Archive pour octobre, 2015

UNA CONVERSIONE È SEMPRE UNA NUOVA NASCITA – ALESSANDRO MANZONI *

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_d.htm#LA DOLCEZZA VERSO NOI STESSI

UNA CONVERSIONE È SEMPRE UNA NUOVA NASCITA – ALESSANDRO MANZONI *

Alessandro Manzoni, dopo un breve periodo di sbandamento interiore, si convertì a 25 anni. Conversione già preparata da una ricerca profonda della verità. Da allora in poi la religione cristiana improntò costantemente la sua vita e la sua opera. Suo capolavoro è il romanzo «I promessi sposi». Questo libro, tra i più grandi della prosa italiana, dai personaggi plastici, che scaturiscono da una acuta analisi psicologica, è tutto penetrato da una profonda concezione cristiana della vita.

Appena introdotto l’Innominato, Federico gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a persona desiderata… I due stettero alquanto senza parlare e diversamente sospesi. L’Innominato, che era stato come portato lì per forza da un determinato disegno, d stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, ‘una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell’uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatteva e, dirò così, gli imponeva silenzio. La presenza di Federico era infatti di quelle che annunziano una superiorità e la fanno amare… Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell’aspetto dell’Innominato il suo sguardo penetrante ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio di una tal visita, tutto animato, «Oh! – disse – Che preziosa visita è questa!… Voi avete una buona nuova da darmi… ». «Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual’è questa buona nuova che aspettate da un par mio». «Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuoi farvi suo», rispose pacatamente il cardinale. «Dio! Dio! Dio! Se io vedessi! Se io sentissi! Dov’è queste Dio?». «Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che vi agita, che non vi lascia stare e nelle stesso tempo vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?». «O certo! Ho qui qualche cosa che mi opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è queste Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?». Queste parole furono dette con un accento disperato; ma Federico, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispese: «Cosa può fare Dio di voi? Cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavare da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare… quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusare voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa fare di voi?.. cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di pentimento?.. Cosa può Dio fare di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compiere in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di lui? Oh pensate! se io miserabile qual sono, mi struggo ora tanto della vostra salute… Oh pensate come vi ami, come vi veglia quello che mi comanda e mi ispira un amore per voi che mi divora!». A misura che queste parole uscivano dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne ispirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, da stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevano le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furono cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto che fu come l’ultima e più chiara risposta.

* I promessi sposi – U. Hoepli editore – Milano 1906 – pp. 326-329.

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GIOVANNI PAOLO II – BENEDICTUS 2003

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/2003/documents/hf_jp-ii_aud_20031001.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 1° ottobre 2003

BENEDICTUS

1. Giunti al termine del lungo itinerario all’interno dei Salmi e dei Cantici della Liturgia delle Lodi, vogliamo sostare su quella preghiera che, ogni mattina, scandisce il momento orante della lode. Si tratta del Benedictus, il Cantico intonato dal padre di Giovanni Battista, Zaccaria, allorché la nascita di quel figlio aveva mutato la sua vita, cancellando il dubbio che l’aveva reso muto, una punizione significativa per la sua mancanza di fede e di lode. Ora, invece, Zaccaria può celebrare Dio che salva e lo fa con questo inno, riportato dall’evangelista Luca in una forma che certamente ne riflette l’uso liturgico all’interno della comunità cristiana delle origini (cfr Lc 1,68-79). Lo stesso evangelista lo definisce come un canto profetico, sbocciato attraverso il soffio dello Spirito Santo (cfr 1,67). Siamo, infatti, di fronte ad una benedizione che proclama le azioni salvifiche e la liberazione offerta dal Signore al suo popolo. E’, quindi, una lettura «profetica» della storia, ossia la scoperta del senso intimo e profondo dell’intera vicenda umana, guidata dalla mano nascosta ma operosa del Signore, che s’intreccia con quella più debole e incerta dell’uomo. 2. Il testo è solenne e, nell’originale greco, si compone di due sole frasi (cfr vv. 68-75; 76-79). Dopo l’introduzione, segnata dalla benedizione laudativa, possiamo identificare nel corpo del Cantico quasi tre strofe, che esaltano altrettanti temi, destinati a scandire tutta la storia della salvezza: l’alleanza davidica (cfr vv. 68-71), l’alleanza abramitica (cfr vv. 72-75), il Battista che ci introduce nella nuova alleanza in Cristo (cfr vv. 76-79). La tensione di tutta la preghiera è, infatti, verso quella meta che Davide e Abramo indicano con la loro presenza. Il vertice è appunto in una frase quasi conclusiva: «Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge» (v. 78). L’espressione a prima vista paradossale col suo unire «l’alto» e il «sorgere», è in realtà significativa. 3. Infatti nell’originale greco il «sole che sorge» è anatolè, un vocabolo che in sé significa sia la luce solare che brilla sul nostro pianeta, sia il germoglio che spunta. Entrambe le immagini nella tradizione biblica hanno un valore messianico. Da un lato, Isaia ci ricorda, parlando dell’Emmanuele, che «il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (9,1). D’altro lato, ancora riferendosi al re-Emmanuele, lo raffigura come il «germoglio spuntato dal tronco di Iesse», cioè dalla dinastia davidica, un virgulto avvolto dallo Spirito di Dio (cfr Is 11,1-2). Con Cristo, dunque, appare la luce che illumina ogni creatura (cfr Gv 1,9) e fiorisce la vita, come dirà l’evangelista Giovanni unendo proprio queste due realtà: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,4). 4. L’umanità che è avvolta «nelle tenebre e nell’ombra della morte» è rischiarata da questo fulgore di rivelazione (cfr Lc 1,79). Come aveva annunziato il profeta Malachia, «per voi cultori del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (3,20). Questo sole «dirigerà i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79). Ci muoviamo, allora, avendo come punto di riferimento quella luce; e i nostri passi incerti, che durante il giorno spesso deviano su strade oscure e scivolose, sono sostenuti dal chiarore della verità che Cristo diffonde nel mondo e nella storia. Vorremmo, a questo punto, lasciare la parola a un maestro della Chiesa, a un suo Dottore, il britannico Beda il Venerabile (VII-VIII sec.) che nella sua Omelia per la nascita di san Giovanni Battista, così commentava il Cantico di Zaccaria: «Il Signore… ci ha visitati come un medico i malati, perché per sanare l’inveterata infermità della nostra superbia, ci ha offerto il nuovo esempio della sua umiltà; ha redento il suo popolo, perché ha liberato a prezzo del suo sangue noi che eravamo diventati servi del peccato e schiavi dell’antico nemico… Cristo ci ha trovato che giacevamo « nelle tenebre e nell’ombra della morte », cioè oppressi dalla lunga cecità del peccato e dell’ignoranza… Ci ha portato la vera luce della sua conoscenza e, rimosse le tenebre dell’errore, ci ha mostrato il sicuro cammino per la patria celeste. Ha diretto i passi delle nostre opere per farci camminare nella via della verità, che ci ha mostrato, e per farci entrare nella casa della pace eterna, che ci ha promesso». 5. Infine, attingendo ad altri testi biblici, il Venerabile Beda così concludeva, rendendo grazie per i doni ricevuti: «Dato che siamo in possesso di questi doni della bontà eterna, fratelli carissimi, …benediciamo anche noi il Signore in ogni tempo (cfr Sal 33,2), perché « ha visitato e redento il suo popolo ». Sulla nostra bocca ci sia sempre la sua lode, conserviamo il suo ricordo e a nostra volta proclamiamo la virtù di colui che « dalle tenebre ci ha chiamato alla sua ammirabile luce » (1Pt 2,9). Chiediamo continuamente il suo aiuto, perché conservi in noi la luce della conoscenza che ci ha portato, e ci conduca fino al giorno della perfezione» (Omelie sul Vangelo, Roma 1990, pp. 464-465).

