Archive pour octobre, 2015

SAN CALLISTO I PAPA 14 OTTOBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

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SAN CALLISTO I PAPA

14 OTTOBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

(Papa dal 217 al 222)

Ebbe molti avversari tra i cristiani dissidenti di Roma, e proprio da uno scritto del capo di questi cristiani separati, un antipapa, abbiamo quasi tutte le notizie sul suo conto, presentate però in modo tendenzioso. Vi si legge che, prima di diventare papa, era stato schiavo e frodatore. Fuggito in Portogallo, venne arrestato e ricondotto a Roma, dove subì una condanna ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna. Tornato a Roma in occasione di un’amnistia, venne inviato ad Anzio. Papa Zeffirino, però, lo richiamò a Roma, affidandogli la cura dei cimiteri della Chiesa. Iniziò così lo scavo del grande sepolcreto lungo la via Appia che porta il suo nome. Alla morte di Zeffirino, Callisto venne eletto papa. Ma il suo pontificato attirò le inimicizie di un’ala della comunità cristiana di Roma che lo accusò, falsamente, di eresia. Il riscatto definitivo su questa figura controversa venne dal suo martirio. Callisto, infatti, fu gettato in un pozzo di Trastevere, forse in una sommossa popolare contro i cristiani nel 222. (Avvenire)

Etimologia: Callisto = il più bello, bellissimo, dal greco

Martirologio Romano: San Callisto I, papa, martire: da diacono, dopo un lungo esilio in Sardegna, si prese cura del cimitero sulla via Appia noto sotto il suo nome, dove raccolse le vestigia dei martiri a futura venerazione dei posteri; eletto poi papa promosse la retta dottrina e riconciliò con benevolenza i lapsi, coronando infine il suo operoso episcopato con un luminoso martirio. In questo giorno si commemaora la deposizione del suo corpo nel cimitero di Calepodio a Roma sulla via Aurelia.

A Roma sono famose le Catacombe di San Callisto, lungo la via Appia. Tra i molti cimiteri sotterranei dell’Urbe, quelle di San Callisto sono le Catacombe più note e più frequentate, celebri soprattutto per la cosiddetta  » Cripta dei Papi « .
Ma tra i moltissimi Martiri e i Pontefici deposti ivi questo sepolcreto, inutilmente si cercherebbe il corpo del Santo dal quale le Catacombe lungo la via Appia hanno preso il nome, e che è segnato oggi sul Calendario universale della Chiesa, onorato come  » Martire « .
La sorte di questo Santo, Pontefice agli inizi del III secolo, è stata veramente strana. Egli ebbe, ai suoi tempi, molti avversari tra i cristiani dissidenti di Roma, e proprio da uno scritto del capo di questi cristiani separati, cioè di un Antipapa, abbiamo quasi tutte le notizie sul conto di San Callisto. Sono, naturalmente, notizie che tendono a farlo apparire riprovevole e quasi odioso.
San Callisto viene detto, per esempio,  » uomo industrioso per il male e pieno di risorse per l’errore « . Vi si legge che, prima di diventare Papa, era stato schiavo, frodatore di un padrone troppo ingenuo, finanziere improvvisato e bancarottiere più o meno fraudolento. Fuggito in Portogallo, venne arrestato e ricondotto a Roma, dove subì una condanna ai lavori forzati, nelle miniere della Sardegna. Tornato a Roma in occasione di un’amnistia, venne inviato ad Anzio perché – sempre secondo il racconto tendenzioso del suo avversario – il Papa non volle averlo d’intorno. Ma la lunga permanenza ad Anzio dovette riscattare l’antico schiavo dai suoi difetti, se mai ne ebbe, perché un altro Papa, Zeffirino, lo richiamò a Roma, affidando alla sua intraprendenza la cura dei cimiteri della Chiesa. Fu allora che Callisto iniziò lo scavo dei grande sepolcreto lungo la via Appia che doveva portare il suo nome.
Alla morte di Zeffirino, Callisto passò dalla cura dei morti a quella dei vivi, essendo eletto Papa egli stesso. E fu proprio allora, come Papa, che il reduce dalle miniere della Sardegna e dall’ » esilio  » di Anzio, si attirò le recriminazioni di certi cristiani troppo ligi alla tradizione, troppo rigidi nella morale, troppo retrivi alle novità.
Fu accusato di eresia, nella formulazione del mistero della Trinità, che invece Callisto sosteneva secondo la tradizione ortodossa, confermata poi dai concili. Venne incolpato, inoltre, di scarso zelo mentre, in tempi di rilassatezza, istituì il digiuno delle Quattro Tempora.
Gli fu rimproverato soprattutto il  » lassismo « , cioè la scarsa severità disciplinare. Accoglieva infatti nella Chiesa i peccatori pentiti e . cristiani che debolmente avevano difeso la loro fede in tempo di pericolo.
Ma qualsiasi ombra gravasse sulla vita di San Callisto, venne riscattata alla sua morte, che fu morte di Martire, nel 222. Gettato in un pozzo di Trastevere, forse in una sommossa popolare, il suo corpo venne deposto di là dal fiume, lungo la via Aurelia, lontano dalle Catacombe da lui aperte lungo la via Appia, che di San Callisto conservano il nome ma non le reliquie. 

Fonte: Archivio Parrocchia

Publié dans:Papi, Santi: memorie facoltative |on 14 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

IL RAPPORTO TRA LO SPIRITO SANTO E LA CHIESA – TRATTO DA JOSEPH RATZINGER, IMMAGINI DI SPERANZA.

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IL RAPPORTO TRA LO SPIRITO SANTO E LA CHIESA

TRATTO DA JOSEPH RATZINGER, IMMAGINI DI SPERANZA.

Percorsi attraverso i tempi e i luoghi del Giubileo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, Capitolo VIII. PENTECOSTE – Lo Spirito Santo e la Chiesa, pp. 57-66

