Archive pour octobre, 2015

OPUS DEI – TEMA 22. LA PENITENZA (1)

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OPUS DEI – TEMA 22. LA PENITENZA (1)

1. La lotta contro il peccato dopo il Battesimo

1.1. La necessità della conversione Il Battesimo, oltre a cancellare tutti i peccati, ci costituisce figli di Dio e ci dispone a ricevere il dono divino della gloria del Cielo; tuttavia in questa vita siamo continuamente esposti a cadere nel peccato: nessuno è esentato dalla lotta contro di esso. Anche lottando abbiamo esperienza che le cadute sono frequenti. Gesù ci ha insegnato a pregare nel Padre nostro : «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», e non ogni tanto, ma molte volte al giorno. L’apostolo San Giovanni dice anche: «Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» ( 1 Gv 1, 8); e San Paolo esortava così i primi cristiani di Corinto: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» ( 2 Cor 5, 20). La chiamata di Gesù alla conversione: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» ( Mc 1, 15), non è quindi diretto solo a coloro che ancora non lo conoscono, ma anche ai cristiani che devono tornare a convertirsi e ravvivare la loro fede. «Questa seconda conversione è un impegno continuo per tutta la Chiesa» ( Catechismo , 1428). 1.2. La penitenza interiore La conversione avviene dentro di noi, quella che si limita alle apparenze esteriori non è vera conversione. Non ci si può opporre al peccato, in quanto offesa a Dio, se non con un atti buoni, azioni virtuose, con cui si manifesta il pentimento per il male fatto opponendosi alla volontà di Dio e si cerca attivamente di eliminare questo disordine e tutte le sue conseguenze. In questo consiste la virtù della penitenza. «La penitenza interiore è un radicale riordinamento di tutta la vita, un ritorno, una conversione a Dio con tutto il cuore, una rottura con il peccato, un’avversione per il male, insieme con la riprovazione nei confronti delle cattive azioni che abbiamo commesse. Nello stesso tempo, essa comporta il desiderio e la risoluzione di cambiare vita con la speranza della misericordia di Dio e la fiducia nell’aiuto della sua grazia» ( Catechismo , 1431). La penitenza non è un’opera esclusivamente umana, un riordinamento interiore frutto di padronanza di sé, che mette in gioco tutte le molle della conoscenza personale e una serie di decisioni forti. «La conversione è anzitutto opera della grazia di Dio che fa ritornare a Lui i nostri cuori: “Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo” ( Lam 5, 21). Dio ci dona la forza di ricominciare» ( Catechismo , 1432). 1.3. Le diverse forme di penitenza nella vita cristiana La conversione nasce dal cuore ma non rimane chiusa nell’intimo dell’uomo, si manifesta con opere esterne, mettendo in gioco la persona intera, anima e corpo. Fra le forme di penitenza, sono da evidenziare anzitutto quelle incluse nella celebrazione dell’Eucaristia e quelle della Confessione che è stata istituita da Gesù Cristo per farci uscire vittoriosi nella lotta contro il peccato. Il cristiano ha molti altri modi di mettere in pratica il desiderio di conversione. «La Scrittura e i Padri insistono soprattutto su tre forme: il digiuno , la preghiera , l’ elemosina (cfr. Tb 12, 8; Mt 6, 18), che esprimono la conversione in rapporto a se stessi, in rapporto a Dio e in rapporto agli altri» ( Catechismo , 1434). A queste tre forme sono riconducibili tutte le opere che ci permettono di correggere il disordine del peccato. Per digiuno s’intende non solo la rinuncia moderata al piacere del cibo, ma anche tutto ciò che ci fa essere esigenti col corpo non dandogli qualche piacere per dedicarci a quello che Dio ci chiede per il bene degli altri e nostro personale. Per orazione possiamo intendere ogni applicazione delle nostre facoltà spirituali – intelligenza, volontà, memoria – allo scopo di unirci a Dio Padre nostro in una conversazione familiare e intima. L’ elemosina è non solo dare del denaro o altri beni materiali a chi ne ha bisogno, ma anche altri tipi di donazione: condividere il proprio tempo, assistere i malati, perdonare chi ci ha offeso, correggere chi ne ha bisogno, consolare chi soffre, ed altre ancora. La Chiesa ci spinge alle opere di penitenza specialmente in alcuni momenti, che ci servano anche per essere più solidali con i fratelli nella fede. «I tempi e i giorni di penitenza nel corso dell’anno liturgico (il tempo di quaresima, ogni venerdì in memoria della morte del Signore) sono momenti forti della pratica penitenziale della Chiesa» ( Catechismo , 1438). 2. Il sacramento della Penitenza e della Riconciliazione 2.1. Cristo stesso ha istituito questo sacramento «Cristo ha istituito il sacramento della Penitenza per tutti i membri peccatori della sua Chiesa, in primo luogo per coloro che, dopo il Battesimo, sono caduti in peccato grave e hanno così perduto la grazia battesimale e inflitto una ferita alla comunione ecclesiale. A costoro il sacramento della Penitenza offre una nuova possibilità di convertirsi e di recuperare la grazia della giustificazione» ( Catechismo , 1446). Gesù, durante la vita pubblica, non solo ha esortato gli uomini alla penitenza, ma accogliendo i peccatori, li riconciliava col Padre [1] . «Donando ai suoi Apostoli lo Spirito Santo, Cristo risorto ha loro conferito il suo potere divino di perdonare i peccati: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” ( Gv 20, 22-23)» ( Catechismo , 976). È un potere che si trasmette ai vescovi, successori degli apostoli come pastori della Chiesa, e ai presbiteri, che sono anche sacerdoti del Nuovo Testamento, collaboratori dei vescovi in virtù del sacramento dell’Ordine. «Cristo ha voluto che la sua Chiesa sia tutta intera, nella sua preghiera, nella sua vita e nelle sue attività, il segno e lo strumento del perdono e della riconciliazione che Egli ci ha acquistato a prezzo del suo sangue. Ha tuttavia affidato l’esercizio del potere di assolvere i peccati al ministero apostolico» ( Catechismo , 1442). 2.2. I nomi di questo sacramento Questo sacramento riceve nomi diversi che ne mettono in evidenza i diversi aspetti. «È chiamato sacramento della Penitenza poiché consacra un cammino personale ed ecclesiale di conversione, di pentimento e di soddisfazione del cristiano peccatore» ( Catechismo , 1423); «di Riconciliazione perché dona al peccatore l’amore di Dio che riconcilia» (Catechismo, 1424); «della Confessione poiché […] la confessione dei peccati davanti al sacerdote è un elemento essenziale di questo sacramento» ( ibidem ); «del Perdono poiché, attraverso l’assoluzione sacramentale del sacerdote, Dio accorda al penitente il perdono e la pace» ( ibidem ); «della Conversione poiché realizza sacramentalmente l’appello di Gesù alla conversione» ( Catechismo , 1423). 2.3. Sacramento della Riconciliazione con Dio e con la Chiesa «Quelli che si accostano al sacramento della penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a Lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera» ( Lumen gentium , 11). «Il peccato è offesa fatta a Dio e rottura dell’amicizia con Lui; scopo quindi della penitenza è essenzialmente quello di riaccendere in noi l’amore di Dio e di riportarci pienamente a Lui. Il peccatore che, mosso dalla grazia di Dio misericordioso, intraprende il cammino della penitenza, fa ritorno al Padre che “per primo ci ha amati”, a Cristo che per noi ha dato se stesso, e allo Spirito Santo che in abbondanza è stato effuso su di noi» [2] . «“Per un arcano e misericordioso mistero della divina Provvidenza, gli uomini sono uniti fra di loro da uno stretto rapporto soprannaturale, in forza del quale il peccato di uno solo reca danno a tutti, e a tutti porta beneficio la santità del singolo” e così la penitenza ha sempre come effetto la riconciliazione anche con i fratelli, che a causa del peccato sempre hanno subito un danno» [3] . 2.4. Struttura del Sacramento della Penitenza «Gli elementi essenziali del Sacramento della Riconciliazione sono due: gli atti compiuti dall’uomo, che si converte sotto l’azione dello Spirito Santo, e l’assoluzione del sacerdote, che nel nome di Cristo concede il perdono e stabilisce le modalità della soddisfazione» ( Compendio , 302). 3. Gli atti del penitente Sono «gli atti dell’uomo che si converte sotto l’azione dello Spirito Santo: cioè la contrizione, la confessione dei peccati e la soddisfazione» ( Catechismo , 1448). 3.1. La contrizione «Tra gli atti del penitente, la contrizione occupa il primo posto. Essa è “il dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire”» (Catechismo, 1451 [4] ).«Quando proviene dall’amore di Dio amato sopra ogni cosa, la contrizione è detta “perfetta” (contrizione di carità). Tale contrizioni rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali, qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale» ( Catechismo , 1452). «La contrizione detta “imperfetta” (o “attrizione”) è, anch’essa, un dono di Dio, un impulso dello Spirito Santo. Nasce dalla considerazione della bruttura del peccato o dal timore della dannazione eterna e delle altre pene la cui minaccia incombe sul peccatore (contrizione da timore). Quando la coscienza viene così scossa, può aver inizio un’evoluzione interiore che sarà portata a compimento, sotto l’azione della grazia, dall’assoluzione sacramentale. Da sola, tuttavia, la contrizione imperfetta non ottiene il perdono dei peccati gravi, ma dispone a riceverlo nel sacramento della Penitenza» ( Catechismo , 1453). «È bene prepararsi a ricevere questo sacramento come un esame di coscienza fatto alla luce della Parola di Dio. I testi più adatti a questo scopo sono da cercarsi nella catechesi morale dei Vangeli e delle lettere degli Apostoli: il Discorso della montagna, gli insegnamenti apostolici» ( Catechismo , 1454). 3.2. La confessione dei peccati «La confessione al sacerdote costituisce una parte essenziale del sacramento della Penitenza: “È necessario che i penitenti enumerino nella confessione tutti i peccati mortali, di cui hanno consapevolezza dopo un diligente esame di coscienza, anche se si tratta dei peccati più nascosti e commessi soltanto contro i due ultimi comandamenti del Decalogo (cfr. Es 20, 17; Mt 5, 28), perché spesso feriscono più gravemente l’anima e si rivelano più pericolosi di quelli chiaramente commessi”» ( Catechismo , 1456 [5] ). «La confessione individuale e completa, con la relativa assoluzione, resta l’unico modo ordinario, grazie al quale i fedeli si riconciliano con Dio e con la Chiesa, a meno che un’impossibilità fisica o morale non li scusi da una tale confessione» [6] . La confessione delle colpe nasce dall’autentica conoscenza di sé davanti a Dio, frutto dell’esame di coscienza e della contrizione dei propri peccati. È assai più che un sollievo umano: «La confessione sacramentale non è un dialogo umano, ma un colloquio divino» [7] . Confessando i peccati, il cristiano penitente si sottopone al giudizio di Gesù Cristo, che lo esercita per mezzo del sacerdote, il quale prescrive al penitente le opere di penitenza e lo assolve dai peccati. Il penitente combatte il peccato con le armi dell’umiltà e dell’obbedienza. 3.3. La soddisfazione «L’assoluzione toglie il peccato, ma non porta rimedio a tutti i disordini che il peccato ha causato. Risollevato dal peccato, il peccatore deve ancora recuperare la piena salute spirituale. Deve dunque fare qualcosa di più per riparare le proprie colpe: deve soddisfare in maniera adeguata o espiare i suoi peccati. Questa soddisfazione si chiama anche penitenza » ( Catechismo , 1459). Il confessore, prima di dare l’assoluzione, impone la penitenza, che il penitente deve accettare e adempiere in seguito. Tale penitenza gli serve come soddisfazione per i peccati e il suo valore è dovuto soprattutto al sacramento: il penitente ha obbedito a Cristo compiendo ciò che Egli ha stabilito per questo sacramento e Cristo offre al Padre la soddisfazione.

