A young boy with shofar

DAI «DISCORSI» DI SAN BERNARDO, ABATE
Disc. «De aquaéductu»; Opera omnia, edit. Cisterc. 5 [1968] 282-283)
BISOGNA MEDITARE I MISTERI DELLA SALVEZZA
Il Santo che nascerà da te, sarà chiamato Figlio di Dio (cfr. Lc 1, 35), fonte della sapienza, Verbo del Padre nei cieli altissimi.
Il Verbo, o Vergine santa, si farà carne per mezzo tuo, e colui che dice: «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 10, 38) dirà anche: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo» (Gv 16, 28).
Dunque «In principio era il Verbo», cioè già scaturiva la fonte, ma ancora unicamente in se stessa, perché al principio «Il Verbo era presso di Dio» (Gv 1, 1), abitava la sua luce inaccessibile. Poi il Signore cominciò a formulare un piano: Io nutro progetti di pace e non di sventura (cfr. Ger 29, 11). Ma il progetto di Dio rimaneva presso di lui e noi non eravamo in grado di conoscerlo. Infatti: Chi conosce il pensiero del Signore e chi gli può essere consigliere? (cfr. Rm 11, 24). E allora il pensiero di pace si calò nell’opera di pace: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14); venne ad abitare particolarmente nei nostri cuori per mezzo della fede. Divenne oggetto del nostro ricordo, del nostro pensiero e della nostra stessa immaginazione.
Se egli non fosse venuto in mezzo a noi, che idea si sarebbe potuto fare di Dio l’uomo, se non quella di un idolo, frutto di fantasia?
Sarebbe rimasto incomprensibile e inaccessibile, invisibile e del tutto inimmaginabile. Invece ha voluto essere compreso, ha voluto essere veduto, ha voluto essere immaginato. Dirai: Dove e quando si rende a noi visibile? Appunto nel presepio, in grembo alla Vergine, mentre predica sulla montagna, mentre passa la notte in preghiera, mentre pende sulla croce e illividisce nella morte, oppure mentre, libero tra i morti, comanda sull’inferno, o anche quando risorge il terzo giorno e mostra agli apostoli le trafitture dei chiodi, quali segni di vittoria, e, finalmente, mentre sale al cielo sotto i loro sguardi.
Non è forse cosa giusta, pia e santa meditare tutti questi misteri? Quando la mia mente li pensa, vi trova Dio, vi sente colui che in tutto e per tutto è il mio Dio. E’ dunque vera sapienza fermarsi su di essi in contemplazione. E’ da spiriti illuminati riandarvi per colmare il proprio cuore del dolce ricordo
http://w2.vatican.va/content/osservatore-romano/it/comments/2008/documents/235q01b1.html
ALLA VIGILIA DEL KIPPÙR IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE (NEL 2015 IL 23 SETTEMBRE)
DI RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA
Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom haKippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, « il giorno » per eccellenza che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole. « Il giorno » cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale, quest’anno corrispondente alla sera dell’8 e al giorno del 9 ottobre 2008.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico. Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto. Di qui l’espressione e il concetto di « capro espiatorio ». Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché « in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore » (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno. La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità. La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà; letteralmente è il « ritorno » ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via. Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva. Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato. In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini. Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne. Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi. Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio. Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle. Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina. La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali). Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate, può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano. Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste. In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo l’1 gennaio quella della Circoncisione). Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi. I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria. Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.
( L’Osservatore Romano, 8 ottobre 2008)
VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO A CUBA, NEGLI STATI UNITI D’AMERICA
E VISITA ALLA SEDE DELL’ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE
(19-28 SETTEMBRE 2015)
CELEBRAZIONE DEI VESPRI CON SACERDOTI, CONSACRATI E SEMINARISTI
OMELIA DEL SANTO PADRE
Cattedrale, La Habana
Domenica, 20 settembre 2015
Parole pronunciate dal Santo Padre
Il Cardinale Jaime [Ortega y Alamino] ci ha parlato di povertà, e la sorella Yaileny [Suor Yaileny Ponce Torres, Figlia della Carità] ci ha parlato dei più piccoli: “Sono tutti bambini”. Io avevo pronta un’omelia da dire ora, in base ai testi biblici, ma quando parlano i profeti – e ogni sacerdote è profeta, ogni battezzato è profeta, ogni consacrato è profeta – è bene ascoltare loro. E dunque consegno l’omelia al Cardinale Jaime perché la faccia arrivare a voi e sia pubblicata. Poi la mediterete. E adesso parliamo un po’ su quello che hanno detto questi due profeti.
Il Cardinale Jaime ha dovuto pronunciare una parola molto scomoda, estremamente scomoda, che va anche controcorrente rispetto a tutta la struttura culturale, tra virgolette, del mondo. Ha detto: “povertà”. E l’ha ripetuta più volte. E penso che il Signore ha voluto che la ascoltassimo più volte e la accogliessimo nel cuore. Lo spirito mondano non la conosce, non la vuole, la nasconde, non per pudore, ma per disprezzo. E se deve peccare e offendere Dio perché non venga la povertà, lo fa. Lo spirito del mondo non ama la via del Figlio di Dio, che spogliò sé stesso, si fece povero, si fece nulla, si umiliò, per essere uno di noi.