VIII. PENTECOSTE
Lo Spirito Santo e la Chiesa

Capita spesso di sentir lamentare che nella Chiesa si parla troppo poco dello Spirito Santo. Talvolta questa lamentela arriva sino all’idea che dovrebbe esistere una certa simmetria tra il discorso su Cristo e quello sullo Spirito Santo; a tutto quello che si dice di Cristo dovrebbe corrispondere un discorso analogo sullo Spirito Santo. Chi pretende questo, dimentica però che Cristo e lo Spirito sono parte del Dio Trinità. Dimentica che la Trinità non può essere pensata come una serie di presenze parallele e simmetriche. Se fosse così, allora noi crederemmo in tre divinità e con ciò sarebbe radicalmente misconosciuto quel che intende la confessione cristiana dell’unico Dio in tre persone.
Qui, come spesso accade, la liturgia della Chiesa Orientale può fornirci un aiuto prezioso. Essa celebra alla domenica di Pentecoste la festa della Santissima Trinità, il lunedì successivo l’effusione dello Spirito Santo e la domenica seguente la festa di Ognissanti.
Questa sequenza liturgica possiede una solida coerenza interna e manifesta qualcosa della logica interna della fede. Lo Spirito Santo non è una entità isolata e isolabile. La sua natura è di rinviarci all’unità del Dio trinitario. Se nella storia della salvezza, che noi ripercorriamo da Natale a Pasqua, il Padre e il Figlio appaiono l’uno di fronte all’altro, nella missione e nell’obbedienza, lo Spirito Santo non si pone come una terza persona accanto o in mezzo a loro: egli ci porta all’unità di Dio.
Guardare a Lui significa superare la sempli[57]ce contrapposizione e riconoscere il cerchio dell’eterno amore, che è l’unità suprema. Chi vuole parlare dello Spirito Santo, deve parlare della Trinità di Dio. Se la dottrina dello Spirito Santo, da un certo punto di vista, può valere come correzione rispetto a un cristocentrismo unilaterale, allora tale correzione consiste nel fatto che lo Spirito ci insegna a vedere Cristo totalmente inscritto nel mistero del Dio trinitario: come la nostra via verso il Padre, in un ininterrotto dialogo d’amore con lui.
Lo Spirito Santo rinvia alla Trinità, e proprio in questo modo rinvia anche a noi. Il Dio trinitario è infatti l’archetipo dell’umanità nuova, riunificata; l’archetipo della Chiesa, di cui la preghiera di Gesù può essere vista come l’atto di fondazione: «Che siano una sola cosa, come noi siamo uno» (Gv 17,11.21s).
La Trinità è la misura e il fondamento della Chiesa: essa deve portare a compimento la parola del giorno della creazione «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gn 1,26). In essa l’umanità, che nella sua frammentazione è divenuta proprio l’immagine antitetica di Dio, può tornare a essere l’unico Adamo, la cui immagine – come dicono i Padri – venne lacerata dal peccato e ora giace in pezzi. Nella Chiesa deve tornare alla luce la misura divina dell’uomo, quell’unità che noi siamo. È così che la Trinità, Dio stesso, è l’archetipo della Chiesa; la Chiesa non è un’altra idea che si aggiunge all’uomo, ma il venire dell’uomo sulla strada verso se stesso. Ma se lo Spirito Santo esprime l’unità di Dio, allora è lui l’elemento vitale della Chiesa, in cui ciò che sta di fronte si riconcilia con la reciprocità e i frammenti dispersi di Adamo vengono ricomposti in unità.
Per questo la rappresentazione liturgica dello Spirito Santo comincia con la celebrazione della Trinità. Tale celebrazione ci dice che cosa è lo Spirito: nulla in se stesso, che si possa porre accanto a qualcosa d’altro, ma il mistero per cui Dio è pienamente uno nell’amore, una sola realtà, e, in quanto amore, è allo stesso tempo reciprocità, scambio e comunione.
Ed è a partire dalla Trinità che lo Spirito ci dice che cosa è l’idea di Dio con noi: unità secondo l’immagine di Dio. Ma [58] egli ci dice anche che noi uomini possiamo realizzare l’unità tra di noi solo se ci ritroviamo in un’unità più profonda, ovvero in un Terzo: solo se siamo una cosa sola con Dio, possiamo essere vicendevolmente uniti. La via verso l’altro passa attraverso Dio; se non c’è questo tramite della nostra unità, noi restiamo eternamente separati l’uno dall’altro da abissi che neppure la buona volontà può superare.
Chiunque abbia una percezione lucida della propria umanità, si accorge che qui non parliamo di semplici teorie teologiche.
Raramente l’inaccessibilità ultima dell’altro, l’impossibilità di donarsi reciprocamente e di comprendersi in modo durevole, è stata sperimentata tanto drammaticamente come nel nostro secolo. «Vivere significa essere soli, nessuno conosce l’altro, ciascuno è solo», così ha espresso questa percezione Hermann Hesse. Quando parlo con l’altro è come se tra di noi si frapponesse una parete di vetro opaco: ci vediamo, eppure non ci vediamo; siamo vicini, eppure non possiamo avvicinarci. È questa l’immagine con cui Albert Camus descrive questa stessa esperienza.
Pentecoste, la presenza del mistero trinitario nel nostro mondo umano, è la risposta a questa esperienza. Lo Spirito Santo ha a che fare con la domanda fondamentale dell’uomo: come possiamo giungere gli uni agli altri? Come è possibile che io rimanga me stesso, rispetti l’alterità dell’altro e tuttavia esca dalla gabbia della solitudine e incontri l’altro dal di dentro?
Le religioni asiatiche hanno risposto con l’idea del nirvana: finché esiste l’io, non è possibile, affermano esse. L’io è la prigione. Devo dissolvere l’io, lasciare dietro di me la personalità come prigione e luogo della non liberazione, lasciarmi cadere nel nulla come nel vero tutto. La liberazione è un cessare di divenire e deve essere messa in atto: il ritorno nel nulla, la cancellazione dell’io come la sola vera e definitiva liberazione. Chi esperimenta giorno per giorno il peso dell’io e il peso del tu può comprendere il fascino di un tale programma.
Ma il nulla è davvero meglio dell’essere, la dissoluzione della persona meglio del suo compimento? [59]
Un semplice attivismo non è una risposta a tale fuga mistica; al contrario: provoca questa fuga. Difatti tutte le nuove iniziative che intraprende diventano delle nuove prigioni se l’io e il tu non si riconciliano.
D’altra parte l’io e il tu non possono riconciliarsi se la persona non è riconciliata con il proprio io. Ma come può accettarsi questo io, permanentemente assetato e desideroso, che grida invocando amore, invocando il tu, ma che allo stesso tempo si sente ferito, minacciato e limitato da questo tu?
Rispetto alla grande pretesa delle religioni asiatiche anche le moderne tecniche della dinamica di gruppo, della riconciliazione dell’uomo con se stesso e con il tu, malgrado le loro sofisticate procedure, non sono altro che povere soluzioni di ripiego. L’io e il tu vengono messi insieme sulla base di un preteso denominatore comune ridotto ai minimi termini, vengono abituati a delle regole per far sì che si incontrino e si prendano sul serio il meno possibile ed evitare quindi che si rovinino a vicenda. La loro passione divina viene ridotta a un paio di pulsioni; la persona è trattata come un’apparecchiatura di cui si devono conoscere le istruzioni per l’uso. Si cerca di risolvere la questione dell’essere uomini, negando la persona umana nella sua specificità e trattandola come un sistema smontabile di procedure che si può imparare a dominare.
Ora forse vi chiederete: che cosa ha a che fare tutto questo con lo Spirito Santo e con la Chiesa?
La risposta è: l’alternativa cristiana al nirvana è la Trinità, quell’unità ultima in cui l’io e il tu non vengono affatto meno stando l’uno di fronte all’altro, ma si compenetrano intimamente nello Spirito Santo. In Dio vi è una pluralità di persone e proprio in questo modo Egli è la piena realizzazione dell’unità ultima. Dio non ha creato la persona perché essa venga annullata, ma perché essa si apra in tutta la sua altezza e nella sua più estrema profondità, là, dove lo Spirito Santo la abbraccia ed è l’unità delle diverse persone. Può darsi che ciò suoni molto teologico, ma noi dobbiamo cercare, passo dopo passo, di avvicinarci al programma di vita che qui si cela.
È su questa strada che arriviamo se riflettiamo ancora una [60] volta sulla sequenza delle feste liturgiche nella Chiesa orientale.
Dopo la festa della Trinità nella domenica di Pentecoste, il lunedì viene celebrata l’effusione dello Spirito Santo, la fondazione della Chiesa; la domenica successiva – come abbiamo già ricordato – è la volta della festa di Ognissanti.
La comunione di tutti i santi è l’umanità riplasmata nell’unità secondo il modello trinitario; è la città futura, che fin d’ora si sta formando e che noi cerchiamo di costruire con la nostra vita. Essa è l’immagine ideale della Chiesa, al termine – per così dire – della settimana al cui inizio si trova la Chiesa terrena, nata nel Cenacolo di Gerusalemme.
La Chiesa che vive nel tempo è in tensione tra questa Chiesa dell’inizio e la Chiesa della fine, che già ora sta crescendo. Nella tradizione artistica dell’Oriente la Chiesa degli inizi, la Chiesa del giorno di Pentecoste, è l’icona dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo si rende visibile e rappresentabile nella Chiesa. Se Cristo è l’icona del Padre, l’immagine di Dio e, insieme, l’immagine dell’uomo, allora la Chiesa è l’immagine dello Spirito Santo.
A partire da qui possiamo comprendere che cos’è davvero la Chiesa, nel profondo della sua essenza: il superamento del confine tra io e tu, l’unione degli uomini tra loro, mediante il superamento di sé, in ciò che rappresenta il loro fondamento, nell’amore eterno. La Chiesa è il luogo in cui avviene l’inserimento dell’umanità nello stile di vita del Dio trinitario.