Antonio Miralles

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22 OTTOBRE : SAN GIOVANNI PAOLO II – MEMORIA FACOLTATIVA

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22 OTTOBRE : SAN GIOVANNI PAOLO II – MEMORIA FACOLTATIVA

(difficile scegliere qualcosa tra tanto, con un criterio senza regole vi presento la catechesi del primo mercoledì di ottobre 1999)

GIOVANNI PAOLO II UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 6 ottobre 1999

CHI AMA HA CONOSCIUTO DIO, PERCHÉ DIO È AMORE

1. La conversione, di cui abbiamo trattato nelle precedenti catechesi, è orientata alla pratica del comandamento dell’amore. È particolarmente opportuno, in questo anno del Padre, mettere in risalto la virtù teologale della carità, secondo l’indicazione della Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente (cfr n. 50). Raccomanda l’apostolo Giovanni: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4, 7-8). Queste parole sublimi, mentre ci rivelano l’essenza stessa di Dio come mistero d’infinita carità, gettano anche le basi su cui poggia l’etica cristiana, tutta concentrata nel comandamento dell’amore. L’uomo è chiamato ad amare Dio con un impegno totale e a rapportarsi ai fratelli con un atteggiamento di amore ispirato all’amore stesso di Dio. Convertirsi significa convertirsi all’amore. Già nell’Antico Testamento si può cogliere la dinamica profonda di questo comandamento, nel rapporto di alleanza instaurato da Dio con Israele: da una parte c’è l’iniziativa di amore di Dio, dall’altra la risposta di amore che egli si aspetta. Ecco ad esempio come è presentata l’iniziativa divina nel libro del Deuteronomio: “Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama” (Dt 7, 7-8). A questo amore di predilezione, totalmente gratuito, corrisponde il comandamento fondamentale, che orienta tutta la religiosità di Israele: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Ivi 6, 5). 2. Il Dio che ama è un Dio che non se ne resta lontano, ma interviene nella storia. Quando a Mosè rivela il proprio nome, lo fa per garantire la sua assistenza amorevole nell’evento salvifico dell’Esodo, un’assistenza che durerà per sempre (cfr Es 3, 15). Attraverso le parole dei profeti, egli ricorderà continuamente al suo popolo questo suo gesto d’amore. Leggiamo ad esempio in Geremia: «Così dice il Signore: ‘Ha trovato grazia nel deserto un popolo di scampati alla spada; Israele si avvia a una quieta dimora’. Da lontano gli è apparso il Signore: ‘Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà’» (Ger 31, 2-3). È un amore che assume i toni di un’immensa tenerezza (cfr Os 11, 8s.; Ger 31, 20) e che normalmente si avvale dell’immagine paterna, ma si esprime talvolta anche con la metafora nuziale: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore” (Os 2, 21, cfr vv. 18-25). Anche dopo aver registrato nel suo popolo una ripetuta infedeltà all’alleanza, questo Dio è disposto ancora ad offrire il proprio amore, creando nell’uomo un cuore nuovo, che lo mette in grado di accogliere senza riserva la legge che gli viene data, come leggiamo nel profeta Geremia: “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore” (Ger 31, 33). Analogamente si legge in Ezechiele: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36, 26). 3. Il Nuovo Testamento ci presenta questa dinamica dell’amore incentrata in Gesù, Figlio amato dal Padre (cfr Gv 3, 35; 5, 20; 10, 17), il quale si manifesta mediante lui. Gli uomini partecipano a questo amore conoscendo il Figlio, ossia accogliendo il suo insegnamento e la sua opera redentrice. Non è possibile accedere all’amore del Padre se non imitando il Figlio nell’osservanza dei comandamenti del Padre: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (Ivi 15, 9-10). Si diviene in tal modo partecipi anche della conoscenza che il Figlio ha del Padre: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Ivi v.15). 4. L’amore ci fa entrare pienamente nella vita filiale di Gesù, rendendoci figli nel Figlio: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui” (1 Gv 3, 1). L’amore trasforma la vita ed illumina anche la nostra conoscenza di Dio, fino a raggiungere quella conoscenza perfetta di cui parla san Paolo: “Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1 Cor 13, 12). Occorre sottolineare il rapporto tra conoscenza e amore. La conversione intima che il cristianesimo propone è un’autentica esperienza di Dio, nel senso indicato da Gesù, durante l’ultima Cena, nella preghiera sacerdotale: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17, 3). Certamente la conoscenza di Dio ha anche una dimensione di ordine intellettuale (cfr Rm 1, 19-20). Ma l’esperienza viva del Padre e del Figlio avviene nell’amore, cioè, in ultima analisi, nello Spirito Santo, poiché “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 5, 5). Il Paraclito è Colui grazie al quale facciamo l’esperienza dell’amore paterno di Dio. E l’effetto più consolante della sua presenza in noi è appunto la certezza che questo amore perenne e smisurato con cui Dio ci ha amato per primo, non ci abbandonerà mai: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?… Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Ivi 8, 35.38-39). Il cuore nuovo, che ama e conosce, batte in sintonia con Dio che ama di perenne amore.

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San Francesco sposa le virtù

San Francesco sposa le virtù dans immagini sacre Sassetta_S_Francesco_sposa_virtu

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CARLO MARIA MARTINI, INDOMITO PORTATORE DELLA « SPERANZA CHE NON DELUDE » – ANGELO SCOLA

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CARLO MARIA MARTINI, INDOMITO PORTATORE DELLA « SPERANZA CHE NON DELUDE »

L’omelia del CARDINALE ANGELO SCOLA nella Messa in Suffragio dell’Arcivescovo emerito di Milano

Milano, 31 Agosto 2013 (ZENIT.org)

Riprendiamo di seguito l’omelia pronunciata questa sera in Duomo dal cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, nella Messa in suffragio del cardinale Carlo Maria Martini, nel primo anniversario della sua morte.

