Archive pour le 10 novembre, 2015

San Martino di Tours

San Martino di Tours dans immagini sacre StMartinTours

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SAN MARTINO VESCOVO DI TOURS – 11 NOVEMBRE

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SAN MARTINO VESCOVO DI TOURS – 11 NOVEMBRE                   

Martino nacque in Pannonia, l’odierna Ungheria, nel 316; era figlio di un ufficiale romano e fu educato nella città di Pavia, dove passò la sua infanzia fino all’arruolamento nella guardia imperiale all’età di quindici anni. A scuola Martino prese i primi contatti con i cristiani e, all’insaputa dei genitori, si fece catecumeno e prese a frequentare con assiduità le assemblee cristiane. La sua umiltà e la sua carità hanno dato vita ad alcune leggende tra cui quella in cui Martino incontrò un povero al quale donò metà del suo mantello; oppure quella dell’attendente che Martino considerava come un fratello, tanto da tenergli puliti i calzari. Ottenuto dall’imperatore l’esonero dal servizio militare, Martino si recò a Poitiers presso il vescovo Sant’Ilario, che completò la sua istruzione religiosa, lo battezzò e lo ordinò sacerdote. Tornò in Pannonia dove convertì la madre, quindi combatté gli Ariani a Milano, ma venne cacciato. In seguito si ritirò in Liguria, infine di nuovo in patria. Amante della vita austera e del silenzio, eresse il monastero di Ligugè, il più antico d’Europa, e quello di Marmontier, tuttora esistente.                      Essendo vacante la diocesi di Tours, nel 372 venne consacrato vescovo per unanime consenso di popolo. Accettò la carica con grande riluttanza, ma si dedicò con zelo all’adempimento dei suoi doveri episcopali, continuando la sua vita ascetica di preghiere e rinunzie e portando nella sua nuova missione il rigore dei costumi monastici, sempre vicino alla gente, soprattutto ai contadini più poveri.              Resse la diocesi per ben ventisette anni in mezzo a molti contrasti, anche da parte del suo stesso clero. Un certo prete Brizio arrivò persino a querelarlo; ma il vescovo lo perdonò dicendo: « Se Cristo sopportò Giuda perché io non dovrei sopportare Brizio? ». Stremato dalle fatiche e dalle penitenze, pregava il Signore dicendo:  » Se sono ancora necessario non mi rifiuto di soffrire, altrimenti venga la morte. » Morì a Candes e volle essere disteso sulla nuda terra, cosparso di cenere e cinto da un cilicio: era l’ 11 novembre del 397. I suoi funerali furono celebrati alcuni giorni dopo per dare il tempo ai suoi monaci di arrivare: ne erano presenti circa duecento. Sepolto nella cattedrale di Tours, la sua fama si diffuse in tutta la Francia, dove è ancora invocato come primo patrono della nazione. La sua tomba è meta di continui pellegrinaggi da tutto il mondo. Nell’arte San Martino è raffigurato sul cavallo mentre taglia il suo mantello; in Francia, nelle chiese a lui dedicate, è rappresentato come vescovo che distribuisce elemosine ai poveri.

