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Giotto, virtù della fede, Cappella degli Scrovegni, Padova

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I VIZI CAPITALI. LUSSURIA: L’EROS SENZA PIENEZZA, DI GIANFRANCO RAVASI

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I VIZI CAPITALI. LUSSURIA: L’EROS SENZA PIENEZZA, DI GIANFRANCO RAVASI

Scritto da Redazione de Gliscritti: 19 /09 /2012 -

Riprendiamo dal sito di Avvenire un testo pubblicato il 7/7/2012 che riprende la relazione tenuta dal cardinale Gianfranco Ravasi a Spoleto nell’ambito delle Prediche sui vizi capitali per il Festival dei Due Mondi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Vedi anche Accidia: il demone della notte, di Pierangelo Sequeri, La superbia: un super-io contro Dio, di Rino Fisichella, La gola, di Andrea Lonardo. Sull’accidia, vedi anche L’accidia: il vizio nella vita spirituale e la lotta contro di esso, di Angelo De Donatis.

«Nella seduzione, beatitudine; / sciagura a prova fatta. / Un sorridente sogno, prima; / una chimera, dopo. / È cosa che chiunque sa bene. / Ma nessuno sa bene sottrarsi / al cielo che conduce gli uomini / in tale inferno». Ancora una volta è il genio di Shakespeare (Sonetto 129) a intuire nella trama di una vicenda erotica tutto il miele e il fiele che vi si celano. Gli approcci amorosi sono un mirabile gioco di seduzione che genera felicità e attesa. Tutto appare come un sogno dorato, un dolce vagheggiamento. Ti sembra di essere così lieve da toccare il cielo. Ecco, però, a questo punto il crinale: è significativo che spesso si usi un verbo brutale come “consumare” per indicare l’atto sessuale, quasi fosse un dare fondo a un piatto più o meno prelibato o esaurire una scorta di energia; anche la comune locuzione “fare all’amore” riduce una realtà così complessa e simbolica a un oggetto da manipolare e da modellare o a un atto da eseguire. Ora, se è vero, come affermava lo scrittore austriaco Karl Kraus, che «il vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e i diamanti» che hanno una base comune nel carbonio, cerchiamo innanzitutto di risalire alla matrice di partenza da cui di diramano la virtù dell’amore e il vizio della lussuria.

Sesso, eros, amore Il paradigma strutturale della sessualità umana ha il suo asse portante nella sua “simbolicità”. L’uomo assegna alla relazione sessuale, a differenza dell’animale, una molteplicità di valori ulteriori che travalicano la mera copula, il puro e semplice congiungimento carnale, regolato dall’estro e dall’istintività. Questa “eccedenza” è, quindi, di indole non fisica ma ideale e spirituale. Potremmo, perciò, ricomporre questa esperienza umana secondo tre livelli coordinati, che la lussuria invece scardina e deforma. Il primo è quello del sesso nella sua fisicità e biologicità: appetitus ad mulierem est bonum donum Dei, recitava un adagio medievale, che pur nella forma maschilista del tempo, ben illustrava la legittimità della pulsione sessuale, definita un “buon dono divino”. L’uomo e la donna, però, non si fermano a questo livello dinamico-istintuale, iscritto nella loro stessa organicità fisiologica. Essi ascendono a un piano superiore di natura squisitamente simbolica: l’eros, che è desiderio allusivo, passione, tenerezza, intuizione della bellezza, fascino, attrazione, fantasia, gioco dell’apparire e dello sparire, del velarsi e dello svelarsi. L’eros lascia, come nei testi poetici, ampi spazi bianchi che ciascuno colma con la sua creatività, con l’invenzione, l’intuizione, la proiezione verso significati ulteriori. Si ha, dunque, con l’eros – che non è da confondere con l’accezione popolare ora dominante, soprattutto nella forma già ridimensionata di “erotismo”, ove è spesso sinonimo di pornografia – un trascendimento della mera corporeità e carnalità. È, però, aperta una terza strada che porta a pienezza la parabola della sessualità umana. Si tratta del livello dell’amore che ingloba in sé e trasfigura le tappe precedenti, conducendo alla comunione e alla donazione reciproca. Illuminante, al riguardo, è lo straordinario poemetto biblico del Cantico dei cantici che, senza falsi pudori, esalta il rilievo della fisicità nella reiterata descrizione dei corpi dei due innamorati (cc. 4; 5; 7), ma che conduce all’ebbrezza di un eros fatto di passione e di fascino per approdare all’apice della mutua appartenenza dei due protagonisti, all’amore appunto. Due professioni di amore della donna del Cantico sono fondamentali per illustrare il vertice e la meta del paradigma descritto: “Il mio amato è mio e io sono sua… Io sono del mio amato e il mio amato è mio” (2, 16; 6, 3). Alla “meccanica” del sesso si associa lo sfarfallio creativo dell’eros che sboccia nella donazione d’amore. Questo trittico compone la completa e autentica sessualità umana. Scindere questa trama ideale e accontentarsi solo del primo livello, è quello che noi denominiamo come “lussuria”. Anche un eros del tutto sganciato da un’intimità d’amore – intimità che rende i due veramente “una carne sola”, ossia un’unica esistenza e corporeità (secondo il celebre asserto di Genesi 2, 24) – è ancora un’incompiutezza, una pienezza non raggiunta, una perfezione che aspira ad attuarsi. Infatti come suggeriva il teologo svedese Anders Nygren in un noto studio dal titolo Eros e agape (1930), a differenza dell’agápe che designa l’amore cristiano, l’eros è ancora possesso, è tensione verso la bellezza o il valore dell’altro per conquistarli; il partner rimane ancora per certi versi un oggetto, anche se trasfigurato. L’amore è, invece, donazione reciproca libera e gioiosa, che riconosce e crea il valore dell’altro in un’operazione al tempo stesso epifanica e creativa.