*** «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» (Vangelo, Mt 4,16). L’evangelista Matteo, per descrivere l’inizio del ministero pubblico di Gesù, utilizza le parole di una profezia di Isaia (cf. Is 8,23-9.1). Una descrizione efficace, che ben esprime l’iniziativa di Dio nei confronti della umana condizione. Non si può forse dire di ogni uomo che “abita in regione e ombra di morte”? Questa, come un sordo rumore di fondo, accompagna tutta la nostra vita. Non è proprio la morte, soprattutto quella delle persone a noi care e quella degli innocenti, ad aprire dolorosamente l’interrogativo circa il bene della vita? Se non c’è, infatti, risposta alla morte, se non esiste una luce in grado di dissipare l’ombra della morte, uno scetticismo dalle molte sfumature s’impadronisce di noi. Nessuno può sottrarsi a queste domande. Esse attraversano, senza distinzione, l’esistenza di credenti e di non credenti, incamminati sulla stessa strada. Nell’iniziativa che Gesù prende dopo la cattura di Giovanni, si apre a noi una strada per guardare in faccia la bruciante questione della morte: in prima persona nel territorio intorno a Cafarnao Gesù «incominciò a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino”». E allora «il popolo vide una grande luce…» (Vangelo, Mt 4,16-17). «Cristo è morto per noi» (Epistola, Rm 5,18): così Paolo esplicita il cuore abbagliante di questa grande luce. Celebrare l’Eucaristia nel primo anniversario della dipartita dell’Arcivescovo Carlo Maria è un’occasione privilegiata per rendere grazie a Dio del bene compiuto nel suo ministero episcopale. Il suo sguardo appassionato per tutti gli uomini continua ad accendere la speranza «che non delude» (Epistola, Rm 5,5). Non delude perché proviene dall’amore stesso di Dio che gratuitamente si riversa nei nostri cuori. Non viene meno neppure quando siamo «deboli…» «peccatori…» e «nemici» (Epistola, Rm 5,6-8). L’Arcivescovo Carlo Maria fu indomito portatore di questa «speranza affidabile» (Spe salvi 1 e 2) che deriva dalla fede incrollabile nella Risurrezione di Gesù. Fra le pagine che il Cardinale ha dedicato alla morte e alla risurrezione ve n’è una assai penetrante che narra della straordinaria modalità con cui Gesù appare, risorto, ai suoi. Reincontrando la Maddalena, i discepoli di Emmaus, Pietro sul lago di Tiberiade Gesù, che avrebbe potuto rimproverarli perché, presi dalla paura, l’avevano in vario modo abbandonato, invece «non giudica il comportamento che hanno avuto, non critica, non condanna, non rinfaccia i ricordi dolorosi della loro debolezza, ma conforta e consola» (C. M. Martini, La trasformazione di Cristo e del cristiano alla luce del Tabor. Esercizi spirituali, BUR-Rizzoli, Milano 2004, 166). Consola perché non approfitta«dell’umiliazione altrui per schernire, schiacciare mettere da parte, ma riabilita, ridà coraggio ridà responsabilità» (ibid., 167). Con la luce della Sua risurrezione li inoltra, in pienezza di verità, sulla strada di una responsabile novità. «Nella conversione e nella calma sta la vostra forza» (Lettura, Is 30,15). Il Cardinal Martini diceva che per poter partecipare, da poveri uomini, a questa forza di «consolazione regale» propria di Gesù bisogna «avere in sé un grande tesoro, una grande gioia» (La trasformazione, 167). La memoria viva del Cardinale si fa per noi questa sera invito ad accogliere, come ci ha detto san Paolo, anche in mezzo alle tribolazioni di varia natura, quella pace che fa fiorire «la pazienza, la virtù provata e la speranza» (cf. Epistola, Rm 5,3-4). Quella offerta a tutti gli uomini dal grande tesoro che è Gesù Cristo morto e risorto è, insiste Paolo, «la speranza della gloria di Dio» (Epistola, Rm 5,8). Una speranza in forza della quale passato, presente e futuro, inscindibilmente intrecciati dalla misericordia di Dio, formano l’ordito della nostra storia personale, della storia della Chiesa e del mondo. La luce della fede che ci ha portato Gesù (cf. Papa Francesco, Lumen fidei 1), illumina il cammino che la Provvidenza ha donato alla nostra Chiesa. Un’unità che si esprime e risplende nella pluriformità di accenti e di risposte personali alla grazia di Dio. Significativamente l’Arcivescovo Carlo Maria ha dedicato la sua prima Lettera pastorale alla preghiera contemplativa. In essa egli definisce l’uomo in questi termini: «Aperto al mistero, paradossale promontorio sporgente sull’Assoluto, essere eccentrico e insoddisfatto» (La dimensione contemplativa della vita I). Apertura, sporgenza, eccentricità, insoddisfazione… non sono tutte categorie appropriate per descrivere la tensione positiva alla vita e alla vita “per sempre” che inquieta il cuore in ogni uomo rendendolo consapevole di non essere lontano da nessun altro uomo? Non esistono domande autentiche di un uomo che non siano di tutti gli uomini; le “periferie esistenziali” – per usare l’espressione di Papa Francesco – sono innanzitutto i confini della stessa esperienza di ciascuno di noi. La dimensione contemplativa dell’esistenza restituisce l’uomo a se stesso, affermava l’allora Arcivescovo di Milano in quella prima Lettera pastorale. Questo insegnamento riletto ora, alla fine del suo pellegrinaggio terreno, esprime bene il centro della sua personalità, della sua testimonianza di vita, della sua azione pastorale, della sua passione civile, dell’indomito tentativo di indagare gli interrogativi brucianti dell’uomo di oggi. Per questo la ricca complessità della sua persona e del suo insegnamento continuano ad interrogare uomini e donne di ogni condizione. La dimensione contemplativa della vita del Cardinal Martini rappresenta l’antefatto, l’orizzonte, il precedente di tutta la sua riflessione e di tutta la sua azione. Ciò che è stato e che viene detto e scritto sulla sua figura, sul suo pensiero e sulla sua opera diventerebbe facilmente unilaterale se non venisse collocato in questa unificante prospettiva. Al termine della Santa Messa ci recheremo a pregare sulla tomba del Cardinale. Questo gesto che la liturgia chiama di suffragio – con cui onora la memoria dei defunti e offre il sacrificio eucaristico perché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1032) – chiede ad ognuno di noi una risposta personale che ci spalanchi al campo che è il mondo intero. È una conversione che ha la forma – ce lo ha ricordato il profeta nella Lettura – di un «abbandono confidente» (Lettura, Is 30,15). Invochiamo, per intercessione della Santissima Vergine Maria, la grazia di un simile abbandono. Amen.

PAPA FRANCESCO – LA FAMIGLIA – 30. FEDELTÀ DELL’AMORE