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L’INNAMORATA DEL CANTICO

http://www.christusrex.org/www1/ofm/mag/TSmgitB2.html

la terra santa – rivista bimestrale della custodia francescana di terra santa

marzo – aprile 1998

L’INNAMORATA DEL CANTICO

SR ELENA BOSETTI, SGBP

Il Cantico dei Cantici ci ripropone nella sua freschezza il progetto originario, la reciprocità uomo-donna che il peccato degli inizi ha trasformato in dominio dell’uno sull’altra. Così con la pagina del cantico ci ricolleghiamo idealmente all’inizio del nostro itinerario, al canto d’amore della prima coppia umana.
I protagonisti del Cantico sono due giovani che condividono l’esperienza pastorale. « A contatto con le cose create da Dio, intatte come appena uscite dalla sua mano, i due giovani scoprono se stessi come avvolti nel grande flusso dell’Amore, realtà divina presente nel mondo che vince la morte. E questa scoperta avviene a partire dalla loro condizione di pastori, a contatto diretto con la natura » (E. Bosetti, La tenda e il bastone, Cinisello B. 1992, 134).
Invochiamo lo Spirito dell’amore più forte della morte.

1. IN ASCOLTO
I due amanti del Cantico fanno la loro prima comparsa sotto la veste di un pastore e di una pastorella. La terminologia pastorale si coniuga con quella dell’amore nella sua fase di fidanzamento, quando passione, ricerca, desiderio, incontro – i motivi si susseguono in un circolo senza fine – si consumano in un’atmosfera rarefatta al confine tra il sogno e la realtà.

1.1. Attirami dietro a te!
Il brano che apre il cantico (1,1-4) è simile a un’ouverture musicale: è un tutto compiuto, ma aperto a sviluppi ulteriori. Inizia il canto come solista la donna e il motivo dominante è quello del desiderio:
« Mi baci coi baci della sua bocca » (v. 2a).
Notiamo subito: non già due bocche che s’incontrano, ma piuttosto due bocche che si cercano, brama di ciò che si vorrebbe ma che ancora non si ha. Oppure: di ciò che si è già gustato e che ci ha conquistate con il suo ineffabile sapore e profumo, e che però ha lasciato un desiderio insopprimibile di rivivere quell’esperienza:
« poiché più soavi del vino sono le tue coccole… » (dodêka: v. 2b)
Amore, tenerezza, coccole, intrecciate con il simbolismo del vino, di grande rilievo nella Bibbia e nella letteratura orientale. Il v. 3 sottolinea la « fragranza », il senso dell’odorato. Il profumo ha un’importanza fondamentale in Oriente! Ebbene la giovane donna canta che il suo profumo è proprio lui, l’amato. Si nota un gioco lessicale tra shem (nome) e shemen (profumo). La tua presenza è il mio profumo!

« Attirami (rapiscimi!) dietro a te, corriamo » (v. 4)
La giovane esprime il desiderio di essere introdotta nella stanza nuziale, nell’alcova del re-pastore per gioire e far festa, per assaporare (« ricordare ») le sue tenerezze. Il testo esprime un forte desiderio d’intimità e si muove su un doppio piano. Infatti la parola hadar, che abbiamo tradotto con alcova, indica letteralmente « le stanze interne » (allusione alla stanza interna del Tempio, il Santo dei santi?)) e il far festa è al contempo « un ricordare », un celebrare. Portami – sembra dire la giovane innamorata – dove si possa far memoria della nostra storia d’amore. Dammi di assaporare ciò che mi hai fatto gustare! A questo punto c’è il passaggio dall’io al noi: « Di te ci si innamora »! E’ un contagio d’amore.

1.2. Dimmi dove pascoli il gregge!
In Ct 1,5-8 abbiamo l’autopresentazione della donna in una cornice pastorale. Immaginiamo la scena: lei in primo piano e sullo sfondo le figlie di Gerusalemme (coro). Lei si presenta alle amiche. Racconta di sé, della sua figura (scura ma bella), della sua storia d’amore (non ha saputo custodire la sua vigna). Ma al v. 7 il discorso cambia direzione: dal voi passa al tu. Mentre sta parlando alle amiche, la giovane si rivolge direttamente a lui come se fosse presente. Lui però non c’è. Ci sono le figlie di Gerusalemme. Ma lei si volge a lui in prima persona: « dimmi »!

« Amore dell’anima mia dimmi dove vai a pascere il gregge » (Ct 1,7).
La risposta, di fatto, viene dal coro:
« Segui le orme del gregge… » (Ct 1,8).

Cerchiamo di approfondire i vari elementi.
- Lo scenario: è l’ora del meriggio, assolata, capace di dare alla testa…
- Sulle piste infuocate dei beduini, una donna.
- Scura ma bella. Una bellezza che fa armonia con l’ambiente pastorale in cui lei vive. La pelle scura è il risultato della sua vita esposta al sole.
Dunque una bellezza feriale, non sofisticata.
- Controllo e opposizione inutili da parte dei suoi fratelli. Lei, benché giovane, ha il coraggio della propria autonomia.
- La donna invoca l’amato: « dimmi dove pasci! »
- E il coro indica una sicura pista di ricerca: « segui le orme del gregge ».

Dunque: dalle orme del gregge al ritrovamento del pastore.
L’amore si profila già come continua ricerca, con la pazienza di passare attraverso delle tracce: non direttamente le orme del pastore, ma quelle del gregge. Una ricerca « mediata », nella convinzione che dove si trova il gregge lì è il pastore.

1.3. Il mio diletto è mio e io sono sua
Ci fermiamo sul brano 2,8-17. Si trova subito dopo il « duetto dell’incontro » (Ct 1,9-2,7), il canto estasiato di due innamorati abbracciati senza vergogna (come nel giardino dell’Eden), estasiati l’uno dell’altro. E’ un duetto che non conosce i falsi pudori e che ricorre alle immagini più ardite per descrivere la bellezza della persona amata. Questa volta è lui a cominciare, ma l’ultima parola tocca a lei: « Figlie di Gerusalemme vi scongiuro, non destate l’amore finché non lo desideri » (2,7).
Ct 2,8-17 ci ambienta in una scena stupenda, di primavera. E’ di nuovo lei che prende l’iniziativa. Si noti la tensione progressiva:

- la voce
- i passi
- gli occhi
- il « nostro muro », quello dell’incontro, degli appuntamenti… ma che ora impedisce di vedere, perché Lui è al di là del muro…
- e di nuovo la voce, ormai decifrabile. Sono parole sognate e invocate.
Lei aveva supplicato: « Rapiscimi! » (1,4). Lui ora le dice: « Vieni via! ». Corri via con me! C’è perfetta corrispondenza tra lei che vede lui dalle inferiate e lui che vede lei come colomba tra la roccia.
In sequenza: volto – voce – voce – volto.
Il v. 15 che ha suscitato le interpretazioni più stravaganti:
« Catturateci le volpi / le volpi piccoline
che devastano le vigne / le nostre vigne in fiore ».