Per questo essa non è cosa che riguardi un gruppo, un circolo di amici; per questo non può essere Chiesa nazionale o identificarsi con una razza o una classe: se è così, essa deve essere cattolica, «radunare in unità i figli dispersi di Dio», come si legge nel vangelo secondo Giovanni (11,52).
L’idea del «cessare di divenire», che descrive il processo spirituale delle religioni asiatiche, può certo risultare poco adatta a rappresentare la via cristiana. È vero però che essere cristiani implica un dischiudersi e un lasciarsi dischiudere, come capita al chicco di grano, che muore ma, aprendosi, porta frutto. Diventare cristiani è essere riuniti: i pezzi dell’immagine frantumata di Adamo devono essere ricomposti. [61]
Essere cristiani non è un’autoconferma, ma un inizio e una partenza verso la grande unità che abbraccia l’umanità di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La fiamma dell’infinito desiderio non viene spenta, ma orientata, così da unirsi al fuoco dello Spirito Santo.
La Chiesa non comincia quindi come un club, comincia cattolica: nel suo primo giorno essa parla in tutte le lingue, nelle lingue di tutto il mondo. Fu Chiesa universale prima di generare delle Chiese locali. La Chiesa universale non è una federazione di Chiese locali, ma la loro madre. La Chiesa totale ha generato le Chiese particolari e queste restano Chiesa nella misura in cui si staccano dal loro particolarismo ed entrano a far parte del tutto: solo in questo modo, a partire dal tutto, esse sono icona dello Spirito Santo, che è la dinamica dell’unità.
Se parliamo della Chiesa come icona dello Spirito Santo e di quest’ultimo come Spirito dell’unità, allora non possiamo non tenere in considerazione un tratto particolare del racconto della Pentecoste: le lingue di fuoco si dividevano e si posavano su ciascuno di loro (At 2,3). Lo Spirito Santo è dato a ciascuno personalmente e a ciascuno in modo proprio. Cristo ha assunto la natura umana, quel che ci unisce tutti, ed è a partire da essa che egli ci unisce.
Lo Spirito Santo, invece, è dato a ciascuno come persona: mediante lui Cristo diventa risposta fondamentale per ciascuno di noi, uno per uno. L’unione degli uomini, come deve essere realizzata dalla Chiesa, non avviene mediante la dissoluzione della persona, ma mediante il suo compimento, che significa la sua infinita apertura.
Per questo della costituzione della Chiesa fa parte, da un lato, il principio della cattolicità: nessuno agisce semplicemente di propria volontà e genialità, ciascuno deve agire, parlare, pensare secondo la comunione del nuovo «noi» della Chiesa, che sta in una relazione di scambio profondo con il «noi» del Dio trinitario.
Ma proprio per questo, d’altro canto, è vero che nessuno agisce semplicemente come il rappresentante di un gruppo e di un sistema collettivo, ma ciascuno sta nella responsabilità personale della coscienza dischiusa e purificata nella fe[62]de.
Nella Chiesa le tendenze all’arbitrio e all’egoismo non dovrebbero essere eliminate mediante il ricorso a criteri di forza numerica o di maggioranza, ma con la coscienza plasmata dalla fede, che non inventa, ma attinge la sua creatività da ciò che si è ricevuto in comune nella fede.
Nei suoi discorsi di commiato il Signore presenta la natura dello Spirito Santo con queste parole: «Egli vi guiderà alla verità tutta intera, poiché egli non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future» (Gv 16,13). Qui lo Spirito diventa icona della Chiesa; descrivendo lo Spirito Santo, il Signore spiega che cos’è la Chiesa e come essa deve vivere per essere se stessa.
Parlare e agire da cristiani significa non essere mai solamente il proprio io. Diventare cristiani significa accogliere in se stessi la Chiesa tutta intera o, ancor di più, lasciarsi interiormente accogliere in essa. Quando io parlo, penso, agisco, come cristiano lo faccio sempre nel tutto e a partire dal tutto: in questo modo lo Spirito si fa parola e così gli uomini giungono a incontrarsi a vicenda. Essi giungono a incontrarsi esteriormente, solo se prima si sono incontrati interiormente: se io sono cresciuto interiormente, se mi sono aperto, se ho accolto l’altro in me nella condivisione della fede e dell’amore, così che non sono più solo, ma tutto il mio essere è segnato dal senso di questa «condivisione» dell’altro.
Questo parlare a partire dall’ascolto, dall’accoglienza, e non a titolo personale, a prima vista può sembrare un ostacolo alla genialità del singolo. In effetti, si tratterebbe di un ostacolo se la genialità fosse solo una sopravvalutazione dell’individuo che cerca in qualche modo di eguagliarsi alla divinità. Il riconoscimento della verità e l’accettazione di un cammino di crescita non sono certo un ostacolo per questo modo di pensare: lo Spirito Santo, proprio per il fatto che agisce così, introduce alla verità tutta intera, a quel che Gesù non ha ancora detto, e proprio così annuncia le cose future: noi non perveniamo a una nuova conoscenza chiudendoci nel nostro io; la verità si dischiude solo nella condivisione di pensiero con ciò che è stato conosciuto prima di noi. [63]
La grandezza di una persona dipende dalla sua disponibilità e capacità di condividere; solo nel farsi piccola, nel partecipare al tutto, la persona diventa grande.
Paolo ha espresso questo fatto con un formula meravigliosa, quando descrive la sua conversione e il suo battesimo dicendo: «Io vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal 2,20).
L’essere cristiani significa essenzialmente conversione, e conversione in senso cristiano non è il cambiamento di alcune idee, ma un morire a se stessi: i confini dell’io vengono spezzati, l’io perde se stesso per ritrovarsi in un soggetto più grande che abbraccia il cielo e la terra, il passato, il presente e il futuro e che, per questo, tocca la verità stessa.
Questo «io eppure non più io» è l’alternativa cristiana al nirvana. Potremmo anche dire: lo Spirito Santo è questa alternativa. È la forza dell’apertura e della fusione in quel nuovo soggetto che noi chiamiamo Corpo di Cristo o Chiesa.
Inoltre qui si vede che questo convenire insieme non è un processo facile. Senza il coraggio della conversione, del lasciarsi dischiudere come il seme di grano, non può avvenire. Lo Spirito Santo è fuoco; chi non vuole essere arso, è meglio che non gli si avvicini. Ma deve anche sapere che in tal modo precipita nella solitudine mortale dell’io chiuso in se stesso e che ogni forma di comunione che viene tentata scansando questo fuoco alla fine non è che passatempo e vuota apparenza. «Chi è vicino a me, è vicino al fuoco», suona un detto apocrifo di Gesù tramandatoci da Origene; esso ci richiama in maniera inimitabile lo strettissimo rapporto che intercorre tra Cristo, Spirito Santo e Chiesa.
Permettetemi di concludere con una parola di san Giovanni Crisostomo che va in questa stessa direzione. Si ricollega a un passaggio degli Atti degli Apostoli in cui si racconta della guarigione di un paralitico operata a Listra da Paolo e Barnaba. La folla eccitata aveva scambiato quei due strani individui, dotati di tale potere, per un’apparizione degli dei Zeus e Ermes, aveva chiamato i sacerdoti e avrebbe voluto offrire in sacrificio dei tori. Ma i due, indignati, si erano rivolti alla folla a, gridando: noi siamo esseri umani, mortali come [64] voi, venuti a portarvi il vangelo (cfr. At 14,8-18).
In proposito Crisostomo osserva: giusto, erano uomini come gli altri, eppure erano diversi da loro, poiché alla natura umana era stata aggiunta una lingua di fuoco. Così nasce la Chiesa. Essa è data a ciascuno in maniera del tutto personale, così che ciascuno è cristiano proprio in quanto è questa determinata persona, in un modo unico e irripetibile. Ha il «suo Spirito», la sua lingua di fuoco, tanto che nel saluto liturgico noi ci rivolgiamo a questo spirito dell’altro e diciamo: «e con il tuo spirito». Lo Spirito Santo è divenuto il suo Spirito, la sua lingua di fuoco. Ma poiché egli è l’Uno, attraverso di lui possiamo rivolgerci l’uno all’altro, formare insieme l’unica Chiesa.
All’essere uomo è stata aggiunta una lingua di fuoco: oggi dobbiamo correggere questa espressione. Il fuoco non è qualcosa che si possa semplicemente aggiungere all’altro e che poi sussiste accanto a lui. Il fuoco brucia e trasforma. La fede è una lingua di fuoco che ci brucia e ci fonde, così che sia sempre più vero: «io eppure non più io».
Certo, chi incontra il cristiano medio di oggi deve chiedersi: dove è finita la lingua di fuoco? Purtroppo quel che esce dalla bocca dei cristiani è spesso tutt’altro che fuoco. Ha piuttosto un sapore di acqua stagnante, appena tiepida, né calda né fredda. Non vogliamo bruciare noi stessi e neppure gli altri, ma in questo modo ci teniamo distanti dallo Spirito Santo, e la fede cristiana si riduce a una visione del mondo costruita a nostra misura, col proposito di non ledere possibilmente in nulla le nostre comodità, risparmiando il vigore della protesta per le questioni che a stento possono disturbarci nelle nostre abitudini di vita.
Dove scansiamo il fuoco ardente dello Spirito Santo, l’essere cristiani diventa comodo solo a prima vista. La comodità del singolo è disagio del tutto. Dove non ci esponiamo più al fuoco di Dio, gli attriti si fanno insopportabili, e la Chiesa, per usare l’espressione di Basilio, finisce per essere dilaniata dalle grida e discussioni di parte. Solo se non temiamo la lingua di fuoco e la tempesta che essa porta con sé, la Chiesa diventa icona dello Spirito Santo. E solo allora [65] essa apre il mondo alla luce di Dio.
La Chiesa ha avuto inizio quando i discepoli unanimi si sono raccolti nel Cenacolo e hanno pregato. Ed è in questo modo che essa ha inizio sempre di nuovo. Nella preghiera allo Spirito Santo dobbiamo riconvocarla di nuovo, giorno per giorno. [66]
Pubblicato da Scritti di Joseph Ratzinger