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 21 ottobre 2015

LA FAMIGLIA – 30. FEDELTÀ DELL’AMORE

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella scorsa meditazione abbiamo riflettuto sulle importanti promesse che i genitori fanno ai bambini, fin da quando essi sono pensati nell’amore e concepiti nel grembo. Possiamo aggiungere che, a ben guardare, l’intera realtà famigliare è fondata sulla promessa – pensare bene questo: l’identità famigliare è fondata sulla promessa -: si può dire che la famiglia vive della promessa d’amore e di fedeltà che l’uomo e la donna si fanno l’un l’altra. Essa comporta l’impegno di accogliere ed educare i figli; ma si attua anche nel prendersi cura dei genitori anziani, nel proteggere e accudire i membri più deboli della famiglia, nell’aiutarsi a vicenda per realizzare le proprie qualità ed accettare i propri limiti. E la promessa coniugale si allarga a condividere le gioie e le sofferenze di tutti i padri, le madri, i bambini, con generosa apertura nei confronti dell’umana convivenza e del bene comune. Una famiglia che si chiude in sé stessa è come una contraddizione, una mortificazione della promessa che l’ha fatta nascere e la fa vivere. Non dimenticare mai: l’identità della famiglia è sempre una promessa che si allarga, e si allarga a tutta la famiglia e anche a tutta l’umanità. Ai nostri giorni, l’onore della fedeltà alla promessa della vita famigliare appare molto indebolito. Da una parte, perché un malinteso diritto di cercare la propria soddisfazione, a tutti i costi e in qualsiasi rapporto, viene esaltato come un principio non negoziabile di libertà. D’altra parte, perché si affidano esclusivamente alla costrizione della legge i vincoli della vita di relazione e dell’impegno per il bene comune. Ma, in realtà, nessuno vuole essere amato solo per i propri beni o per obbligo. L’amore, come anche l’amicizia, devono la loro forza e la loro bellezza proprio a questo fatto: che generano un legame senza togliere la libertà. L’amore è libero, la promessa della famiglia è libera, e questa è la bellezza. Senza libertà non c’è amicizia, senza libertà non c’è amore, senza libertà non c’è matrimonio. Dunque, libertà e fedeltà non si oppongono l’una all’altra, anzi, si sostengono a vicenda, sia nei rapporti interpersonali, sia in quelli sociali. Infatti, pensiamo ai danni che producono, nella civiltà della comunicazione globale, l’inflazione di promesse non mantenute, in vari campi, e l’indulgenza per l’infedeltà alla parola data e agli impegni presi! Sì, cari fratelli e sorelle, la fedeltà è una promessa di impegno che si auto-avvera, crescendo nella libera obbedienza alla parola data. La fedeltà è una fiducia che “vuole” essere realmente condivisa, e una speranza che “vuole” essere coltivata insieme. E parlando di fedeltà mi viene in mente quello che i nostri anziani, i nostri nonni raccontano: “A quei tempi, quando si faceva un accordo, una stretta di mano era sufficiente, perché c’era la fedeltà alle promesse. E anche questo, che è un fatto sociale, ha origine nella famiglia, nella stretta di mano dell’uomo e la donna per andare avanti insieme, tutta la vita. La fedeltà alle promesse è un vero capolavoro di umanità! Se guardiamo alla sua audace bellezza, siamo intimoriti, ma se disprezziamo la sua coraggiosa tenacia, siamo perduti. Nessun rapporto d’amore – nessuna amicizia, nessuna forma del voler bene, nessuna felicità del bene comune – giunge all’altezza del nostro desiderio e della nostra speranza, se non arriva ad abitare questo miracolo dell’anima. E dico “miracolo”, perché la forza e la persuasione della fedeltà, a dispetto di tutto, non finiscono di incantarci e di stupirci. L’onore alla parola data, la fedeltà alla promessa, non si possono comprare e vendere. Non si possono costringere con la forza, ma neppure custodire senza sacrificio. Nessun’altra scuola può insegnare la verità dell’amore, se la famiglia non lo fa. Nessuna legge può imporre la bellezza e l’eredità di questo tesoro della dignità umana, se il legame personale fra amore e generazione non la scrive nella nostra carne. Fratelli e sorelle, è necessario restituire onore sociale alla fedeltà dell’amore: restituire onore sociale alla fedeltà dell’amore! E’ necessario sottrarre alla clandestinità il quotidiano miracolo di milioni di uomini e donne che rigenerano il suo fondamento famigliare, del quale ogni società vive, senza essere in grado di garantirlo in nessun altro modo. Non per caso, questo principio della fedeltà alla promessa dell’amore e della generazione è scritto nella creazione di Dio come una benedizione perenne, alla quale è affidato il mondo. Se san Paolo può affermare che nel legame famigliare è misteriosamente rivelata una verità decisiva anche per il legame del Signore e della Chiesa, vuol dire che la Chiesa stessa trova qui una benedizione da custodire e dalla quale sempre imparare, prima ancora di insegnarla e disciplinarla. La nostra fedeltà alla promessa è pur sempre affidata alla grazia e alla misericordia di Dio. L’amore per la famiglia umana, nella buona e nella cattiva sorte, è un punto d’onore per la Chiesa! Dio ci conceda di essere all’altezza di questa promessa. E preghiamo anche per i Padri del Sinodo: il Signore benedica il loro lavoro, svolto con fedeltà creativa, nella fiducia che Lui per primo, il Signore – Lui per primo! -, è fedele alle sue promesse. Grazie.