La logica della “liberazione” Ebbene, la lussuria rispetto alla trilogia appena illustrata segue un sistema alternativo che risponde a un’altra concezione. Si cancella la simbolicità radicale dell’umanità e ci si avvia verso una frammentazione e materializzazione della creatura umana. Cerchiamo, allora, di identificare alcune caratteristiche di questa logica che “perverte” l’armonia unitaria della triade. Un primo aspetto di questa nuova visione è la logica della “liberazione”, codificata nel mito del “corpo liberato”. Il punto di partenza è stata la ribellione a quelli che erano ritenuti vincoli repressivi, siano essi naturali o culturali. Si voleva elaborare un nuovo codice che non avesse norme, ma fosse solo retto dall’immediatezza, dall’“irregolarità”, dalla pulsione. Certo, non c’è bisogno di ricordare che sulla sessualità umana – a partire dalla depressione svalutativa introdotta dalla cultura greca riguardo alla corporeità, considerata tomba dell’anima – si era stesa una pesante stratificazione moralistica, ascetico-puritana. Essa aveva scardinato a suo modo l’interazione sesso-eros-amore: la stessa interpretazione allegorica del Cantico dei cantici, che trasformava quei corpi e quella coppia in evanescenti o trasparenti metafore spirituali dell’anima e di Dio, ne era una conferma emblematica. Da quell’eccesso spiritualistico si è precipitati nel polo opposto di una carnalità istintiva reiterata, spoglia di qualsiasi valore aggiunto che non fosse quello della spontanea e immediata fruibilità. Quello che Dante definiva un “seguir come bestie l’appetito” sessuale (Purgatorio 26, 84) è celebrato come liberazione da tabù oppressivi e repressivi. Si giunge anche al punto di concepire un modello che cancelli le differenze: pensiamo a certe rockstar che incarnano un indecifrabile androginismo, al traffico notturno dei travestiti, ai segni sessuali miscelati in combinazioni che forzano la stessa fisiologia umana. La scelta operata è un po’ quella che puntualizzava ancora Dante a proposito dei “peccator carnali”, cioè coloro “che la ragion sommettono al talento” (Inferno 5, 39). La qualità viene così ricercata attraverso l’eccezionalità stravagante. Lo spirito di emulazione riduce la sessualità a esercizio, a sfida, al ricorso a stimolanti sempre più eccitanti, a una pornografia sempre più bieca, all’imitazione che incide anche nel corpo attraverso la chirurgia estetica, capace di enfatizzare alcune componenti sessuali. Il sesso rimane, così, imprigionato nella sua materialità denudata da ogni segno simbolico, è solo “carne” e l’uso e l’abuso del nudo televisivo o pubblicitario ne è la continua attestazione. Mai come in questo caso si vede che la virtù calpestata non è tanto quella della castità quanto piuttosto quella della temperanza, e il vizio che può essere appaiato alla lussuria è quello di gola, come insegnava il film La grande abbuffata di Marco Ferreri.

La logica del possesso Un secondo aspetto della lussuria si esprime nella logica del possesso. Proprio l’incapacità dell’ammirare e vivere la qualità conduce a un accumulo di “quantità”: si moltiplicano le esperienze illudendosi che per questa via si raggiunga la profondità di un incontro. In realtà si rimane sempre a un contatto di pelle, a un accoppiamento che non ha neppure come effetto il piacere. Si configura, così, un vero e proprio mercato del sesso che mette “on-line” i suoi prodotti. Significativa è l’offerta sessuale virtuale attraverso Internet: una fredda e anonima consumazione di atti solitari, con la sicurezza di poter dominare l’altro, senza impegnarsi in un incontro di persone. Questa riduzione del dialogo amoroso a semplice acquisto e possesso di una serie di immagini mobili, di oggetti manipolabili, molto meno impegnativi del confronto interpersonale, era già stata configurata nella mitologia. È la figura virgiliana di Pigmalione, re di Tiro, che s’innamora talmente di una statua d’avorio della dea Afrodite, da desiderare di unirsi ad essa. Il mito ha, però, un esito liberatorio perché la dea fa vivere la statua, trasformandola in una donna che Pigmalione sposerà. Ben diverso è lo sbocco del cultore odierno di icone erotiche virtuali: egli in un certo senso si riduce ad aggrapparsi a una statua, a una cosa, in una forma maniacale di possesso. È ciò che è stato rappresentato, ad esempio, nel film Life size – Grandezza naturale, diretto nel 1974 da Luis Garcia Berlanga con Michel Piccoli nelle vesti di un dentista parigino che si fa pervenire dal Giappone una donna-bambola di gomma, anatomicamente completa e appunto di grandezza naturale, innamorandosene follemente e gelosamente.

La logica dell’eccesso Un altro film, ancora con Michel Piccoli ma anche con Gérard Depardieu e Ornella Muti, ci introduce in un terzo aspetto della lussuria, quello che potremmo definire la logica dell’eccesso. Il film, diretto da Marco Ferreri nel 1976 s’intitolava L’ultima donna e vedeva come protagonista un giovane professionista violento che, abbandonato dalla moglie, passa di amante in amante sempre con la voluttà del dominio e alla fine si decide a compiere su se stesso un’emblematica evirazione. Sì, perché l’eccesso conduce a impotenza. Il possesso, a cui prima si accennava, ti permette certo di acquistare quanto vuoi, più o meno, come accade per le auto che di solito la pubblicità associa a fanciulle discinte e provocanti: possedere l’una è come avere l’altra, con una gratificazione sociale e sessuale. Il ricco può ostentare un parco-macchine e un harem di ragazze. Questa dismisura incontinente ha come risultato paradossale la caduta della potenza sessuale e del desiderio, la saturazione e persino la paura. La donna, sempre più aggressiva ed eccessiva nella seduzione, spesso non attira ma allontana. E soprattutto questa esplosione pirotecnica di sessualità, che non è mai integrata da un tessuto di passione, di tenerezza, di vero eros e, naturalmente, di amore, alla fine ha come approdo la solitudine. Il grande mercato del sesso imbandito dalla pornografia virtuale o cartacea, esaltata da un’offerta esasperata ed estenuante, produce non la sazietà che colma lo spirito ma la nausea che genera anoressia comunicativa. L’uomo contemporaneo, libero da ogni vincolo, dopo aver percorso tutte le strade della trasgressione, si ritrova non pieno di esperienze ma colmo di vuoto e solitudine. In una raccolta di saggi intitolata suggestivamente La terra desolata dei teenagers (1990) Raymond Jalbert rappresentava così quelli che definiva “i ragazzi nello scantinato”, sepolti appunto nell’incomunicabilità di un oscuro bassofondo: “Occhi incollati alla tv, orecchie sigillate dalle cuffie, lasciato a se stesso, un estraneo in casa sua. Ma un giorno dovrà unirsi al mondo di sopra e non ce la farà a sopravvivere”. È incredibile, ma proprio quell’assoluta moltiplicazione di contatti sessuali immediati, ha prodotto isolamento perché l’uomo e la donna non sono organi sessuali in azione ma persone che col corpo devono non solo consumare ma comunicare la loro umanità.