Le piccole volpi potrebbero essere, secondo alcuni esegeti, i cuccioli degli sciacalli golosi dei grappoli d’uva in maturazione. Dato però il simbolismo vigna – corporeità femminile, si può intendere l’immagine delle volpi piccoline come ciò che attenta l’amore nella sua integrità.

La donna del cantico ribadisce la sua fedeltà e il desiderio di lui:
« Il mio amato è mio e io sono sua,
di lui che pasce tra i gigli » (v. 16).

E’ una formula di mutua appartenenza, di alleanza sponsale. Si canta la gioia ineffabile della reciproca appartenenza.

1.4. Verso l’amore che non ha tramonto
Ci fermiamo su Ct 7,11-8,7. In questo brano vengono ripresi elementi già noti e raccolti in un vertice sublime dove la donna non sperimenta più il dominio dell’uomo, ma invece la gioia del suo appassionato desiderio. Viene invertita la formula di Gen 3,16. Mentre Gen 3,16 attesta al contempo attrazione e dominio:
« Verso tuo marito (il tuo uomo) sarà la tua passione
ma egli ti dominerà »,

in Ct 7,11 la donna, usando le stesse parole, capovolge la situazione:
« Io sono per il mio diletto
e verso di me è la sua (di lui) passione » (Ct 7,11).

Tra i due amanti del Cantico vi è reciprocità piena, senza alcuna violenza e sopraffazione dell’uno sull’altro, senza prepotenza maschile. Lei chiede di essere posta come perenne segno d’amore sul cuore e sul braccio di lui. In modo che anche i momenti di lontananza e di inevitabile separazione siano legati dal ricordo dell’amore e dal desiderio di un nuovo incontro:
Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l’amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio (Ct 8,6-7).

Il pensiero corre all’Apocalisse, alle nozze definitive della Sposa con l’Agnello… ma il testo ci provoca più radicalmente a vivere la vita presente come questione di amore. Nella prospettiva del Cristo che ha teneramente amato la sua Chiesa e si è dato tutto per lei (cf. Ef 5,25).
La vita cristiana è decisamente questione di amore sia in rapporto al Diletto pastore, sia in rapporto al gregge di Lui. Esempio tipico di questa sintesi può essere ritenuto Gv 21: Mi ami? Pasci! Seguimi!

Concludo con questa pagina di S. Teresa di Gesù, Dottore della Chiesa:
Gesù mio!… Chi potrà far intendere quanto ci sia vantaggioso gettarci fra le braccia di Dio e stabilire con sua Maestà questo patto: Io mi curerò del mio Diletto e il mio Diletto si curerà di me; Egli veglierà sui miei interessi e io sopra ai suoi?
… Torno a dirvi e a supplicarvi, mio Dio, di concedermi per il sangue di vostro Figlio, ch’Egli mi baci col bacio di sua bocca.
Che cosa sono senza di Voi, o Signore?
Che cosa valgo se non sono unita a Voi?
E dove vado a finire se anche per poco mi allontano da Voi?
(S.Teresa di Gesù, Pensieri sull’amore di Dio, IV,7: Opere, Roma 1992, 1012).

 

Gesù il « servo del Signore »

Gesù il

http://gesusalvatore.myblog.it/2010/09/01/vita-di-gesu-12/

Publié dans:immagini sacre |on 16 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

IL «SERVO DEL SIGNORE» (Is 42; 49-50; 52-53).

 http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0014.htm

IL «SERVO DEL SIGNORE» (Is 42; 49-50; 52-53).

(C’è Zaccaria invece di Ebrei, è un altro anno liturgico)

« ESSI SI VOLGERANNO A ME CHE HANNO TRAFITTO… IN QUEL GIORNO VI SARA’ UNA FONTANA ZAMPILLANTE » (Zc 12,10; 13,1)

P. Aurelio Pérez fam

All’interno del libro del profeta Isaia si distinguono chiaramente tre parti, di cui la prima (cap. 1-39) è quella propria del profeta Isaia, vissuto nell’VIII sec. a. C., e la seconda (cap. 40-55), ambientata in un quadro storico di quasi due secoli dopo, è quella che contiene i cosiddetti « canti del servo ». L’orizzonte di consolazione, di attesa di liberazione, di speranza di rinnovamento cantato dal « secondo Isaia » durante l’esilio, è dominato dalla misteriosa figura del « servo del Signore », innocente e giusto, chiamato a radunare il popolo disperso e ad essere addirittura luce delle genti, ma attraverso una morte violenta che espia i peccati del popolo. Chi è questo servo? Alcuni lo identificano con il popolo d’Israele, chiamato spesso « servo » del Signore (cf Is 41,8-16; 44,21-23), molti propendono a vedervi una figura storica, l’anonimo profeta che scrive (il secondo Isaia). In ogni modo sono i testi sul servo sofferente e la sua espiazione vicaria quelli che Gesù ha evocato ed ha applicato alla sua missione e passione, soprattutto in quella lectio divina che rilegge tutte le Scritture, fatta personalmente da Lui ai due discepoli di Emmaus dopo la risurrezione (Lc 24,25-32.44-46).

1. Il Signore presenta il suo Servo. Primo canto (Is 42,1-9) L’identità personale di questo servo viene, anzitutto, presentata solennemente dal Signore stesso, che lo qualifica come colui che Egli sostiene, il suo « eletto » in cui si compiace e in cui pone il suo Spirito, per portare il diritto alle nazioni e stabilirlo sulla terra (vv. 1.4). Questa missione universale così grande sarà caratterizzata da uno stile di discrezione, misericordia e compassione, che non scoraggia nessuno, ma nello stesso tempo è fermo e costante nel portare a termine la missione che il Signore gli affida (vv. 2-4). « Io, JHWH, ti ho chiamato nella giustizia e ti ho afferrato per mano, ti ho formato e ti ho stabilito alleanza di popolo e luce delle nazioni, per aprire gli occhi dei ciechi, far uscire dal carcere i prigionieri e dalla prigione gli abitatori delle tenebre » (vv. 6-7)

2. Il Servo presenta se stesso e la sua difficile missione Secondo e terzo canto (Is 49,1-7; 50,4-9a) Il Servo stesso presenta, di nuovo in modo solenne, la sua vocazione profetica. Ha coscienza di essere stato « chiamato » (49,1), anzi « plasmato » (49,5) dal Signore fin dal seno materno, non solo per ricondurgli Giacobbe e a Lui riunire Israele, ma anche per essere luce delle nazioni (49,6), affinché la salvezza misericordiosa del Signore arrivi alle estremità della terra e abbracci tutti. Ma si tratta di una vocazione simile a quella di Geremia (cf Ger 1,4-10), caratterizzata da una misteriosa sofferenza, che sembra rendere inutile e destinato al fallimento lo sforzo del profeta (49,4), la cui vita verrà disprezzata e rifiutata (49,7). Ma l’opera del Signore nel suo Servo avrà, alla fine, la meglio e si manifesterà di fronte ai potenti della terra (49,7). Continuando su questa linea, il terzo canto del Servo (50,4-9a), presenta, ancora in termini autobiografici, la sofferenza fisica e morale (v. 6), con dettagli (flagelli, insulti, sputi) che si compiranno alla lettera nella Passione di Gesù. Il Signore che chiama il suo Servo a sostenere gli sfiduciati, lo prepara a questa missione aprendogli l’orecchio alla sua volontà, e il Servo risponde con decisione (vv. 4-5), anzi rende la sua faccia dura come pietra, fiducioso nel Signore (v. 7; cf Ez 3,4-11; Lc 9,11).