 

La traversata del Mar Rosso ed il Cantico di Miriam

La traversata del Mar Rosso ed il Cantico di Miriam dans immagini sacre 15%20CROSSING%20THE%20READ%20SEA

http://www.artbible.net/1T/Exo1401_Redsea_myriampsong/pages/15%20CROSSING%20THE%20READ%20SEA.htm

Publié dans:immagini sacre |on 20 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

UNA VITA SOLITARIA – SEPARAZIONE DAL MONDO

 http://www.certosini.info/una_vita_solitaria.htm 
  
UNA VITA SOLITARIA – SEPARAZIONE DAL MONDO 
 
I primi monaci certosini «seguivano il lume dell’oriente, ossia di quegli antichi monaci che, ardenti d’amore per il ricordo del Sangue del Signore versato di recente, popolarono i deserti per professarvi la vita solitaria e la povertà di spirito. Bisogna quindi che i certosini, calcando le loro orme, dimorino come loro in un eremo sufficientemente remoto dalle abitazioni degli uomini; ma soprattutto bisogna che si rendano essi stessi estranei anche alle preoccupazioni mondane».
Secondo la tradizione dei Padri del deserto la ricerca dell’unione con Dio, nel modo più diretto possibile, richiede normalmente la separazione dal mondo. La pace esteriore della solitudine protegge la pace interiore del cuore. Così il monastero è costruito lontano da abitazioni, e ciascun monaco vive solo in cella all’interno della cinta muraria, astenendosi da ogni ministero, escluso quello della preghiera. Questo costituisce per il certosino un’esigenza che gli Statuti esprimono con forza: «Essendo il nostro Ordine totalmente dedito alla contemplazione, è necessario che conserviamo in modo assolutamente fedele la nostra separazione dal mondo. Ci asteniamo perciò da qualsiasi ministero pastorale, pur nell’urgente necessità di apostolato attivo, per adempiere nel Corpo mistico di Cristo la nostra funzione specifica».
Guigo, il monaco a cui lo Spirito ha affidato la missione di redigere la prima regola dei certosini, da parte sua ha celebrato al seguito di tutti i Padri le ricchezze spirituali offerte al solitario: «Sapete infatti che nell’Antico e soprattutto nel Nuovo Testamento quasi tutti i più grandi e profondi segreti furono rivelati ai servi di Dio non nel tumulto delle folle, ma quando erano soli. Gli stessi servi di Dio, tutte le volte che li accendeva il desiderio di meditare più profondamente qualche verità o di pregare con maggiore libertà o di liberarsi dalle cose terrene con l’estasi dello spirito, quasi sempre evitavano gli ostacoli della moltitudine e ricercavano i vantaggi della solitudine (…) considerate voi stessi quanto profitto spirituale nella solitudine trassero i santi e venerabili padri Paolo, Antonio, Ilarione, Benedetto e innumerevoli altri, e avrete la prova che nulla, più della solitudine, può favorire la soavità della salmodia, l’applicazione alla lettura, il fervore della preghiera, le penetranti meditazioni, l’estasi della contemplazione e il dono delle lacrime». 
 
Esodo nel deserto 
 
«Lasciare il mondo per dedicarsi nella solitudine ad una preghiera più intensa, non è altro che un particolare modo di esprimere il mistero pasquale di Cristo, che è una morte per una resurrezione».
La Sacra Scrittura presenta l’Esodo attraverso il deserto come l’evento principale della storia d’Israele. Sotto la guida di Mosè gli ebrei uscirono dall’Egitto; e dopo aver attraversato il Mar Rosso, vissero quaranta anni nel deserto. Non mancarono le prove, ma giunti nel cuore del deserto, al Sinai, Dio si manifestò in modo straordinario e concluse con loro un’alleanza.
I Padri della Chiesa e tutti i monaci hanno visto nell’Esodo una prefigurazione dell’itinerario mistico dell’uomo alla ricerca di Dio.
Guigo nel suo elogio della vita solitaria ha ricordato al certosino l’esempio dei grandi contemplativi della Bibbia, che nella solitudine hanno vissuto il mistero dell’incontro con Dio: Giacobbe, che lottò solo con l’Angelo e ricevette la grazia di un nome migliore; Elia, che visse per lungo tempo nel burrone di un torrente e marciò quaranta giorni e quaranta notti fino all’Oreb dove Dio si manifestò a lui in una brezza leggera; Eliseo, che amava ritirarsi in preghiera nella camera al piano superiore preparata dalla sunammita; e soprattutto Giovanni Battista, che è considerato come il patrono degli eremiti.
Lo stesso Gesù ha cercato la solitudine: subito dopo il suo battesimo nel Giordano fu condotto nel deserto dallo Spirito Santo; ed in molti episodi dei vangeli lascia la folla e si ritira solo sulla montagna per pregare; un giorno invita i suoi apostoli ad andare in disparte in un luogo solitario; infine solo sulla croce, abbandonato da tutti, si offre al Padre per la salvezza del mondo.
Il monaco, seguendo Cristo nel deserto, partecipa al mistero che riconduce nel seno del Padre il Figlio crocifisso e resuscitato dai morti. Nella solitudine egli compie un vero Esodo spirituale, in cui dalla morte sgorga una nuova vita. 
 