La povertà che fece paura a quel ragazzo così generoso: aveva osservato tutti i comandamenti, e quando Gesù gli disse: “Ecco, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri”, si fece triste, ebbe paura della povertà. La povertà, cerchiamo sempre di sfuggirla, sia per cose ragionevoli, ma sto parlando di sfuggirla nel cuore. Saper amministrare i beni, è un dovere, perché i beni sono un dono di Dio, ma quando quei beni entrano nel cuore e incominciano a dirigere la tua vita, allora hai perso. Non sei più come Gesù. Hai la tua sicurezza dove l’aveva il giovane triste, quello che se ne andò rattristato. Per voi, sacerdoti, consacrati, consacrate, credo che può essere utile ciò che diceva sant’Ignazio – e questa non è propaganda pubblicitaria di famiglia! –, lui diceva che la povertà è il muro e la madre della vita consacrata. La madre perché genera più fiducia in Dio. E il muro perché la protegge da ogni mondanità. Quante anime distrutte! Anime generose, come quella del giovane intristito, che sono partiti bene e poi si sono attaccati a quella mondanità ricca, e sono finiti male. Vale a dire, mediocri. Sono finiti senza amore perché la ricchezza impoverisce, ma impoverisce male. Ci toglie il meglio che abbiamo, ci rende poveri dell’unica ricchezza che conta, per farci mettere la sicurezza in altre cose.
Lo spirito di povertà, lo spirito di spogliazione, lo spirito di lasciare tutto, per seguire Gesù. Questo lasciare tutto, non lo invento io. Ricorre più volte nel Vangelo. Nella chiamata dei primi che lasciarono le barche, le reti, e lo seguirono. Quelli che lasciarono tutto per seguire Gesù. Una volta mi raccontava un vecchio prete saggio, parlando di quando lo spirito di ricchezza, di mondanità ricca, entra nel cuore di un consacrato, di un sacerdote, di un vescovo, di un papa, di chiunque, diceva che quando uno incomincia ad accumulare denaro, e per assicurarsi il futuro, certo, allora il futuro non sta in Gesù, sta in una compagni di assicurazione di tipo spirituale, che io controllo. Dunque, quando, per esempio, una congregazione religiosa – mi diceva lui – incomincia ad accumulare denaro e a risparmiare, risparmiare, Dio è così buono che le manda un economo disastroso, che la manda in fallimento. Sono tra migliori benedizioni di Dio per la sua Chiesa, gli economi disastrosi, perché la rendono libera, la rendono povera. La nostra Santa Madre Chiesa è povera, Dio la vuole povera, come ha voluto povera la nostra Santa Madre Maria. Amate la povertà come una madre. E semplicemente vi suggerisco, se qualcuno di voi vuole farlo, di domandarvi: come va il mio spirito di povertà? Come va la mia spogliazione interiore? Credo che possa far bene alla nostra vita consacrata, alla nostra vita presbiterale. Dopo tutto, non dimentichiamoci che è la prima delle Beatitudini: “Beati i poveri in spirito”, quelli che non sono attaccati alla ricchezza, ai poteri di questo mondo.
E la sorella ci parlava degli ultimi, dei più piccoli che, anche se sono grandi, alla fine li trattiamo come bambini perché si presentano come bambini. “Il più piccolo”. Questa è un’espressione di Gesù. E sta nel protocollo sul quale saremo giudicati: “Quello che avete fatto al più piccolo di questi fratelli, l’avete fatto a me” (cfr Mt 25). Ci sono servizi pastorali che possono essere più gratificanti dal punto di vista umano, senza essere cattivi o mondani, ma quando uno cerca di dare preferenza interiore al più piccolo, al più abbandonato, al più malato, a quello che nessuno considera, che nessuno vuole, al più piccolo, e si mette al servizio del più piccolo, costui sta servendo Gesù nel modo più alto. Tu [si rivolge alla suora] sei stata mandata dove non volevi andare. E hai pianto. Hai pianto perché non ti piaceva, e questo non vuol dire che sei una suora piagnona, no. Dio ci liberi dalle suore piagnone! Che stanno sempre a lamentarsi… Questo non lo dico io, lo diceva santa Teresa, alle sue monache. Viene da lei. Guai a quella suora che va in giro tutto il giorno a lamentarsi che “mi hanno fatto un’ingiustizia”. Nel linguaggio castigliano dell’epoca diceva: “Guai alla suora che va dicendo: mi hanno trattato senza ragione”. Tu hai pianto perché eri giovane, avevi altre aspettative, pensavi forse che in una scuola potevi fare più cose, e che potevi organizzare un futuro per la gioventù… E ti hanno mandato lì: “Casa di Misericordia”, dove la tenerezza e la misericordia del Padre si fa più evidente, dove la tenerezza e la misericordia del Padre si fa carezza. Quante religiose, e quanti religiosi, bruciano – e ripeto il verbo: bruciano – la loro vita accarezzando “materiale” di scarto, accarezzando quelli che il mondo scarta, quelli che il mondo disprezza, che il mondo preferisce non ci siano; quello che il mondo oggi, con metodi di analisi nuovi che esistono, quando si prevede che può venire con una malattia degenerativa, si propone di mandarlo indietro, prima che nasca. E’ il più piccolo. E una ragazza giovane, piena di aspettative, incomincia la sua vita consacrata rendendo presente la tenerezza di Dio nella sua misericordia. A volte non lo capiscono, non lo sanno, ma com’è bello per Dio, e quanto bene può fare, per esempio, il sorriso di uno spastico, che non sa come farlo, o quando ti vogliono baciare e ti sbavano la faccia. E’ la tenerezza di Dio, è la misericordia di Dio. O quando sono arrabbiati e ti danno un colpo… E bruciare la mia vita così, con “materiale” di scarto agli occhi del mondo, questo non parla solamente di una persona; ci parla di Gesù, che, per pura misericordia del Padre, si fece nulla, si annientò, dice il testo della Lettera ai Filippesi, capitolo 2. Si fece nulla. E questa gente a cui tu dedichi la tua vita, imitano Gesù, non perché lo hanno voluto, ma perché il mondo li ha portati a questo. Sono nulla e li si nasconde, non li si mostra, o non li si visita. E se possibile, e se si arriva in tempo, li si manda indietro. Grazie per quello che fai, e a voi, grazie a tutte queste donne e a tante donne consacrate, al servizio di ciò che è inutile, perché non si può fare nessuna impresa, non si possono guadagnare soldi, non si può portare avanti assolutamente nulla di “costruttivo”, tra virgolette, con questi nostri fratelli, con i minori, con i più piccoli. Lì risplende Gesù. E lì risplende la mia scelta per Gesù. Grazie a te a tutti i consacrati e le consacrate che fanno questo.