3. Il Servo « schiacciato per le nostre iniquità » Quarto canto (52,13-53,12) La missione del Servo di JHWH conoscerà un fallimento bruciante agli occhi umani e un epilogo inatteso. Si tratta di una notizia inaudita. La persecuzione e la passione, che il Servo in persona presentava nel terzo canto, diventano una umiliante condanna a morte, in cui entra senza aprir bocca, « come agnello condotto al macello » (53,7). Martin Buber, ebreo anche lui, ha scritto che « il successo non è uno dei nomi di Dio ». Solamente a distanza, coloro che erano stupiti di lui – «tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo» (52,14) – apriranno gli occhi e «comprenderanno ciò che mai avevano udito» (52,15). Verrà alla luce una rivelazione incredibile: il Servo «castigato, percosso da Dio e umiliato» (53,4cd), questo «uomo dei dolori» è, in realtà, il soggetto nascosto del più alto compiacimento del Signore e della sua volontà di salvezza(1). Viene sottolineato con molta insistenza che la morte ignominiosa del servo innocente, ha nel disegno misterioso del Signore, un carattere vicario: « si è caricato delle nostre sofferenze » (53,4), « è stato trafitto per i nostri delitti… per le sue piaghe noi siamo stati guariti » (53,5, cf vv. 6.8b.11d.12d). Com’era stato all’inizio (52,13-15), così alla fine, è il Signore che dice l’ultima parola sulla sorte e sulla « buona riuscita » e il « successo » (quello secondo Dio) che avrà il Servo(2). La sua morte si rivelerà un’esplosione di vita e il Signore gli darà in premio le moltitudini (53,11-12).

ZACCARIA: Il « trafitto » e la « fontana zampillante » Il libro del profeta Zaccaria si divide in due parti ben distinte(3). La prima parte (cap. 1-8) si occupa, come il profeta Aggeo, della ricostruzione del Tempio e della restaurazione nazionale, ma che aprono all’era messianica, in cui sarà esaltato il sacerdozio rappresentato da Giosuè (3,1-7), ma in cui la regalità sarà esercitata dal « germoglio » (3,8), che 6,12 applica a Zorobabele. I due unti (4,14) governeranno in perfetto accordo. La seconda parte (cap. 9-14), tutta diversa per stile e orizzonte storico, è importante soprattutto per la dottrina messianica: la rinascita della casa di Davide (12), l’attesa di un Re Messia umile e pacifico (9,9-10), l’annunzio misterioso del Pastore rifiutato e valutato trenta sicli d’argento (11,12-13), e del « Trafitto » (12,10), con cui il Signore stesso si identifica, verso cui si volgeranno gli sguardi, e nel cui « giorno » sgorgherà una « fontana zampillante » che laverà il peccato e l’impurità (13,1). Dietro questo misterioso « trafitto » ci sono le figure storiche del santo re Giosia, trafitto proprio nella pianura di Meghiddo, di tutti i profeti e giusti perseguitati, ma soprattutto si staglia la profezia del Messia Gesù trafitto sulla croce, dal cui costato sgorgherà la sorgente della salvezza per tutti. Il Nuovo Testamento citerà o farà allusione a questi capitoli di Zaccaria. (cf Mt 21,4-5; 27,9; Mc 14,27; Gv 19,37).

[1] Cf F. ROSSI DE GASPERIS – A. GARFAGNA, Prendi il Libro e mangia, 3.1, p. 47.

[2] Gli esegeti ritengono che sia più o meno contemporanea della profezia del secondo Isaia anche la “storia di Giuseppe” (Gen 37,2-50,26), segnata da un abbassamento drammatico a cui segue una glorificazione inattesa, attraverso la quale diventa il salvatore dei suoi fratelli malvagi e gelosi. Si ripeta la storia di una “pietra scartata dai costruttori, divenuta testata d’angolo” nel piano di Dio.

[3] Cf LA BIBBIA DI GERUSALEMME, EDB 1992, p. 1546.

18 OTTOBRE 2015 | 29A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO B | OMELIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/8-Ordinario/29a-Domenica-B-2015/10-29a-Domenica-B-2015-UD.htm

18 OTTOBRE2015 | 29A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO B | OMELIA

UMBERTO DE VANNA

Per cominciare Gesù, pur avendo un’identità incommensurabile e un’autorità che non può essere messa in discussione, sceglie per sé come stile di vita il servizio, accogliendo la sofferenza e la croce per la salvezza di tutti. È così che va vissuta l’autorità nella chiesa, tra cristiani: senza l’ambizione di chi cerca i primi posti, e vede nella sequela un’occasione per affermare se stessi.

La parola di Dio Isaia 53,10-11. La prima lettura ci presenta una parte del quarto carme del « servo di Iahvè ». Nei versetti che precedono, Isaia descrive questo servo come un piccolo virgulto nel deserto, cresciuto in terra arida, « disprezzato e reietto dagli uomini ». Nella parte che viene proposta oggi, veniamo a conoscere il pensiero di Dio, che attua i suoi disegni proprio attraverso l’umiltà, la debolezza e la sofferenza di questo servo, figura di Gesù, che salva gli uomini servendoli e dando la vita per loro. Ebrei 4,14-16. Il brano della lettera agli ebrei ricorda che possiamo metterci nelle mani di Dio con piena fiducia. Gesù infatti, nostro grande sommo sacerdote, vero uomo, ma anche vero Dio, ha condiviso in tutto le nostre debolezze, e viene in nostro aiuto. Marco 10.35-45. Gesù ha appena parlato per una terza volta della sua passione e morte e due apostoli si fanno avanti per chiedere i primi posti nel futuro regno che sta per realizzare. Gesù approfitta della loro evidente ambizione per far conoscere quale deve essere l’idea di autorità che deve caratterizzare la comunità cristiana.