Solitudine della cella
 
La clausura nel cui interno si pone il monastero è per il certosino il segno visibile della sua separazione dal mondo. Al di fuori dello spaziamento settimanale il monaco non è autorizzato a uscire dalla casa, salvo in rari casi e per una reale necessità. Lo stesso priore della Gran Certosa, pur essendo superiore generale dell’Ordine, non oltrepassa mai i limiti del suo deserto.
Tuttavia è soprattutto nel segreto della loro cella che i padri vivono la loro vocazione di solitari; mentre i fratelli la vivono in parte nella cella e in parte nelle obbedienze dove essi lavorano. Ciascuno ha così la sua propria solitudine nel seno di un monastero, che è esso stesso solitario.
Gli Statuti ricordano a tutti che la cella è un luogo privilegiato di unione con Dio: «Il nostro impegno e la nostra vocazione consistono principalmente nel dedicarci al silenzio e alla solitudine della cella. Questa è infatti la terra santa e il luogo dove il Signore e il suo servo conversano spesso insieme, come un amico col suo amico. In essa frequentemente l’anima fedele viene unita al Verbo di Dio, la sposa è congiunta allo Sposo, le cose celesti si associano alle terrene, le divine alle umane». Anche le obbedienze di lavoro sono separate le une dalle altre come le celle, e sono organizzate affinché si salvaguardi il più possibile la solitudine. In tal modo la solitudine è adeguata alla situazione di ognuno.
I Padri del deserto hanno celebrato a gara i benefici della fedeltà alla cella, dove il solitario, secondo un’immagine usata da loro e ripresa dagli Statuti Certosini, si trova come un pesce nell’acqua. Guglielmo di Saint-Thierry scrisse ai certosini di Mont-Dieu: «la cella non deve esser mai una reclusione forzata ma una dimora di pace; la porta chiusa non nascondiglio ma ritiro. Colui con il quale Dio è, infatti, non è mai meno solo di quando è solo. Allora infatti gode liberamente della propria gioia; allora egli stesso è suo per godere di sé e di sé in Dio». 
 
Il silenzio 
 
Silenzio e solitudine vanno di pari passo, poiché il primo protegge la solitudine interiore e favorisce il raccoglimento: «Solamente colui che ascolta nel silenzio percepisce il mormorio del vento leggero che manifesta il Signore».
I certosini sono dei fratelli che vivono fianco a fianco nel silenzio, rispettando reciprocamente il loro colloquio interiore con Dio. Grande è la virtù del silenzio. «Benché nei primi tempi tacere possa essere una fatica, gradualmente, se saremo stati fedeli, dallo stesso nostro silenzio nascerà in noi l’attrattiva verso un silenzio ancora maggiore». L’incontro dell’anima con Dio avviene al di là di ogni discorso, in un semplice scambio di sguardi: linguaggio dell’amore che non è altro che il linguaggio dell’eternità.
«Noi riconosceremo la qualità della parola divina, quando consacreremo il tempo in cui non abbiamo da parlare ad un silenzio privo di preoccupazioni e accompagnato da un’ardente ricordo di Dio». Vi è infatti un silenzio interiore che è ben più difficile della semplice assenza di parole. Esso consiste nel distaccarsi da pensieri erranti che penetrano nel cuore attraverso l’immaginazione. I Padri del deserto a questo riguardo mettevano i loro discepoli in guardia, e cercavano al di sopra di tutto la purezza di cuore, ossia l’amore di Dio preferito ad ogni altra cosa. Come scrisse uno di essi, Cassiano: «In vista dunque della purezza di cuore tutto deve essere compiuto e inteso da noi. Per essa deve essere cercata la solitudine…. Pertanto le virtù che vi si accompagnano, e cioè i digiuni, le veglie, la solitudine, la meditazione delle Scritture, ci conviene esercitarle in vista dello scopo principale, vale a dire della purezza di cuore, che è la carità».

Publié dans:MONACHESIMO, MONACHESIMO - LA VITA |on 20 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

FEDE E DEPRESSIONE – IL MALE OSCURO DELL’ANIMA

http://www.stpauls.it/jesus06/0402je/0402je14.htm

FEDE E DEPRESSIONE

IL MALE OSCURO DELL’ANIMA

di Annachiara Valle  

Colpisce oltre 340 milioni di persone nel mondo. Da molti è considerata la malattia psichica del secolo. E di recente anche il Vaticano le ha dedicato un convegno. La depressione, molto simile a ciò che i Padri della Chiesa chiamavano « accidia », fa capolino nei conventi, nelle parrocchie, nelle comunità. E preoccupa i responsabili del mondo cattolico. 

«Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Ora giacerei tranquillo, dormirei e avrei pace». Il grido di Giobbe, tanto simile a quello di Geremia (cap. 20, vv. 17-18), risuona tutt’ora e spesso anche sul lettino dello psicanalista. «Chi ha fede non è immune dalla depressione», spiega Mario De Maio, sacerdote e psicanalista. «Lo si comprende bene anche leggendo la Bibbia. Le parole dei Salmi, per esempio, in molti casi sono parole di angoscia e di disperazione. Lo stesso Gesù era circondato da persone non del tutto « normali ». La malattia mentale, e la depressione in particolare, fanno parte dell’esperienza umana, la fede non ne rende immuni e, da sola, non può costituire una risposta efficace. In molti casi, quando non è utilizzata in modo eccessivamente emotivo, può aiutare le persone a entrare in un processo di liberazione, ma gli interventi devono essere più complessi». Ne è convinto anche Daniel Cabezas, psichiatra al Fatebenefratelli di Roma: «Una buona confessione non sostituisce una terapia medica. Per quanto ho potuto verificare, però, posso dire che una esperienza di fede matura può fornire un sostegno in più. Per tutta la parte di malattie depressive di tipo nevrotico, la fede può costituire un fattore protettivo importante e può collaborare in positivo con la cura, allo stesso modo in cui può contribuire alla terapia un buon rapporto intrafamiliare o un rapporto lavorativo equilibrato. Nel momento in cui il paziente si sente come rallentato, in cui tutto viene percepito come inutile e privo di significato, trovare una spiegazione al senso della vita, al senso della sofferenza, del dolore, della malattia e della morte è di grande aiuto. Per tornare all’esempio della confessione, si può dire che certamente essa non guarisce, ma può aiutare nella prevenzione. Avere accanto un buon direttore spirituale, una persona capace di ascoltare e di favorire la crescita personale, diminuisce le nevrosi e può dare una mano anche a noi psichiatri». «La Chiesa si interroga su quale debba essere la propria azione pastorale di fronte a un fenomeno che, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, colpisce 340 milioni di persone nel mondo», aveva detto il cardinale Javier Lozano Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la pastorale della salute, presentando a novembre il convegno organizzato dal Vaticano sul tema « Depressione e fede ». All’incontro, tenutosi a Roma e a cui hanno partecipato oltre 600 persone, sono stati invitati esperti di varie parti del mondo e rappresentanti di diverse religioni. «Questo convegno», sottolinea Cabezas, «ha reso evidente che la Chiesa sta superando la diffidenza che aveva nei confronti della psichiatria. È un processo di crescita nel quale la salute mentale diventa un fatto di responsabilità condivisa. Sicuramente c’è ancora molto da fare però bisogna ammettere che la Chiesa si sta impegnando molto su questo tema». Anche perché dalla depressione non sono immuni neppure conventi e comunità religiose. «Anzi», insiste De Maio, «la vita religiosa va tutta ripensata. Molte persone con sofferenza hanno fatto questa scelta senza che ci fosse prima una corretta valutazione. Ora queste sofferenze sono diventate dinamiche comunitarie difficili da affrontare». «Il religioso», spiega De Maio, «è il luogo dove, già dai tempi di Gesù, confluiscono tante domande di tipo psicologico. Molte persone che scelgono la vita religiosa chiedono, in modo più o meno chiaro, una salvezza di questo tipo, chiedono di dare un senso alla propria esistenza. Il filo comune che lega sacerdoti, religiosi e religiose che ho avuto e che ho in terapia è il senso di delusione profonda proprio rispetto a questa domanda non esplicita di salvezza psicologica. Per quanto riguarda i religiosi ultracinquantenni, poi, spesso la depressione si manifesta come conseguenza della speranza tradita del Concilio». «Con il Concilio infatti», continua De Maio, «si era intravista una religiosità fatta di creatività, un’istituzione comunitaria non fondata sulle norme, ma sulla vita da esprimere e da investire. In realtà, il rinnovamento conciliare si è fermato all’aggiornamento esterno: gli istituti religiosi non sono diventati spazi di liberazione. Le persone più sensibili, che si aspettavano il cambiamento come senso e motivazione della propria vita, non hanno trovato quello che cercavano e ne hanno risentito pesantemente. La vita religiosa è in crisi e molta di questa crisi pesa su soggetti che stanno diventando sempre più deboli e fragili. Certo non è una novità. Le persone più fragili da sempre si sono rivolte alla Chiesa, ma oggi bisogna attrezzarsi meglio e distinguere ciò che può offrire la Chiesa da ciò che deve offrire la scienza umana». «Un altro specifico di questo tipo di pazienti», aggiunge Cabezas, «è la domanda sempre ricorrente: « Perché a me? ». Questi pazienti mi dicono: « Mi sforzo di condurre una vita buona, faccio del mio meglio per avvicinarmi a Dio e cercare la verità, cerco di camminare nel giusto, svolgo al meglio la mia vita religiosa, allora perché Dio pensa che io debba soffrire in questo modo? ». Più che un senso di colpa, avvertono come un’ingiustizia». «Ci sono altri tre elementi ricorrenti in questi pazienti», sottolinea Cabezas. «Il primo è riferito al tempo, alla difficoltà di seguire i ritmi della comunità. Il tempus mentale del malato depresso è diverso da quello degli altri: svegliarsi presto, pregare insieme, ritrovarsi a ore stabilite è, per queste persone, una enorme fatica. In secondo luogo sentono di non riuscire a svolgere come dovrebbero il loro ruolo all’interno della comunità. Infine hanno un problema legato alla possibilità di parlare di sé stessi e della propria sofferenza. Quando vengono in terapia si sentono sollevati rispetto al terzo problema, diventa urgente però risolvere le altre due questioni, quella del tempo e quella del lavoro, che sono problemi vitali. Solo in seguito si può affrontare il come un religioso o una religiosa possano dare senso alla propria esistenza. Se si tratta di una depressione nevrotica va analizzato in profondità il rapporto con il gruppo, cioè con la comunità; il rapporto con l’autorità, cioè con i voti; il rapporto con la sessualità, cioè con l’obbligo del celibato e della castità».Il comportamento delle comunità religiose di fronte alla malattia non è sempre uguale. «Non si possono dare risposte generiche su come la Chiesa e gli istituti religiosi affrontano la questione», insiste Cabezas. «Molto dipende dalla cultura che ha quella specifica comunità religiosa, dalla leadership che esercita il superiore o la superiora, dal modo in cui si gestisce il rapporto con l’autorità e il voto d’obbedienza. In genere la risposta di una comunità « normale » è la risposta della società in cui quella comunità vive: si ha paura, si avverte la malattia mentale come qualcosa da cacciare via, da escludere, da portare e rinchiudere in ospedale o rispetto alla quale fare qualcosa per non pensare e non sentire. Ma ho visto anche comunità religiose che si prendono carico in modo molto coerente del dolore e della sofferenza. La risposta corporativa, che crea una rete di protezione attorno alla persona malata e che soffre, è molto importante. Sostituisce in parte gli psicofarmaci. Per noi in psichiatria usare meno psicofarmaci e fare appello ad altre realtà è sempre molto utile. La sensibilità di un priore, di una comunità che si rende conto della sofferenza e della difficoltà di una persona che è all’interno, sono fondamentali». «È vero, molti istituti prestano attenzione a queste sofferenze e sono di supporto a chi sta male», dice De Maio, «ma ce ne sono altri che rischiano invece di aumentare il senso di colpevolezza e generano una sorta di oppressione. Ho inoltre notato che c’è molta differenza tra le comunità maschili e quelle femminili. In queste ultime la sofferenza mentale si vive di più, implode dentro. In quelle maschili c’è più attività all’esterno e c’è anche una vita comunitaria meno rigida. Questi due elementi alleggeriscono molto la sofferenza». «Non bisogna dimenticare, infine, che c’è sempre un processo complesso che porta alla depressione, e dunque non si può intervenire in modo banale. Il nostro mondo religioso non può fornire risposte consolatorie. Quello che possiamo fare, invece, è dare la certezza che esiste un sistema in cui il bene alloggia e insistere sulla possibilità di liberazione da questo male oscuro. Le nostre comunità dovrebbero ridare questa certezza. Anche se quando i processi mentali sono andati molto avanti, non si può pensare in modo « suggestivo » che la religione possa essere terapeutica».

