Archive pour le 18 novembre, 2015

Il martirio di San Paolo

Il martirio di San Paolo dans immagini sacre paul
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BENEDETTO XVI – SALMO 126, OGNI FATICA È VANA SENZA IL SIGNORE (2005)

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BENEDETTO XVI – SALMO 126, OGNI FATICA È VANA SENZA IL SIGNORE

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 31 agosto 2005

Salmo 126 Ogni fatica è vana senza il Signore Vespri – Mercoledì 3a settimana

1. Il Salmo 126, ora proclamato, presenta davanti ai nostri occhi uno spettacolo in movimento: una casa in costruzione, la città con le sue guardie, la vita delle famiglie, le veglie notturne, il lavoro quotidiano, i piccoli e i grandi segreti dell’esistenza. Ma su tutto si leva una presenza decisiva, quella del Signore che aleggia sulle opere dell’uomo, come suggerisce l’avvio incisivo del Salmo: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori» (v. 1) Una società solida nasce, certo, dall’impegno di tutti i suoi membri, ma ha bisogno della benedizione e del sostegno di quel Dio che, purtroppo, spesso è invece escluso o ignorato. Il Libro dei Proverbi sottolinea il primato dell’azione divina per il benessere di una comunità e lo fa in modo radicale affermando che «la benedizione del Signore arricchisce, non le aggiunge nulla la fatica» (Pr 10,22). 2. Questo Salmo sapienziale, frutto della meditazione sulla realtà della vita di ogni giorno, è costruito sostanzialmente su un contrasto: senza il Signore, invano si cerca di erigere una casa stabile, di edificare una città sicura, di far fruttificare la propria fatica (cfr Sal 126,1-2). Col Signore, invece, si ha prosperità e fecondità, una famiglia ricca di figli e serena, una città ben munita e difesa, libera da incubi e insicurezze (cfr vv. 3-5). Il testo si apre con l’accenno al Signore raffigurato come costruttore della casa e sentinella che veglia sulla città (cfr Sal 120,1-8). L’uomo esce al mattino per impegnarsi nel lavoro a sostegno della famiglia e a servizio dello sviluppo della società. È un lavoro che occupa le sue energie, provocando il sudore della sua fronte (cfr Gn 3,19) per l’intero arco della giornata (cfr Sal 126,2). 3. Ebbene, il Salmista non esita ad affermare che tutto questo lavoro è inutile, se Dio non è al fianco di chi fatica. Ed afferma che Dio premia invece persino il sonno dei suoi amici. Il Salmista vuole così esaltare il primato della grazia divina, che imprime consistenza e valore all’agire umano, pur segnato dal limite e dalla caducità. Nell’abbandono sereno e fedele della nostra libertà al Signore, anche le nostre opere diventano solide, capaci di un frutto permanente. Il nostro «sonno» diventa, così, un riposo benedetto da Dio, destinato a suggellare un’attività che ha senso e consistenza. 4. Si passa, a questo punto, all’altra scena tratteggiata dal nostro Salmo. Il Signore offre il dono dei figli, visti come una benedizione e una grazia, segno della vita che continua e della storia della salvezza protesa verso nuove tappe (cfr v. 3). Il Salmista esalta in particolare «i figli della giovinezza»: il padre che ha avuto figli in gioventù non solo li vedrà in tutto il loro vigore, ma essi saranno il suo sostegno nella vecchiaia. Egli potrà, così, affrontare con sicurezza il futuro, divenendo simile a un guerriero, armato di quelle «frecce» acuminate e vittoriose che sono i figli (cfr vv 4-5). L’immagine, desunta dalla cultura del tempo, ha lo scopo di celebrare la sicurezza, la stabilità, la forza di una famiglia numerosa, come si ripeterà nel successivo Salmo 127, in cui è tratteggiato il ritratto di una famiglia felice. Il quadro finale raffigura un padre circondato dai suoi figli, che è accolto con rispetto alla porta della città, sede della vita pubblica. La generazione è, quindi, un dono apportatore di vita e di benessere per la società. Ne siamo consapevoli ai nostri giorni di fronte a nazioni che il calo demografico priva della freschezza, dell’energia, del futuro incarnato dai figli. Su tutto, però, si erge la presenza benedicente di Dio, sorgente di vita e di speranza. 5. Il Salmo 126 è stato spesso usato dagli autori spirituali proprio per esaltare questa presenza divina, decisiva per procedere sulla via del bene e del regno di Dio. Così il monaco Isaia (morto a Gaza nel 491) nel suo Asceticon (Logos 4,118), ricordando l’esempio degli antichi patriarchi e profeti, insegna: «Si sono posti sotto la protezione di Dio implorando la sua assistenza, senza mettere la loro fiducia in qualche fatica che avessero compiuto. E la protezione di Dio è stata per loro una città fortificata, perché sapevano che senza l’aiuto di Dio essi erano impotenti e la loro umiltà faceva loro dire con il Salmista: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode”» (Recueil ascétique, Abbaye de Bellefontaine 1976, pp. 74-75).