Riflettere..

o Qualcuno ha voluto vedere nell’atteggiamento di Giacomo e di Giovanni il primo tentativo di scisma della chiesa. I due discepoli si separano dagli altri apostoli per l’ambizione del potere e per occupare i primi posti. Forse è davvero questo simbolicamente l’inizio di tante altre divisioni, quasi sempre determinate da rivalità e desiderio di prevalere. o Gesù ha appena ricordato agli apostoli quale sarebbe stata fra breve la sua fine: salire a Gerusalemme, essere consegnato nelle mani dei capi dei sacerdoti e degli scribi, venire condannato a morte, consegnato ai pagani, essere deriso, flagellato, ucciso, e dopo tre giorni risorgere. o Non è la prima volta che Gesù fa questa affermazione, aggiungendo particolari sempre più realistici e drammatici, che hanno lo scopo di preparare quegli uomini dalla fede ancora debole a quel momento per loro difficilissimo. Ma come le altre volte, Gesù viene lasciato solo anche dai suoi apostoli, che non comprendono. o Ci è difficile pensare che gli apostoli, avendo udito più volte queste parole, possano immaginare che Gesù salga a Gerusalemme per dare inizio a un regno messianico glorioso e di tipo politico. Forse qualcuno di loro ha potuto pensare che quelle parole facessero riferimento a un momento di difficoltà, ma che poi tutto si sarebbe risolto e Gesù avrebbe dato inizio al suo regno, più volte annunciato, per il quale erano stati fatti apostoli. o A sorpresa due di loro, e non due qualsiasi, ma Giacomo e Giovanni, i Boanèrghes, i « figli del tuono » (Mc 3,17), chiedono a Gesù di poter sedere alla sua destra e alla sua sinistra nel futuro regno. Mentre Gesù pensa alla sua tragica fine, essi pensano ai posti di onore, a fare carriera. È la solita mentalità terra terra degli apostoli, così lontana dallo spirito del vangelo predicato da Gesù. Per loro sedere a destra e a sinistra sul trono di Gesù è la conquista di una posizione di prestigio, una meta a cui tendere. o Gesù non nega la gloria, ma dice che essa sarà conseguenza di una fedeltà fino al sangue e passerà attraverso la croce. Dice loro realisticamente: « Voi non sapete quello che chiedete », quasi a indicare la distanza che ancora li separa. o Quando Gesù giungerà alla vigilia della sua sofferenza, chiederà che il calice amaro gli venga allontanato… Sarà una preghiera piena di realismo e di umanità. I due apostoli invece si dicono sicuri di sé, e affermano di poter bere quel calice… È una dichiarazione piena di presunzione. È lo stesso slancio di Pietro che giurò che non avrebbe mai tradito Gesù, anzi che non avrebbe mai permesso che gli fosse fatto del male, e poi lo abbandona e si rifiuta di conoscerlo. o Gli altri apostoli si accorgono della richiesta dei due e si indignano, o perché hanno capito l’assurdità di quanto chiedono o più realisticamente perché vedono in questa richiesta una iniziativa per scavalcarli prendendoli in contropiede. o Gesù non si indispone, pur vedendoli così lontani. Riconosce che anche loro un giorno berranno l’amaro calice e saranno battezzati dalla stessa sofferenza, e continua a catechizzarli, proponendo a loro, senza sconti, l’insegnamento nuovo e sorprendente di come si deve pensare l’autorità nella sua nuova comunità: chi vuole essere importante deve diventare debole, chi vuole essere grande deve farsi servo (diakonos), chi vuole essere il primo deve farsi schiavo (doulos). Se i grandi della terra spadroneggiano sugli altri, tra i cristiani non deve essere così. o Ogni rabbino che si rispetti al tempo di Gesù ha dei discepoli dai quali si fa servire in tutto, disponibili a ogni servizio. Ed essi sono disposti a umiliarsi, pur di diventare un giorno come il loro maestro, un rabbino pieno di privilegi e di un’autorità sociale riconosciuta. o L’insegnamento di Gesù al riguardo è, come già è stato detto, nuovo e imprevedibile, opposto. E il suo non è un insegnamento astratto o paradossale, non indica semplice-mente una meta a cui tendere: è uno stile di vita che Gesù sceglie per sé in ogni circostanza. o Il Figlio di Dio che si è fatto uomo non si fa mai servire da nessuno. Anzi, è lui che serve. Non chiede che gli lavino i piedi, ma è lui che lava i piedi ai discepoli. Non prende comportamenti che lo stacchino dagli altri; non cerca di scavalcare nessuno per farlo diventare piccolo; non vede nell’altro un concorrente o un nemico.

Attualizzare

* Quando Marco scrive questo brano, Giacomo ha già dato la vita per Cristo e per la chiesa, morendo martire a Gerusalemme (At 12,2). Quanto a Giovanni, è da tempo impegnato, come gli altri apostoli, in un’infaticabile predicazione del vangelo. Questi due apostoli hanno dunque col tempo compreso bene l’insegnamento di Gesù. Forse è per questo che Luca non ricorda l’episodio e Matteo dice che è la madre a chiedere per i suoi figli i due posti nel regno di Gesù (Mt 20,20-24). Ma il testo di Marco appare più realistico e doppiamente credibile. * Si sa che l’ambizione è la molla del potere. Chi si trova investito di autorità e c’è arrivato magari a forza di gomitate, ama costruire attorno a sé degli steccati, accetta pacificamente i suoi privilegi ed è disposto a difenderli magari con arroganza. * Marco, che presenta la predicazione di Pietro, si propone di far riflettere la chiesa delle origini sul rischio di costruire una chiesa che accetta privilegi, cerimoniali servili e gesti di sottomissione, cosa che manderebbe in crisi la fraternità nella comunità. * Nella chiesa di tutti i tempi ci sono persone meravigliose che non si preoccupano di nulla se non di annunciare il vangelo e di servire i fratelli, santi da altare o cristiani anonimi che operano unicamente distinguendosi solo per la generosità. * È però inevitabile oggi chiederci se i duemila anni della chiesa non hanno appannato questa concezione cristiana del potere. Domandarci se si guarda ai posti di responsabilità come a un’occasione per servire meglio, oppure come al coronamento di una carriera. * Nella chiesa più che altrove l’autorità dovrebbe essere caratterizzata da un senso di misura anche più marcato, essere vissuta maggiormente coi piedi per terra, evitando distacchi assurdi e una concezione aristocratica della propria funzione. Certamente l’autorità nella chiesa è una realtà indiscutibile e va accolta senza contestazioni di principio o diffidenze, ma dovrebbe essere esercitata secondo criteri evangelici e non in modo spersonalizzato e burocratico, a imitazione del potere civile. * Nella chiesa comunque i cristiani di fronte a un abuso di potere reagiscono senza creare spaccature insanabili, senza costruire ghetti o creare il vuoto attorno a chi è in autorità. Si propongono invece di liberare l’eventuale ambizioso dalla sua mentalità ristretta, lavorando per una sua conversione in radice, allo scopo di fargli capire che la giusta collocazione dell’autorità, secondo il vangelo, consiste nel farsi schiavi e servi degli altri. * Ma, concludendo, e proprio per rendere il pensiero di Gesù più vicino a noi, meno astratto e qualunquistico, dovremmo non soltanto puntare il dito sulle autorità civili e religiose, ma su di noi stessi e domandarci come viviamo la nostra piccola o grande fetta di autorità in famiglia, sul lavoro, nella scuola. Perché l’ambizione a volte si annida proprio là dove non te lo aspetteresti, magari in situazioni micro, che pure rivelano nel cuore di una persona più l’ambizione e il desiderio della sopraffazione, che la fraternità.

