TESTIMONI – NEL MISTERO DEL DOLORE
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IL GRIDO E LA GRAZIA -
Alessandra Stoppa
TESTIMONI – NEL MISTERO DEL DOLORE
L’ha chiamata:?«La scienza cristiana». L’unica capace di rispondere davvero alla sofferenza. Nel discorso (passato in sordina) agli operatori sanitari, Benedetto XVI spiega perché la fede cura «senza illusioni». E come i malati salvano il mondo. Qui padre ALDO TRENTO si confronta con le sue parole
Quando si avvicina ai loro letti, ora che la bellezza nel dolore è così trasparente per lui, non gli resta che baciarli. «Dio mio», dice piano: «Ti bacio».
Non riesce più ad inginocchiarsi come prima, come vorrebbe, paziente per paziente, ma la sua giornata è per loro, fin dalle prime ore. Ormai ne ha accolti più di mille. Nella sua clinica per malati terminali ad Asunción, in Paraguay, padre Aldo Trento vive nella sofferenza da anni. La conosce molto bene. È ciò che ha scavato di più nella sua umanità l’apertura al Mistero. Per questo lo commuove sentire le parole del Papa sul dolore e sulla malattia. È un discorso passato un po’ sottotraccia, che Benedetto XVI ha tenuto alla conferenza internazionale del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, il 17 novembre. Ha parlato degli ospedali come «luoghi privilegiati di evangelizzazione».
«È vero», dice padre Aldo: «Vivere con i malati ha evangelizzato me».
A undici anni salta su un trattore per fuggire in seminario, attraversa una vocazione irrequieta, sofferta, per poi lasciarsi rifare la vita dall’abbraccio di don Giussani. Nello statuto della clinica si legge in filigrana tutto il suo cammino. Fatto di grido e grazia. «Il cuore dell’uomo è nostalgia di infinito e di eternità. Questa casa esiste perché a noi è stata data la grazia di chiedere, di mendicare, di amare e desiderare la verità». Qui padre Aldo si confronta con il fatto che il Papa parli della fede come la grande scienza che cura, riprendendo le parole del Concilio Vaticano II alle persone sofferenti: «Non siete né abbandonati, né inutili. Uniti alla croce di Cristo, contribuite alla sua opera salvifica». Padre Aldo lo vede accadere: «I miei malati mi salvano e salvano tutto il mondo». Quando è nata la clinica, nel 2004, non viveva la pienezza di adesso: «L’ho imparata stando con loro, fianco a fianco, ogni giorno. Mi sono reso conto che sono la risorsa più grande che mi è data per prendere sul serio me stesso. Davanti a loro le preoccupazioni non ci sono, la mia vita diventa un’occupazione grandiosa: vivere di fronte al Mistero».
Non siete inutili, ricorda il Papa. «È questo che distrugge: l’inutilità di qualcosa. Non il dolore in sé. Penso a tutti i miei malati che sono andati in cielo con il sorriso sulla bocca». In quanti gli hanno detto: «Padre, senza questo cancro non sarei qui e non avrei incontrato Gesù». Una grazia che vale di più di come va la vita e di quanto dura. Li vede portare i dolori terribili del cancro o la vergogna dell’Aids con una «ragione». Non è più un’ingiustizia che li mette all’angolo. È l’esperienza di un’eternità in cui nulla va perso. «Stanno nel letto, nessuno li conosce. Ma loro si sentono partecipi della morte e della risurrezione di Gesù».
Ai medici e agli infermieri, Benedetto XVI ha ricordato che nel loro lavoro sono chiamati a dare «un sollievo senza illusioni». Cosa significa per te? «C’è una sola illusione, che si porta dietro tutte le altre: non comunicare il fatto di Cristo». Infatti, il Papa riprende le parole del Concilio: «Non è in nostro potere procurarvi la salute corporale, né la diminuzione dei vostri dolori fisici… Abbiamo però qualche cosa di più prezioso e di più profondo da darvi». E continua: «Cristo non ha soppresso la sofferenza, nemmeno ha voluto svelarcene interamente il mistero: l’ha presa su di sé, e questo basta perché ne comprendiamo tutto il valore».
Padre Aldo cammina in questo mistero che resta mistero, innanzitutto per la sua propria sofferenza. Negli ultimi tempi si è fatta più acuta, per i dolori fisici, la durezza di alcune vicende. «Padre, animo. Offriamo il nostro dolore a Gesù per te», gli dicono i pazienti. «La sofferenza sarà per sempre mistero. Ma come lo è l’amore. Non è che non lo vedi, non è che non si svela: lo vivi, ti cambia, ma resta mistero». Perché è mistero tutto ciò che ci salva. «La scelta del metodo di Dio». Un uomo gli ha rinfacciato: «Dio è cattivo perché è solo un atto di egoismo volerci salvare attraverso la croce e la morte di suo figlio». «Ma per un padre vero è più difficile accettare la morte di un figlio o la propria?», dice lui: «L’esperienza indica che Dio ci ama tanto da darci ogni giorno suo figlio. Cristo è il vertice dell’amore all’uomo del Padre. Ed è un mistero come lo è nella vita tutto quello che ci porta verso di Lui».
Per questo cambia anche la sua sofferenza personale. «Il mio dolore acquista una dimensione non più di paura, ma di preghiera. Signore, sei Tu che mi dai questa cosa, e mi parli. Mi dici che io devo vivere solo in Te, con Te e per Te. Come diciamo nella messa. Diventa un passo continuo alla conversione». Qualcosa di più profondo e prezioso dell’alleviare il dolore.
