Archive pour le 2 novembre, 2015

Jesus Christ Pantocrator (Detail from deesis mosaic) from Hagia Sophia

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https://en.wikipedia.org/wiki/Christ_Pantocrator

Publié dans:immagini sacre |on 2 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

SALMO 16 (15) FIDUCIA, OLTRE LA MORTE.

http://www.padresalvatore.altervista.org/Salmo16.htm

SALMO 16 (15) FIDUCIA, OLTRE LA MORTE.

(Padre Salvatore)

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene».
Per i santi, che sono sulla terra,
uomini nobili, è tutto il mio amore.
Si affrettino altri a costruire idoli:
io non spanderò le loro libagioni di sangue
né pronunzierò con le mie labbra i loro nomi.

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è magnifica la mia eredità.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce.
Io pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alla mia destra, non posso vacillare.
Di questo gioisce il mio cuore,
esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,

perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,
né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

VERSIONE DI D.M. TUROLDO

Fa’ che il tuo cuore sia la mia custodia,
ove riponga tranquillo la fiducia, Signore.

Ho detto a Dio: Signore,
tu sei il mio unico bene.

Non più simulacri di santi,
potenze profane adorate sulla terra:
sequela di idolo, di un dio straniero,
molta pena con sé comporta.

Non più verserò le lor libagioni di sangue,
né il lor nome infetti più la mia bocca.

E’ lui, il Signore, la mia porzione,
mio calice, mio destino.

Delizioso è quanto mi hai dato in sorte,
veramente splendida è la mia eredità.

Benedico il Signore che la mente m’ispira
e i reni miei illumina pure la notte.

Sono fissi al Signore gli occhi miei per sempre,
con lui a fianco, incertezza non scuote.
Gioiscono cuore e sensi per questo e tripudiano:
tutto il mio essere riposa sicuro.

Non è da te abbandonare una vita agli Inferi,
lasciare che la fossa inghiotti un fedele.
Tu la via alla vita m’insegnerai:
oh, la gioia al vedere il tuo volto,
solo gioia lo starti vicino!

Il Sal 16 (15) è un salmo di fiducia.
La speranza che esso esprime, la potremmo chiamare “neotestamentaria”, perché sa sfidare il limite invalicabile dello Sheol e della stessa morte.
La tradizione cristiana ha considerato il Sal 16 messianico. L’Apostolo Pietro, dopo la Pentecoste, utilizzò i vv. 8-11 nella sua apologia del Cristo risorto (At 2,25-28.31); e Paolo, argomentò in modo analogo, citando lo stesso salmo, nel suo discorso nella sinagoga d’Antiochia di Pisidia (At 13,35).
In questa prospettiva il salterio monastico utilizza questo salmo per i primi vespri della Domenica, anticipando, con ciò, il mistero della risurrezione che si celebra nella Pasqua settimanale.
Il Salterio romano usa il salmo 15 (16) per la compieta del giovedì, ponendo l’accento sul tema della fiducia, presente nel salmo e nell’ora liturgica celebrata.
Il lezionario dei Santi lo applica a san Francesco e ad altri Santi Religiosi che hanno scelto Dio come “unico bene”.
Il testo liturgico attuale deriva dalla versione greca dei LXX, secondo l’uso degli Atti degli Apostoli. Anche così, possiamo dare a questo salmo il titolo “Il canto della mistica” (G. F. RAVASI), perché narra un’esperienza assolutizzante di Dio, quale, appunto fu quella di Francesco d’Assisi.
Stando al testo ebraico, cui si rifà la versione di TUROLDO, l’esperienza religiosa descritta dal salmo, è più tormentata e sofferta, perché è la narrazione della crisi di fede di un levita che è ritornato al suo Dio, dopo un periodo d’apostasia e di sincretismo. “I santi”, cui si sono versate “libagioni di sangue”, sono i Baal il cui culto prevedeva anche il sacrificio cruento dei primogeniti.
Più che un salmo francescano, risulta essere, allora, una confessione agostiniana. Il Salmista potrebbe dire con il Vescovo d’Ippona: “Tardi t’amai Bellezza sempre antica e sempre nuova. Tardi t’amai!”.