La logica della spudoratezza C’è un quarto elemento che contribuisce a demolire l’armonia unitaria tra sesso, eros e amore: è la logica della spudoratezza. Si badi bene che non abbiamo parlato semplicemente di “impudicizia” che è il frutto scontato della lussuria, incapace di conoscere la delicatezza dello svelamento, dell’ammiccamento, della finezza. La spudoratezza è l’ostentazione non solo della nudità fisica ma anche di quella intima. Il filosofo Max Scheler giustamente osservava nell’opera dedicata al Pudore e sentimento del pudore (1933) che esso “consiste in un ritorno dell’individuo su se stesso, volto a proteggere il proprio sé profondo dalla sfera pubblica”. Ognuno calibra questa rivelazione secondo cerchi concentrici che vanno dall’intimità più intensa con chi ti ama e col quale sei in comunione di vita interiore fino alla chiusura più netta con chi ti è estraneo a cui riservi solo l’esteriorità che è, però, pur sempre un certo svelamento di sé (talora inconscio e incontrollabile). Oggi, invece, in certi programmi televisivi, che sono “osceni” anche nel senso etimologico del termine perché mettono sulla ribalta della scena vergogne di ogni genere, si assiste alla caduta di ogni pudore, proprio perché non esiste più la comunicazione modulata e personale, ma solo l’apparire volgare. Si vomita spudoratamente tutto il contenuto dell’anima, dopo essersi denudati anche sessualmente nell’impudicizia. Alla base di tutto questo c’è un nuovo imperativo dell’odierna comunicazione di massa: per essere bisogna apparire. E così, dopo aver mostrato corpo e cose, pur di essere apparendo, si svuota il repertorio segreto dell’intimità, a partire proprio dalle cosiddette “storie d’amore” che in realtà sono solo storie di sesso. La precedente logica del mercato ha qui una sua variante, rendendo pubblico e di proprietà comune ciò che dovrebbe essere personale e privato, in un colossale emporio in cui si vende ancora e solo sesso.

La logica della riduttività C’è una quinta e ultima forma di abbattimento del paradigma iniziale fatto di armonia tra sesso, eros e amore: è la logica della riduttività. È forte ai nostri giorni, in nome delle pur giuste autonomie delle scienze, la tentazione di procedere soltanto settorialmente, secondo statuti stabiliti e definiti, rendendo totalizzante ed esclusivo un solo approccio a una determinata realtà. Nel campo della sessualità un evento importante è stata l’introduzione della psicoanalisi. Il suo contributo è, al riguardo, di grande rilievo e non può certo essere marginalizzato. Basti solo evocare il nome di Sigmund Freud per riuscire a comprendere come, dopo di lui, non sia possibile anche al filosofo e al teologo moralista analizzare la sessualità senza tener conto delle interpretazioni e delle osservazioni dello studioso viennese. Detto questo, però, non si può condividere quella sorta di integralismo psicoanalitico che Freud alla fine ha imposto nella sua concezione della sessualità e della stessa persona umana. La legittimità di altri approcci permane; anzi, è necessario che i criteri di verifica e di giudizio di una realtà così complessa com’è l’uomo e la donna rimangano ancora in funzione. A nostro avviso l’anima umana, la psychè, comunque la si intenda, è molto più ampia della “psiche” freudiana e rivela altri livelli di manifestazione. Gli approcci esclusivamente psicologici o neurologici della sessualità, pur indispensabili, non riescono a esaurire la ricchezza e la grandezza del fenomeno umano e della sua sostanza metafisica e esistenziale. La logica della riduttività impedisce un’analisi globale, rispettosa della diversità e della molteplicità. Essa non riuscirebbe mai a spiegare, ad esempio, il senso della castità che non è un “andare vestiti tutti d’acciaio”, come diceva John Milton, pur grande poeta inglese. Un filosofo “laico” ma capace di evitare ogni riduzionismo come Salvatore Natoli nel citato Dizionario dei vizi e delle virtù (1996) scriveva acutamente: “Vi sono uomini di Chiesa che per primi sviano l’attenzione: proponendo una versione etico-moralistica della castità, ne impoveriscono il valore simbolico, impediscono l’insorgere di quello spaesamento che invita perfino gli estranei a domandarsi:… E se vi fosse dell’altro? Vi sono uomini che lo testimoniano nella loro carne secondo le antiche parole: Perché Tu hai già preso possesso delle mie viscere. E non sono folli, sono amanti. Amanti di Dio”. Parole folgoranti che inducono anche nel libertino deluso il sospetto e che insediano una bandiera di libertà ben diversa da quella impugnata da chi si illude che essa sventoli solo nell’eccesso e non nell’ascesi. A proposito di quest’ultima, è riduttivo concepirla come “rinuncia” perché in greco àskesis è “esercizio” e, quindi, è abilità, creatività, padronanza di sé. Il corpo dell’acrobata e della danzatrice classica sfida la gravità, si fa lieve, è dominatore perché è dominato, si libra nello spazio in libertà assoluta perché è controllato. Tutto questo sboccia non dalla corrività bensì dall’esercizio, dalla fatica che diventa bellezza, dalla rinuncia a un piacere per aver un godimento ben più emozionante e sublime.