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IL PROCEDERE SBILENCO, IL MISTERIOSO ZOPPICARE DELL’UOMO (DA HENRI DE LUBAC)

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IL PROCEDERE SBILENCO, IL MISTERIOSO ZOPPICARE DELL’UOMO (DA HENRI DE LUBAC)

Scritto da Redazione de Gliscritti: 05 /07 /2007

Sull’affermazione di san Bonaventura: «Nulla che sia inferiore a Dio può accontentare l’uomo», de Lubac commenta: «Da ciò deriva, in questa creatura a parte, tale « costituzione ontologica instabile », che la fa nello stesso tempo più grande e più piccola di se stessa. Da questo deriva questa specie di procedere sbilenco, questo misterioso zoppicare, che non è soltanto del peccato, ma prima ancora e più radicalmente proprio d’una creatura fatta di nulla, che, stranamente, confina con Dio: Deo mente consimilis. Nello stesso tempo, indissolubilmente, « nulla » e « immagine »; radicalmente nulla, e tuttavia sostanzialmente immagine: Esse imaginem non est homini accidens, sed potius substantiale. Per la sua stessa creazione, l’uomo è « compagno di schiavitú » di tutta la natura; ma allo stesso tempo, per il suo carattere d’immagine – in quantum est ad imaginem Dei – è « capace della conoscenza beatifica », ed ha ricevuto, nel fondo di se stesso, come diceva Origene, « il precetto della libertà »».

(da Henri de Lubac, citato nell’articolo Contro Hitler a partire da Tommaso, di Michele Dolz, pubblicato da Avvenire del 5 luglio 2007)
[Antologia, i

Christ Pantocrator in the catacomb of St. Pontianus, Rome (7th-8th century)

Christ Pantocrator in the catacomb of St. Pontianus, Rome (7th-8th century) dans immagini sacre
http://theshroudofturin.blogspot.it/2012/03/four-proofs-that-ad-1260-1390.html

Publié dans:immagini sacre |on 13 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

TU SEI BELLEZZA! (SAN FRANCESCO D’ASSISI)

http://www.ofm.org/01docum/mingen/2012_TU_SEI_BELLEZZA.pdf

TU SEI BELLEZZA! (SAN FRANCESCO D’ASSISI)

Fr. José Rodriguez Carballo, ofm

Ministro generale, OFM

Cari marciatori, carissimi amici tutti: Il Signore vi dia pace! Benvenuti alla Porziuncola, focolare del perdono e della misericordia, dove ci accoglie la Vergine fatta Chiesa, la madre del bell’amore (cf. Sir 24, 24), e della misericordia. Benvenuti a questo luogo così caro a Francesco perché dedicato a Maria, “porta santa sempre aperta” a Colui che è misericordia e perdona; luogo dell’anima, dove Francesco ha risvegliato la nostalgia del Paradiso; luogo pieno di bellezza perché povero e ci parla del grande amore di Francesco e Chiara per Cristo povero e crocifisso. Tu sei bellezza! È il moto della Marcia Francescana di quest’anno 2012. Tu sei bellezza! È l’esclamazione di Francesco dopo l’incontro con il Crocifisso sul monte della Verna. Tu sei Bellezza! È l’esclamazione di Chiara frutto della costante contemplazione del mistero dell’incarnazione e particolarmente della passione e morte del Signore Gesù. Tu sei bellezza, diciamo noi a una persona che amiamo. Che bellezza! Diciamo tutti di fronte a un paesaggio piacevole, a un fiore, a un fenomeno naturale straordinario e che si presenta bello al nostro sguardo, o di fronte a un quadro o a un pezzo musicale magistralmente interpretato. La bellezza rivela l’inesorabile nostalgia dell’uomo per la verità, la giustizia e il bene, cioè la nostalgia di Dio. Per questo l’esperienza della bellezza è fondamentale nella vita dell’uomo e della sua cultura. In questo contesto Dostoevskij afferma: “L’umanità non potrebbe vivere senza la bellezza”; e Benedetto XVI ne spiega la ragione in un discorso agli artisti quando afferma: “La esperienza del bello, di quello che è autenticamente bello, di quello che non è effimero ne superficiale, non è qualcosa di secondario nella ricerca di senso e della felicità, bensì ci porta ad affrontare in pienezza la vita quotidiana per liberarla dell’oscurità e trasfigurarla, per farla luminosa e bella”. La bellezza riempie di vita l’esistenza, ci pone in camino, e quando la stanchezza e la rutine fanno atto di presenza nella nostra vita, la bellezza ci ridona speranza e la forza di vivere fino in fondo la propria esistenza. Ecco perché la bellezza, come diceva Benedetto XVI nelle parole già ricordate, non è un elemento secondario nella vita di una persona; ecco perché abbiamo bisogno di cercare e di trovare la bellezza. Ma di quale bellezza parliamo? Sotto gli occhi di tutti sta l’inesausta ricerca della bellezza. Ma non tutti la cercano dove si può veramente trovare. Tante volte la bellezza è ambigua e il bello può essere un inganno. Quanti soldi si spendono nella lotta contro l’invecchiamento e tutto ciò che non è patinato, piacevole, di moda! Quanti soldi in creme, quanti sacrifici per mantenere la bellezza secondo i criteri di moda! Quanti sforzi per mantenere un’apparenza che passa! Quanti supermercati dell’effimero! Ma mille cornici non valgono il quadro. Se ne accorse un giorno sant’Agostino, il quale, dopo aver cercato la bellezza in tante cose, scoprì che l’autentica bellezza si trova solo in Dio: “Oh bellezza tanto antica e sempre nuova!”, esclamerà pieno di stupore, e per questo non abita nella superficie e non si compra nei supermercati consumistici, ma abita nella cella del cuore umano: “tu eri dentro di me e io ero fuori di me”. È di questa bellezza che noi parliamo: la bellezza che abita nel cuore di chi ama, la bellezza la cui fonte è Dio stesso, il bello e il buono (kalokagathia) per eccellenza, come ci ricorda Francesco nelle già citate Lodi al Dio altissimo. Cari giovani: Tutti cerchiamo la bellezza, in noi stessi e negli altri. Ma, qual’è la chiave che apre all’autentica bellezza? Pensando a Francesco e a Chiara una è la fonte della bellezza: l’amore. È l’amore che rende belli. San Giovani afferma: Dio è amore. Ecco perché Dio è anche la fonte della vera bellezza; ecco perché Dio è la Bellezza. Contrariamente alla ricerca di una bellezza meramente estetica, mendace e falsa, che ci imprigiona totalmente in noi stessi e ci rende più piccoli, l’incontro con la bellezza la cui fonte è l’amore ci mette in cammino, ci eleva dalle nostre miserie, ci strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano, e ci fa uscire da noi stessi per aprirci nell’estasi dell’innalzarci verso l’alto. “L’incontro con la bellezza può diventare il dardo che ferisce l’anima ed in questo modo le apre gli occhi” (Benedetto XVI), e, per chi crede, l’incontro con la bellezza ci porta a Dio, del quale tutto, come dice san Francesco nel Cantico delle creature, porta significazione. In questo contesto dice san Bonaventura: “Francesco contemplava nelle cose belle il Bellissimo e, seguendo le orme impresse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto. Di tutte le cose si faceva una scala per salire ad afferrare Colui che è tutto desiderabile”. Dostoevskij scrisse: “la bellezza salverà il mondo”. È questa una frase molto citata ma pochi sanno che la bellezza della quale parla Dostoevskij è Cristo. Un Cristo che profeticamente i salmi descrivono come “il più bello tra i figli dell’uomo” e che, allo stesso tempo, viene contemplato da Isaia come Colui che “non ha apparenza né bellezza… il suo volto è sfigurato dal dolore”. È questo Cristo che hanno trovato Francesco e Chiara e del quale si sono profondamente innamorati, fino a consegnargli la propria vita. È questa bellezza che cantano Francesco e Chiara. La Pianticella di Francesco scrisse in una delle sue Lettere ad Agnese: “Nobilissima regina, guarda, considera, contempla, desiderando di imitarlo, il tuo sposo, il più bello tra i figli degli uomini, fattosi per la tua salvezza il più vile degli uomini, disprezzato, percosso e flagellato in tutto il corpo in molti modi, morente tra le angosce stesse della croce”(2LettCh 19). “Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare da spine” (Benedetto XVI). Ma proprio in questo Volto sfigurato dal dolore appare l’estrema bellezza, quella che salva il mondo: la bellezza dell’amore che arriva alla donazione totale, “sino alla fine”. L’autentica Bellezza, quella che salverà il mondo, non può essere cercata e scoperta soltanto nella gloria del Tabor, ma anche nella figura sofferente del Crocifisso. Chi ha percepito questa bellezza non si accontenterà di cercare la bellezza mendace e falsa, ma cercherà la bellezza nell’amore autentico, nel’amore del donarsi, nell’agape. E allora questa bellezza risveglierà la nostalgia per l’indicibile, la disponibilità all’offerta, al dono incondizionato di sé. Cari giovani pellegrini alla Porziuncola: Imparate a vedere la paradossale bellezza di Cristo crocifisso, e allora incontrerete la bellezza della verità, della verità che salverà voi e con voi il mondo. Imparate a vedere lo splendore della gloria di Dio, la “gloria di Dio sul volto di Cristo” (2Cor 4, 6). Cercate la bellezza nella sua profondità, il che presuppone il “digiuno della vista”; presuppone una percezione interiore liberata dalla mera impressione dei sensi; presuppone compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo da vedere ciò che i sensi non vedono. Cercate la vera bellezza, quella che proviene da Dio e ci viene rivelata nella persona di Gesù, la bellezza che colmerà la vostra sete di bellezza, perché nessuno potrà rubarvela. Buona festa del perdono. Buon cammino verso la Bellezza. Che la Regina degli angeli vi accompagni e vi custodisca sempre in questo cammino.

