Archive pour le 12 novembre, 2015

Paternitas (New Testament Trinity)

Paternitas (New Testament Trinity) dans immagini sacre otechestvo

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Publié dans:immagini sacre |on 12 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

IL VOLTO NUOVO DEL FIGLIO DI UN SORRISO (SALMO 131)

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=123837

IL VOLTO NUOVO DEL FIGLIO DI UN SORRISO (SALMO 131)

lo sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia.

Il brevissimo Salmo 131 è composto di soli tre versetti, il terzo dei quali riprende il v. 7 del Salmo 130, con lo stesso verbo in ebraico. Il Salmo 131 è così legato al precedente, al modo di una strofa aggiuntiva. Là si parla della redenzione dell’intero Israele, entro la quale si svolge la vicenda di confessione e di perdono nella quale è trasformato il nostro pellegrino. È un evento pasquale: passaggio e risurrezione. Questo evento fa del singolo fedele un segno di redenzione per tutto il popolo. Il Salmo 131 costituisce un momento di intenso raccoglimento meditativo – come un sussurro – ma in grado di manifestare la novità che l’opera redentiva di Dio realizza per la salvezza del mondo. Un sussurro, tenue e soave, eppure espressione di un momento di pienezza pacificata nell’esperienza del perdono. Il testo si divide in due strofe – VV. 1 e 2 – e un ritornello conclusivo: v. 3. La prima è costituita da tre negazioni. È la fine di un tempo e si dice quel che non è più. La seconda riporta un’affermazione: la novità ormai instaurata. La fine di un tempo e l’inaugurazione di un tempo nuovo.

SALMO 131 Canto delle ascensioni. Di Davide. Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze. 2 lo sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia. 3 Speri Israele nel Signore, ora e sempre. Cuore, volto e mano di fronte a Dio