La comprensione di una madre « Colui che governa sia esemplare nella condotta, discreto col silenzio, utile con la parola, vicino a tutti con la carità; con umiltà vicino a chi compie il bene, con forza e amore di giustizia schierato contro i vizi dei malvagi. Chi ha il potere cerchi non tanto il gusto di imporsi agli altri quanto la gioia di far loro del bene. Fa buon uso del potere chi se ne serve per aiutare gli altri. La comprensione riveli ai sudditi nel pastore, una madre; la disciplina ne mostri la forza come in un padre » (san Gregorio Magno).

La tiara, il celebre copricapo del papa « La tiara era il simbolo dell’autorità e della giurisdizione universale del vescovo di Roma. Resta incerta la sua origine, ma nel secolo XIII era costituita da una sola corona, nel secolo seguente da due e, pochi decenni dopo, da tre corone sovrapposte, simboli dei tre regni su cui il papa estendeva il suo potere: il cielo, la terra e sottoterra. Eletto papa, Paolo VI compì un gesto storico: se la pose sul capo e subito se la tolse, questa volta per sempre. Il triregno era un simbolo troppo equivoco, troppo compromesso, incompatibile con l’unico diadema glorioso che aveva ornato il capo del Maestro, la corona di spine » (Fernando Armellini).

Santa Teresa D’avila, estasi

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ALCUNI INSEGNAMENTI DI SANTA TERESA D’AVILA

http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/teresatocci.htm

ALCUNI INSEGNAMENTI DI SANTA TERESA D’AVILA

(è un po’ lungo – non tanto – le altre meditazioni, sono sette, da leggere)

FRANCO MICHELINI-TOCCI

Teresa d’Avila è una personalità che merita di essere considerata con attenzione da chiunque abbia interesse per la vita spirituale. Certo, un cristiano troverà nelle sue opere un linguaggio che gli è più familiare di altri, ma anche un buddhista o un induista, o chiunque altro, se vorrà cogliere il fondo del suo messaggio, troverà qualcosa di utile alla sua pratica, soprattutto dal punto di vista psicologico. Teresa è stata infatti, come lei stessa ci dice alla fine dell’autobiografia, una grande maestra spirituale, con una pratica di insegnamento affinata per tutta la vita. Una vita durata 67 anni, che si concluse nell’ottobre del 1582. La prima cosa che colpisce è la sua personalità, molto poco corrispondente alla visione edulcorata che la tradizione agiografica stende come un sudario su tutti i grandi canonizzati, col risultato di renderli lontani e inaccessibili, anziché farne modelli di vita per tutti. La chiesa sembra escludere l’idea che un santo possa sbagliare, cioè che possa essere umano, e così ogni volta che Teresa denuncia serenamente le sue colpe e le sue manchevolezze, troviamo a pie’ di pagina la nota di un pio commentatore impegnato a testimoniare con fervore che si sa bene che “non commise nessun peccato mortale”. Ma io preferisco credere a quello che Teresa, al pari della maggioranza degli altri santi, ci dice non soltanto sui propri sbagli, ma sugli sbagli che inevitabilmente possono toccare anche alle grandi personalità spirituali, almeno finché sono uomini e donne viventi sulla terra. Ecco le sue stesse parole:  Queste anime hanno vivi desideri e ferme risoluzioni di non commettere imperfezioni di sorta, ma non senza che per questo lascino di commetterne molte, e anche peccati. Non però con avvertenza…Parlo dei peccati veniali, non dei mortali, dai quali si sperano libere, benché non con molta sicurezza, essendo possibile che ne abbiano qualcuno di occulto. 1  Meriterebbe un cenno particolare, per cogliere meglio la personalità di Teresa, anche un suo dono specifico, che fu quello della relazione interpersonale, in particolare la sua capacità di affetti profondi, di devozioni assolute, di slanci che la portavano in estasi, tutti segni del suo carattere impulsivo, generoso, poco incline a rispettare le forme stereotipate della vita monastica, ma il discorso sarebbe lungo e ci distoglierebbe dal dedicare tutta l’attenzione a quello che ella chiamò “il metodo di orazione”, cioè la pratica seguita per giungere al momento culminante dell’“unione trasformante”. Nella sintesi che segue terremo conto, soprattutto, di ciò che può maggiormente interessare un praticante di meditazione. Bisogna dire intanto che l’“orazione” di Teresa ha poco a che fare con quello che la parola suggerisce. Ella infatti dichiara che aveva difficoltà con la preghiera verbale e immaginativa, difficoltà che fu poi superata dalla lettura di Osuna, un contemplativo suo contemporaneo, che suggeriva un metodo di preghiera basato essenzialmente sul raccoglimento. L’altra difficoltà consistette nel conflitto interiore nel quale visse i primi vent’anni della sua vita religiosa. Questo conflitto faceva sì che ella portasse nel raccoglimento tutti i problemi della sua vita non integrata, rivolta al mondo e non all’Assoluto. Alcune sue affermazioni fanno pensare che le maggiori difficoltà le derivassero da un autocompiacimento narcisistico, che creava naturalmente un ostacolo al non attaccamento e all’abbandono. Confessa ella infatti, con la sua tipica lucida sincerità: Dio mi ha dato la grazia di piacere a chiunque. Ho sempre cercato di contentare chiunque, nonostante la ripugnanza che a volte sentivo. 2 Quando infine, dopo un travaglio durato vent’anni, davanti a una statua dell’Ecce homo, immagine della totale rinuncia a se stessi, ebbe un’intuizione profonda di sé che le fece cambiare orientamento, incominciò per lei il periodo in cui la pratica dell’‘orazione’ le manifestò tutti i grandi doni che la resero famosa. Il metodo da lei praticato è esposto nelle sue opere principali, in modo più sistematico nel Castello interiore e nel Cammino di perfezione e, con un linguaggio più immediato, nella Vita scritta da lei stessa. Le prime considerazioni riguardano due fatti. Il primo è che questo tipo di lavoro interiore non è per tutti e che occorre una predisposizione, il secondo che è necessario un certo tipo di sforzo, maggiore all’inizio e sempre più leggero man mano che si procede, fino a cessare del tutto nel grado più alto. Questo lavoro consiste essenzialmente nel cercare di calmare l’irrequietezza della mente che è data, nel linguaggio classico di Teresa, dalla dispersione delle potenze, o facoltà, dell’anima: intelletto, memoria e volontà (noi potremmo dire, con un linguaggio oggi più accessibile: pensieri, ricordi e affetti). Tutto dunque nasce dall’osservazione, tipica dei mistici di tutti i paesi, che queste facoltà normalmente non sono soggette a controllo e, agendo a loro piacere, mantengono la psiche in stato di agitazione e di disordine, rendendo impossibile ogni tentativo di instaurare la pace e la calma interiori. Più precisamente, si potrebbe dire che lo stato disordinato in cui si trovano impedisce l’accesso a quel ‘fondo’ dell’anima (come per primi lo chiamano i mistici tedeschi) in cui regna sempre la quiete divina.