IL PARADISO CI ATTENDE

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IL PARADISO CI ATTENDE

La Stampa, 19 settembre 2003

Per esprimere la festa che attende l’umanità al compimento della storia, la Bibbia si serve del linguaggio simbolico: un linguaggio aperto, evocativo e allusivo più che descrittivo, un linguaggio rispettoso del mistero, dell’alterità e, in particolare, dell’alterità di Dio. È un linguaggio poetico, e forse solo la creatività poetica può osare dire Dioe cercare di evocarne l’opera. Forse è per questo che la Bibbia si apre con un inno che celebra l’opera creazionale di Dio e si conclude con liturgie che cantano l’opera divina dei nuovi cieli e della nuova terra. E non è forse per questo che ogni intervento di Dio nella storia necessita, una volta riconosciuto e confessato, di una celebrazione, nella quale la musica, il canto, la poesia, la preghiera, la danza… sono i linguaggi che l’uomo utilizza per rispondere a Dio, per lodarlo. Capiamo allora l’importanza non solo del contenutodelle immagini che evocano il Regno celeste, ma anche del modoin cui se ne parla. Ebbene, ilparadiso è certamente l’immagine più nota della beatitudine finale. Nelle parole di Gesù al ladrone crocifisso accanto a lui – “Oggi sarai con me in paradiso!”Luca( 23,43) il significato del paradiso appare già collocato attorno alla figura di Cristo: il paradiso è essere con Cristo e, attraverso lui e in lui, con Dio. Nell’Antico Testamento esso indica il giardino dell’ “in principio” creazionale, cioè il luogo che Dio ha preparato per l’uomo, il luogo della comunione di Dio con l’uomo: un luogo teologicamente posto agli inizi, ma che in realtà profetizza la fine. Con i profeti, Ezechiele prima e poi Isaia, questo luogo arriva a simbolizzare il tempo della speranza escatologica, cioè la restaurazione del popolo: attesa di cui l’apocalittica intertestamentaria accentuerà il carattere proprio degli “ultimi tempi”. Significativamente, questo simbolo fa parte del racconto della creazione, degli eventi del principio, eventi che riguardano ogni uomo, l’umanità tutta. Questo ci dice anzitutto che le pagine della Genesi necessitano non solo di una lettura teologica, ma ancheteleologica: il paradiso arriva a designare il destino a cui tutta l’umanità è chiamata. La comprensione che i padri della chiesa ebbero del racconto creazionale tradusse questo principio in una formula molto efficace: “Dio creò l’uomo e lo pose nel paradiso, cioè in Cristo”. Il giardino della comunione piena e senza ombre con Dio non sta tanto alle spalle dell’uomo quanto davanti a lui. Se la storia è la nostra condizione, il paradiso, il Regno è la nostra vocazione; esso è il dono di Dio che ci attende, piuttosto che la realtà che abbiamo perduto. Non dicono forse i padri orientali: “L’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio”? Le immagini poi che si accumulano nella testimonianza biblica per evocare questa realtà sono quelle della gioia piena dell’uomo, della pienezza di vita: immagini che evocano il cibo buono e abbondante, l’amore e la convivialità, la pace e la giustizia; immagini che si riferiscono a bisogni umani della sfera affettiva e sessuale, sociale e politica: il cibo, l’amore, l’incontro sessuale, l’amicizia, la convivenza pacifica… Ma trasposte sul piano escatologico, divenute azione universale di Dio nel suo giorno, queste immagini trasfigurano il bisogno in desiderio. E il desiderio, a differenza del bisogno, che resta chiuso nell’oggi, è profetico e aperto al futuro. Ora, queste realtà possono essere desiderate perché sono state promesse dal Dio fedele all’alleanza, dal Dio “amante della vita”, dal Dio compassionevole e misericordioso, longanime e ricco di grazia. Sono immagini tanto semplici quanto universalmente umane: il banchetto, le nozze, la pace tra i popoli, la concordia tra gli animali, tra uomini e bestie feroci… Il profeta Isaia sottolinea la dimensione ludica dell’era escatologica: “Il lattante giocherà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nella buca del serpente velenoso” ( Isaia11,8), e Gesù stesso, quando ricorda la necessità di “diventare come i bambini per entrare nel Regno dei cieli” (cf. Matteo18,3), non indica un’esigenza morale, ma una condizione di stupore meravigliato. Né mi pare senza significato che l’animale con cui il bambino gioca senza aver nulla da temere è il serpente, che per la Bibbia è carico di una valenza negativa particolare, come appare dal racconto iniziale della Genesi. Ebbene: anch’egli è inoffensivo! Anche su di esso si stende, vittoriosa di una vittoria che non schiaccia ma converte e purifica, la regalità di Dio, il suo Regno… Potremmo ancora aggiungere le immagini della vita piena e della luce, dell’abbondanza e della fertilità, ma soprattutto sono significativi gli aspetti dell’eliminazione della morte e della scomparsa delle malattie e delle sofferenze, di tutte quelle realtà che gettano un’ombra di non pienezza, anzi di drammaticità, su ogni festa storica, su ogni festa che celebriamo nei nostri giorni. Aspetti evidentemente universali, che riguardano ogni uomo, ogni creatura: non si tratta di immagini particolarmente “spirituali”, ma umanissime, concrete, vitali. Ciò infatti che queste immagini vogliono esprimere è che la festa che esse intravedono dev’essereuniversale: perché la pasqua, la liberazione attesa, la salvezza invocata è tale solo se è per sempre e per tutti. Nel Nuovo Testamento la festa escatologica si delinea, prima ancora che nell’evento di Pasqua, nella notte della Trasfigurazione, in cui il volto di Gesù cambiò aspetto e divenne luminoso e raggiante. Troviamo in questa scena prefigurato il futuro del mondo, il mondo come Dio lo vede e lo vuole, il mondo che adempie la sua vocazione alla bellezza: se la creazione è stata opera artistica, di bellezza, se la sapienza creatrice era presente come fanciullo alla creazione e danzava davanti a Dio, ebbene questa gioia, questa bellezza, questa festa, questa danza sono la destinazione del mondo. La trasfigurazione, infatti, è mistero di bellezza, di radiosità di volti, di luce sul cosmo; è festa cosmica che, mentre mostra la carne umana di Cristo abitata dalla gloria divina, indica la vocazione di ogni volto, di ogni carne, del cosmo intero. Destinati alla bellezza, noi tutti siamo destinati alla beatitudine perché la bellezza si declina come comunione, universale sì, ma attraverso la comunione con ogni volto, perché ogni volto è immagine del Dio creatore. Mancherebbe qualcosa alla festa se mancasse anche uno solo di questi volti! Enzo Bianchi

LA VOCE SILENZIOSA DI DIO – GIANFRANCO RAVASI

http://www.gesuveraluce.altervista.org/ravasi30.htm

LA VOCE SILENZIOSA DI DIO - GIANFRANCO RAVASI

Nella steppa desolata, tra le pietre arroventate dal sole, avanza un uomo. Barcolla, ormai prosciugato nelle sue energie vitali dal caldo implacabile. Ecco, da lontano una specie di miraggio, un albero solitario di ginepro.
Quel viandante s’accascia sotto la sua ombra e s’abbandona alla “dolce morte” del deserto, privo com’è di forze e con la gola consumata dall’aridità.
Forse i nostri lettori sanno già dare un nome a questa figura e collocarla nella cornice delle aspre solitudini del monte Horeb-Sinai: si tratta, infatti, dei profeta Elia e di una tappa decisiva della sua esistenza travagliata, tappa narrata nel capitolo 19 del Primo Libro dei Re.