“Padre, io non sono suora, io non mi curo di malati, io sono prete, e ho una parrocchia, o aiuto un parroco. Chi è il mio Gesù prediletto? Chi è il più piccolo? Chi è che mi mostra di più la misericordia del Padre? Dove lo posso trovare?”. Naturalmente, ritorno sempre al protocollo di Matteo 25. Lì trovate tutti: l’affamato, il carcerato, il malato… Lì potete trovarli. Ma c’è un posto privilegiato per il sacerdote dove si manifesta l’ultimo, il minimo, il più piccolo, ed è il confessionale. E lì, quando quell’uomo, o quella donna, ti mostra la sua miseria – attenzione!, che è la stessa che hai tu e da cui Dio ti ha salvato, per non farti arrivare fino a lì – quando ti mostra la sua miseria, per favore, non sgridarlo, non punirlo, non castigarlo. Se non hai peccato, tira la prima pietra, ma solo a questa condizione. Se no, pensa ai tuoi peccati. E pensa che tu puoi essere quella persona. E pensa che tu, potenzialmente, puoi arrivare ancora più in basso. E pensa che tu, in quel momento, hai un tesoro tra le mani, che è la misericordia del Padre. Per favore – ai sacerdoti – : non stancatevi di perdonare. Siate perdonatori. Non stancatevi di perdonare, come faceva Gesù. Non nascondetevi dietro paure o rigidità. Come questa suora, e tutte quelle che fanno il suo stesso lavoro, non perdono la calma quando trovano il malato sporco e messo male, ma lo servono, lo puliscono, lo curano, così voi, quando arriva il penitente, non essere maldisposto, non essere nevrotico, non cacciarlo dal confessionale, non sgridarlo. Gesù lo abbracciava. Gesù lo amava. Domani festeggiamo san Matteo. Come rubava quello! E poi, come tradiva il suo popolo! E dice il Vangelo che, la sera, Gesù andò a cena con lui e altri come lui. Sant’Ambrogio ha una frase che mi commuove molto: “Dove c’è misericordia, c’è lo spirito di Gesù. Dove c’è rigidità, ci sono solo i suoi ministri”.
Fratello sacerdote, fratello vescovo, non abbiate paura della misericordia. Lascia che scorra attraverso le tue mani e il tuo abbraccio di perdono, perché colui o colei che sta lì è il più piccolo. E perciò è Gesù.
Questo è quello che mi viene da dire dopo aver ascoltato questi due profeti. Il Signore ci conceda queste grazie che loro hanno seminato nei nostri cuori: povertà e misericordia. Perché lì c’è Gesù.
http://www.santiebeati.it/dettaglio/21550
SAN MATTEO APOSTOLO ED EVANGELISTA
21 SETTEMBRE
I SECOLO DOPO CRISTO
Matteo, chiamato anche Levi, viveva a Cafarnao ed era pubblicano, cioè esattore delle tasse. Seguì Gesù con grande entusiasmo, come ricorda San Luca, liberandosi dei beni terreni. Ed è Matteo che nel suo vangelo riporta le parole Gesù: »Quando tu dai elemosina, non deve sapere la tua sinistra quello che fa la destra, affinché la tua elemosina rimanga nel segreto… « . Dopo la Pentecoste egli scrisse il suo vangelo, rivolto agli Ebrei, per supplire, come dice Eusebio, alla sua assenza quando si recò presso altre genti. Il suo vangelo vuole prima di tutto dimostrare che Gesù è il Messia che realizza le promesse dell’ Antico Testamento, ed è caratterizzato da cinque importanti discorsi di Gesù sul regno di Dio. Probabilmente la sua morte fu naturale, anche se fonti poco attendibili lo vogliono martire di Etiopia.
Patronato: Banchieri, Contabili, Tasse
Etimologia: Matteo = uomo di Dio, dall’ebraico
Emblema: Angelo, Spada, Portamonete, Libro dei conti
Martirologio Romano: Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, che, detto Levi, chiamato da Gesù a seguirlo, lasciò l’ufficio di pubblicano o esattore delle imposte e, eletto tra gli Apostoli, scrisse un Vangelo, in cui si proclama che Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo, ha portato a compimento la promessa dell’Antico Testamento.
Non si capisce subito il disprezzo per i pubblicani, ai tempi di Gesù, nella sua terra: erano esattori di tasse, e non si detesta qualcuno soltanto perché lavora all’Intendenza di finanza. Ma gli ebrei, all’epoca, non pagavano le tasse a un loro Stato sovrano e libero, bensì agli occupanti Romani; devono finanziare chi li opprime. E guardano all’esattore come a un detestabile collaborazionista.
Matteo fa questo mestiere in Cafarnao di Galilea. Col suo banco lì all’aperto. Gesù lo vede poco dopo aver guarito un paralitico. Lo chiama. Lui si alza di colpo, lascia tutto e lo segue. Da quel momento cessano di esistere i tributi, le finanze, i Romani. Tutto cancellato da quella parola di Gesù: « Seguimi ».
Gli evangelisti Luca e Marco lo chiamano anche Levi, che potrebbe essere il suo secondo nome. Ma gli danno il nome di Matteo nella lista dei Dodici scelti da Gesù come suoi inviati: “Apostoli”. E con questo nome egli compare anche negli Atti degli Apostoli.