PAPA FRANCESCO – LA FAMIGLIA – 33. LA PORTA DELL’ACCOGLIENZA

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 18 novembre 2015

LA FAMIGLIA – 33. LA PORTA DELL’ACCOGLIENZA

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Con questa riflessione siamo arrivati alle soglie del Giubileo, è vicino. Davanti a noi sta la  porta, ma non solo la porta santa, l’altra: la grande porta della Misericordia di Dio – e quella è una porta bella! -, che accoglie il nostro pentimento offrendo la grazia del suo perdono. La porta è generosamente aperta, ci vuole un po’ di coraggio da parte nostra per varcare la soglia. Ognuno di noi ha dentro di sé cose che pesano. Tutti siamo peccatori! Approfittiamo di questo momento che viene e varchiamo la soglia di questa misericordia di Dio che mai si stanca di perdonare, mai si stanca di aspettarci! Ci guarda, è sempre accanto a noi. Coraggio! Entriamo per questa porta! Dal Sinodo dei Vescovi, che abbiamo celebrato nello scorso mese di ottobre, tutte le famiglie, e la Chiesa intera, hanno ricevuto un grande incoraggiamento a incontrarsi sulla soglia di questa porta aperta. La Chiesa è stata incoraggiata ad aprire le sue porte, per uscire con il Signore incontro ai figli e alle figlie in cammino, a volte incerti, a volte smarriti, in questi tempi difficili. Le famiglie cristiane, in particolare, sono state incoraggiate ad aprire la porta al Signore che attende di entrare, portando la sua benedizione e la sua amicizia. E se la porta della misericordia di Dio è sempre aperta, anche le porte delle nostre chiese, delle nostre comunità, delle nostre parrocchie, delle nostre istituzioni, delle nostre diocesi, devono essere aperte, perché così tutti possiamo uscire a portare questa misericordia di Dio. Il Giubileo significa la grande porta della misericordia di Dio ma anche le piccole porte delle nostre chiese aperte per lasciare entrare il Signore – o tante volte uscire il Signore – prigioniero delle nostre strutture, del nostro egoismo e di tante cose. Il Signore non forza mai la porta: anche Lui chiede il permesso di entrare. Il Libro dell’Apocalisse dice: «Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Ma immaginiamoci il Signore che bussa alla porta del nostro cuore! E nell’ultima grande visione di questo Libro dell’Apocalisse, così si profetizza della Città di Dio: «Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno», il che significa per sempre, perché «non vi sarà più notte» (21,25). Ci sono posti nel mondo in cui non si chiudono le porte a chiave, ancora ci sono. Ma ce ne sono tanti dove le porte blindate sono diventate normali. Non dobbiamo arrenderci all’idea di dover applicare questo sistema a tutta la nostra vita, alla vita della famiglia, della città, della società. E tanto meno alla vita della Chiesa. Sarebbe terribile! Una Chiesa inospitale, così come una famiglia rinchiusa su sé stessa, mortifica il Vangelo e inaridisce il mondo. Niente porte blindate nella Chiesa, niente! Tutto aperto! La gestione simbolica delle “porte” – delle soglie, dei passaggi, delle frontiere – è diventata cruciale. La porta deve custodire, certo, ma non respingere. La porta non dev’essere forzata, al contrario, si chiede permesso, perché l’ospitalità risplende nella libertà dell’accoglienza, e si oscura nella prepotenza dell’invasione. La porta si apre frequentemente, per vedere se fuori c’è qualcuno che aspetta, e magari non ha il coraggio, forse neppure la forza di bussare. Quanta gente ha perso la fiducia, non ha il coraggio di bussare alla porta del nostro cuore