È a quel testo che rimandiamo anche per scoprire il sorprendente esito di questa vicenda che si consuma tra le pietraie di quella regione bruciata dal sole. Noi, però, vorremmo ora giungere alla meta terminale di quel pellegrinaggio che Elia compie alle sorgenti di Israele, alla culla da cui era nato il popolo di Dio, cioè al Sinai.
Lassù il profeta ritroverà non solo la sua vocazione, che, a causa della ternbile persecuzione della regina Gezabele, era entrata in crisi, ma anche il suo Dio.
E non quel Dio che Elia s’aspettava, cioè il Signore della vittoria, della potenza, del trionfo sui suoi nemici.
Egli, infatti, immaginava che il Signore fosse «nel vento impetuoso e gagliardo, capace di spaccare i monti e di infrangere le rocce.
Ma il Signore non era nel vento.
Dopo il vento ci fu un terremoto. Ma il Signore non era nel terremoto.
Dopo il terremoto ci fu un fuoco. Ma il Signore non era nel fuoco».
È a questo punto che si schiude il mistero di Dio in modo inatteso. «Dopo il fuoco ci fu qol demamah daqqah. Appena l’udì, Elia si coprì il volto col mantello», consapevole di essere davanti al Dio invisibile il cui sguardo noi non siamo in grado di sostenere (1 Re 19,11-13).
Ora che cosa significano quelle tre parole ebraiche?
Qol vuol dire « voce, suono »;
demamah “silenzio” ;
daqqah “sottile”.
Ebbene, Dio è una “voce silenziosa”.
Questa è la stupefacente rivelazione di Dio.
L’antica versione greca detta dei Settanta, seguita da molte Bibbie moderne, ha sminuito la forza grandiosa dell’originale ebraico traducendo: «ci fu un mormorio di vento leggero». Dio è, invece, una voce che ha il suo vertice non nel clamore, bensì nel silenzio, nel mistero, nella trascendenza. Eppure egli non è muto perché quel silenzio è “bianco”: come il bianco racchiude in sé tutti i colori, così il silenzio divino è la sintesi di tutte le parole.
Il profeta, che è per eccellenza l’uomo della parola, impara che l’apice della rivelazione divina è nell’intimità mistica. In appendice ricordiamo che la scena di Elia al Sinai, accasciato sotto il ginepro e sostenuto dall’angelo di Dio è stata resa spesso dall’arte: ricordiamo, ad esempio, Guido Reni nella cattedrale di Ravenna (1619-21) e Giovanni Battista Tiepolo nel palazzo arcivescovile di Udine (1725).

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MICHELANGELO – La VOLTA della SISTINA – Alberto Angela

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DA PICCOLI INDIZI, LO STUPORE DELLA FEDE

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DA PICCOLI INDIZI, LO STUPORE DELLA FEDE

Gli apostoli Pietro e Giovanni al sepolcro vuoto. Pietro vide. Giovanni vide e credette. Intervista con Jean Galot, professore emerito di Cristologia alla Pontificia Università Gregoriana

Intervista con Jean Galot di Gianni Valente

Erano pescatori di Galilea, gente concreta. Altro che visioni interiori. Dopo quel che era successo sul Calvario, se ne erano tornati a casa, ben chiusi dentro «per timore dei giudei». Lui era morto davvero, e perciò realmente, per quei poveretti, era finito tutto.
Ma quella domenica mattina, davanti al sepolcro vuoto, qualcosa, in quella dolorosa ma realistica rassegnazione, si incrinò.
Il gesuita Jean Galot, 81 anni, professore emerito di Cristologia alla Pontificia Università Gregoriana, è tornato di recente su quella scena. In un saggio pubblicato sulla Civiltà Cattolica, zeppo di riferimenti a recenti studi esegetici e a documentate ricerche sugli usi funerari dell’antico mondo ebraico, ha accompagnato Giovanni e Pietro sulla soglia del sepolcro. Cercando di discernere perché, in quel momento, Giovanni ebbe la prima, inizialissima percezione che invece avevano vinto.
Il saggio di padre Galot ha un titolo pieno di suggestione: Vedere e credere. Perché tutto è ricominciato così. Quando i suoi, che Lo avevano visto morto, con gli stessi sensi Lo hanno visto e Lo hanno toccato risorto.