La prima strofa. Per tre volte «non». Si comincia con la invocazione del Nome di Dio e così si finirà al v. 3. Si augura a tutto il popolo l’incontro con il Signore vivente che ha determinato la novità di cui il nostro pellegrino può costituire un segno. Dice che è finito il tempo in cui il cuore si inorgogliva, lo sguardo era superbo e i passi erano orientati verso la realizzazione di grandi imprese. Si noti la terna citata: il cuore, lo sguardo, i passi. È una di quelle teme che danno una completa descrizione antropologica, nel linguaggio biblico. Siamo dinanzi a una rielaborazione raffinata di una tema di dimensioni umane che possono essere identificate con il cuore, il volto e la mano. La vita umana è queste tre cose, non ha semplicemente questi tre elementi. Il cuore significa l’interiorità segreta, il mistero profondo, la sede interiore dove si ascolta, si pensa, si progetta e si attuano decisioni circa l’intera esistenza. Il cuore ha le sue traversie, ha durezze e chiusure sempre possibili; si impietrisce e si ripiega su se stesso. Può non ascoltare o restare indeciso, senza progetti. L’uomo è un cuore e poi anche un volto: sacramento visibile del mistero imperscrutabile che è custodito nel cuore umano. L’invisibile identità profonda ha una trasparenza visibile nel volto; attraverso il volto, il cuore può ricevere e trasmettere: il volto, con la sua complessità e la sua mutevolezza. In esso spiccano gli occhi e la bocca. Con entrambi si assimila e si trasmette. Il volto può essere tenebroso e mascherato: chi lo purificherà e gli darà quella bellezza che il Creatore ha voluto imprimere in esso per potercisi specchiare? Infine la mano, lo strumento dell’operatività. Nel nostro Salmo si parla del piede e dei suoi passi: gesti con cui è efficace la propria presenza nel mondo, presenza progettata e voluta nel cuore. Anche a proposito della mano – o del braccio o della gamba – lo stato di peccato e di decadenza fa sì che possa essere strumento di potere violento. Eppure la mano è stata data all’uomo perché sia pronta a benedire, perché sia laboriosa e capace di segni di comunione; è stata creata per essere aperta, paziente. Chi libererà la mano dell’uomo? Chi la costringerà ad aprirsi? Tutta la storia della salvezza si condensa nell’evento decisivo della Pasqua del Figlio dell’Uomo che muore e risorge: l’evento nuovo è un uomo dal cuore puro, dal volto luminoso e dalla mano aperta. Quest’uomo dal cuore puro è sapiente e libero e sa come interferire nei progetti del nostro cuore. Egli è il Figlio di Dio che scandaglia il cuore umano e ne scioglie la durezza. Egli ha un volto luminoso e lo offre come specchio perché il volto mascherato dell’uomo finalmente perda la propria menzogna e si specchi nella immagine esemplare di Lui: l’icona che è secondo il compiacimento di Dio. È il volto bellissimo per eccellenza… e si manifesta segnato dal dolore, piagato e orrendo, coperto da ogni vergogna umana perché noi possiamo cessare di nascondere la nostra vergogna. In Lui ritroviamo luce e bellezza, quelle che il Creatore si attendeva fin dall’inizio nel dialogo e nel confronto con la sua creatura. Nella pienezza dei tempi il Figlio di Dio è colui che si consegna nelle nostre mani. È Lui che viene colpito, aggredito e gettato via. Egli ha mani aperte, da povero; mani di colui che si arrende, mani del Crocifisso e Risorto. Sono le nostre mani di uomini, assuefatte alla violenza, che si sono strette su di Lui e poi perdono la presa, ridotte all’impotenza e sconfitte. L’aggredito apre le sue mani e benedice, mentre – vivente e glorioso – sale al Padre. Allora noi siamo costretti alla resa. C’è un povero in mezzo a noi che libera il cuore umano; c’è uno svergognato in mezzo a noi che illumina il nostro volto e gli restituisce bellezza; c’è un derelitto, vittima della nostra violenza, che ci costringe ad aprire le mani perché siamo sconfitti. La nostra violenza si è scaricata addosso a Lui, che l’ha assorbi ta per intero con le mani alzate in gesto di resa. Il Salmo parla di queste cose fin dal v. 1. Il cuore può indurirsi. n verbo usato indica più esattamente l’azione di arcuarsi, di ingobbirsi su se stessi. Ora esso ha perso la sua gobba, si è spaccato, aperto. Non c’è medicina che valga a guarire il cuore umano, né delicato massaggio che possa addolcirlo: il cuore umano deve essere spaccato. Questo cuore non si difende più, fortificandosi in se stesso. Così lo sguardo non si leva con superbia, gli occhi non si affilano e tendono per ferire, come una lama