cristiano, alle porte delle nostre chiese… E sono lì, non hanno il coraggio, gli abbiamo tolto la fiducia: per favore, che questo non accada mai. La porta dice molte cose della casa, e anche della Chiesa. La gestione della porta richiede attento discernimento e, al tempo stesso, deve ispirare grande fiducia. Vorrei spendere una parola di gratitudine per tutti i custodi delle porte: dei nostri condomini, delle istituzioni civiche, delle stesse chiese. Spesso l’accortezza e la gentilezza della portineria sono capaci di offrire un’immagine di umanità e di accoglienza all’intera casa, già dall’ingresso. C’è da imparare da questi uomini e donne, che sono custodi dei luoghi di incontro e di accoglienza della città dell’uomo! A tutti voi custodi di tante porte, siano porte di abitazioni, siano porte delle chiese, grazie tante! Ma sempre con un sorriso, sempre mostrando l’accoglienza di quella casa, di quella chiesa, così la gente si sente felice e accolta in quel posto. In verità, sappiamo bene che noi stessi siamo i custodi e i servi della Porta di Dio, e la porta di Dio come si chiama? Gesù! Egli ci illumina su tutte le porte della vita, comprese quelle della nostra nascita e della nostra morte. Egli stesso l’ha affermato: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9). Gesù è la porta che ci fa entrare e uscire. Perché l’ovile di Dio è un riparo, non è una prigione! La casa di Dio è un riparo, non è una prigione, e la porta si chiama Gesù! E se la porta è chiusa, diciamo: “Signore, apri la porta!”. Gesù è la porta e ci fa entrare e uscire. Sono i ladri, quelli che cercano di evitare la porta: è curioso, i ladri cercano sempre di entrare da un’altra parte, dalla finestra, dal tetto ma evitano la porta, perché hanno intenzioni cattive, e si intrufolano nell’ovile per ingannare le pecore e approfittare di loro. Noi dobbiamo passare per la porta e ascoltare la voce di Gesù: se sentiamo il suo tono di voce, siamo sicuri, siamo salvi. Possiamo entrare senza timore e uscire senza pericolo. In questo bellissimo discorso di Gesù, si parla anche del guardiano, che ha il compito di aprire al buon Pastore (cfr Gv 10,2). Se il guardiano ascolta la voce del Pastore, allora apre, e fa entrare tutte le pecore che il Pastore porta, tutte, comprese quelle sperdute nei boschi, che il buon Pastore si è andato a riprendere. Le pecore non le sceglie il guardiano, non le sceglie il segretario parrocchiale o la segretaria della parrocchia; le pecore sono tutte invitate, sono scelte dal buon Pastore. Il guardiano – anche lui – obbedisce alla voce del Pastore. Ecco, potremmo ben dire che noi dobbiamo essere come quel guardiano. La Chiesa è la portinaia della casa del Signore, non è la padrona della casa del Signore. La Santa Famiglia di Nazareth sa bene che cosa significa una porta aperta o chiusa, per chi aspetta un figlio, per chi non ha riparo, per chi deve scampare al pericolo. Le famiglie cristiane facciano della loro soglia di casa un piccolo grande segno della Porta della misericordia e dell’accoglienza di Dio. E’ proprio così che la Chiesa dovrà essere riconosciuta, in ogni angolo della terra: come la custode di un Dio che bussa, come l’accoglienza di un Dio che non ti chiude la porta in faccia, con la scusa che non sei di casa. Con questo spirito ci avviciniamo al Giubileo: ci sarà la porta santa, ma c’è la porta della grande misericordia di Dio! Ci sia anche la porta del nostro cuore per ricevere tutti il perdono di Dio e dare a nostra volta il nostro perdono, accogliendo tutti quelli che bussano alla nostra porta.