Il totale e alcuni particolari di Gesù risorto e Tommaso, di Santi di Tito (1536-1603), Cattedrale di Sansepolcro, Arezzo
Il totale e alcuni particolari di Gesù risorto e Tommaso, di Santi di Tito (1536-1603), Cattedrale di Sansepolcro, Arezzo
Ricordiamo i fatti. Quella mattina, Maria Maddalena tornò dicendo che la pietra del sepolcro era stata ribaltata…
JEAN GALOT: E subito, a quella notizia, due discepoli, Pietro e Giovanni, corsero al sepolcro per vedere cosa era successo. Giovanni, correndo più veloce, arrivò per primo, ma non entrò. Si limitò a sbirciare dalla porta i teli che erano ancora là. Poi arrivò Pietro, entrò per primo nel sepolcro, vide ciò che c’era. Giovanni entrò dietro di lui…
Rispetto a ciò che si trovano davanti, il resoconto del Vangelo registra la differente percezione dei due: Pietro «vide», Giovanni «vide e credette»…
GALOT: Pietro è colpito, quasi turbato da ciò che vede, ma rimane in una condizione di perplessità. In Giovanni, lo stupore è ancora più grande, perché in lui c’è una prima, embrionale intuizione del mistero della resurrezione.
Questa diversità di reazione cosa significa?
GALOT: Non vuol dire che la fede di Pietro sia minore di quella di Giovanni. Ma indica certo una diversità di temperamento tra i due. La fede di Pietro ha, per così dire, bisogno di più tempo. A Pietro serve tempo per cogliere la realtà di ciò che vede. Quando Gesù aveva chiesto agli apostoli «Voi, chi dite che io sia?», questa domanda era stata posta dopo un lungo tempo di convivenza, durante il quale Gesù aveva fatto emergere ciò che Lui era. In quell’occasione, fu proprio Pietro a rispondere in maniera sorprendente. Aveva avuto il tempo di osservare e meditare. La sua risposta sollecita era il risultato di una convivenza prolungata nel tempo. Al sepolcro, Giovanni, pur nella scarsità degli indizi, coglie, anche se in forma iniziale, come sono andate realmente le cose. Che cioè il corpo non è stato rubato, ma Gesù è uscito vivo, nel suo corpo risorto, dai teli che lo avvolgevano. Anche un altro episodio, accaduto dopo, conferma la maggior attitudine intuitiva di Giovanni. Quando Gesù appare sulla riva del lago e invita gli apostoli a gettare le reti dalla parte destra della barca, dinanzi alla pesca miracolosa, è Giovanni che riconosce subito Gesù: «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi la tunica, e si gettò in mare» (Gv 21, 7). Anche in questo caso, Giovanni riconosce subito l’autore del miracolo, mentre Pietro sembra più concentrato sul risultato del miracolo, preoccupato dei problemi che poneva la quantità di pesci. È una situazione analoga a quella verificatasi nella visita al sepolcro vuoto, dove Pietro aveva concentrato il suo sguardo su ciò che testimoniava la sparizione del corpo, mentre Giovanni vi aveva colto il segno della resurrezione. Lo sguardo più penetrante di Giovanni, attraverso il sepolcro e i segni che rimanevano della presenza di Gesù, iniziava ad entrare nella fede pasquale.
Questa maggiore intelligenza degli indizi, anche di quelli più piccoli, ha a che fare con il fatto che Giovanni era il discepolo prediletto da Gesù?
GALOT: La predilezione di Gesù nei suoi confronti lo aiutava ad aprire gli occhi, a far coincidere, per quanto possibile, il suo modo di vedere le cose con il modo di Cristo. Ma pur nella sua maggior immediatezza d’intuizione, Giovanni appare rispettoso dell’autorità di Pietro. Non rivendica per sé alcuna autorità, alcun primato. Arrivato per primo al sepolcro, non entra, si ferma sulla soglia e attende che Pietro entri per primo, nonostante fosse curioso di vedere cosa c’era dentro. E poi avrebbe certo desiderato di condividere l’iniziale riconoscimento di quanto era accaduto nel sepolcro con il suo amico Pietro, ma si rendeva conto che il tempo di questa condivisione, di questa corrispondenza di sguardo non era ancora giunto. E allora non urge, non impone la sua maggiore acutezza di sguardo, rispetta il tempo necessario a Pietro per giungere a riconoscere la stessa realtà.
Ma cosa c’era, lì dentro? Cosa hanno veramente visto i due?
GALOT: Alcuni recenti studi esegetici hanno precisato il reale contenuto del testo, segnalando alcune imprecisioni delle traduzioni correnti che possono sviare la comprensione [vedi box]. Il primo errore è che molte versioni traducono con il vocabolo bende la parola greca ¶yónia, che in realtà indicava tutti i teli funerari in cui venivano fasciati i defunti, compresa la sindone, il telo più ampio, che avvolgeva tutto il corpo. Inoltre, a sentire molte versioni correnti, i suoi apostoli avrebbero visto i teli caduti a terra, e il sudario (il fazzoletto arrotolato che veniva legato intorno al volto del defunto, per tenergli chiusa la bocca) posto «in disparte, ripiegato in un luogo diverso». Invece, secondo traduzioni recenti e accurate, basate su un’attenta analisi grammaticale dell’originale greco, tutto era rimasto al suo posto. Anche il sudario non era stato spostato, ma era rimasto giacente in mezzo ai teli. Lo si distingueva, in rilievo, sotto la sindone ormai afflosciata.
Sono dettagli così importanti?
GALOT: Aiutano a intuire cosa suscitò lo stupore e l’inizio di fede in Giovanni. Se il corpo fosse stato portato via da qualcuno, i teli non sarebbero rimasti intatti nello stesso luogo, e il sudario sarebbe stato tirato fuori dai teli e messo da parte, al momento della sparizione, proprio come sembrano indicare molte traduzioni correnti. Invece il corpo di Gesù non c’era più, ma tutto il resto – i teli, il sudario – era rimasto nello stesso posto. Addirittura il sudario era rimasto avvolto nei teli, al suo posto iniziale. Giovanni forse, davanti a quella vista, intuì che Gesù non lo aveva portato via qualcuno, ma che era uscito vivo dal sepolcro sottraendosi in maniera misteriosa alla sindone e al sudario che lo avvolgevano, fuori dalle leggi dello spostamento dei corpi, lasciando tutte le cose intatte. Erano i segni di un intervento soprannaturale, che aveva sottratto il corpo di Gesù alla collocazione che aveva nel sepolcro senza sconvolgere nessuno dei teli adoperati per la sepoltura. Per questo si può dire che lì, davanti ai teli giacenti, iniziò a riconoscere l’evento della resurrezione.
Un evento che pure Gesù aveva più volte annunciato…
GALOT: Ogni volta che aveva accennato alla sua passione, Gesù aveva aggiunto che il terzo giorno il Figlio dell’uomo sarebbe risorto. Eppure, dopo la sua crocifissione, nessuno ricordava queste parole. Molti non se ne ricorderanno neppure quando lo vedranno risorto. Le avevano dimenticate tutti, tranne Maria, colei che per nove mesi aveva portato nel proprio grembo quel corpo, lo stesso corpo che avevano crocifisso. Si può dire che, durante quei tre giorni, tutta la speranza del mondo fu custodita solo da Maria. Giovanni stesso aveva udito più volte le parole di Gesù che annunciavano la resurrezione. Era stato, con Pietro e Giacomo, presente all’evento della trasfigurazione, quando Gesù si era raccomandato di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, «se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti». Loro avevano obbedito al comando, «domandandosi però cosa volesse dire risorgere dai morti» (Mc 9, 9. 10). Quindi Giovanni avrebbe dovuto essere preparato ad accogliere il mistero della resurrezione. Eppure quelle parole gli ritornano alla memoria solo quando vede la sindone e il sudario rimasti intatti nel sepolcro dopo che Gesù ne è uscito vivo. L’inizio della sua adesione alla fede, come viene riportato nel testo evangelico, è causato da ciò che ha visto nel sepolcro. È suscitato da indizi esigui, ma reali, visibili.
Come cresce, per Giovanni, questo inizio? Forse attraverso una riflessione religiosa?
GALOT: In quella prima esperienza presso il sepolcro vuoto, Giovanni aveva avuto soltanto un’idea vaga e indiretta della resurrezione di Gesù Cristo. Constatando la sua assenza dal sepolcro, aveva forse intuito il modo soprannaturale in cui essa si era verificata. Ma solo le apparizioni di Gesù nei quaranta giorni che seguono, i contatti concreti col Risorto gli permettono di fondare con certezza la sua missione di testimone. In quei loro incontri Gesù si manifesta per suscitare la fede, per procurare alla fede un fondamento oggettivo più evidente. Non esita a mostrare il suo corpo con insistenza, un corpo che porta ancora i segni della crocifissione. Rafforza il vedere per far sorgere il credere. Con il moltiplicarsi degli indizi, si passa da una prima intuizione al riconoscimento di una realtà inimmaginabile, di un fatto reale che si rivela più grande e sorprendente di ogni attesa.
E questo accade a un gruppetto di ebrei impauriti e rassegnati, poco propensi a visioni mistiche, dopo che tutto era finito.
GALOT: Il punto di partenza del movimento della fede, a cominciare dagli indizi del sepolcro vuoto, è sempre una realtà visibile. Questo fattore è importante, perché smentisce coloro che interpretano la fede nella resurrezione di Gesù Cristo come una mera convinzione intima. Spazza via tutte quelle tesi idealiste secondo cui i discepoli si convinsero che Gesù era risorto, proiettando in questa autosuggestione i propri sentimenti soggettivi di amore verso il loro Maestro. Invece, è perché hanno visto il Signore risorto che hanno creduto. La fede nasce dal riconoscimento di realtà visibili. Non è un’opera mentale soggettiva che si sarebbe creata il proprio oggetto. Sant’Agostino, nel De civitate Dei, sottolinea come su questo aspetto il fatto cristiano sia esattamente l’opposto della dinamica del sentimento religioso che nasce dall’uomo, rappresentato dalla religione imperiale che divinizza i destinatari delle propre devozioni: «Illa illum amando esse deum credidit; ista istum Deum esse credendo amavit», «Roma, siccome amava Romolo, lo credette Dio. La Chiesa, invece, siccome riconobbe che Gesù Cristo era Dio, lo amò».
Oggi tanti maestri spirituali, nella Chiesa, insegnano che la purezza interiore della fede non ha bisogno di indizi esteriori. Una fede che dipende dal vedere e dal toccare sarebbe, a sentir loro, rozza e grossolana.
GALOT: Eppure la testimonianza degli apostoli è stata questa. La loro fede è tutta nella semplicità di una constatazione, inizia in loro quando Lo hanno visto e Lo hanno toccato risorto. Quando Pietro cerca di individuare un sostituto di Giuda nel collegio apostolico, usa un unico criterio: chi subentra a Giuda dovrà essere un testimone non della vita ma della resurrezione di Gesù. Gli apostoli sono i testimoni oculari della resurrezione di Gesù. E tutto è affidato e sospeso alla loro esperienza, visto che Gesù non ha lasciato un suo insegnamento scritto, una dottrina spirituale codificata. Insomma, all’origine della fede della Chiesa nella resurrezione c’è stato un vedere. E la fede della Chiesa non potrà mai essere separata da questo vedere iniziale, e troverà sempre il suo fondamento nell’esperienza fatta dagli apostoli e nella loro testimonianza. Come scrive sempre nel De civitate Dei sant’Agostino: «Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt», «È risorto il terzo giorno, come gli apostoli, anche con i sensi, hanno verificato».

Publié dans:meditazioni, STUPORE (LO) |on 12 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

LA GIOIA DELLA FEDE (libro di Papa Benedetto, 2012)A

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=130929

LA GIOIA DELLA FEDE

(libro di Papa Benedetto, 2012)A

Cosa sarà questa voce? Fede? Vocina che si fa largo tra il vociare o le urla di chi ha dimenticato, misconosciuto o anche rifiutato il rapporto che Dio ha voluto costruire con noi? Mettiamoci anche noi in silenziosa ricerca della voce di Dio. Forse ne abbiamo bisogno anche noi per vivere la fede con gioia.