“Adonai, tu sei il mio TOV”
Dio tu sei il mio bene, la bontà che mi avvolge, la bellezza che mi affascina (v. 2). Dio è ora percepito come “il bene”, “la Bontà”, nel senso precisato da Gesù nella risposta al “giovane ricco” in Mc 10,18 e Mt 1917. Chi ha incontrato il Signore, scopre che tutti gli altri valori possono e debbono essere “venduti” per Lui (Mc 10,21).
“Adonai, tu sei il mio TOV!” Tradotto in latino: “O Bonitas!”. È l’esclamazione con cui il fondatore della Certosa, san Bruno, esprimeva la sua esperienza di Dio. È l’esperienza che lo Spirito Santo cerca di suggerire ad ognuno di noi.

Non più… non più… non più… (v. 3-4).
Il sì radicale detto a Dio suppone la rinuncia a tutto ciò che non è Dio. Richiede uno stacco definitivo dal passato idolatrico e sincretista (cf. 1Re 14,22-24) che hanno portato (forse) il sacerdote che prega nel salmo, fino alle “libagioni di sangue”, cioè al sacrificio cruento dei primogeniti (cf. Sal 106,35-38). La crisi, superata con una vera conversione, è stata molto più terribile di quella descritta da un altro Levita, nel Sal 73,28.
Adesso, però, anche la sola invocazione dei nomi dei Baal (che è una forma d’adesione all’idolo), sarà evitata. Ora la sua bocca canterà soltanto le lodi del Dio d’Israele.

“Il Signore è mia parte d’eredità” (v. 5).
È questo il corrispettivo dell’appartenenza reciproca (l’Alleanza) rinnovata tra il Signore e l’orante.

“Il Signore… i reni miei illumina pure la notte” (v. 7).
Dio è un patner serio. Da adesso in poi guida il suo fedele e fa in modo che la sua coscienza ( i “reni” come sede dell’emotività) suggerisca azioni conformi alla Legge divina. La stessa trasmissione della vita (altro significato dei reni) è guidata e protetta dall’intervento personale di Dio.

“Il Signore, sta alla mia destra” (v. 8).
A differenza dei Baal di cui toccavi solo un simulacro, l’invisibile Jhwh è un Dio di cui percepisci la presenza e la cui vicinanza non t’atterrisce, anzi ti dà pace e serenità.

“Non abbandonerai la mia vita nello Sheol” (v. 9).
L’uomo è fatto di fango ed è votato alla morte (cf. Gen 3,19); tuttavia se nei confronti di Dio è un fedele (chasid), il Signore lo strapperà dalle fauci dello Sheol. Così la morte non potrà dichiarare di aver vinto definitivamente sul credente. La fossa (Ebraico: shachat), non sarà automaticamente “corruzione” (Greco: diaphtorà, come traduce la LXX, ripresa dai testi citati dagli Atti degli Apostoli).

Oh, la gioia al vedere il tuo volto! (v. 11b).
Vedere il volto di Dio è un modo per dire di essere nel Tempio, dove c’è gioia e delizia, sempre.

“Senza fine alla tua destra” (v. 11c).
È Cristo che canta. Lui che s’è assiso, per sempre, alla destra del Padre, in nostro favore (cf. Rm 8,34; Eb 10,12; 1Pt 3,22).

Preghiera
Dio, fonte d’ogni intelligenza e luce che illumini i cuori,
se tu ci accompagni nel nostro cammino,
a nessun’incertezza soccomberemo:
e quando saremo al termine del lungo viaggio,
riposeremo senza fine in te,
che sei la sola ragione della nostra gioia. Amen.