RACCOGLIMENTO, PRIME ‘STAZIONI’, PRIMA ACQUA Per ottenere questo risultato, lo sforzo iniziale consiste nel ‘raccoglimento’, che è un modo per tenere occupata la mente su un unico oggetto, evitando che si disperda come fa di solito. L’oggetto, indicato da Teresa, è in realtà più d’uno, ma questi si possono ridurre a tre o quattro principali. Al primo posto possiamo mettere quello più tradizionale per un cristiano, che è la meditazione, ossia l’attenta osservazione di un episodio importante della Scrittura, come per esempio la passione di Cristo. Tuttavia, in maniera piuttosto libera e originale, Teresa non si sogna nemmeno di dire che questo sia l’unico modo e ne suggerisce almeno altri tre. Uno consiste nella lettura di un libro, soffermandosi di tempo in tempo su qualcosa che attragga in modo particolare l’attenzione, l’altro nella meditazione di una propria mancanza o difficoltà e il terzo nella contemplazione della natura. “Per me bastava anche la vista dei campi, dell’acqua e dei fiori”, ci dice. 3 Poiché però sappiamo che questi inizi sono caratterizzati da sforzo, dobbiamo pensare che si debba esercitare una buona dose di volontà per mantenere l’attenzione concentrata il più possibile sull’oggetto prescelto. Scegliendo una metafora che le è cara, Teresa dirà che all’inizio della via si è simili a un giardiniere che attinga faticosamente l’acqua dal pozzo per innaffiare il giardino. In questa prima fase non mancano osservazioni rivolte ai principianti, che meritano, per l’acume con cui sono formulate, la dovuta attenzione. In particolare, viene segnalata l’importanza del fare tutto con leggerezza e allegria, senza cercare di soffocare i propri desideri, anche quando sono semplici e umanissimi desideri di riuscita nel cammino intrapreso. 4 La raccomandazione di non affidarsi in maniera acritica ai maestri spirituali (“oggi così rari e così pochi di numero”), 5 detta proprio da lei che si affidò totalmente ad alcuni di essi, mette in luce il fatto che il suo entusiasmo non fu mai disgiunto da una sicura capacità di giudizio. Metteva in guardia soprattutto contro coloro che, essendo inutilmente troppo prudenti, ostacolavano il cammino dei discepoli, costringendoli ad attenersi alle forme abituali della pratica, quando erano già pronti per passare alle forme superiori. Infine, meritano di essere ricordate, per una loro universale opportunità, tre raccomandazioni. La prima è quella di non credere che giovi al raccoglimento avere tutto quello che può sembrare necessario, in termini di silenzio o di ambiente adatto, sotto pretesto che le cure temporali disturbino l’orazione. La seconda, notevolissima per il suo anticonformismo, esprime diffidenza verso certi slanci comuni ai principianti: Quando non sapevo ancora come correggere me stessa, desideravo grandemente di fare del bene agli altri: tentazione molto comune ai principianti e che a me riuscì assai bene.  Appena si è cominciato a gustare la pace e i vantaggi dell’orazione, si desidera che tutti si facciano spirituali. 6 E la terza, dello stesso genere, riguarda la preoccupazione per i difetti altrui: (a volte) l’angustia è così viva che impedisce di fare orazione, con l’aggiunta anche di credere, per nostro maggior danno, che ciò sia virtù, perfezione e grande amore di Dio… Il più sicuro per l’anima che comincia a fare orazione è di dimenticare tutto e tutti per non attendere che a se stessa e accontentare il Signore. 7  Sembra dire con ciò Teresa che l’interesse per il bene altrui non è frutto dell’entusiasmo del principiante, ma conseguenza di un serio lavoro su di sé (senza che questo significhi però sforzo eccessivo, altra caratteristica da principianti). 8 Per semplicità tralascio i particolari che riguardano alcune distinzioni graduali in questa prima fase del raccoglimento. Teresa la divide in tre livelli, nei quali è possibile esaminare diverse forme delle prime difficoltà, come la tentazione di rinunciare e l’aridità interiore, quando sembra che anche gli sforzi non abbiano effetto di alcun genere e il principiante si sente depresso e smarrito. Questi diversi stadi sono chiamati, nel Castello interiore, col termine spagnolo di moradas, cioè di soste o tappe; nelle edizioni italiane più recenti è invalso l’uso di chiamarle ‘mansioni’, dal latino del vangelo di Giovanni (14, 2), espressione di senso piuttosto dubbio in italiano, che rischia il fraintendimento. Credo perciò che sarebbe meglio tradurre con ‘stazioni’, usando il termine con cui si traduce in genere l’espressione analoga usata nel sufismo, il misticismo musulmano, che poteva non essere del tutto ignoto a Teresa, non foss’altro che per ragioni di contiguità geografica e ambientale (il regno di Granata era caduto solo 23 anni prima che lei nascesse).E passiamo ora allo stadio successivo, che è quello della ‘quiete’.

Publié dans:santi scritti |on 15 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – INAUGURAZIONE E COMPIMENTO DEL REGNO DI DIO IN GESÙ CRISTO