“A immagine di Dio, maschio e femmina li creò” La lussuria tenta, dunque, brutalmente di tarpare le ali a un’ascensione verso il valore pieno e “simbolico” della sessualità umana, nella convinzione che sia l’agitarsi eccitato, frenetico e scomposto della libidine la grande possibilità di godimento, di felicità, di appagamento. Thomas Stearns Eliot nel Frammento di un agone (1922) sintetizzava in modo incisivo la brutalità riduttiva di una certa lettura della persona umana: “Nascita, copula e morte, / tutto qui, tutti qui, tutto qui, / nascita, e copula e morte. / E se tiri le somme, è tutto qui”. Ad andare oltre questo riduzionismo è in particolare la genuina teologia cristiana. Proviamo, allora, ad abbozzare un ritratto della persona secondo la Bibbia per intuire quale collocazione abbia la sessualità. Già si è visto – attraverso il Cantico dei Cantici – che la sua anima profonda è donazione, comunione totale, intimità personale. C’è, però, un altro passo che è posto “in principio” alla Bibbia stessa, quasi come un’asserzione di principio. Si legge, infatti, nella Genesi: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò” (1, 27). L’elemento curioso di questa dichiarazione non è semplicemente nell’assegnazione alla creatura umana di una “immagine divina” attraverso l’anima, quanto piuttosto nell’identificare tale “immagine” proprio nella bipolarità sessuale e, quindi, nella coppia maschio-femmina. È ciò che risulta dallo stretto “parallelismo” semitico che regge la frase: a “immagine di Dio” corrisponde appunto “maschio e femmina”. Dio, allora, è forse sessuato e, accanto a lui, si asside una compagna divina, come l’Ishtar-Astarte babilonese o la Giunone latina? La risposta è ovviamente negativa, sapendo con quanta asprezza la Bibbia polemizzi contro nozze e coppie divine e contro i culti della fertilità diffusi in tutta l’area dell’antico Vicino Oriente. Dio resta trascendente, ma la fecondità della coppia umana che ama e genera è parallela all’atto creativo divino, è un segno visibile del Dio creatore e salvatore. La vera effigie divina non è solo nell’uomo maschio, come vorrà una successiva tradizione giudaica, attestata da san Paolo che scriveva: “L’uomo è immagine e gloria di Dio, la donna è gloria dell’uomo” (1 Corinzi 11, 7). Il nostro legame “naturale” col Creatore è da cercare, al contrario, proprio nell’umanità in quanto comprende i due sessi, la capacità di unirsi e di generare, in ultima analisi di amare. Questa è l’antropologia teologica fondamentale che ha nel matrimonio e nella generazione la sua espressione capitale. Si comprende, allora, perché la morale cristiana abbia centrato nel matrimonio dell’uomo e della donna l’emblema della sessualità che si dona reciprocamente, in un’ideale pienezza di amore e di fedeltà. Si intuisce anche perché, a partire dai profeti (Osea è il primo, nell’VIII sec. a.C., sulla base di una personale esperienza matrimoniale travagliata) fino a Cristo stesso e a san Paolo (Efesini 5, 25-33), la teologia ha considerato l’unione nuziale come simbolo dell’alleanza tra Dio e l’umanità. È proprio su questo valore “simbolico” (nel senso reale e non metaforico del termine, capace cioè di “tenere insieme” divino e umano) che si è sviluppata la dottrina cattolica del matrimonio come sacramento: nell’atto sessuale nuziale, segno reale di amore e di donazione, non è solo in azione il Dio della vita ma si ha anche un’epifania dell’amore divino per l’umanità. In questa luce si comprende quanto sia lontana dalla genuina spiritualità cristiana uno spiritualismo disincarnato, che disprezzi corporeità e sessualità. L’equilibrio da raggiungere è, certo, delicato, ma non si conquista attraverso un’eterea astrazione dalla realtà concreta dell’essere umano che è appunto sesso, eros, amore. In sé la sessualità umana contiene un germe che può fiorire nel cielo della bellezza e dell’amore. Il vizio è limitazione, riduzione perché restringe e mortifica le potenzialità trascendenti che la persona umana ha in se stessa. Apparente celebrazione della libertà senza vincoli, la lussuria si ritrova incatenata alla bruta “consumazione”, alla reiterazione, all’isolamento possessivo. Ignora la creatività dell’eros autentico, i palpiti emozionanti del sentimento, il fascino della totalità insito all’amore. Il grande tragico greco Sofocle (V sec.a.C.). che pur conosceva i meandri oscuri e indecifrabili della sessualità, nell’Edipo a Colono concludeva: “Una parola ci libera da tutto il peso e il dolore di una vita: questa parola è amore”. E chi ha vissuto un amore pieno e genuino può comprendere senza esitazione ciò che un lussurioso non capirà e che lo scrittore francese François Mauriac così descriveva nel suo diario: “L’amore coniugale, che persiste attraverso mille vicissitudini, mi sembra il più bello dei miracoli, benché sia anche il più comune”.

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Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI, VIZI E VIRTÙ |on 17 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

«METAMORFOSI» DELL’AMORE. UN PERCORSO STORICO

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«METAMORFOSI» DELL’AMORE. UN PERCORSO STORICO

CARLO URBANI

Parlo d’amor vegliando, parlo d’amor sognando: all’acque, all’ombre, ai monti, ai fiori, all’erbe, ai fonti, all’eco, all’aria, ai venti che il suon de’ vani accenti portano via con sé… e se non ho chi m’oda parlo d’amor con me![1]

1. Premessa Il ricorso al valore semantico della parola «metamorfosi», in funzione di premessa a questa riflessione sul percorso delle trasformazioni dell’amore, consente di fare alcune utili avvertenze[2]. I primi due significati forniti dal Battaglia permettono un utile orientamento: da un lato, si tratta di un «processo di trasformazione, per lo più rapida e improvvisa di un essere in un altro di natura diversa», dall’altro, per estensione, un «cambiamento, passaggio graduale di una realtà da uno stato a un altro». Si tratterà, dunque, di leggere, interpretare e distinguere tra le apparenti «trasformazioni per lo più rapide» e i «passaggi graduali», tra i mutamenti e le continuità nel lungo periodo che, come per molti fattori dell’esistenza umana, caratterizzano l’esperienza dei legami affettivi. Accanto a questo aspetto è necessario premettere una seconda avvertenza, relativa alla questione di genere: ciò che possiamo dire del concetto di amore, per quanto riguarda i secoli che ci hanno preceduto, è condizionato dal fatto che chi ne ha trattato, chi ne ha ricavato elementi poetici, chi ha sofferto o gioito lasciandone una traccia sono maschi, perché pressoché gli unici ad avere il diritto a lasciare una testimonianza di sé in una società sessualmente discriminatoria. Il ruolo della donna, la possibilità per lei di uscire dalla condizione di emarginazione, saranno, come si vedrà, una componente decisiva per queste «metamorfosi»[3].