LA LEGGENDA Era l’11 novembre: il cielo era coperto, piovigginava e tirava un ventaccio che penetrava nelle ossa; per questo il cavaliere era avvolto nel suo ampio mantello di guerriero. Ma ecco che lungo la strada c’è un povero vecchio coperto soltanto di pochi stracci, spinto dal vento, barcollante e tremante per il freddo. Martino lo guarda e sente una stretta al cuore. « Poveretto, – pensa – morirà per il gelo! » E pensa come fare per dargli un po’ di sollievo. Basterebbe una coperta, ma non ne ha. Sarebbe sufficiente del denaro, con il quale il povero potrebbe comprarsi una coperta o un vestito; ma per caso il cavaliere non ha con sé nemmeno uno spicciolo. E allora cosa fare? Ha quel pesante mantello che lo copre tutto. Gli viene un’idea e, poiché gli appare buona, non ci pensa due volte. Si toglie il mantello, lo taglia in due con la spada e ne dà una metà al poveretto. « Dio ve ne renda merito! », balbetta il mendicante, e sparisce. San Martino, contento di avere fatto la carità, sprona il cavallo e se ne va sotto la pioggia, che comincia a cadere più forte che mai, mentre un ventaccio rabbioso pare che voglia portargli via anche la parte di mantello che lo ricopre a malapena. Ma fatti pochi passi ecco che smette di piovere, il vento si calma. Di lì a poco le nubi si diradano e se ne vanno. Il cielo diventa sereno, l’aria si fa mite. Il sole comincia a riscaldare la terra obbligando il cavaliere a levarsi anche il mezzo mantello. Ecco l’estate di San Martino, che si rinnova ogni anno per festeggiare un bell’atto di carità ed anche per ricordarci che la carità verso i poveri è il dono più gradito a Dio. Ma la storia di San Martino non finisce qui. Durante la notte, infatti, Martino sognò Gesù che lo ringraziava mostrandogli la metà del mantello, quasi per fargli capire che il mendicante incontrato era proprio lui in persona. —————————– La vita di S. Martino è interessante e da ammirare. Tuttavia credo che per essergli fedeli conviene ammirarlo di meno e imitarlo di più. Certamente anche oggi, a distanza di 1600 anni dalla sua morte, possiamo seguire gli insegnamenti di S. Martino, uomo di preghiera, uomo di condivisione e uomo della Parola. Martino è stato un uomo di preghiera: era un uomo di Dio, nella sua vita la preghiera ha sempre avuto il primo posto. La sua prima preoccupazione, dopo l’arrivo da Poitiers, è stata quella di ritirarsi in un luogo separato, un eremitaggio, per consacrarsi totalmente nella calma e nel silenzio alla meditazione. La preghiera era al centro della vita monastica che egli conduceva con i suoi discepoli a Mamoutier. Sul letto di morte esclamò: « Lasciatemi guardare il cielo, così posso mettere già da adesso la mia anima sulla strada diritta verso il Signore ». Mettendo la preghiera al centro della sua vita, Martino imitò Gesù, il quale passava le notti in preghiera. La sua preghiera lo conformava alla volontà di Dio e gli permetteva di essere sempre in ascolto del prossimo. Questo primo messaggio di Martino è di grande attualità: il cristiano non può incontrare Dio e i suoi fratelli senza mettere la preghiera al centro della sua esistenza.                                           Martino fu uomo della condivisione: non ha mai smesso di praticare la carità. La famosa divisione del suo mantello ad Amiens ne è diventato l’esempio più evidente e più conosciuto. Per Martino la volontà di condivisione, soprattutto con i più poveri e i più miserabili, è radicata nel suo amore per Dio. È Dio stesso che ha inaugurato questa condivisione nascendo tra noi in Gesù suo Figlio. « Dio è amore », ripete S. Giovanni. Il cristiano risponde a questo amore entrando volontariamente nella relazione d’amore che Dio gli propone e cercando, a sua volta di entrare nella reazione d’amore, d’amicizia e di condivisione con tutti i suoi fratelli. Il cristiano non può incontrare Dio e i fratelli senza mettere la condivisione al centro della sua esistenza. Martino, uomo della parola: sia come monaco che come Vescovo di Tours, non ha smesso di annunciare la Parola di Dio con le sue azioni e le sue parole. I suoi uditori rimanevano colpiti nel profondo del loro cuore perché le sue parole si radicavano nell’intimità con Dio che aveva acquisito nella preghiera e nell’autenticità del suo incontro con il prossimo. Per saper annunciare bene la Parola, Martino ha sistematicamente inserito la sua azione nel quadro della vita monastica. Per lui solo la contemplazione può essere il motore efficace dell’azione, ha così privilegiato l’accoglienza di tutti i feriti e gli emarginati della vita e di tutti coloro che erano più lontani dalla Chiesa. Questo terzo messaggio di Martino, nostro patrono, è radicato nei due precedenti ed è anch’esso di attualità per noi. Il Concilio Vaticano II l’ha ricordato: tutti i cristiani sono responsabili e missionari nella Chiesa. La sua fedeltà a Dio e ai fratelli, il suo esempio di condivisione, la sua bontà, la sua carità, il suo amore per i poveri, ne hanno fatto un grande santo. Tuttavia un santo molto vicino a noi e molto umano, un santo che è e rimane per tutti noi un modello da imitare.

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BENEDETTO XVI – « IL DESIDERIO DI CONOSCERE DIO… È INSITO IN OGNI UOMO » (2013

http://www.collevalenza.it/Riviste/2013/Riv0213/Riv0213_02.htm

LA PAROLA DEL PAPA BENEDETTO XVI

Udienza Generale di Benedetto XVI del 16.1.2013

« IL DESIDERIO DI CONOSCERE DIO… È INSITO IN OGNI UOMO »                      

