo tema ritorna con l’evocazione del «giorno del Signore», come momento decisivo per la storia di Israele. Esso è collegato al giudizio e quindi appare come giorno di tenebra e ira per i peccatori (cfr., p. es., Gl 2,2; Am 5,18.20), un giorno in cui la luce degli astri si oscurerà (cfr., p. es., Is 13,9-10; Am 8,9); d’altra parte, poiché in esso si realizza la pienezza della presenza divina in mezzo agli uomini, è anche giorno di luce più intensa (cfr. Is 30,26) o un giorno senza tenebra (Zc 14,6-7: «In quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo: sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte, e verso sera risplenderà la luce»). L’immagine, quindi, assume i toni escatologici, fa riferimento, cioè, alla fine dei tempi, in cui Dio ristabilirà la pienezza e il suo splendore dominerà (cfr. Is 60,19 e il versetto di Apocalisse citato all’inizio). Si impone quindi l’associazione tra luce e vita che trova espressione in diversi passi ma sopratutto nella formula «luce della vita» (o «luce dei viventi»), che ricorre in Gb 33,30 e Sal 56,14 in contesti che richiamano la liberazione divina dal pericolo di morte. Per contrasto chi è morto non vede la luce (cfr., p. es., Sal 49,20) e gli inferi (še’ōl in ebraico) sono concepiti come «la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di oscurità e di disordine, dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,21-22). Dal punto di vista antropologico questo ha un riflesso nell’idea che la «luce degli occhi» sia associata alla salute e/o alla forza vitale dell’individuo, come appare in 1Sam 14,27: «Giònata… allungò la punta del bastone che teneva in mano e la intinse nel favo di miele, poi riportò la mano alla bocca e i suoi occhi si rischiararono» (cfr., in senso contrario, Sal 38,11). Su questo sfondo si comprendono i passi in cui il benessere rappresentato dalla luce degli occhi è associato alla legge divina (Sal 19,9) o alla sapienza (Qo 8,1). In senso ampio, quindi, la luce è simbolo della salvezza che è evidentemente, nella prospettiva biblica, un dono divino (cfr., p. es., Sal 18,29: «Signore, tu dai luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre»; Is 9,1: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse»). In questo ambito va compreso l’uso dell’espressione «luce del volto» di Dio (cfr. Sal 4,7; 44,4) e di quella analoga, secondo cui Dio «fa risplendere il suo volto» (cfr., p. es., Nm 6,25; Sal 31,7), che indicano il favore e la benedizione divina accordata ai suoi fedeli. La luce di Dio ha anche un risvolto etico, in quanto consente all’uomo di «camminare» (verbo che è una metafora della condotta morale) secondo la sua volontà e quindi in rettitudine (Is 2,5 usa l’espressione «camminiamo alla luce del Signore» per riprendere il concetto espresso al v. 3 con la frase «camminare per i suoi sentieri»). Non sorprende che quindi le tenebre notturne siano concepite come il momento favorevole per le opere dei malvagi (cfr., p. es., Gb 24,14-16), ma anche come la situazione in cui si trova il peccatore che, riconoscendo la sua colpa, confida nel riscatto da parte del Signore (Mi 7,8-9 «Non gioire di me, o mia nemica! Se sono caduta, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre, il Signore sarà la mia luce. Sopporterò lo sdegno del Signore perché ho peccato contro di lui, finché egli tratti la mia causa e ristabilisca il mio diritto, finché mi faccia uscire alla luce e io veda la sua giustizia»). Quest’idea del possibile riscatto dalla situazione di tenebra, accentua la colpevolezza di chi si vuole sottrarre alla luce, avvitandosi in una situazione negativa descritta magistralmente in Sap 17, che rilegge il racconto degli Egiziani avvolti dalle tenebre (una delle “piaghe” inviate da Dio per convincere il Faraone a liberare Israele) considerandoli il “tipo” degli avversari di Dio. Si noti come, essendo nell’Antico Testamento l’idea della giustizia divina strettamente connessa con quella della salvezza, anche a essa si applichi al metafora della luce; addirittura l’apparire della luce può essere poeticamente legato alla scomparsa di iniquità e ingiustizie (cfr. il bel passo poetico di Gb 38,12-15). Da tutto quanto appena si detto si comprende come la Legge, in quanto espressione della volontà divina e della sua giustizia, sia anch’essa «luce» per l’uomo (Is 51,4; Sal 119,105). Più direttamente è la presenza stessa di Dio che è luce, come appare nei racconti del Pentateuco che parlano della colonna di fuoco che guida il popolo (Es 13,21-22; 14,20) e in Is 60,1: «Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te». La straordinarietà della figura di Mosè è segnata anche dal fatto che la luce divina si riflette in qualche modo sul suo volto (cfr. Es 34,29-30.35). Va rilevato che in questi casi si fa sempre riferimento alla percezione umana della vicinanza di Dio, non compare nell’Antico Testamento una descrizione della realtà divina come «luce» (anche Sal 104,2, che descrive il Signore «avvolto di luce come di un manto», si colloca in un contesto che descrive la gloriosa manifestazione di Dio nel creato). La luce che viene nel mondo: il messaggio del Nuovo Testamento Nel Nuovo Testamento si ritrovano i valori simbolici della luce già individuati nell’Antico Testamento, ma con sottolineature peculiari e aspetti innovativi. Notiamo dapprima, però, un uso più concreto del termine: l’apparizione di una «luce dal cielo» (At 9,3; 22,6; 26,13) è legata all’epifania di Gesù Cristo a Paolo, così come l’apparizione di un angelo illumina la cella in cui Pietro è imprigionato (At 12,7); analogamente l’evento della trasfigurazione di Gesù è descritto facendo riferimento alla luce (cfr. Mt 17,2.5). Questa descrizione di particolari manifestazioni del divino come apparizioni di una «luce» si discosta dall’Antico Testamento che preferisce parlare del fuoco (cfr., p. es., Es 3,2; 19,18; 24,17). Probabilmente il riferimento alla luce, senza precisazione della sua fonte, veniva percepito dagli autori del Nuovo Testamento come rimando più adeguato alla trascendenza divina. Dal punto di vista antropologico, interessante è il detto di Mt 6,22-23, che paragona l’occhio umano a una lampada, secondo un’immagine comune sia nel mondo greco che in quello giudaico: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!». Si faccia attenzione che il riferimento finale alla «luce» è probabilmente sempre un immagine dell’occhio: come organo della vista è ciò che consente che ci sia luce nella persona. Il detto, quindi, non fa tanto riferimento a una “illuminazione interiore”, ma al valore dello sguardo sulla realtà che si vive e sui rapporti con gli altri, che può essere «semplice» (cioè retto, limpido, mite) o «cattivo» (cioè, malizioso, invidioso, cupido). L’occhio esprime l’intenzionalità fondamentale che il soggetto applica alla realtà e questa si riflette sulla sua situazione complessiva di vita (rappresentata dal «corpo»), descritta come luminosa o tenebrosa. Nel brano parallelo l’evangelista Luca aggiunge un versetto («Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere alcuna parte nelle tenebre, sarà tutto nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore», Lc 11,36) che sembra suggerire che la vita di colui che ha lo sguardo «semplice» sia capace di diffondere luce; con ciò ci si ricollega all’interpretazione matteana del detto sulla lampada che non va nascosta (Mt 5,14-16 «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli»). Come si vede il fine della testimonianza, data dalle opere buone che sgorgano dallo sguardo semplice sulla realtà, è la glorificazione di Dio, il riconoscimento della sua paternità e del suo operare nella storia. Infatti diversi detti collegano l’immagine della luce al processo del pubblico manifestarsi e quindi della rivelazione: così è per il detto sulla lampada che non si può nascondere in Mc 4,21-22 («Diceva loro: “Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce”»; cfr. Lc 8,16; 11,33) e per Mt 10,27 («Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze»; cfr. Lc 8,17; 12,2-3). Quello che Gesù annuncia, infatti, è di per se stesso destinato a diventare manifesto, in quanto espressione del disegno divino di salvezza che chiede all’uomo di essere accolto. Ma ciò significa, ovviamente, che Gesù stesso (o meglio: il Messia atteso) può essere definito «luce» (così in Mt 4,16, nella ripresa di Is 9,1; e in Lc 2,32): questo non tanto in relazione alla sua natura, ma piuttosto alla sua missione, che è quella di donare la salvezza divina (riprendendo quindi il valore simbolico della luce che si trova in diversi passi dell’Antico Testamento). La connessione fra luce e offerta della salvezza si può trovare anche nella parola apostolica (cfr At 13,47, dove Paolo e Barnaba applicano alla loro attività l’oracolo di Is 4,6, e Ef 3,8-9), ovviamente in quanto proclamazione del Vangelo di Gesù. Collegando questo a Mt 5,14-16 si vede come la vita dell’apostolo e discepolo debba essere improntata all’assoluta trasparenza luminosa del suo parlare e del suo agire in riferimento all’annuncio del Cristo. La rappresentazione della rivelazione divina con la metafora della luce viene ripresa nelle lettere paoline, con alcuni tratti caratteristici. Anzitutto sottolinea la possibilità per il credente di conoscere o comprendere la realtà salvifica che gli viene donata (2Cor 4,6: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo»; cfr. anche Ef 1,17-18: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi»). In questa stessa prospettiva il momento iniziale della vita cristiana, la conversione alla fede in Gesù Cristo può essere definita come «illuminazione» (cfr. Eb 6,4; Eb 10,32; secondo alcuni autori questi passi farebbero riferimento al battesimo, ma non è certo; l’uso del termine «illuminazione» per indicare il battesimo si trova però nel II secolo d.C, negli