2. Tipologie dei legami affettivi nell’epoca classica È abbastanza noto come nella classicità il pensiero greco fosse giunto a riconoscere i legami affettivi in tre distinte tipologie di «amore»: l’attrazione sessuale, l’eros, personificato nella divinità armata di arco e frecce, capricciosamente alla ricerca di vittime da colpire; l’affetto, indiscriminato e illimitato (filìa), per tutto ciò che circonda i soggetti, siano persone (ad esempio, filantropia), cose (ad esempio, bibliofilia) o astrazioni (ad esempio, filosofia); il particolare legame di amore che è alla base dei rapporti familiari, chiamato stergo. Ma tra queste tre tipologie, indubbiamente è l’eros, per quanto riguarda il mondo classico, greco e romano, quello a caratterizzarsi per la maggior forza vitale, positiva e irrefrenabile, cosmologica: l’espressione sessuale era vissuta con immediatezza e disinvoltura, come manifestazione positiva di un salutare piacere edonistico, perciò scevra da qualsiasi valutazione di condanna delle pluralità di forme nelle quali esso si esprimeva, fossero eterosessuali ovvero omosessuali, bisessuali o giungessero ad assumere i caratteri ambigui della pederastia. Al tempo stesso, benché la morale greca e romana non contemplasse esplicitamente un giudizio negativo dei rapporti extraconiugali, la fedeltà coniugale gode, soprattutto a partire dall’età repubblicana, di uno status privilegiato, poiché gli equilibri istituzionali si fondano a partire dalla pax domestica di cui principali custodi sono le grandi famiglie e, all’interno di esse, le matrone[4].

3. La visione cristiana dell’amore come agape A questa tripartizione classica, l’incontro di culture tra il cristianesimo e l’ellenismo ha contribuito alla definizione di una quarta tipologia, l’agape o caritas, concetto che, nato a identificare il banchetto comune delle primitive comunità cristiane in obbedienza al comandamento dato da Cristo e all’istruzione dello stesso di fare memoria dell’ultima cena, tende rapidamente ad astrarsi in una serie articolata di significati come l’amore di Dio per le sue creature, l’amore del suo Figlio che per queste si sacrifica, l’amore reciproco dei credenti in lui, l’essenza stessa di Dio. I racconti evangelici, su cui si basano le prime forme comunitarie cristiane, non fanno mai alcun riferimento alla passione, all’eros, di cui rimangono poche, allusive, tracce in episodi come quello della peccatrice che si china a lavare e cospargere d’olio i piedi di Gesù (cf. Lc 7,36-50), ovvero in riferimenti a comportamenti sessuali giudicati immorali e, dunque, condannati (cf., ad esempio, Mt 5,32: «Chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio»). Al centro della vita cristiana, come già ricordato, viene collocata l’esperienza dell’agape, la caritas, nei suoi vari aspetti: «Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”» (Gv 21,15-17). Si tratta di una «rivoluzione» concettuale in cui, essendo essenziale la relazione biunivoca tra Dio e gli uomini, l’amore per i fratelli, i «prossimi», si dilata fino a comprendere nel numero di questi anche il nemico: «Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6,27-35). La passione amorosa da follia diventa, una volta orientata verso il Creatore, forza spirituale: il percorso di redenzione e avvicinamento a Dio-Amore diventa centrale negli scritti di san Paolo: «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo che rimbomba o un cimbalo che strepita» (1Cor 13,1-13). L’amore per l’altro, immagine di Dio, prende così il posto di quella dinamica creativa, cosmica, che la classicità attribuiva alle manifestazioni carnali della passione erotico-amorosa, finendo per trasformarsi, in molti Padri della chiesa, in una diffusa sessuofobia. La subordinazione della sessualità alla sola finalità procreativa, inserita nel disegno originario di Dio, unita alla concezione dell’indissolubilità del matrimonio sancita dal carattere sacramentale, diventano nel tempo il contributo originale della concezione cristiana del matrimonio e – all’interno di esso – del ruolo della donna, destinati a diventare stabili e dominanti a partire dall’età medioevale[5]. L’evoluzione del concetto di amore e matrimonio fornisce un esempio di convergenza tra culture: la familia romana, posta dallo ius a fondamento del matrimonio, si incontra con l’interpretazione sacra del vincolo coniugale propria del cristianesimo, basata sul duplice binario del racconto biblico della primitiva coppia Adamo ed Eva e dell’allegorico legame sponsale tra Cristo e la sua chiesa fornito da san Paolo: «Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla chiesa!» (Ef 5,31-32).

4. Il valore assoluto della verginità A tale concezione del matrimonio corrisponde, come detto, una crescente repulsione ossessiva per le manifestazioni del sesso che trova ampio spazio nella letteratura patristica a partire dai secoli IV e V, e che vede in san Girolamo uno dei principali autori. Ne consegue, dunque, che alla sessualità venga contrapposta la verginità, innalzata a valore assoluto, quasi indispensabile per ottenere la salvezza eterna, altrimenti difficilmente raggiungibile, soprattutto per una donna[6]. Il modello della vergine diventa egemone nella vita della chiesa e in particolare nella pastorale che intende rivolgersi alle donne: prendendo a modello la parabola evangelica del seminatore, alle spose e madri cristiane viene prospettata per la vita eterna la raccolta di trenta volte quanto da loro sarà seminato, che diventerà il doppio se la sorte (o forse, meglio, la provvidenza) riserverà in futuro per loro la vedovanza, che sarà, in ogni caso, sempre meno del centuplo riservato alle vergini. La promessa dei doni della vita eterna, dunque, è elemento centrale attorno al quale ruota anche l’esperienza affettiva di uomini e donne in età medievale: se la riforma gregoriana aveva imposto, nell’XI secolo, il modello monastico del celibato anche ai preti secolari, tale impostazione graverà egualmente sulle donne, sui rapporti coniugali, sulle relazioni educative generazionali tra genitori e figli. La rassegna dei modelli di santità femminile, forniti dall’agiografia bassomedievale[7], illustra in maniera inequivocabile non solo la condizione della donna, ma anche la concezione occidentale dei temi dell’affettività e della sessualità. Due, infatti, sono le alternative che si pongono alle donne sposate per raggiungere la perfezione religiosa, che per le vergini e le vedove è scontata: il godimento sfrenato per i piaceri del sesso incanalato nel matrimonio, dal quale solo uno choc può liberare, come avverrà per Margherita da Cortona che, sconvolta dalla vista del cadavere del suo seduttore, viene ammessa tra le penitenti, o per Angela da Foligno che verrà accolta dai frati minori dopo un’«esemplare» dissolutezza sessuale; oppure la forzata unione coniugale, vissuta con soggezione e dolore, quando non con vera e propria ripugnanza, tali da convincere il coniuge a condurre una vita di castità, come per Umiliana dei Cerchi, liberata dalla morte del marito lussurioso e usuraio, o Umiltà da Faenza, soccorsa nella sua condizione di «moglie forzata» dalla cagionevole salute del marito, per la tutela della quale i medici prescrivono la castità. Non sappiamo quale sia stata la diagnosi per la malattia di Ugolotto, marito di Umiltà, ma le conoscenze in campo medico dell’epoca non erano particolarmente avanzate rispetto ai tempi di Diocle di Caristo, il quale, ancora nel IV secolo a.C., raccomandava di astenersi dai rapporti sessuali nella stagione estiva, permettendoli solo agli «individui freddi, umidi, atrabiliari e flatulenti». Il medico Bernardo Gordonio (1282-1318), ad esempio, nella Practica, lilium medicinae nuncupata, diagnosticava ancora il cosiddetto Amor eremnòs (fosco), inserendolo tra le maliconicae passiones, che vanno collocate tra le malattie del cervello; la terapia da questi indicata prevede che una donna, meglio se di sgradevole aspetto, ponga sotto il naso dell’innamorato una camicia macchiata di sangue mestruale dell’amata pronunciando queste parole: «Talis est amica tua»[8].