 http://www.clerus.org/clerus/dati/2000-06/01-2/18Mar87.html

GIOVANNI PAOLO II – INAUGURAZIONE E COMPIMENTO DEL REGNO DI DIO IN GESÙ CRISTO  

mercoledì, 18 Marzo 1987  

1. “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15). Con queste parole Gesù di Nazaret dà inizio alla sua predicazione messianica. Il regno di Dio, che in Gesù irrompe nella vita e nella storia dell’uomo, costituisce il compimento delle promesse di salvezza, che Israele aveva ricevuto dal Signore.  Gesù si rivela Messia non perché mira a un dominio temporale e politico secondo la concezione dei suoi contemporanei, ma perché con la sua missione, che culmina nella passione – morte – risurrezione, “tutte le promesse di Dio sono divenute « sì »” (2 Cor 1,20). 2. Per comprendere pienamente la missione di Gesù è necessario richiamare il messaggio dell’Antico Testamento che proclama la regalità salvifica del Signore. Nel cantico di Mosè (Es 15,1-18), il Signore è acclamato “re” perché ha mirabilmente liberato il suo popolo e lo ha guidato, con potenza e amore, alla comunione con lui e con i fratelli nella gioia della libertà. Anche l’antichissimo salmo 28/29 testimonia la stessa fede: il Signore è contemplato nella potenza della sua regalità, che domina tutto il creato e comunica al suo popolo forza, benedizione e pace (Sal 29,10). E soprattutto nella vocazione di Isaia che la fede nel Signore “re” appare totalmente permeata dal tema della salvezza. Il “Re”, che il profeta contempla con gli occhi della fede “su un trono alto ed elevato” (Is 6,1), è Dio nel mistero della sua santità trascendente e della sua bontà misericordiosa con cui si rende presente al suo popolo, come fonte di amore che purifica, perdona e salva: “Santo, santo, santo è il Signore, Dio degli eserciti, tutta la terra sarà piena della sua gloria” (Is 6,3).  Questa fede nella regalità salvifica del Signore impedì che, nel popolo dell’alleanza, la monarchia si sviluppasse in modo autonomo come presso le altre nazioni: il re è l’eletto, l’unto del Signore e, come tale, è lo strumento mediante il quale Dio stesso esercita la sua sovranità su Israele (cf. 1Sam 12,12-15). “Il Signore regna”, proclamano continuamente i salmi (cf. 5,3; 9,6; 28/29,10; 92/93,1; 96/97,1-4; 145/ 146,10). 3. Di fronte all’esperienza dolorosa dei limiti umani e del peccato i profeti annunciano una nuova alleanza, nella quale il Signore stesso sarà la guida salvifica e regale del suo popolo rinnovato (cf. Ger 31,31-34; Ez 34,7-16; 36,24-28).  In questo contesto sorge l’attesa di un nuovo Davide, che il Signore susciterà perché sia lo strumento dell’esodo, della liberazione, della salvezza (Ez 34,23-25; cf. Ger 23,5-6). A partire da questo momento la figura del Messia apparirà in intimo rapporto con l’inaugurazione della piena regalità di Dio.  Dopo l’esilio, anche se in Israele viene meno l’istituto della monarchia, si continua ad approfondire la fede nella regalità che Dio esercita nel suo popolo e che si estenderà fino agli “estremi confini della terra”. I salmi che cantano il Signore re costituiscono la testimonianza più significativa di questa speranza (cf. Sal 96 e Sal 99).  Questa speranza tocca la sua massima intensità quando lo sguardo della fede, dirigendosi oltre il tempo della storia umana, comprenderà che solo nell’eternità futura il regno di Dio si stabilirà in tutta la sua potenza: allora, mediante la risurrezione, i redenti saranno nella piena comunione di vita e di amore con il Signore (cf. Dn 7,9-10; 12,2-3). 4. Gesù fa riferimento a questa speranza dell’Antico Testamento e la proclama adempiuta. Il regno di Dio costituisce il tema centrale della sua predicazione come dimostrano in modo particolare le parabole.  La parabola del seminatore (Mt 13,3-8) proclama che il regno di Dio è già operante nella predicazione di Gesù, e al tempo stesso orienta a guardare all’abbondanza dei frutti che costituiranno la ricchezza sovrabbondante del regno alla fine del tempo. La parabola del seme che cresce da solo (Mc 4,26-29) sottolinea che il regno non è opera umana, ma unicamente dono dell’amore di Dio che agisce nel cuore dei credenti e guida la storia umana al suo definitivo compimento nella comunione eterna con il Signore. La parabola della zizzania in mezzo al grano (Mt 13,24-30) e quella della rete da pesca (Mt 13,47-52) prospettano anzitutto la presenza, già operante, della salvezza di Dio. Insieme ai “figli del regno”, però, sono anche presenti i “figli del Maligno”, gli operatori di iniquità: solo al termine della storia le potenze del male saranno distrutte e chi ha accolto il regno sarà sempre con il Signore. Le parabole del tesoro nascosto e della perla preziosa (Mt 13,44-46), infine, esprimono il valore supremo e assoluto del regno di Dio: chi lo comprende è disposto ad affrontare ogni sacrificio e rinuncia per entrarvi.  5. Dall’insegnamento di Gesù appare una ricchezza molto illuminante.  Il regno di Dio, nella sua piena e totale realizzazione, è certamente futuro, “deve venire” (cf. Mc 9,1; Lc 22,18); la preghiera del Padre Nostro insegna a invocarne la venuta: “venga il tuo regno” (Mt 6,10).  Al tempo stesso però, Gesù afferma che il regno di Dio “è già venuto” (Mt 12,28), “è in mezzo a voi” (Lc 17,21) attraverso la predicazione e le opere di Gesù. Inoltre da tutto il Nuovo Testamento risulta che la Chiesa, fondata da Gesù, è il luogo dove la regalità di Dio si rende presente, in Cristo, come dono di salvezza nella fede, di vita nuova nello Spirito, di comunione nella carità.  Appare così l’intimo rapporto tra il regno e Gesù, un rapporto così forte che il regno di Dio può essere anche chiamato “regno di Gesù” (Ef 5,5; 2Pt 1,11), come del resto Gesù stesso afferma davanti a Pilato, asserendo che il “suo” regno non è di questo mondo (Gv 18,36). 6. In questa luce possiamo comprendere le condizioni che Gesù indica per entrare nel regno. Esse si possono riassumere nella parola “conversione”. Mediante la conversione l’uomo si apre al dono di Dio (cf. Lc 12,32), che “chiama al suo regno e alla sua gloria” (1Tes 2,12); accoglie il regno come un fanciullo (Mc 10,15) ed è disposto a qualunque rinuncia per potervi entrare (cf. Lc 18,29; Mt 19,29; Mc 10,29).  Il regno di Dio esige una “giustizia” profonda o nuova (Mt 5,20); richiede impegno nel fare la “volontà di Dio” (Mt 7,21); domanda semplicità interiore “come i bambini” (Mt 18,3; Mc 10,15); comporta il superamento dell’ostacolo costituito dalle ricchezze (cf. Mc 10,23-24). 7. Le beatitudini proclamate da Gesù (cf. Mt 5,3-12) appaiono come la “magna charta” del regno dei cieli che è data ai poveri di spirito, agli afflitti, ai miti, a chi ha fame e sete di giustizia, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli operatori di pace, ai perseguitati per causa della giustizia. Le beatitudini non indicano soltanto le esigenze del regno; manifestano prima di tutto l’opera che Dio compie in noi rendendoci simili al figlio suo (Rm 8,29) e capaci di avere i suoi sentimenti (Fil 2,5ss) di amore e perdono (cf. Gv 13,34-35; Col 3,13).  8. L’insegnamento di Gesù sul regno di Dio è testimoniato dalla Chiesa del Nuovo Testamento, che lo ha vissuto nella gioia della sua fede pasquale. Essa è la comunità dei “piccoli” che il Padre “ha liberati dal potere delle tenebre e trasferiti nel regno del suo figlio diletto” (Col 1,13); è la comunità di coloro che vivono “in Cristo”, lasciandosi guidare dallo Spirito nella via della pace (Lc 1,79), e che lottano per non “cadere nella tentazione” e per evitare le opere della “carne”, ben sapendo che “chi le compie non erediterà il regno di Dio” (Gal 5,21). La Chiesa è la comunità di coloro che annunciano, con la vita e la parola, lo stesso messaggio di Gesù: “E vicino a voi il regno di Dio” (Lc 10,9). 9. La Chiesa, che “nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa si compiano le parole di Dio” (“Dei Verbum”, 8), in ogni celebrazione dell’eucaristia prega il Padre perché “venga il suo regno”. Essa vive in ardente attesa della venuta gloriosa del Signore e Salvatore Gesù, che offrirà alla maestà divina “il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace” (“Prefazio nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo re dell’universo”).  Questa attesa del Signore è incessante fonte di fiducia e di energia. Essa stimola i battezzati, divenuti partecipi della dignità regale di Cristo, a vivere ogni giorno “nel regno del figlio diletto”, a testimoniare e annunciare la presenza del regno con le stesse opere di Gesù (cf. Gv 14,12). In virtù di questa testimonianza di fede e di amore, insegna il Concilio, il mondo sarà imbevuto dello spirito di Cristo e raggiungerà più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace (cf. “Lumen gentium”, 36).

Catacombe di San Callisto, Roma

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Publié dans:immagini sacre |on 14 octobre, 2015 |Pas de commentaires »
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