minacciosa. Infine quest’uomo non si muove più per realizzare eventi spettacolari, per manovrare e manipolare. Il vortice delle grandi parate ha stancato quest’uomo, egli vuole riposare dal suo male orgoglioso e si arrende. Sono occhi bruciati dalla vergogna personale e dalla storia umana; occhi che hanno riconosciuto il Signore sofferente e la sua bellezza indicibile, che viene dal Padre. Nella vergogna del Signore anche l’uomo è accolto e i suoi occhi si aprono a pietà e compassione; e queste non passeranno più perché egli è svergognato insieme al suo Dio. Allora anche l’uomo è bello, nel Figlio Beneamato: e la mano è consegnata e, con lei, tutto il corpo, tutta la libertà, ambiguo strumento della ricerca di se stessi e della propria esaltazione. Ogni astuzia che cerca di addossare il proprio orgoglio alla comunità o alla causa cui si appartiene è smascherata: è impossibile santificare o nobilitare il proprio male quando si è di fronte al Crocifisso, come il malfattore di cui parla Luca. Questo malfattore riconosce in Gesù il salvatore che lo libera dal suo male orgoglioso, il male che è ormai superiore alle proprie forze voler giustificare. Un bimbo svezzato gioca sulla tana del serpente Ed ecco la seconda strofa, una affermazione molto bella: placata e zittita è la mia anima, come un bimbo svezzato rivolto a sua madre. Ecco chi sono io, ora. Placato il respiro e spenta la tensione inconcludente, la vita del nostro amico non è più agitata. Ma attenzione: potremmo essere disorientati da una immagine che coincidesse con la realtà di un neonato a suo agio in braccio alla mamma, quasi un ritorno alle realtà infantili. Non è così. Qui si parla di un bambino svezzato, uscito fuori da un rapporto simbiotico con la madre e dall’intimità con lei propria del lattante. Questo bambino non è più allattato, è stato sottratto al seno della madre: guarda altrove, ormai, e ha altri interessi. Sta in braccio alla madre, ma non la guarda. Guarda il padre, in dialogo con il mondo che lo circonda e con chi lo domina. Il termine «bimbo svezzato», in ebraico gamùl, compare in alcuni testi dell’Antico Testamento. Ne citiamo tre. Il primo è nella Genesi, al cap. 21. Per la prima volta si dice di un personaggio che è svezzato. È Isacco, figlio di Abramo. Il suo nome significa figlio del sorriso: il Signore insegna ad Abramo e a Sara a sorridere, a sperare in Lui. Isacco viene svezzato, nel cap. 21, e nel cap. 22 può seguire il padre verso il sacrificio. Ora è il figlio pronto per dire ‘amen’, per aderire alla volontà del padre. Così il personaggio del nostro Salmo. Il secondo testo è nel Primo libro di Samuele, al cap. 2. Qui è Samuele lo svezzato. Viene portato dalla madre al santuario perché vi dimori. Egli resta presso Eli e cresce con lui. Il bimbo svezzato è colui che ormai appartiene alla casa del Signore e in essa diventa profeta. Nel Vangelo di Luca, al cap. 2, Gesù viene trovato dai genitori nel tempio e, sgridato, dice loro che ormai deve occuparsi «delle cose del Padre», delle faccende della sua casa. Il terzo testo è nel libro di Isaia, al cap. 11. È un oracolo messianico, visione del mondo nuovo: l’agnello e il leone, l’arsa e il capretto insieme. Un bimbo si trastulla sulla tana del serpente: gamùl. È il Messia, svezzato, che addomestica il serpente. Egli è pronto alla battaglia decisiva, a inchiodare il serpente là dove egli stesso è pronto a essere inchiodato. Il serpente è trasformato in gioco e l’universo intero si rinnova. Quando il nostro personaggio si paragona a un bimbo svezzato non fa appello al nostro buon cuore, dunque. Stando in braccio alla madre il bimbo dell’immagine guarda alla volontà del Padre, lo segue e con lui lotta contro il male in una battaglia decisiva. Tutto questo senza garanzie o ripari: fino al limite estremo dove il Messia ci ha preceduti, contro una vipera sorda e velenosa. Quando ormai Paolo sta per concludere il suo viaggio, l’ultimo, in Atti 28, sbarca a Malta dopo una tempesta e viene morso da una vipera. Il morso, però, non lo danneggia ed egli scuote la vipera via da sé, nel fuoco. Nel Vangelo di Luca si parla di vipera nella predicazione di Giovanni il Battista. «Razza di vipere», chiama i giudei. Dall’inizio del Vangelo alla fine degli Atti tutta l’opera lucana è racchiusa da questa doppia testimonianza: il Battista chiama alla conversione i figli del serpente e Paolo è ormai sottratto alla pericolosità del suo morso, come bimbo svezzato e pronto per portare a compimento il ministero che gli è stato affidato.