Digest di Antonio Colasanto   « Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla divina Rivelazione Dei Verbum, afferma che l’intima verità di tutta la Rivelazione di Dio risplende per noi «in Cristo, che è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la Rivelazione» (n. 2). L’Antico Testamento ci narra come Dio, dopo la creazione, nonostante il peccato originale, nonostante l’arroganza dell’uomo di volersi mettere al posto del suo Creatore, offre di nuovo la possibilità della sua amicizia, soprattutto attraverso l’alleanza con Abramo e il cammino di un piccolo popolo, quello di Israele, che Egli sceglie non con criteri di potenza terrena, ma semplicemente per amore… ». Lo ha detto Benedetto XVI questa mattina in apertura della catechesi del mercoledì nell’Aula Paolo VI. Nella storia del popolo di Israele possiamo ripercorrere le tappe di un lungo cammino in cui Dio si fa conoscere, si rivela, entra nella storia con parole e con azioni. Per questa opera Egli si serve di mediatori, come Mosè, i Profeti, i Giudici, che comunicano al popolo la sua volontà, ricordano l’esigenza di fedeltà all’alleanza e tengono desta l’attesa della realizzazione piena e definitiva delle promesse divine. Ed è proprio la realizzazione di queste promesse che abbiamo contemplato nel Santo Natale: la Rivelazione di Dio giunge al suo culmine, alla sua pienezza. In Gesù di Nazaret, Dio visita realmente il suo popolo, visita l’umanità in un modo che va oltre ogni attesa: manda il suo Figlio Unigenito; si fa uomo Dio stesso. Gesù non ci dice qualcosa di Dio, non parla semplicemente del Padre, ma è rivelazione di Dio, perché è Dio, e ci rivela così il volto di Dio. Nel Prologo del suo Vangelo – ha ricordato Benedetto XVI – san Giovanni scrive: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Vorrei soffermarmi – ha poi soggiunto – su questo « rivelare il volto di Dio ». A tale riguardo, san Giovanni, nel suo Vangelo, ci riporta un fatto significativo che abbiamo ascoltato ora. Avvicinandosi la Passione, Gesù rassicura i suoi discepoli invitandoli a non avere timore e ad avere fede; poi instaura un dialogo con loro nel quale parla di Dio Padre (cfr Gv 14,2-9). Ad un certo punto, l’apostolo Filippo chiede a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Filippo è molto pratico e concreto, dice anche quanto noi vogliamo dire: « vogliamo vedere, mostraci il Padre », chiede di « vedere » il Padre, di vedere il suo volto. La risposta di Gesù è risposta non solo a Filippo, ma anche a noi e ci introduce nel cuore della fede cristologica; il Signore afferma: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). In questa espressione si racchiude sinteticamente la novità del Nuovo Testamento, quella novità che è apparsa nella grotta di Betlemme: Dio si può vedere, Dio ha manifestato il suo volto, è visibile in Gesù Cristo. In tutto l’Antico Testamento è ben presente il tema della « ricerca del volto di Dio », il desiderio di conoscere questo volto, il desiderio di vedere Dio come è, tanto che il termine ebraico pānîm, che significa « volto », vi ricorre ben 400 volte, e 100 di queste sono riferite a Dio: 100 volte ci si riferisce a Dio, si vuol vedere il volto di Dio. Eppure la religione ebraica proibisce del tutto le immagini, perché Dio non si può rappresentare, come invece facevano i popoli vicini con l’adorazione degli idoli; quindi, con questa proibizione di immagini, l’Antico Testamento sembra escludere totalmente il « vedere » dal culto e dalla pietà. Che cosa significa allora – si è domandato Benedetto XVI – per il pio israelita, tuttavia cercare il volto di Dio, nella consapevolezza che non può esserci alcuna immagine? La domanda è importante: da una parte si vuole dire che Dio non si può ridurre ad un oggetto, come un’immagine che si prende in mano, ma neppure si può mettere qualcosa al posto di Dio; dall’altra parte, però, si afferma che Dio ha un volto, cioè è un «Tu» che può entrare in relazione, che non è chiuso nel suo Cielo a guardare dall’alto l’umanità. Dio è certamente sopra ogni cosa, ma si rivolge a noi, ci ascolta, ci vede, parla, stringe alleanza, è capace di amare. La storia della salvezza è la storia di Dio con l’umanità, è la storia di questo rapporto di Dio che si rivela progressivamente all’uomo, che fa conoscere se stesso, il suo volto. Proprio all’inizio dell’anno, il 1° gennaio, abbiamo ascoltato, nella liturgia, la bellissima preghiera di benedizione sul popolo: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,24-26). Lo splendore del volto divino è la fonte della vita, è ciò che permette di vedere la realtà; la luce del suo volto è la guida della