(David Maria Turoldo)

 

CARLO MARIA MARTINI – IL PECCATO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_ritrovaresestessi3.htm

CARLO MARIA MARTINI – IL PECCATO

Il rifiuto del disegno di Dio

«Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: « Dove sei? ». Rispose: « Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto ». Riprese: « Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’ albero di cui ti avevo comandato di non mangiare? ». Rispose l’uomo: « La donna che mi hai posta accanto mi ha dato dell’ albero e io ne ho mangiato ». Il Signore Dio disse alla donna: « Che hai fatto? ». Rispose la donna: « Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato ». Allora il Signore Dio disse al serpente: « Poiché tu hai fatto questo, sii maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. lo porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno »» (Genesi 3, 9-15). Questo dialogo serrato tra Dio e l’uomo fa emergere la confusione, l’oscurità, la vergogna del peccato dell’uomo. Quattro volte parla il Signore e i primi tre interventi sono domande precise: dove sei? chi ti ha fatto sapere che eri nudo? che cosa hai fatto? E le tre domande perentorie sono seguite da una terribile profezia che indica uno stato di inimicizia e di divisione all’interno dell’esperienza umana e della storia. Alle quattro parole di Dio, tre volte rispondono gli uomini e con risposte timide, incerte, reticenti e, in parte, menzognere. Adamo afferma di avere paura, paura di Dio. Denuncia così un rapporto falsato con quel Dio d’amore in cui non sa più riconoscere il Padre, il Misericordioso di cui non scopre più il volto. E aggiunge, accusando Eva: la donna che mi hai posto accanto mi ha dato dell’ albero e io ho mangiato. Denuncia quindi anche un suo rapporto irresponsabile con la compagna della sua vita, ributtando su di lei la colpa che gli rimorde nella coscienza. Da parte sua la donna, in timore e confusione, risponde: il serpente mi ha ingannata, mostrando un rapporto irresponsabile con se stessa, con la sua colpevolezza personale, con la chiarezza delle sue responsabilità. Nell’insieme, Adamo ed Eva, con le loro parole, sottolineano la divisione, l’oscurità, la confusione che derivano all’uomo dallo stato di peccato, cioè di lontananza da Dio. Dio, al principio, sogna una terra di pace e di benevolenza, in cui il lavoro non è opprimente e la convivenza non è guerra; a tale sogno l’uomo si ribella e lo splendore, l’immenso valore della libertà donatagli da Colui che l’ha creato e amato, si trasforma, nelle sue mani, in strumento di negazione, in un progetto alternativo a quello che gli era stato proposto. Ma la domanda rivolta dal Signore ad Adamo: «Dove sei?» è la domanda che Dio rivolge a ciascuno di noi che non abbiamo affidato pienamente la nostra vita al suo disegno di amore: dove siamo, a causa della non fiducia o della poca fiducia in lui? Adamo è l’uomo di tutti i tempi, che non accetta l’amore di Dio, che rifiuta la condizione di creatura e di figlio, che non vuole essere figlio adottivo di Dio, che si ribella a un Dio che lo serve. La sua paura ha segnato tutta la storia, ha segnato l’umanità che teme Dio immaginandolo come un tremendo punito re, che ha paura della morte, della sofferenza, di ogni forma di privazione o di pericolo. Rifiutando Dio, noi e la nostra società non andremo lontano e le conquiste del progresso potranno essere addirittura la nostra babele e la nostra morte. Nelle risposte che Adamo ed Eva danno al Signore noi troviamo che manca, in realtà, l’unica parola adeguata, l’unica parola che stenta a salire dalle labbra di ogni uomo, proprio perché si è perso di vista il vero volto di Dio: «Ho peccato contro di te!». E la risposta semplice di Davide, nel Salmo 50. In un brano del vangelo di Luca possiamo leggere un altro dialogo, corrispondente a quello avvenuto nel giardino dell’Eden tra Dio, Eva, Adamo e il serpente. E il racconto dell’ Annunciazione: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: « Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te ». A queste parole, ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: « Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’ Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine ». Allora Maria disse all’angelo: « Come è possibile? Non conosco uomo ». Le rispose l’angelo: « Lo Spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’ Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio… ». Maria disse: « Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto »» (cfr. Luca 1 26-38). Il testo della Genesi prevedeva che la maledizione contro il serpente si allargasse a una lotta incessante tra paura e speranza, tra rifiuto del progetto d’amore di Dio e piena accoglienza, prevedeva la vittoria definitiva del bene. Maria accoglie la Parola, il disegno di Dio ed è l’aurora della salvezza definitiva. Così una donna è la destinataria dell’ annuncio di un inizio nuovo e, di fronte a questa inattesa principalità di una donna che entra a far parte del progetto redentivo, ci domandiamo se davvero abbiamo compreso a fondo la rilevanza di questo evento che fa da eco a quel: «Porrò inimicizia tra te e la donna». Vuol dire che c’è un principio riconciliatore di Maria e, in lei, di ogni persona che partecipa al suo mistero. Un potere riconciliatore che il mondo non ha ancora riconosciuto e che la storia della Chiesa è destinata a esprimere. Anche il saluto: «piena di grazia», significa molte cose. Maria è bellissima, di una bellezza ontologica, è amata da Dio con amore gratuito e redentivo. Tale principalità della grazia che si china sull’umanità peccatrice e la riabilita è il fondamento della « buona notizia » ed è costitutivo, non contingente come lo è il peccato. La principalità del peccato era pervasiva, invadente, onnipresente, ma incapace di pervenire davvero al fondo dell’uomo: il peccato cioè attacca l’uomo fino in fondo e però non a fondo. La grazia, invece, risana fino in fondo e a fondo, ricostituendo nell’intimo l’uomo e l’umano. Contemplando questa nuova Eva ciascuno di noi – nonostante i peccati, le negligenze, le infedeltà, i timori – ritorna a credere nel chiarore delle origini, ritorna a inseguire la gioia e lo splendore di quei giorni in cui Dio scendeva nella brezza della sera a passeggiare nel giardino. Ritorna, ciascuno di noi, a essere motivo di speranza per il mondo.