Benedetto XVI ha scritto il titolo del suo libro proprio così, con le maiuscole della Gi e della Effe, perché è da una Fede matura, documentata, vitale cioè «maiuscola» che sgorga una gioia «maiuscola», piena, appagante, visibile, contagiosa, condivisa. C’è una relazione stretta tra questi aspetti della fede perché credere è trovare un senso alla vita.
Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), pur con un linguaggio un po’ più formale, da grande documento ufficiale, dice la stessa cosa, al n. 26, presentandoci così anche uno splendido schema di questa, prima della trattazione: «Quando professiamo la nostra fede, cominciamo dicendo: “Io credo”, oppure: “Noi crediamo”. Perciò, prima di esporre la Fede della Chiesa, così come è confessata nel Credo, celebrata nella Liturgia, vissuta nella pratica dei comandamenti e nella preghiera, ci domandiamo che cosa significa “credere”. La Fede è la risposta dell’uomo a Dio che gli si rivela e gli si dona, apportando nello stesso tempo una luce sovrabbondante all’uomo in cerca del senso ultimo della vita. Prendiamo anzitutto in considerazione questa ricerca dell’uomo (capitolo primo), poi la rivelazione divina attraverso la quale Dio si manifesta all’uomo (capitolo secondo), infine la risposta della Fede (capitolo terzo)». Anche in questo e nei prossimi articoli cercheremo di chiederci cosa voglia dire credere, tuffati ormai nel terzo millennio. Rispetto alla bella definizione di Fede riportata, il CCC pochi numeri dopo (29), con realismo e con una sintesi stringata ma efficacissima, richiamando la Gaudium et Spes, 19,1 prende atto che «questo intimo e vitale legame con Dio può essere dimenticato, misconosciuto e perfino esplicitamente rifiutato dall’uomo».
Sono passati cinquant’anni dal Concilio Vaticano II di cui la Gaudium et Spes, sul rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo, è uno dei documenti più illuminati e profetici del Concilio, e ci accorgiamo con amarezza che non è cambiato quasi nulla, anzi il discorso sulla Fede diventa molto più complesso. Oggi, per intanto, sono sempre di più le persone che hanno dimenticato le loro radici cristiane e non si preoccupano, ovviamente, di tramandarle alle generazioni future. Una sola domanda: quanti bimbi/ragazzi nati – e credo di non esagerare – negli ultimi 10 anche 15 anni sanno a memoria le preghiere del mattino? E per contro sanno che la festa dell’inizio di novembre è Halloween. E la Solennità di Tutti i Santi? Ma cos’è? Si dirà: Ma queste cose chi dovrebbe insegnarle? E oggi? Dove troviamo l’intimità in questo settore? Il più delle volte la relazione con Dio è vissuta con gesti di una tradizione fredda e sganciata dalla vita o come patina esteriore che, di nuovo, non tocca la vita… dove Dio non ha casa. Su questo crinale si può anche collocare la sempre più diffusa insignificanza della lettura cristiana della realtà sociale e civile.
Alcuni esempi.
La vita politica è interpretata come potere personale o al massimo del gruppo di cittadini che rappresenta in corporazioni rigide e impenetrabili. La vera politica deve interessarsi sempre, o non è politica, della “polis” e cioè del bene comune. In questa prospettiva le esigenze della mia piccola “domus” possono passare tranquillamente in secondo piano. Gesù aveva detto che chi vuole essere grande si mettesse a servire.
Prendiamo anche i valori «non negoziabili »: la difesa della vita, la persona, il diritto a una scuola libera e la famiglia: altroché non negoziabili, in molti paesi li stravolgono e vengono chiamati diritti civili! E lo sarebbero l’aborto e l’eutanasia? Una famiglia non basata sul rapporto, fin dalla creazione, sull’uomo e la donna? La fecondazione quale che sia?
E ancora l’economia. Questo mondo oggi ci preoccupa così tanto che non è più bastata la lingua del sommo poeta Dante Alighieri: ci hanno propinato incomprensibili parole inglesi come spread o spending review. Anche la traduzione in lingua italiana di spread (differenziale tra i rendimenti… ecc.), sembra arrivare dalle nuvole… Il Papa, parlando nel gennaio scorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha fatto capire molto bene a tutti cosa voglia dire spread: «Se preoccupa l’indice differenziale tra i tassi finanziari, dovrebbero destare sgomento le crescenti differenze fra pochi, sempre più ricchi, e molti, irrimediabilmente più poveri». Anche nella nostra Italia. Basta chiederlo alle Associazioni che, durante le recenti feste natalizie, hanno visto arrivare a far festa, almeno la notte di Natale o quella di Capodanno, molti più nostri connazionali: uomini separati soli, famiglie che non arrivano con le spese essenziali al trenta del mese, giovani e adulti senza lavoro, anziani abbandonati dai familiari che non possono portarli-parcheggiarli nelle Case di Riposo perché costano troppo. Invece dell’economia solidale, trionfa quella in cui il motore di tutto è il denaro e il guadagno che genera una ricchezza infinita creata con speculazioni senza scrupoli per lo più da gruppi finanziari invisibili ma efficientissimi. Si capisce allora che in queste stanze dei bottoni Dio non ha nulla da dire, lui che, con Cristo, ha proclamato solennemente: «Beati i poveri». Perché i superricchi di oggi non sentono queste parole come una scudisciata sulla schiena o una coltellata tra le costole?
Infine il rapporto uomo-Dio viene esplicitamente rifiutato. Inquieta sempre di più l’odio in diverse parti del mondo, verso i cristiani che vengono uccisi. Sono i nuovi martiri.
C’è un altro fenomeno che lascia interdetti: lo sbattezzo, atto formale con cui una persona rifiuta la fede generalmente ricevuta con il Battesimo poco dopo la nascita. Concretamente si esige che il proprio nome sia cancellato dai registri parrocchiali per dimostrare pubblicamente che non si ha più nulla a che fare con Dio uscito definitivamente dalla vita. Al di là dei cammini personali di chi «esplicitamente rifiuta la fede», una causa, non meno importante, è anche un po’ collegabile ai credenti e alle Chiese che vivono la propria fede con delle contro-testimonianze evidenti. «Quelli vanno tutte le domeniche a Messa, ma sono peggio degli altri!» È un giudizio trito e ritrito che senz’altro nasconde una qualche verità. Ancora qualche breve spunto. Troppe volte il benessere sostituisce Dio o il rapporto vissuto con lui è privato, quasi un optional. Il non credere poi è vissuto come libertà rispetto a ciò che ci costringevano a fare i nostri vecchi. A volte si mettono sul peso della bilancia tutte le manifestazioni religiose cristiane e non cristiane e si pensa che una valga l’altra. Siamo in pieno relativismo. Complesso poi il rapporto tra Fede e sacramenti, specie con quelli dell’iniziazione cristiana: Battesimo, Cresima ed Eucaristia. Sempre più la gente vuole per i propri figli questi sacramenti, ma non ha Fede perché, dopo averli ricevuti, non vivono nessuna forma di vita cristiana né personale né comunitaria… «Io credo ma non vado in Chiesa». Frase molto usata, forse persino abusata, ma che ci interpella.
C’è infine il dolore, il tema del dolore inquadrato lucidamente e drammaticamente dalla celebre riflessione di Primo Levi: «Devo dire che l’esperienza di Auschwitz (diventato simbolo, icona, immagine di ogni dolore), è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo». Altri interrogativi su questo tema vengono espresse benissimo da Roberto Vecchioni nella sua canzone Ma che razza di Dio c’è nel cielo? Ecco alcune espressioni: «L’infinito silenzio sopra un campo di battaglia quando il vento ha la pietà di accarezzare; / l’inspiegabile curva della moto di un figlio che a vent’anni te lo devi scordare… / Sentire d’essere noi le sole stelle sbagliate in questa immensa perfezione serale; / e non capirci più niente nel viavai di messia discesi in terra per semplificare. Ma che razza di Dio c’è nel cielo? Ma che razza di guitto mascherato da Signore sta giocando col nostro dolore? / Ma che razza di Dio c’è nel cielo?» Bellissimo il passaggio finale anche musicale: la voce di Vecchioni e il pianoforte concludono con stupore che nel cuore c’è un altro Dio… «Ma chi è l’altro Dio che ho nel cuore? / Ma che razza d’altro Dio c’è nel mio cuore, / che lo sento quando viene, / che lo aspetto non so come che non mi lascia mai, / non mi perde mai e non lo perdo mai».
Cosa sarà questa voce? Fede? Desiderio profondo ma ancora incapace di manifestarsi? Seme che sboccia o illusione? Vocina che si fa largo tra il vociare o le urla di chi ha dimenticato, misconosciuto o anche rifiutato il rapporto che Dio ha voluto costruire con noi? O forse è troppo flebile per chi vive una vita assordata dal caos del nostro tempo coi suoi rumori? Mettiamoci anche noi in silenziosa ricerca della voce di Dio. Forse ne abbiamo bisogno anche noi per vivere la fede con gioia.

http://www.colledonbosco.it(Teologo Borèl) Marzo 2013 – autore: Don Giorgio Chatrian

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