5. Il passaggio tra medioevo e l’età moderna La concezione della passione amorosa come cosa pericolosa, contrapposta all’eros, propria degli antichi, sopravvive ancora nel XIV secolo malgrado la rivoluzione prodotta dalla concezione dell’amore cosiddetto «cortese», elaborato nella società feudale del medioevo, all’interno, naturalmente, delle classi alte e nobiliari e in modo quasi esclusivo rivolto alle componenti maschili. Infatti, nell’intreccio tra cristianesimo, sviluppo economico e trasformazioni sociali, che segna l’epoca in cui si chiude il medioevo e si profila all’orizzonte l’età moderna, si vengono a creare le condizioni favorevoli per i significativi mutamenti nella concezione amorosa. Se fino ai secoli XI e XII l’uomo medioevale vedeva l’amore come un’esperienza travolgente, un piacere difficilmente conciliabile con il rigore della morale cristiana, con la letteratura trobadorica di Linguadoca prende avvio il culto dell’amore non realizzato e infelice[9]. Andrea Cappellano, nel Trattato d’amore (fine del XII secolo), definisce l’amore come una passione innata, mossa dalla continua vista e dal pensiero dell’altro. La novità consiste nella dissociazione tra il pensiero e l’azione; non vi è alcun atto sessuale, ma, al contrario, l’amore vive e si alimenta continuamente solo dallo struggente pensiero dell’altro. Nasce una nuova tipologia di sentimento amoroso, che si discosta sia dall’eros classico che dall’agape cristiana: la tirannia d’amore, che con sé porta anche un nuovo rapporto con la morale e un nuovo approccio al sacro. L’amore profano, l’attrazione dell’uomo per la donna, diventa moralmente lecito e inizia ad assumere il carattere di una cartina al tornasole che restituisce all’individuo l’orizzonte del suo corretto operare: la fedeltà, l’impegno, l’onore esprimono i sentimenti per l’amata al modo stesso in cui si traducono contemporaneamente in un’etica sociale. Rimane da capire se queste tematiche dell’amore cortese abbiano reali risvolti nelle pratiche amorose del tempo; la risposta non è facile, tuttavia è necessario registrare questo cambiamento di mentalità, almeno a livello intellettuale. Non mancano, infatti, alcune questioni che rimangono aperte e insolute, alcuni principi apertamente incongruenti: i principali, tra questi, sono la dichiarata incompatibilità tra amore e matrimonio, la dissociazione tra la sublimazione dei rapporti amorosi e il riconoscimento dell’erotismo come impulso naturale insito nell’uomo e nella donna, arrivando a distinguere tra amore naturale, in sostanza orientato alla procreazione, e amore «cortese».

6. Come raffigurano l’amore Boccaccio e Petrarca Si tratta di questioni e incongruenze che si possono individuare, esemplarmente, nell’opera dei due tra i principali autori italiani le cui rappresentazioni dell’amore hanno fornito le basi alle concezioni più diffuse dell’età signorile e cortigiana fra Quattro e Seicento: Giovanni Boccaccio (1313-1375) e Francesco Petrarca (1304-1374). Per il Boccaccio si tratta, in un certo senso, di recuperare la concezione classica dell’attrazione amorosa come forza della natura, che dà felicità solo quando è appagamento fisico. La migliore esemplificazione viene dalla novella che introduce la quarta giornata del Decameron[10], nella quale Filippo Balducci, «uomo di condizione assai leggiere, ma ricco e bene inviato ed esperto nelle cose», rimasto vedovo, quasi seguendo il modello agiografico fornito dalle sante medievali, si decide per una vita ritirata «al servigio di Dio […] sopra Monte Asinaio», costringendo alla vita eremitica anche il figlio, fino a quando questi non si imbatte nell’altro sesso: E così domandando il figliuolo e il padre rispondendo, per avventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne e ornate, che da un paio di nozze venieno; le quali come il giovane vide, così domandò il padre che cosa quelle fossero. A cui il padre disse: «Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ch’elle son mala cosa». Disse allora il figliuolo: «O come si chiamano?». Il padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disiderio men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse: «Elle si chiamano papere». Maravigliosa cosa a udire! Colui che mai più alcuna veduta non n’avea, non curatosi de’ palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de’ danari né d’altra cosa che veduta avesse, subitamente disse: «Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere». Nell’orizzonte poetico ed etico del Boccaccio, l’amore, poiché disposizione naturale, sfugge ai freni e alle condanne della morale cristiana; se la famiglia, il matrimonio, lo stato religioso, le differenze, le convenzioni e le rigidità sociali si frappongono al desiderio, per Boccaccio a prevalere sarà sempre la spinta amorosa che contiene in sé una vitalità e una dignità maggiori e più etiche di qualsiasi altro valore. Viceversa l’amore per Laura, cantato dal Petrarca nel Canzoniere, è una fiamma ardente che presenta tutte le caratteristiche del peccato straziante, per un’anima cristiana preoccupata della propria salvezza, al punto da spingerlo a desiderare contemporaneamente la passione amorosa e la purificazione spirituale. Come per i modelli della santità femminile medievale, il punto di conciliazione sarà raggiunto solo con la morte dell’amata. Questa concezione petrarchesca è destinata e diventare modello codificato nell’Europa tra XV e XVII secolo, creando una serie di norme comportamentali largamente condivise, per lo meno dal significativo circuito letterario[11], a fianco delle quali, tuttavia, non difetta la presenza di orientamenti di diverso segno, come una certa sopravvivenza dell’amore «cortese», l’indiscutibile influsso esercitato sul costume dalla nuova posizione sociale della famiglia e dal posto che in essa comincia ad avere l’amore coniugale[12], la progressiva tendenza a disgregare per così dire dall’interno il modello petrarchesco, fino a dare spazio a un’espressione nuova e più tormentosa dell’amore, che trova la sua sintesi codificante nel lirismo tragico shakespeariano dei drammi e delle commedie di tema amoroso (Romeo e Giulietta, Pene d’amor perdute, Otello), ma anche la spiritualizzazione, piuttosto diffusa nel XVII secolo, delle pulsioni erotico-sesssuali in estasi mistica e spirituale[13].