Pochissimo sappiamo della sua vita. Ma abbiamo il suo Vangelo, a lungo ritenuto il primo dei quattro testi canonici, in ordine di tempo. Ora gli studi mettono a quel posto il Vangelo di Marco: diversamente dagli altri tre, il testo di Matteo non è scritto in greco, ma in lingua “ebraica” o “paterna”, secondo gli scrittori antichi. E quasi sicuramente si tratta dell’aramaico, allora parlato in Palestina. Matteo ha voluto innanzitutto parlare a cristiani di origine ebraica. E ad essi è fondamentale presentare gli insegnamenti di Gesù come conferma e compimento della Legge mosaica.
Vediamo infatti – anzi, a volte pare proprio di ascoltarlo – che di continuo egli lega fatti, gesti, detti relativi a Gesù con richiami all’Antico Testamento, per far ben capire da dove egli viene e che cosa è venuto a realizzare. Partendo di qui, l’evangelista Matteo delinea poi gli eventi del grandioso futuro della comunità di Gesù, della Chiesa, del Regno che compirà le profezie, quando i popoli « vedranno il Figlio dell’Uomo venire sopra le nubi del cielo in grande potenza e gloria » (24,30).
Scritto in una lingua per pochi, il testo di Matteo diventa libro di tutti dopo la traduzione in greco. La Chiesa ne fa strumento di predicazione in ogni luogo, lo usa nella liturgia. Ma di lui, Matteo, sappiamo pochissimo. Viene citato per nome con gli altri Apostoli negli Atti (1,13) subito dopo l’Ascensione al cielo di Gesù. Ancora dagli Atti, Matteo risulta presente con gli altri Apostoli all’elezione di Mattia, che prende il posto di Giuda Iscariota. Ed è in piedi con gli altri undici, quando Pietro, nel giorno della Pentecoste, parla alla folla, annunciando che Gesù è « Signore e Cristo ». Poi, ha certamente predicato in Palestina, tra i suoi, ma ci sono ignote le vicende successive. La Chiesa lo onora come martire.
http://www.nostreradici.it/jrslm_simbolo_realta.htm
CARLO MARIA MARTINI – LA GERUSALEMME CELESTE E LA GERUSALEMME STORICA
La Gerusalemme celeste (Ap 21, 1-22.5)
Il momento di contrasto
Il nuovo ordine di cose
Alcuni simboli della città celeste
Il cristiano che legge l’Apocalisse
Conclusione
La Gerusalemme celeste e la Gerusalemme storica
La Gerusalemme celeste (Ap 21, 1-22, 5)
Siamo nella parte finale dell’Apocalisse, dedicata alla descrizione della Gerusalemme celeste, a cui seguirà la conclusione. Il nuovo ordine di cose, instaurato dalla morte e risurrezione di Cristo, è disegnato attraverso due grandi fasce di simboli.
Quelli della creazione e del paradiso di Genesi 1-2, dove si parla di « nuovo cielo », « nuova terra », « ogni cosa nuova ». Il profeta Isaia annunciava « una cosa nuova » (43,19), qui viene fatta « ogni cosa nuova », la nuova creazione. Al tema sono connessi i simboli del fiume nel paradiso, dell’acqua che sgorga, dell’albero che dà vita (cfr. Gen 2) e anche quelli della nuova città, descritta da Ezechiele dal capitolo 40 al 48 (risuonano pure passi del Deuteroisaia e di Zaccaria), che è senza tempio, meglio è tutta tempio, tutta dimora di Dio. Dunque, due fasce di simboli: della creazione e della restaurazione di Israele come nuova città.
Vorrei sottolineare tre momenti di questa presentazione: il momento di contrasto, il nuovo ordine di cose e i simboli più specifici della nuova città.
Il momento di contrasto
Il contrasto è evocato fin dall’inizio con le parole: » Allora io vidi » e, in seguito, con le parole: « E vidi poi venire dal cielo ». I Non si tratta però di una prima visione, perché fa parte di visioni descritte nei versetti precedenti (« vidi poi venire », « vidi ») e che annunciano la scomparsa di tutti gli elementi negativi della storia (cfr. Ap 20), riassunti nella morte e negli inferi. Tale scomparsa, annunciata poco prima, è ripresa nel nostro brano: scompariranno le lacrime, non ci sarà più morte né lutto né lamento ne affanno perché le cose di prima sono passate (21, 4 ); i vili, gli increduli, gli abietti, gli omicidi, gli immorali non entreranno nel nuovo ordine di cose (v. 8).
Viene quindi proclamato quel giudizio di Dio che è l’inizio del nuovo ordine di cose, giudizio formulato in base a due criteri: le opere compiute, registrate nel libro, e l’iniziativa salvifica divina espressa con l’immagine dell’iscrizione nel libro della vita.
Perciò i versetti immediatamente precedenti, richiamati in 21, 4.8 e anche in altri capitoli, presentano quale premessa della visione di Gerusalemme, della nuova città, lo sfondo della distruzione del male operata dalla croce di Cristo, distruzione del male che è frutto positivo della croce. La croce ha messo fuori gioco l’universo spirituale costituito dalla ribellione a Dio, per- mettendo la nascita di un ordine nuovo e di un nuovo universo di valori delineati a partire dall’inizio del capitolo 21.
Il nuovo ordine di cose
Il nuovo ordine di cose lo leggiamo in 21, 1-5, ed è presentato con le parole: « nuovo cielo e nuova terra » (« In principio Dio creò il cielo e la terra », Gen 1, 1). Un nuovo ordine spirituale e morale, nel quale siamo collocati. E la cosa nuova è anche la città santa, la nuova Gerusalemme, simbolo del nuovo ordine di grazia e di misericordia instaurato da Dio. La città discende dal cielo perché il nuovo ordine è puramente gratuito, non è opera di uomini, bensì di Dio che lo fa e lo dona.