 

BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE

http://www.gliscritti.it/approf/2009/papers/lonardo270609.htm

BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE

di Andrea Lonardo

Pubblichiamo un articolo scritto da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito Il Centro culturale Gli scritti (21/3/2009)

I primi battesimi in Roma debbono essere avvenuti certamente nel Tevere, prima che si giungesse all’edificazione di battisteri stabili, sempre comunque con acqua corrente, nel periodo costantiniano. Tertulliano, nel De baptismo, a cavallo fra il II ed il III secolo, ne accenna di passaggio, come un dato di fatto ovvio, solo per sottolineare che non bisogna badare alla diversità delle acque, come se ne esistessero di migliori o peggiori, poiché tutte ricevono la stessa forza sacramentale di rendere figli di Dio, per opera dello Spirito di Cristo: «Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!» Molti dei cristiani che accolsero Paolo a Roma devono aver ricevuto così il battesimo nel fiume a cui Roma deve la sua esistenza. I primi evangelizzatori dell’urbe, dei quali non si è conservato il nome, più volte scesero alle acque del Tevere insieme ai nuovi credenti che domandavano di ricevere il battesimo e più volte risuonò sulle rive del fiume di Roma la triplice domanda sulla fede in Dio Padre e nel Figlio e nello Spirito, forma primitiva del Credo cristiano che si svilupperà poi nel Simbolo degli apostoli e nel Credo niceno-costantinopolitano. Dalla Lettera ai Romani appare con chiarezza che la composizione della prima comunità cristiana doveva essere mista, comprendendo nel suo seno cristiani che provenivano sia dal giudaismo, sia dal paganesimo. Dalle attestazioni epigrafiche è ormai noto che la comunità ebraica era divisa in Roma, nel II-III secolo d.C., in sinagoghe ed è presumibile che molti di questi gruppi esistessero già in età neroniana. Se ne conservano, nelle epigrafi funerarie, 11 nomi: la sinagoga detta degli Ebrei (probabilmente la più antica, che doveva essere stata creata forse già al tempo dei Maccabei, nel II secolo a.C.), quella dei Vernaculi, quella detta degli Augustenses (probabilmente voluta dalla benevolenza dell’imperatore Augusto), quella detta degli Agrippini (voluta similmente da Marco Vipsanio Agrippa), quella dei Volumnenses (voluta forse da Volumnio, legato in Siria ed amico di Erode il grande), quella dei Campenses (dal Campo Marzio dove doveva avere il suo punto di riferimento), dei Suburenses (dalla Suburra, subito dietro i Fori imperiali, dove era certamente la sua localizzazione), quella dei Calcarenses (di più difficile localizzazione, forse verso l’antica Porta Collina), quella detta di Elaia (probabilmente a motivo della città greca da cui provenivano i suoi componenti), quella dei Tripolini e quella chiamata in greco tõn Sechenõn (termine di non univoca interpretazione). Le prime presenze ebraiche in Roma in ordine cronologico debbono essere situate nella zona di Trastevere, il primo quartiere nel quale vennero ad abitare gli ebrei di Roma, giunti al seguito dell’ambasciata dei Maccabei e poi, in gran numero, come schiavi, quando Pompeo conquistò la Giudea nel 63 a.C. La catacomba di Monteverde conserva molte epigrafi ebraiche proprio perché era il luogo di sepoltura dei primi ebrei romani residenti a Trastevere. Le iscrizioni rivelano la presenza di un gran numero di liberti che accedevano pian piano alla libertà; non si ha notizia, per il I secolo, di una vita culturale ancora particolarmente attiva nella comunità ebraica romana (l’unica personalità ebraica di rilievo intellettuale nella Roma del I secolo d.C., oltre a quelle neotestamentarie, è la figura di Flavio Giuseppe, che fu ospitato nella residenza di Vespasiano antecedente alla sua salita al seggio imperiale, luogo nel quale lo storico scrisse anche le sue opere, avendo pieno accesso agli archivi dello stato romano). Gli studi ipotizzano che a Roma vivessero all’epoca circa 15.000 ebrei – un numero simile alla consistenza attuale della comunità ebraica romana – sebbene tale cifra sia ampiamente opinabile, in quanto fondata su deduzioni e non su dati certi. Quando Paolo venne ad abitare in Roma in attesa del processo, nella forma di una custodia militare, invitò subito i “primi” tra i giudei (At 28,17), le autorità delle diverse sinagoghe, ad incontrarlo. Non è certa la localizzazione di questo evento. La tradizione vuole che Paolo abbia vissuto i “due anni interi” (At 28,30) della sua permanenza in libertà vigilata nell’urbe precisamente nel luogo dove sorge ora la Chiesa di San Paolo alla Regola, vicino Ponte Sisto e via Giulia. La Chiesa è stata restaurata proprio in vista dell’anno paolino e gli scavi sottostanti permettono di toccare con mano il livello dell’insula romana sulla quale fu edificata la chiesa. Oltre alla basilica di S. Prisca, il terzo luogo romano che rivendica una abitazione paolina è la Chiesa di S. Maria in via Lata (via Lata era l’antico nome dell’attuale via del Corso). La cripta di questa Chiesa permette di venire a contatto con il sottostante livello romano di età neroniana ed invita a venerare i luoghi nei quali, secondo la tradizione, avrebbero dimorato Pietro e Paolo, ma anche gli evangelisti Luca e Giovanni. Gli Atti e le lettere testimoniano che era proprio nelle case private che avveniva l’incontro delle comunità cristiane e la celebrazione dell’eucarestia. Personalità più abbienti della comunità dovevano possedere delle abitazioni spaziose e mettevano a disposizione i locali più ampi, probabilmente il triclinium, delle loro case per gli incontri. È certo, dai testi neotestamentari, che le riunioni fin dal I secolo erano già settimanali, scandendo il tempo a partire dal giorno della resurrezione del Signore; esse comprendevano la preghiera, la lettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento, al quale cominciavano ad aggiungersi gli scritti neotestamentari ancora indipendenti l’uno dall’altro), la predicazione di qualcuno degli apostoli o di personalità legate alla tradizione apostolica ed, infine, la fractio panis. Lo stesso Paolo è descritto due volte, negli Atti, presiedere la celebrazione dell’eucarestia, una prima volta proprio in una casa privata a Tròade (in At 20,11, dopo il miracolo della resurrezione del giovinetto che era morto cadendo per essersi addormentato a motivo della lunghezza della riunione che si era protratta fino a mezzanotte!) ed una seconda sulla nave che si dirigeva verso Malta, poco prima del naufragio (At 27,35). Quando Paolo ricorda ai Corinzi l’eucarestia che ha loro trasmesso dopo averla ricevuta a sua volta non ha in mente solo la consegna delle espressioni pronunciate da Gesù nell’ultima cena con il loro significato, ma, ben più significativamente, la tradizione stessa dell’evento liturgico che egli doveva aver presieduto nella comunità di Corinto e che aveva chiesto fosse perpetuato dai corinzi. Senza poterne così individuare con esattezza i luoghi, la città di Roma, con il suo fiume e con le sue insulae romane sottostanti le successive chiese, ricorda a tutti i molti luoghi nei quali Paolo e le prime comunità cristiane celebravano l’iniziazione cristiana di coloro che «il Signore aggiungeva a coloro che erano salvati» (At 2,48).

Publié dans:CHIESA NEI PRIMI SECOLI (LA) |on 12 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

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