 

La Marsigliese, sottotitoli in italiano

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I FONDAMENTI UMANI DELLA PREGHIERA – RENÉ VOILLAUME

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/voillaume_pregare_per_vivere4.htm

I FONDAMENTI UMANI DELLA PREGHIERA – RENÉ VOILLAUME

Ho avuto più volte occasione di costatare che, quando pretendiamo di non aver tempo per pregare, si tratta, nella maggior parte dei casi, non di una reale mancanza di tempo, ma di una specie di impossibilità psicologica di trovare il tempo necessario provocata da uno stato interiore di precipitazione e di tensione.
La nostra vocazione ci obbliga a trovare la via di una preghiera contemplativa senza smettere di frequentare la società degli uomini, ed è quindi indispensabile per noi usare i mezzi necessari per pervenire a uno stato di calma interiore.
Questa condizione preliminare ci sembra forse molto terra terra e di ordine puramente psicologico, e saremmo portati a credere che sia più perfetto il prodigarsi senza limite e l’attendere tutto dall’azione della grazia, nella nostra vita di relazione con Dio. Certo, Dio può fare in questo campo ciò che vuole. Tuttavia sarebbe sbagliato trascurare di metterci in uno stato di calma interiore, senza il quale non vi è raccoglimento. Sarebbe errore grave il non prendere in considerazione tutte le condizioni naturali che possono aiutare la fedeltà alla preghiera.
Quante famiglie religiose, quanti sacerdoti sono oggi sciupati per questa mancanza di semplice saggezza elementare!
Perché, questo stato di precipitazione interiore è così frequente, e quali ne sono le cause?
In primo luogo, vi è una predisposizione dovuta al temperamento o ad abitudini interiori; possiamo sempre migliorare il nostro temperamento con la grazia di Dio e con pazienza instancabile, con l’umiltà e la perseveranza. Non dobbiamo mai pretendere un risultato immediato, né superare con sforzi immani la possibilità psicologica del momento. La generosità è totale quando mettiamo tutto il nostro sforzo: andare oltre, non è più generosità, ma presunzione o errore di valutazione della nostra natura umana.
Vi è poi l’influenza dell’ambiente esterno, con tutte le conseguenze di nervosismo, di fatica, di mancanza di sonno sufficiente. In questo campo non si fa, certo, sempre come si vorrebbe, ma è già molto cercare di fare tutto ciò che si può, nei limiti del proprio dovere. Talvolta crediamo che la generosità e la grazia di Dio possano permetterci di affrontare, senza danno, qualsiasi ritmo di vita o qualsiasi atmosfera di eccitazione sensibile. Molto spesso, la causa più importante e più sottile di questo squilibrio va ricercata in noi stessi: ed è un vago senso di insoddisfazione profonda, di frustrazione o la mancanza di una felicità che vediamo sfuggirci. Non osiamo confessarlo a noi stessi e, per generosità e fedeltà, in una continua tensione della volontà, ci sforziamo di donarci a Dio e agli uomini, in una spogliazione che ci appare inumana. Si ha come l’impressione che la nostra vita spirituale sia diventata una costruzione instabile e che tutto precipiterebbe se ci si fermasse a riflettere, nella paura di prendere coscienza della propria insoddisfazione.
Dov’è dunque l’errore? Le rinunce dei santi del passato, ci sembra avessero un altro accento: sacrificio di sé, rinuncia totale, sì, ma accompagnata da un senso di pienezza e di pace. Sentiamo confusamente che nell’atmosfera spirituale del mondo attuale vi è qualcosa di inafferrabile, una tendenza, una predisposizione al pessimismo, alla disperazione, che si stempera anche su di noi e ci colora di sé. Non osiamo più confessare di aver un bisogno irresistibile di felicità e di pieno sviluppo personale! Si muore di sete di felicità e ci si immagina che Gesù ci chieda di essere pronti a rinunciarvi e, nel nostro intimo, proviamo un senso di disagio, di inferiorità nei confronti di coloro che, non senza ironia, proclamano il carattere mitico ed egoista della fede nella felicità perfetta di un altro genere di vita.
Crediamo di essere obbligati all’« amore puro », cioè a una forma di amore che .pretenda di rinunciare definitivamente e per l’eternità a ogni desiderio di personale soddisfazione, nel timore di non essere perfetti nella carità.
Dobbiamo ritrovare l’equilibrio dell’uomo, così come Dio lo ha fatto e il Cristo l’ha rifatto, e avere il coraggio di guardare Dio come alla sorgente più completa della felicità e dello sviluppo totale di ogni uomo.
La rinuncia che Gesù ci chiede non è di rinnegare i desideri essenziali della nostra natura umana, ma una temporanea astensione da beni limitati, per meglio assicurarci il possesso definitivo di un bene supremo più grande. In fondo, consiste nel prendere l’abitudine di aspettare una gioia più grande e completa, non solo per lo spirito, ma per tutto il nostro essere. Il Cristo ci parla di tesori che si possederanno e asserisce che quanti rinunceranno a ciò che sembra loro tanto desiderabile quaggiù – famiglia, moglie, figli, ricchezze materiali – riceveranno il centuplo! Finché non avremo accettato, come ragione ultima della nostra vita cristiana, il bisogno di trovare una via più sicura verso una più grande felicità, non attueremo le condizioni di un completo equilibrio spirituale. Certo, dovremo passare attraverso la croce, ma essa sarà come una operazione chirurgica, che guarisce noi e gli altri.
Bisogna passare per essa, guardando al di là.
Non sapremo far meglio di Gesù stesso, che aveva paura di passare per l’agonia del Getsemani e per la croce del Calvario, perché aveva sete, una sete ardente di altro: della fine della sofferenza e della risurrezione e glorificazione della sua umanità.

Publié dans:preghiera (sulla) |on 18 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

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