scritti di Giustino). In secondo luogo la manifestazione del Cristo è anche svelamento di ciò che si trova nella profondità del cuore umano (1Cor 4,5 «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode»; cfr. Ef 5,13 dove l’accento è però sulla condanna) e quindi vale come giudizio. In questo la prospettiva escatologica (cioè quella della fine dei tempi) e quella etica (relativa alla prassi quotidiana) si intrecciano. Infatti il cristiano, accogliendo la salvezza di Cristo, è reso già ora «capace di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (Col 1,12): in questo versetto si deve evidentemente intendere la «luce» come una metafora della comunione con la divinità. D’altra parte sono ripetuti gli inviti a vivere nella luce e a rifiutare le opere delle tenebre, dove l’immagine si riferisce senz’altro alla rettitudine dell’agire (cfr Rm 13,12; Ef 5,8-9); anzi il richiamo alla separazione primordiale fra luce e tenebre (2Cor 4,6) spiega anche la calda esortazione a uno stile di vita chiaramente distinto da quello dei non-credenti (2Cor 6,14 «Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre?»). L’idea della separazione e della distinzione rispetto ai non credenti, sia dal punto di vista etico sia da quello della speranza nella vita futura, soggiace probabilmente anche all’uso dell’espressione «figli della luce» (cfr. Lc 16,8; Gv 12,36; Ef 5,8; 1Ts 5,5) che non si trova nell’Antico Testamento, ma è frequente nei testi di Qumran. Nel Vangelo di Giovanni è Gesù stesso a definirsi «luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5; cfr. 12,35-36.46) e il significato dell’immagine è duplice: da una parte, infatti, sottolinea il ruolo di Gesù nella Rivelazione, anzi il suo essere la Rivelazione stessa (la «verità» nel linguaggio giovanneo) che va accolta con fede (non a caso la definizione di Gv 9,5 apre il racconto del miracolo di guarigione del cieco nato che non solo riacquista la vista, ma giunge alla fede); dall’altra la connessione fra luce e vita riprende il tema della salvezza, ovvero della pienezza di vita, offerta da Dio agli uomini in Gesù. La connessione tra luce e vita, che risale all’esperienza basilare dell’essere umano e che veniva affermata dal racconto di Gen 1, viene ripresa in forma marcatamente cristologica, affermando che tale connessione dipende dal “Verbo” sin dal «principio» (cfr. Gv 1,4 «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini») e va accolta dall’uomo credendo in Gesù di Nazareth. Chi rifiuta la sua persona si trova di fatto nelle «tenebre» (Gv 3,19-21; cfr. 11,9-10): in tal senso la rivelazione e l’offerta di salvezza sono anche giudizio, perché smascherano alcune situazioni o posizioni esistenziali come radicalmente opposte alla volontà divina di vita e quindi apportatrici di morte. Nella prima lettera di Giovanni la «luce» non è posta come predicato di Gesù, ma di Dio (1Gv 1,5: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna»). Questo non va inteso come una pura definizione dell’essenza divina, cosa che tra l’altro comporterebbe di intendere il vocabolo «luce» in senso concreto e non metaforico, perché il contesto immediatamente seguente mette in rapporto tale affermazione con la condotta concreta dei credenti, che devono «camminare nella luce» (1Gv 1,7). L’immagine serve quindi anzitutto a ricordare la relazione costante che il cristiano deve avere con Dio, riproducendo nella sua esistenza quotidiana ciò che ha accolto credendo alla rivelazione (cfr. 1Gv 2,9-10: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo»), inoltre richiama innegabilmente il fatto che Dio è fonte, per il credente, di ogni bene, di vita e di salvezza, secondo l’abituale significato della metafora nel Nuovo Testamento. Si può dire che l’affermazione di 1Gv 1,5 presupponga che la pienezza e la potenza di vita stiano anzitutto (o forse “soltanto”) in Dio. Per concludere… Al termine di questo breve percorso possiamo tornare a prendere in considerazione la prima e l’ultima pagina della Bibbia, che abbiamo evocato all’inizio. Se Gen 1 ci ricorda che la nostra vita è resa possibile dall’alternanza di luce e tenebre e scorre attraverso entrambe (anche a livello simbolico, visto che ogni esistenza umana ha luci e ombre), la grandiosa visione della Gerusalemme celeste in Ap 21,9–22,5 ci fa intravvedere il destino a cui l’umanità è chiamata in Cristo, quella pienezza di luce e di vita il cui desiderio è iscritto nell’intimo di ciascuno di noi.   Letture consigliate R. Vignolo – L. Giangreco, «Luce e tenebre», in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi, Temi Teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pp. 774-780. H. Ritt, «φῶς, φωτός, τό», in H. Balz – G. Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 20042, cc. 1853

Publié dans:BIBLICA - TEMI, BIBLICA: STUDI |on 24 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

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