vita. Nell’Antico Testamento – ha detto il Papa – c’è una figura a cui è collegato in modo del tutto speciale il tema del « volto di Dio »; si tratta di Mosé, colui che Dio sceglie per liberare il popolo dalla schiavitù d’Egitto, donargli la Legge dell’alleanza e guidarlo alla Terra promessa. Ebbene, nel capitolo 33 del Libro dell’Esodo, si dice che Mosé aveva un rapporto stretto e confidenziale con Dio: «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (v. 11). In forza di questa confidenza, Mosè chiede a Dio: «Mostrami la tua gloria!», e la risposta di Dio è chiara: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome… Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo… Ecco un luogo vicino a me… Tu vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (vv. 18-23). Da un lato, allora, c’è il dialogo faccia a faccia come tra amici, ma dall’altro c’è l’impossibilità, in questa vita, di vedere il volto di Dio, che rimane nascosto; la visione è limitata. I Padri dicono che queste parole, « tu puoi solo vedere le mie spalle », vogliono dire: tu puoi solo seguire Cristo e seguendo vedi dalle spalle il mistero di Dio; Dio si può seguire vedendo le sue spalle. Qualcosa di completamente nuovo avviene, però, con l’Incarnazione. La ricerca del volto di Dio riceve una svolta inimmaginabile, perché questo volto si può ora vedere: è quello di Gesù, del Figlio di Dio che si fa uomo… Lui è la pienezza di questa rivelazione perché è il Figlio di Dio, è insieme «mediatore e pienezza di tutta la Rivelazione » (Cost. dogm. Dei Verbum, 2), in Lui il contenuto della Rivelazione e il Rivelatore coincidono. Gesù ci mostra il volto di Dio e ci fa conoscere il nome di Dio. Nella Preghiera sacerdotale, nell’Ultima Cena, Egli dice al Padre: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini… Io ho fatto conoscere loro il tuo nome» (cfr Gv 17,6.26). L’espressione « nome di Dio » significa Dio come Colui che è presente tra gli uomini. A Mosè, presso il roveto ardente, Dio aveva rivelato il suo nome, cioè si era reso invocabile, aveva dato un segno concreto del suo « esserci » tra gli uomini. Tutto questo in Gesù trova compimento e pienezza: Egli inaugura in un nuovo modo la presenza di Dio nella storia, perché chi vede Lui vede il Padre, come dice a Filippo (Cfr.Gv 14,0).In Gesù anche la mediazione tra Dio e l’uomo trova la sua pienezza… Gesù, vero Dio e vero uomo, non è semplicemente uno dei mediatori tra Dio e l’uomo, ma è « il mediatore » della nuova ed eterna alleanza (cfr Eb 8,6; 9,15; 12,24); «uno solo, infatti, è Dio – dice Paolo – e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1 Tm 2,5; cfr Gal3,19-20). In Lui noi vediamo e incontriamo il Padre; in Lui possiamo invocare Dio con il nome di « Abbà, Padre »; in Lui ci viene donata la salvezza. Il desiderio di conoscere Dio realmente, cioè di vedere il volto di Dio è insito in ogni uomo, anche negli atei. E noi abbiamo forse inconsapevolmente questo desiderio di vedere semplicemente chi Egli è, che cosa è, chi è per noi. Ma questo desiderio si realizza seguendo Cristo, così vediamo le spalle e vediamo infine anche Dio come amico, il suo volto nel volto di Cristo. L’importante è che seguiamo Cristo non solo nel momento nel quale abbiamo bisogno e quando troviamo uno spazio nelle nostre occupazioni quotidiane, ma con la nostra vita in quanto tale. L’intera esistenza nostra deve essere orientata all’incontro con Gesù Cristo all’amore verso di Lui; e, in essa, un posto centrale lo deve avere l’amore al prossimo, quell’amore che, alla luce del Crocifisso, ci fa riconoscere il volto di Gesù nel povero, nel debole, nel sofferente. Ciò è possibile solo se il vero volto di Gesù ci è diventato familiare nell’ascolto della sua Parola, nel parlare interiormente, nell’entrare in questa Parola così che realmente lo incontriamo, e naturalmente nel Mistero dell’Eucaristia. Nel Vangelo di san Luca è significativo il brano dei due discepoli di Emmaus, che riconoscono Gesù allo spezzare il pane, ma preparati dal cammino con Lui, preparati dall’invito che hanno fatto a Lui di rimanere con loro, preparati dal dialogo che ha fatto ardere il loro cuore; così, alla fine, vedono Gesù. Anche per noi l’Eucaristia è la grande scuola in cui impariamo a vedere il volto di Dio, entriamo in rapporto intimo con Lui; e impariamo, allo stesso tempo a rivolgere lo sguardo verso il momento finale della storia, quando Egli ci sazierà con la luce del suo volto. Sulla terra noi camminiamo verso questa pienezza, nell’attesa gioiosa che si compia realmente il Regno di Dio.                            

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