Altre tipologie di peccato nella Bibbia Ancora nei primi capitoli della Genesi, la Bibbia ci presenta altre tre tipologie del peccato. Esse mostrano come i tre rapporti fondamentali che costituiscono la pienezza dell’uomo, l’ideale dell’umanità – il rapporto con Dio, il rapporto tra gli uomini e il rapporto con la terra – venga disconosciuto e pervertito.

Il racconto di Caino e Abele «Dopo un certo tempo, Caino offrì i frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: « Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo »» (Genesi 4, 3-7). Che cosa ha fatto Caino? Probabilmente la sua offerta era imperfetta o avara, non dettata da riverenza e amore verso il Signore. Tuttavia il peccato prende in lui forza e violenza quando egli si rattrista e non riesce ad accettare che il fratello sia migliore di lui, non riesce a vivere in pace con uno che ha un destino diverso dal suo. Caino non realizza quell’unità dei diversi che costituisce l’umanità e, anziché sentirsi spronato a salire al livello di Abele, vorrebbe che il fratello scendesse al suo. Vive la tristezza dell’invidia, che è una delle cause più gravi dello scatenarsi di guerre, di conflitti sociali, delle forme di razzismo che devastano l’umanità. Forme drammatiche ai nostri giorni e cresceranno di violenza in Europa a mano a mano che aumenterà il numero di persone di altre razze, di altre culture perché faremo grande fatica a vivere la fraternità con gli africani, con gli arabi, con gli asiatici, a vivere la dimensione dell’accoglienza dell’ altro, a cercare lo scambio, a rallegrarci del bene dell’ altro. Caino ha perduto il senso, il valore del rapporto con il fratello e giunge a uccidere. In tale situazione, non è più in grado di ascoltare la voce di Dio, tanto è vero che Caino la banalizza, se ne prende gioco. «Allora il Signore disse a Caino: « Dov’è Abele, tuo fratello? ». Rispose: « Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? »» (v. 9).