È una città ed è pure una sposa adorna per il suo sposo, pronta per le nozze, bellissima, così come la sposa di cui parlava Ezechiele al capitolo 16, 8ss: vestita di ricami, calzata con pelli di tasso, cinto il capo di bisso, ricoperta di seta, adorna di gioielli. Così va immaginata questa sposa che nell’ Apocalisse è veramente e pienamente fedele.
E lo sposalizio, che fa parte dell’ordine nuovo, è l’alleanza richiamata al v. 3, dove è evocato Lv 26, 11 (« stabilirò la mia dimora in mezzo a voi »), insieme ad altri brani dell’Antico Testamento sull’alleanza, per dare questa visione complessiva: Dio dimorerà tra di loro, essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro.
Di fronte a tale visione, noi ci domandiamo: riguarda il presente o il futuro? Queste parole sono compiute?
Al v. 6 è scritto: « Ecco, sono compiute! ». Tuttavia si potrebbe pensare a un’anticipazione profetica, a un passato che riguarda il futuro.
In realtà, per il principio ermeneutico, io leggo qui molto più volentieri la descrizione di ciò che è compiuto nella morte e risurrezione di Gesù. Non quindi un ordine nuovo di cose che verrà, ma un ordine che è e che viene e nel quale tutti siamo già dentro.
Siamo già nell’alleanza, siamo già la nuova città che scende dal cielo, siamo già la sposa pronta per lo sposo, pur se non ancora in pienezza; fin da ora, nella passione e risurrezione di Cristo, tutto è compiuto e si compie in coloro che sono in lui.
Alcuni simboli della città celeste
I simboli di questo nuovo ordine di cose sono espressi soprattutto nella cosiddetta seconda descrizione della Gerusalemme celeste, che inizia al v. 9.
Sembra quasi di essere di fronte a un doppione, perché viene ripresentata la città che scende dal cielo; l’autore finale non se ne preoccupa, anzi, ritiene di dover ripetere le stesse cose proprio per farci penetrare nella coscienza che siamo in una realtà nuova instaurata dal mistero pasquale di Cristo.
Al v. 10 la santa città « che scende dal cielo, da Dio » è contemplata dal veggente mentre si trova su un monte grande e alto. Nei versetti successivi, sul simbolo base della città si sviluppano almeno cinque linee simboliche, continuamente riprese.
La prima è quella della luce, della gloria di Dio che irradia sulla città e la rende totalmente trasparente, colma della sua presenza, così da non aver più bisogno di un centro luminoso come il tempio: l’intera città è luce.
Il secondo elemento simbolico è il grande, alto muro, con le sue fondamenta, che dà le dimensioni della città.
Il terzo è quello delle dodici porte, con le loro scritte e i loro ornmenti.
Poi l’elemento del fiume, che attinge al racconto della Genesi.
Infine, gli alberi con i frutti e le foglie: l’albero della vita.
Mi limito a ripercorrere le prime due linee simboliche, nel desiderio di mostrare l’unità dell’insieme, l’unico messaggio che viene ripetutamente presentato.
La città, al v. 10, è dunque risplendente della gloria di Dio e il v. 11 commenta tale splendore, simile a quello di gemma preziosissima, quale pietra di diaspro cristallino.
Il tema della luce è ripreso al v. 18: la città è di oro puro, simile a terso cristallo; per questo (v. 23) non ha bisogno della luce del sole ne della luce della luna, dal momento che la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’agnello.
Al v. 24 la luce diviene il riferimento per tutta l’umanità: « Le nazioni cammineranno alla sua luce ».
Il nuovo ordine di cose nel quale siamo, il regno di Cristo che già si instaura, è splendore attraente della gloria del Padre e dell’agnello. È una realtà luminosa in cui vivere è bello perché dà sicurezza, respiro, chiarezza, gioia, e « non vidi alcun tempio in essa » (v. 22), perché il Signore Dio onnipotente e l’agnello so- no il suo tempio. La trasparenza di Dio è tale che Dio è percepibile in ogni luogo, lo si incontra ovunque. La conversione cristiana è propria di chi entra in questo nuovo modo di vedere le cose, di chi accoglie la rivelazione della gloria di Dio e si lascia illuminare dalla sua luce.
Il muro è descritto, al v. 12, come grande e alto. Al v. 14 si dice che « le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello ». Mura assai singolari, che danno alla città un’impensabile altezza, misurata con una canna d’oro; la città ha una forma strana, tutta simbolica, la forma di un quadrato dove la lunghezza è uguale all’altezza e alla larghezza. Si tratta di un cubo di oltre cinquecento chilometri di lato, e le mura hanno uno spessore di oltre sei chilometri. Dunque, un’ampiezza smisurata, un’estensione e un’altezza inimmaginabili per una città. E se ne dice poi la ricchezza incalcolabile: le mura sono costruite con diaspro, le fondamenta delle mura adornate di pietre preziose.
Contempliamo così una città capace di accoglienza senza limiti, una città che dà un agio e una sicurezza che non hanno paragone. In essa si è pienamente sicuri e ci si sente molto ricchi nella sfera divina, nell’essere in Cristo, in questa luce di Dio.
Se continuassimo la riflessione sugli altri simboli, ci accorgeremmo che ciascuno aggiunge qualcosa al significato della conversione cristiana e, mentre prelude alla piena manifestazione di Dio nel suo Regno – che è indescrivibile a parole -, ci invita già a chiederci se veramente abbiamo la coscienza di vivere in questa nuova realtà, se abbiamo la coscienza della bellezza, della ricchezza, della sicurezza, della luminosità, dell’apertura, della disponibilità della realtà nella quale siamo essendo in Cristo, essendo con lui nel Padre, nel mistero trinitario.