Annachiara Valle   

Una luce incerta nel buio dell’io «Credo che sia il vuoto la malattia di questi anni. La depressione vera di oggi, in realtà, è un senso di vuoto senza fine». Giampiero Arciero (nella foto), psichiatra,Giampiero Arciero. cofondatore e direttore dell’Istituto di psicologia e psicoterapia cognitiva postrazionalista (Ipra) di Roma, spiega che, «a differenza del passato, le depressioni sono caratterizzate da un senso di annullamento, di annichilimento, di frammentazione, di spaesamento. Non c’è più la depressione alla Pessoa o alla Leopardi in cui le emozioni sono viscerali, potenti, prorompenti». Da dove nasce allora questo senso di vuoto? «Uno dei grandi problemi contemporanei è l’identità. Nella società tecnologica, il modo di costruire l’identità si fonda sulla continua ricerca di sintonia su fonti esterne di definizione; pertanto la sensibilità a cogliere i segnali provenienti dagli altri diventa l’aspetto che caratterizza l’esperienza comune sia della generazione che della conferma del proprio modo di essere. La definizione di noi stessi è tutta sull’esterno, sui contesti, sulle persone significative. C’è una ricerca di identità attraverso l’altro, ma in termini di adesione alle aspettative o ai contesti che diventano, dunque, definenti per l’interiorità. Nel momento in cui si perdono dei punti esterni che danno definizione, l’identità del sé è percepita come vuota. E il vuoto viene vissuto in termini angoscianti». C’è una tendenza naturale alla depressione? «Ci sono depressioni che derivano dal fatto che c’è una determinata struttura di personalità caratterizzata da certe ferite storiche (per esempio genitori rifiutanti oppure genitori abusanti o indifferenti). La strutturazione di un certo tipo di legame fa sì che si centri il proprio modo di emozionarsi sulla rabbia o sulla tristezza intese come emozioni basiche. Finché si è in grado di mantenere un equilibrio, la personalità è funzionante, anzi può essere creativa. Nel momento in cui si scompensa, per fattori esterni o interni, quel tipo di personalità va a produrre naturalmente una depressione. Secondo la definizione psichiatrica, si tratta di una depressione endogena, molto profonda, caratterizzata da tristezza, disperazione, senso di inutilità, idee di suicidio. C’è una sensibilità forte al rifiuto, alla perdita». I monaci, e i religiosi in genere, hanno maggiore propensione alla depressione? «I monaci sono a rischio in quanto l’essere in condizione di lontananza sociale può far precipitare negli stati depressivi. C’è però da aggiungere, come già vide con lucidità il filosofo medievale Guglielmo d’Alvernia, che certe strutture di personalità sono particolarmente portate a condurre una esistenza meditativa e lontana dal « tumulto mondano ». Forse la soluzione la suggerisce Aristotele alla fine del famoso problema XXX, quando dice che la capacità di sapersi mantenere in equilibrio nel proprio carattere melanconico consiste nell’oscillare in maniera « temperata » senza cadere nel furore o nella disperazione. La fede può aiutare a questo». In che modo la fede può aiutare? «La fede può aiutare se è intesa come quella luce incerta che rischiara l’nteriorità e che di volta in volta guida l’agire».

Publié dans:MALATTIA (LA) |on 20 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

Discesa agli nferi (Katskhi, Georgia)

Discesa agli nferi (Katskhi, Georgia) dans immagini sacre Descent_into_Hell_icon_%28Katskhi%2C_Georgia%29

 

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Descent_into_Hell_icon_(Katskhi,_Georgia).jpg

Publié dans:immagini sacre |on 19 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

LA DOLCEZZA VERSO NOI STESSI – SAN FRANCESCO DI SALES *

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_d.htm#LA DOLCEZZA VERSO NOI STESSI

LA DOLCEZZA VERSO NOI STESSI – SAN FRANCESCO DI SALES *

Francesco di Sales (1567-1622) manifestò fin da giovanissimo i segni della propria vocazione all’apostolato sacerdotale. Fattosi sacerdote dopo di aver frequentato gli studi a Parigi e a Padova, dapprima viene nominato parroco della Chiesa di Ginevra, e si dedica all’evangelizzazione degli abitanti del Chiablese onde ricondurli al cattolicesimo. Nel 1602, viene eletto vescovo di Ginevra, ed è proprio sotto la sua direzione che Santa Giovanna di Chantal fondò la Visitazione. Dolcezza, affabilità, carità ed una delicata bonomia, caratterizzano tutta la sua vita ed i suoi scritti, nascondendo, al tempo stesso, un temperamento bollente che nell’abbandono totale alla grazia di Dio ha saputo trovare il proprio equilibrio e la propria pace. Fra gli usi che dovremmo saper fare della dolcezza, il migliore è quello di applicarla a noi stessi, senza provare mai risentimento né contro di noi, né contro le nostre imperfezioni. Infatti, anche se la ragione vuole che, una volta compiuto un errore, ne siamo contristati e pentiti, tuttavia è necessario non indulgere ad un dispiacere arido ed amaro, stizzoso e collerico. Ne consegue che commettono un grande errore tutti coloro che, dopo la collera, si irritano per essersi irritati, si affliggono della loro stessa afflizione, si stizziscono della propria stizza. In questo modo tengono continuamente il loro cuore immerso ad ammollire nella collera; con la conseguenza che la seconda collera altera la prima, sì da servire di avviamento e di passaggio ad un’altra ancora, alla prima occasione che si dovesse presentare. Senza parlare, poi, del fatto che tali risentimenti, collere, stizze, che proviamo contro noi stessi, tendono all’orgoglio, e la loro origine non è nient’altro che l’amore di sé, amore che si turba e si preoccupa della nostra imperfezione. Il dispiacere che proviamo per le nostre mancanze deve dunque essere pacato, calmo e fermo… Noi possiamo correggerci più con pentimenti sereni e costanti, che non mediante pentimenti pieni di acrimonia, affrettati e collerici; tanto più che tali pentimenti, fatti con impeto, non sono conseguenza diretta della gravità della nostra colpa, bensì delle nostre inclinazioni. Per esempio, colui che predilige la castità, mentre proverà risentimento ed acredine sproporzionati alla mancanza che commetterà contro di essa, fosse anche minima, non farà, invece, che sorridere di una grossolana maldicenza da lui provocata e sostenuta. AI contrario, colui che odia la maldicenza, si tormenterà di essersi reso colpevole di una mormorazione leggera, e non terrà assolutamente conto di una grave mancanza contro la castità, così come di altri errori. Tutto ciò è dovuto esclusivamente al fatto che essi non giudicano la loro coscienza secondo ragione, ma secondo passione. Credetemi, come i rimproveri di un padre, fatti dolcemente e con amore hanno per la correzione del figlio un effetto ben maggiore delle collere e dello sdegno, così quando il nostro cuore commette qualche mancanza è da noi ripreso con rimproveri dolci e suadenti – mostrando nei suoi riguardi più compassione che passione e lo incorraggiamo ad emendarsi – il pentimento che se ne otterrà s’impossesserà maggiormente di esso e lo penetrerà più e meglio di quanto non possa fare un pentimento stizzoso, irritato e tempestoso… Risollevate dunque il vostro cuore con dolcezza quando cadrà, umiliandovi profondamente davanti a Dio perché avete conosciuto la vostra miseria, senza però meravigliarvi in nessun modo della vostra caduta, in quanto non può destare stupore il vedere !’infermità inferma, la debolezza debole, la miseria meschina. Pertanto, detestate con tutte le vostre forze l’offesa da voi fatta a Dio e, con grande coraggio e fiducia nella sua misericordia, riprendete il cammino lungo la strada della virtù che avete abbandonato.

* Introduction à la vie dévote, 3″ parte, cap. IX. Per facilitare la lettura, sono state apportate alcune modifiche di vocabolario

Publié dans:meditazioni, Santi |on 19 octobre, 2015 |Pas de commentaires »
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