Il racconto dei figli di Dio e delle figlie degli uomini «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero le loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora il Signore disse: « li mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni ». C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi» (Genesi 6, 1-4). Il brano evoca leggende e saghe antiche di cui è difficile dire quale sia stato il contenuto vero. Lo scrittore sacro però ritiene questi brandelli di memorie per offrirci un quadro della dimenticanza, perdita e confusione di rapporti fondamentali. Il primo è di nuovo sul tema della fraternità, sul rapporto uomo-donna: «ne presero per mogli quante ne vollero». Leggiamo qui l’inizio della considerazione della donna quale oggetto, quale cosa; non come un « tu » con cui avviene uno scambio unico e indivisibile. La donna è vista come forma di possesso, non nella sua dignità pari a quella dell’uomo. C’è un altro aspetto che oggi sentiamo vivamente ed è dato dalla menzione un po’ oscura dei giganti, quasi che l’umanità si sia illusa e si possa illudere di creare uomini con poteri divini, superuomini. Pensiamo alla tremenda tentazione della biotecnologia: prendere in mano la vita, moltiplicarla, creare nuove razze di umanità, nuove forme del vivere, immaginare che la terra possa essere oggetto di sfruttamento totale e che l’uomo debba vivere in tubi stellari. Tutti progetti che la scienza, credendosi onnipotente, elabora senza più fermarsi e smarrendo il rapporto equilibrato dell’uomo con la terra. È quindi la perdita dell’ armonica relazione uomo-terra, uomo-corpo, dell’ attenzione ai ritmi dell’ esistenza, che certamente sono in continua evoluzione e l’uomo deve saper dominare, ma che non possono essere impunemente distrutti.

Il racconto della torre di Babele «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’ oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: « Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco ». li mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: « Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra ». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. li Signore disse: « Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro ». li Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Genesi 11, 1-9). È un racconto misterioso, allusivo, pieno di simboli e si riferisce a situazioni originarie dell’umanità; in questo senso è esemplare. Dice non soltanto ciò che è avvenuto, ma ciò che può avvenire, che avviene. Che cosa è accaduto? Il punto di partenza è una situazione di perfetta comunione: «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole». A un certo punto però si scopre il mattone. Mentre prima si costruiva con il legno, o mettendo le pietre una sull’ altra facendo una casa al massimo di un piano, con il mattone, strumento ben maneggevole e di costruzione leggera, l’uomo comincia a pensare di non avere più limiti alla sua possibilità operativa e di poter arrivare addirittura in cielo. Di per sé siamo di fronte a un fatto tecnico che non è né buono né cattivo. Tuttavia vi leggiamo dietro l’entusiasmo, la presunzione, l’ambizione che viene dalle scoperte; un po’ come oggi la scoperta del computer con cui posso imitare l’intelligenza e tenere il mondo m mano. «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (v. 4). Dalla soddisfazione della scoperta del mattone nasce un progetto esorbitante, la pretesa di un’impresa colossale, destinata a durare per sempre, a significare l’autosufficienza umana, la capacità che l’umanità ha di edificare se stessa in assoluto. Siamo noi che ci diamo gloria e siamo noi gli arbitri del nostro destino presente e futuro. Sottilmente, senza una dichiarazione esplicita, laicamente, è rotto il contatto con Dio. Perché, in verità, è Dio che dà un nome, che lancia un ponte verso l’uomo. Il peccato dunque non consiste nel proposito di costruire una torre, bensì nella rottura della coordinata del timore di Dio, della soggezione dell’uomo al Signore del cielo e della terra. Il testo biblico non fa applicazioni morali, ma le cogliamo nella conclusione del castigo divino: « »Scendiamo e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro ». li Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (vv. 7-9). Noi siamo in pieno dentro tale tentazione, molto più che nei secoli passati: le continue scoperte, infatti, ci fanno ritenere di non dover dipendere più da nessuno, di poter dare il nome a noi stessi. Quanto più assumiamo responsabilità sociali, civili, politiche, scientifiche, tanto più ci troviamo immersi in una mentalità che ha perduto le coordinate, le ha confuse, spinge a vivere situazioni che vanno dall’esaltazione alla depressione, situazioni di sfiducia nella vita, di scoraggiamento, di amarezza perché dalla voglia sfrenata di possedere tutto si passa facilmente al senso della propria povertà fisica, morale, spirituale e si finisce per non capire più nulla. Quello della torre di Babele è il racconto di una colpa collettiva; mentre il rifiuto del disegno di Dio da parte di Adamo ed Eva era espresso in termini individuali, il rifiuto della gente di Babele è narrato in termini collettivi. La radice di questo peccato è la pretesa dell’uomo di essere il centro di tutto, di non avere bisogno di Dio, di staccarsi dalla dipendenza creativa, magari senza negarla, ma agendo per proprio conto. E il fenomeno odierno di guazzabuglio culturale: idee, pensieri, progetti, filosofie che contrastano tutte con l’idea di servire l’uomo.

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