È interessante rileggere i versetti conclusivi della descrizione dei simboli, dove viene sottolineato l’effetto del nuovo ordine di cose instaurato dalla morte e risurrezione di Gesù: « Le nazioni cammineranno alla sua luce e ire della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. Non entrerà in essa nulla di impuro, ne chi commette abominio e falsità; ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello » (vv. 24-27).
La nuova Gerusalemme è il punto di riferimento che dà senso a tutta la storia umana, è il punto di arrivo di tutte le nazioni e di tutti i popoli, è la città ideale aperta e pronta a ricevere tutti, è la città che esclude ogni impurità e ogni falsità, che affratella nazioni e popoli amano amano che vengono immersi in questa pienezza luminosa che è la manifestazione di Dio, del suo amore senza limiti. Le misure della città sono alla dismisura dell’altezza, lunghezza, larghezza della carità di Cristo e superano ogni comprensione.
Il cristiano che legge l’Apocalisse
Per il cristiano che legge l’Apocalisse, ogni pagina dei capitoli 21 e 22 è un modo di dire il suo essere in Cristo, le ricchezze che fin da ora gli sono date quale primizia, anticipo, pregustazione di ciò che sarà definitivo e in parte già lo è. Possiamo chiederci come tale ricchezza tocca l’attuale Gerusalemme storica.
Chi ama questa Gerusalemme e tutte le città storiche che partecipano alle sue sofferenze, comprende la risposta alla domanda, anche se non è facile esprimerla in maniera razionale e logica. Provo comunque a farlo: la Gerusalemme attuale è attratta dalla forza dei simboli al di là di se stessa e quindi ha un suo destino; destino di cui è simbolo, destino da cui è attirata verso la pienezza alla quale richiama continuamente con il suo nome e con la sua storia. In altre parole, c’è una permanente tensione dialettica tra la Gerusalemme storica e la Gerusalemme celeste; l’una richiama l’altra e quella celeste attrae quella della storia e, con essa, attrae tutta la storia umana.
Conclusione
Domandiamoci a che cosa ci stimola la visione che abbiamo cercato di contemplare.
A me pare che stimoli anzitutto a scoprire la pienezza in cui siamo e a esserne grati a Dio: pienezza che è il cammino storico dell’umanità, che si rivela a noi quale cammino positivo, di senso, e non soltanto di pura attesa, ma cammino già di partecipazione alle ricchezze inestimabili, inesauribili di Cristo, come singoli, come gruppo, come città, come società e come umanità.
Se, con la grazia del Signore, con gli occhi della fede, ci sforziamo di scoprire la pienezza in cui siamo, dobbiamo lasciarci trascinare da questa dinamica storica. Dinamica che ci indica dove la storia va e ci aiuta a capire come anticiparla nel- la fraternità e nella giustizia, sperando e operando affinché, attraverso la vittoria del bene sul male, anzi traendo il bene dal male, la luce della Gerusalemme celeste irradi e dia gioia e sicurezza fin da ora a tante persone che camminano con noi.
Ancora, la visione che abbiamo cercato di contemplare ci stimola a coinvolgere la Gerusalemme storica, e tutte le città che soffrono delle sue sofferenze, in questo cammino che trascina il mondo verso la definitiva pienezza.
[Tratto da: Lettura ecumenica della Parola, 9-10 settembre 1994, in AA.VV. Gerusalemme patria di tutti, EDB, Bologna 1995]
http://ilfattorec.altervista.org/fccapitolo43.html
UMILTÀ
La santa umiltà confonde la superbia e tutti gli esseri umani di questo mondo e tutte le cose di questo mondo. San Francesco
E’ umiltà nelle parole, nelle frasi, nei discorsi. E’ umiltà negli atteggiamenti, nelle espressioni, nei pensieri, nei gesti, nelle azioni. E cosa vuol dire essere umili? Innanzi tutto significa non pensare di avere già la risposta pronta a questa domanda. Mi ricordo che sto comunicando con te. Questo è il primo atto di umiltà. Non c’è divisione, non c’è separazione, non c’è chi sta sopra e chi sta sotto, chi ha di più e chi ha di meno, chi sa già tutto e chi non sa niente. Riconosco che ho sbagliato, m’inchino a te per questo. Umiltà è un atto di riconoscimento: riconoscere i propri errori, i propri sbagli, i propri limiti, chiedere scusa, riparare un danno, dare la precedenza, chiedere consiglio, chiedere aiuto, inginocchiarsi, mettersi all’ultimo posto in una fila per prendere da mangiare, lasciare subito spazio e lasciar passare in un sentiero stretto. Umiltà è servire con gioia e senza remore, senza esitazioni, sempre. Perché esistono i lavori umili? Cos’hanno di speciale? Lavare i vetri a un semaforo, lavorare la terra, fare le pulizie o il cameriere, lo spazzino o il muratore sono azioni e lavori che molti non farebbero: perché? C’è umiltà in chi sostiene sempre di avere ragione, di sapere o di conoscere tutto? C’è umiltà in chi vuole vincere o prevalere a tutti i costi su chiunque altro in un discorso, in una conversazione, in un affare, in una decisione?Se non c’è umiltà non c’è amore. Se un ladro entrasse in casa tua, non fare resistenza, quello che cerca e chiede daglielo, e anche di più. Lui si interessa solo di cose materiali, che si possono ricomprare o riguadagnare: di certo non può portarsi via qualsiasi altra cosa intangibile. Se riesci, accoglilo da amico, stringigli la mano, auguragli ogni bene. Dietro di lui c’è comunque un cuore, un’anima, una sensibilità e così facendo probabilmente in qualche modo l’avrai aiutato molto di più che con le