7. La reazione del concilio di Trento E proprio dalla riflessione teologica, nel contesto in cui maggiormente si esprime la «reazione» alle istanze riformatrici del primo Cinquecento, vale a dire in quel concilio di Trento che plasmerà la chiesa cattolica (e, almeno in parte, anche la società europea) dei successivi secoli, arriva un segnale importante e innovativo di attenzione nei confronti delle esigenze affettive degli individui. Si tratta del IX capitolo del canone di riforma dedicato al sacramento del matrimonio e approvato dal concilio l’11 novembre 1563[14]; vi emerge la consapevolezza che nella decisione di contrarre matrimonio un ruolo centrale deve essere affidato alla volontà e alla libertà degli individui. Ciò diventa diritto, se non prassi, almeno codificato: E poiché è sommamente empio che sia violata la libertà del matrimonio e che le ingiustizie nascano proprio da coloro, da cui si dovrebbe attendere l’esatta osservanza delle leggi, il santo sinodo comanda a tutti – di qualsiasi grado, dignità e condizione – sotto pena di scomunica ipso facto, di non voler impedire in nessun modo, direttamente o indirettamente, ai loro sudditi o a qualsiasi altro, di contrarre liberamente matrimonio. Al canone di riforma si accompagna il decreto Tametsi, approvato lo stesso giorno, il quale, stabilendo l’obbligo della celebrazione pubblica del sacramento davanti al parroco, la notificazione della celebrazione con un congruo preavviso, la registrazione dello stesso[15], se da un lato intende disciplinare la società europea all’interno di un orizzonte confessionale, dall’altro introduce un’apertura verso i desideri, le scelte degli individui destinati nel tempo a cercare di imporsi; così, in Francia, un secolo più tardi, si potrà verificare il caso: Una donna di sedici anni il cui marito si chiama Beaudoin, [la quale] dichiara ad alta voce che non amerà mai suo marito, che non c’è nessuna legge che lo ordini, che ognuno è libero di disporre del proprio cuore e del proprio corpo a suo piacimento, ma che è una specie di delitto dare l’uno senza l’altro costringendo il luogotenente di polizia ad ammettere che: Le ho parlato due volte e, benché abituato da molti anni ai discorsi impudenti e ridicoli, non ho potuto impedirmi di essere sorpreso dai ragionamenti con cui questa donna sostiene il suo sistema[16]. 8. Dal secolo dei Lumi ai giorni nostri: l’emergere dell’amore romantico Nel secolo dei Lumi la riflessione sul tema dell’amore subisce, inevitabilmente, i contraccolpi del prepotente affermarsi della speculazione scientifica: le indagini mediche condotte sulla fisiologia umana guardano con rinnovato interesse a tutto l’insieme della natura umana, così da avviare ampie e sistematiche esplorazioni che, partendo dal sistema riproduttivo, si ampliano verso i sensi, i «sentimenti», gli «umori», la vita interiore, mettendo in discussione gli effetti della «passione amorosa», fino a giungere all’indagine psicologica sulle conseguenze patologiche della seduzione, dell’innamoramento, del tradimento, non solo per la vita individuale delle persone, ma anche nei risvolti sociali[17]. Temi che trovano nelle costruzioni narrative del romanzo, un genere letterario originale, così come nell’introspezione dei «giornali dell’anima» o nelle autobiografie, il loro naturale svolgimento. Ma la contestazione critica degli esiti destabilizzanti dell’amore interpretato senza freni si presenta anche attraverso la manifestazione del nuovo pensiero libertino, che derivando dal pensiero ateo e materialista sviluppatosi nel Seicento, assume un più specifico significato sessuale con l’esplicita allusione alla licenza o, meglio, «libertà» sul piano dei costumi di cui, evidentemente, figure come quella di Giacomo Casanova (1725-1798) diventano i modelli[18]. Protagonista di questo pensiero è la nuova società borghese, artefice e al tempo stesso prodotto delle rivoluzioni economiche, politiche e culturali del XVIII secolo, che elabora poco a poco un nuovo sistema di riferimento, capace di creare un modello più coerente e in grado di coinvolgere anche più larghi strati della società: amore e sentimento, passione e affetto vengono ricondotti in un unico rapporto, compiuto e selettivo, destinato a diventare per se stesso eternamente felice, nel quale, come avviene nella vita del nuovo individuo borghese, imprenditore di se stesso, il soggetto protagonista diventa «la coppia», o, meglio ancora, i due individui da cui è essa composta, diversi, coscienti della propria individualità, alla continua ricerca della definitiva ricomposizione con l’unica possibile «metà». Nel modello proposto dall’amore romantico, oltre alla riproposizione del mito platonico, si manifestano alcuni elementi di indubbia novità, sui quali emerge, con una straordinaria capacità di incidere nel profondo della società europea, il notevole investimento affettivo di cui viene caricata la struttura del matrimonio, luogo nel quale diventa possibile, anzi si potrebbe dire che vi sia come sbocco inevitabile l’amore eterno. Se ostacoli interni, di condizioni, di comunicazione, di diversa intensità e orientamento delle passioni, sembrano rendere chimerica l’attuazione pratica di questo «amore eterno», il nuovo ruolo assegnato alla donna, capace di affermarsi e di pretendere un posto paritario, costringe a pensare a nuovi equilibri: non più una coppia gerarchicamente costituita, ma un rapporto alla pari.