La verifica della fede. «Il volto del sofferente è il Volto di Cristo», continua il Papa. «In quei letti non c’è il segno di Cristo», dice padre Aldo: «C’è Cristo ». Questo per lui, «per grazia della Madonna», è stato chiaro fin dall’inizio. «Loro non sono un segno. Lo dice Gesù nel Vangelo: “Avevo fame”. “Avevo sete”. “Ero abbandonato”. È proprio Lui». Vedere in loro la presenza fisica del Mistero gli fa venire da inginocchiarsi. Baciarli. Racconta di Victor, il primo bambino che ha accolto. La testa grande, il corpo da neonato, ha vissuto in silenzio segnando per sempre lui e chi lo ha conosciuto. «È sconvolgente. Ma non puoi capirlo se non lo sperimenti. Perché la verifica della fede è rendersi conto che Cristo è un fatto. È talmente un fatto che tu vedi quel bambino e vedi in lui vibrare la vibrazione dell’Essere. C’è. E se lui c’è, c’è! Ti amo e ti adoro, perché ci sei».
Nella clinica non ci sono immagini del Crocifisso, solo di Maria. «Il Crocifisso è nei letti». I malati, i primi evangelizzatori. Lo riscopre negli infermieri e nei medici. C’è chi chiede di sposarsi in clinica, perché è il luogo dove ha incontrato la fede. «Non è mica per le mie prediche. Ma per la testimonianza silenziosa dei pazienti».
«Padre, guarda il mio dito!». Nel suo discorso il Papa fa dei nomi precisi. Santi. Giuseppe Moscati, Gianna Beretta Molla, Anna Schäffer, Jérôme Lejeune e Riccardo Pampuri, a cui la clinica è dedicata. «È bellissimo che ce li indichi. Il vero “prendersi cura” è venuto sempre da gente che viveva un innamoramento completo a Cristo. Non c’è un santo, anche se di clausura, che non abbia sentito il bisogno di offrire la propria malattia». Per te, cos’è la malattia? «È un terremoto. Che sveglia l’intelligenza e il cuore a riconoscere che c’è qualcosa di più grande». E quindi chiede una cura grande. Chiede che in riunione, passando in rassegna i malati, il medico non dica solo se uno mangia o va di corpo. «Ma come sta, tutto. E come stiamo noi davanti a lui». Nella clinica c’è la sala per la fisioterapia. Gli danno del matto: cosa serve la ginnastica a uno che sai che muore? «Vuol dire non aver capito che cos’è un ospedale. È importante che i medici comprendano cosa dice il Papa: l’approccio clinico non basta. È il rovescio di ciò che si pensa: la professionalità non è un progetto. Più guardo Cristo, più divento bravo a fare il mio lavoro, più cresce l’ardore di impegnarmi. E se posso pagare il fisioterapista perché il paziente mi dica: “Padre, guarda il mio dito!”, lo faccio».
Una cura grande. Nelle terapie, nella bellezza del luogo, nei gesti che scandiscono i giorni. La gente che va in clinica, anche solo di passaggio, è bloccata da una domanda: cosa c’è qui? Perché questa intensità nel vivere le cose? «Risveglia il bisogno d’infinito». Anche nei medici che, dopo anni, gli chiedono di poter fare la catechesi. «Questa è l’evangelizzazione e la fanno gli ammalati». Una volta, c’era in visita un amico dall’estero: «Quel giorno ero giù, perché pioveva». Un paziente, che non vedeva più e non poteva muoversi, dice: «Quando piove cresce l’erba fresca, le mucche la mangiano e noi beviamo il latte». Da quel momento, l’amico che lo accompagnava ha riaperto la propria domanda sulla fede, senza che nessuno gli chiedesse nulla.
«Propter salutem nostram, per noi e per la nostra salute discese dal Cielo», ricorda padre Aldo: «La salute. Non è una cosa escatologica. È adesso. Ci abbraccia tutti interi». Come continua Benedetto XVI: «Oggi aumenta la capacità di guarire fisicamente chi è malato, ma la scienza medica rischia di dimenticare la sua vocazione: servire ogni uomo e tutto l’uomo». E fa un richiamo: «Ora più che mai la nostra società ha bisogno di buoni samaritani, dal cuore generoso e dalle braccia spalancate a tutti».
L’energia che nasce. È facile pensare che solo dove sta padre Aldo, in quella clinica piena di grazie, ci sia la possibilità di vivere e lavorare così. Al centro è esposto il Santissimo, le giornate sono attraversate dalla preghiera, c’è la catechesi, e via dicendo. «La gente pensa che sono fortunato perché sono qui. Si possono pensare un sacco di cose, ma sono false. Chi non può vivere quello che vivo io? Ecco, appunto, il problema è l’io. Se coincido con Cristo, perché mi ha preso, ho mille, infiniti modi per annunciarLo. Ma l’io deve accadere, deve formarsi». Parla del cammino proposto da don Julián Carrón, di vivere intensamente la vita, come una chiamata dentro le circostanze. «Aiutarci a fare i conti con la realtà, piano piano, volendoci bene, è questo che toglie le illusioni e lascia posto ad un lavoro personale. Del medico. Del malato. Mio. Non dipende dal luogo in cui sei: dipende solo dall’energia che nasce da Cristo per cui vivi».
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