cose che si è preso. E’ un gesto d’amore difficile, lo so, è un gesto di umiltà che appare contro natura, perché non ci siamo abituati, perché spesso si reagisce con resistenza, rabbia, violenza, imitando comportamenti altrui in casi simili. Se siamo capaci di amore lo vediamo nei momenti di difficoltà, ed è lì che veniamo messi alla prova. Le imprecazioni, l’augurare il male, qualsiasi pensiero, parola o atto violento vanno nella direzione opposta e contraria a ciò che potremmo chiamare amore il quale non dovrebbe esserci soltanto quando è comodo, conveniente, direttamente e prontamente vantaggioso, facile da essere od attivare. E’ nelle situazioni più difficili e delicate che abbiamo la possibilità di alimentare le trasformazioni, o contribuire a diminuire le divisioni, i muri, le barriere, gli attriti, ogni forma di violenza gli uni con gli altri. E tutto questo nasce da un semplice quanto inizialmente difficile atto di umiltà: inchinarsi all’altro e tendergli la mano. Nella nostra vita ci sono varie occasioni per poter far questo: ad esempio quando si vorrebbe recuperare un’amicizia o un rapporto deteriorato e trasformatosi in gelido silenzio, rancore od indifferenza. Non ci sono muri di cemento armato, non c’è un muro di Berlino in mezzo: basta un semplice gesto di umiltà, una telefonata, una parola, un chiarimento, chiedere scusa, fare autocritica. E’ tanto difficile? Esigere di essere chiamato ingegnere, avvocato, giudice, onorevole, ha a che vedere con l’umiltà? Chi è umile si pone all’ultimo posto, chiede quasi di passare inosservato, di essere trasparente, invisibile, cammina per il mondo in punta di piedi, e teme persino di calpestare una formica. Spesso è pure silenzioso, non ha opinioni, non esprime giudizi, non si schiera, tende all’equilibrio. Non spreca energie, non chiede mai nulla, interagisce col mondo per il piacere di farlo, senza mai pensare ad alcun tornaconto. Come fa una persona a crescere senza voler cambiare? Non può perché la crescita implica un cambiamento. E’ impossibile. E’ come immaginarsi che un bambino, con la crescita rimanga identico sia nel corpo che nella mente. Non è per niente cresciuto. Allora come si fa a cambiare? Per cambiare serve l’umiltà. Umiltà è pure la disposizione verso il proprio cambiamento, è un abbandono della presunzione di non dover cambiare. Collegandoci con la teoria del caos, e con l’insegnamento di Eraclito, nel processo del divenire cambiamo continuamente, ci modifichiamo continuamente, in accordo con le leggi della natura. Se c’è rigidità, se ci sono orgoglio e presunzione, se c’è durezza nel cuore ed in tutti i sensi, se c’è resistenza, se c’è superbia, se c’è immobilità e fermezza estrema nelle proprie posizioni, il movimento, il cambiamento, la crescita, l’evoluzione non vengono agevolati. Il miglioramento nasce grazie alla nostra flessibilità, adattabilità, ricettività, sensibilità, elasticità, malleabilità, versatilità; in una parola la nostra crescita ed evoluzione è collegata alla nostra umiltà, e nell’umiltà siamo nell’amore. Quando c’è umiltà forgiamo continuamente il nostro meraviglioso attrattore strano, mentre nella rigidità e nella superbia tendiamo al ciclo limite e al punto fisso. L’umiltà è quel segno di forza che ci permette di danzare nel mondo senza mai competere con nessuno, e per mezzo del quale diventiamo noi stessi altamente riconosciuti. Si chiude il circolo: da umiltà come atto di riconoscimento, ad ottenere un riconoscimento inaspettato ed eccelso per questa nostra qualità, se siamo in grado di farla nostra. Chiaramente non è mirata al riconoscimento, ma esso giunge naturale, perché tutto alla fine, ritorna. E nell’umiltà non ci vergogniamo di mostrarci come siamo, con tutta la nostra fragilità e debolezza. Andiamo per il mondo in punta di piedi, e senza vergogna. E nell’umiltà siamo sempre nuovi, nasciamo nuovi ogni giorno, ad ogni istante, dimentichi delle nostre opere e delle nostre azioni e delle nostre conquiste. Nell’umiltà torniamo quindi continuamente bambini, non sappiamo nulla, e ci accostiamo prudentemente al mondo, con gli occhi pieni di stupore, curiosità e meraviglia. Ecco perché i bambini sono disarmanti: perché nella loro sincerità, nella loro freschezza, nella loro genuinità, nella loro spontaneità, nella loro immediatezza, nella loro semplicità, nella loro innocenza, sono estremamente umili (magari senza saperlo, perché tutto sorge naturale). Nell’umiltà c’è la predisposizione ad imparare sempre, nella scuola della vita, anche se avessimo cent’anni o un bagaglio enorme di esperienza alle spalle. Nell’umiltà quindi non c’è l’esercizio di alcun potere (anche se fosse disponibile), non c’è alcun abuso o atto di superiorità: semplicemente si danza per il mondo in puro spirito di servizio ed amore, con un senso di gratitudine immenso, silenzioso o manifesto, per tutto ciò che ci circonda. L’umiltà non può nascere che dal cuore, e se dovessimo disegnarla a pennello non può essere altro, come un cuore sano, che uno splendido meraviglioso attrattore « strano », estremamente malleabile, flessibile, adattativo, mutevole ad ogni perturbazione o modificazione, ma conservativo, senza mai perdere la sua caoticità e complessità, in caso la perseveranza e la costanza di atteggiamento e comportamento vi si accompagnino. Perché Francesco dice che la semplicità e l’umiltà confondono? Forse intuiva già la ri-scoperta della