9. Le metamorfosi, le trasformazioni Si sarebbe tentati di dire che la liberazione sessuale, l’amore libero degli anni ’60 del XX secolo abbiano comportato un’ulteriore «metamorfosi», con il loro carico di immaginazioni affabulatorie (l’aborto, il divorzio, l’esplicitazione dei gesti e delle forme dell’erotismo) e, tuttavia, non possiamo non notare la persistenza di alcuni elementi caratterizzanti la cifra narrativa dell’amore «romantico». Come interpretare altrimenti l’esigenza, ad esempio, di un riconoscimento anche per coppie omosessuali di una forma di unione di tipo «coniugale», se non come il permanere del valore della struttura del matrimonio? E come interpretare la «paura del tradimento» che «genera mostri» come, per fare un esempio, l’anello «Anti-cheating», grazie al quale è possibile stabilire «il prezzo della fedeltà [che] è di 550 dollari (442 euro), cioè quanto bisogna spendere per l’anello proposto dall’azienda The Cheeky». Si tratta finalmente della soluzione (peraltro non definitiva, come avvisa la stessa ditta) per prevenire l’adulterio di mariti e mogli indisciplinati: l’anello marchia sul dito le parole «I’m married»[19].

[1] L. Da Ponte, Le nozze di Figaro (Commedia con musiche di W.A. Mozart), Vienna 1 maggio 1786. [2] Metamorfosi, in S. Battaglia (ed.), Grande dizionario della lingua italiana, vol. X, Utet, Torino 1978, p. 257. [3] Senza pretesa alcuna di fornire una esaustiva bibliografia sull’argomento, si segnalano alcuni, significativi, testi: J. Solé, Storia dell’amore e del sesso nell’età moderna, Laterza, Roma 1979, P. Ariès, I comportamenti sessuali. Dall’antica Roma a oggi, CDE, Milano 1985, E. Borneman, Dizionario dell’erotismo. La fisiologia, la psicologia, le pratiche, l’immaginario, la patologia, la storia dell’amore e del sesso, BUR, Milano 1988, H.E. Fisher, Anatomia dell’amore. Storia naturale della monogamia, dell’adulterio e del divorzio, Longanesi & C, Milano 1993, M. Foucault, Storia della sessualità, Feltrinelli, Milano 1994, G. Duby, Medioevo maschio. Amore e matrimonio, Laterza, Roma 2002. [4] Si consideri, inoltre, il ruolo centrale del pius Enea e il suo esempio di pater familiae, nel mito fondativo di Roma e della sua societas. [5] Fin troppo evidente il riferimento a Ef 5,22: «Le mogli siano sottomesse ai loro mariti, come al Signore»; la donna deve sottomettersi al marito poiché «il marito è capo della moglie, così come Cristo è capo della chiesa». [6] Cf. Duby, Medioevo maschio, cit., passim. [7] Su questo si veda J. Dalarun, Santa e ribelle. Vita di Chiara da Rimini, Laterza, Roma 2000, ad indicem. [8] Cit. da Borneman, Dizionario dell’erotismo, cit., pp. 27-28. [9] Per la derivazione dell’amore cortese dalla concezione dualistica catara, spirito-carne, si veda D. de Rougemont, L’amore e l’Occidente. Eros, morte, abbandono nella letteratura europea, BUR, Milano 20063 (or. 1972). [10] G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Einaudi, Torino 19916, pp. 464-465. [11] Si pensi, solo per fare alcuni nomi noti, agli Asolani di Pietro Bembo, al Cortegiano di Baldassarre Castiglione o all’opera di Jacopo Sannazzaro. [12] È collocabile tra il 1430 e il 1440 il trattato di Leon Battista Alberti Della famiglia, nel quale esamina la centralità della famiglia nel contesto sociale (cf. L.B. Alberti, I libri della famiglia, in Id., Opere volgari, vol. 1, a cura di C. Grayson, Laterza, Bari 1960, pp. 3-341). [13] Ne dà un celebre esempio Giovanni della Croce: «Le similitudini non lette con la semplicità dello spirito d’amore e dell’intelligenza che a esse conducono, sembrano piuttosto più stranezze che parole dette con ragione. Come si può vedere nel Cantico divino di Salomone e in altri libri della sacra Scrittura», cit. da Juan de la Cruz, Cantico spirituale, a cura di S. Arduini, Città Nuova, Roma 2008, p. 30. [14] G. Alberigo (ed.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta, EDB, Bologna 1991 (COD), pp. 755-759. [15] Analoga disposizione, peraltro, era già prevista dal can. 51 del concilio Lateranense IV (1215): «Estendiamo, perciò, in generale la consuetudine vigente in alcuni luoghi e stabiliamo che, quando si deve contrarre matrimonio, i sacerdoti li pubblichino nelle chiese e si stabilisca un termine entro il quale chi volesse e potesse dimostrarlo opponga legittimo impedimento. I sacerdoti, poi, cerchino di investigare anch’essi se vi sia qualche impedimento. E se si presenta qualche sospetto degno di considerazione contro questa unione, il contratto sia senz’altro sospeso, finché appaia chiaramente il da farsi» (COD, p. 258). [16] Cit. da M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, a cura di M. Galzigna, BUR Rizzoli, Milano 2011, p. 234. [17] Si veda, ad es., il saggio di Madame de Staël, De l’influence des passions sur le bonheur des individus et des nations, in Id., Oeuvres complètes I. Oeuvres critiques, sous la direction de F. Lotterie, Champion, Paris 2008. [18] Non va dimenticato, tuttavia, che dietro il concetto di «libertinismo» si nasconde qualcosa di più ampio rispetto alla sola «libertà dei costumi», che riguarda l’esplorazione di nuove espressioni di una libertà più ampia, su cui non è possibile qui insistere. [19] Ne ha parlato E. Burchia, La fede antiadulterio che marchia il dito. Inventata da una società per scoraggiare i fedifraghi, in «Corriere della sera» del 28 giugno 2012.

Publié dans:AMORE (L'), STORIA |on 17 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

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