teoria dei quanti e della teoria del caos, perché esattamente così è la nostra prima impressione quando ci troviamo davanti ai fenomeni sub-atomici, o ad un attrattore caotico: essi confondono. Confondono tutte le nostre false certezze, tutte le presunte verità acquisite, confonde tutta la sapienza dell’uomo, che non è per nulla sapienza divina, è ben lontana dall’esserlo. La teoria del caos è intrisa di umiltà, perché giunge in punta di piedi a darci qualche frammento od intuizione di verità con la v minuscola, verità locali, che possano soddisfare la nostra limitata mente umana e umana comprensione, ben conscia che non si può andare oltre. Essa fa un bagno di umiltà a se stessa e a tutti coloro che volessero abbracciarla. E allo stesso tempo confonde i superbi ed i sapienti. La semplicità e la complessità sono così strettamente legate, sono due facce della stessa medaglia, e l’umiltà, volendo personificarla, neppure se ne cura. La sapienza è dell’umile, che neppure sa di averla. Non è sua, non se ne appropria. Nel caso se ne appropriasse, perderebbe l’umiltà. E’ paradossale, ma è così. Inoltrandoci e comprendendo profondamente teoria dei quanti e teoria del caos arriviamo ad imbatterci in una moltitudine di paradossi, in una moltitudine di koan, e a quel punto che facciamo? Lasciamo perdere la mente, i ragionamenti, la logica, la scienza, Euclide, i pensieri e le parole. E’ meglio farci prendere per mano, e farci guidare. Da chi? Da che cosa? Ognuno trovi da sé la sua risposta e il suo cammino.
S: Non trovo nulla da aggiungere od obiettare; per quanta riguarda la Semeiotica Biofisica Quantistica e l’Amore, vorrei dire che essa spiega come nella realtà non-locale tutti siamo una realtà unica, ed il tutto contiene le singole parti e viceversa: certo, ognuno è « Individuata Substantia Rationabilis Natura » (Anicio Manlio Severino Boezio), ma immerso in una EI che ci tiene uniti in una sola realtà, mediante la componente onda fluttuante nell’Universo.
20 SETTEMBRE 2015 | 25A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO B | OMELIA
Per cominciare
« Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti », dice Gesù agli apostoli, in cerca di posti di prestigio e che ancora non comprendono le parole di Gesù. Poi, quasi a sorpresa, propone loro di accogliere la vita come l’accoglie un bambino e aggiunge: « Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me ».
La parola di Dio
Sapienza 2,12.17-20. Contro il giusto si accaniscono i superficiali, gli empi, gli edonisti, disposti a tormentarlo e addirittura a condannarlo a una morte infame. Ma il giusto è nelle mani di Dio: sarà Dio a dire l’ultima parola e il soccorso gli verrà.
Giacomo 3,16-4,3. Continua la lettera di Giacomo, concreto come sempre. « Dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni », dice, perché è da qui che nascono le cattive azioni, le liti, le guerre.
Marco 9,30-37. Ancora una volta Gesù fa riferimento alla sua passione, morte e risurrezione. Ma gli apostoli non capiscono. Anzi, lungo la strada discutono su chi tra di loro occuperà i posti di maggior prestigio nel futuro regno predicato da Gesù.
Riflettere…
o Il libro della Sapienza nasce in ambiente greco, dove gli ebrei rischiavano di subire il fascino della cultura pagana ed edonistica. Preoccupato per il pericolo di subire una vera e propria contaminazione, l’autore mette sulla bocca degli empi proposte di vita inaccettabili per un vero ebreo. Particolarmente significativi i versetti che precedono il testo che ci viene proposto oggi: « Dicono gli empi fra loro sragionando: « La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati… Venite dunque e godiamo dei beni presenti, gustiamo delle creature come nel tempo della giovinezza! Saziamoci di vino pregiato e di profumi, nessuno di noi sia escluso dalle nostre dissolutezze. Lasciamo dappertutto i segni del nostro piacere, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. Spadroneggiamo sul giusto, che è povero, non risparmiamo le vedove, né abbiamo rispetto per la canizie di un vecchio attempato. La nostra forza sia legge della giustizia, perché la debolezza risulta inutile »" (Sap 2,1-11 passim).
o Come sempre il testo della prima lettura si collega al vangelo, dove Gesù parla di se stesso proprio come il giusto che viene perseguitato, condannato e messo a morte come un infame.
o Per la seconda volta Gesù ritorna nel vangelo di Marco sulla passione e morte che lo aspetta. Solo domenica scorsa ricordavamo Pietro che reagiva a queste parole e veniva rimproverato: « Tu non pensi secondo Dio ». Nello stesso vangelo di Marco Gesù parlerà ancora una terza volta della sua Pasqua. Sono in viaggio verso Gerusalemme, Gesù cammina davanti a tutti, i discepoli lo seguono, ma alcuni hanno paura. Gesù li prende in disparte e li prepara con grande realismo a ciò che lo aspetta: « Il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà » (Mc 10,33-34).
o Gesù parla dunque di questi argomenti, ma gli apostoli pensano a tutt’altro. E si domandano per via chi tra di loro « è il più grande ». Essi vivono in una società in cui il fariseismo ha messo radici: i titoli onorifici hanno grande importanza, si dà la caccia alle cariche e ai primi posti… La questione dei posti di onore coinvolgeva regolarmente il quotidiano di tutti: a tavola, nelle sinagoghe, per strada, nelle assemblee.
o Su questi argomenti Gesù interverrà più volte (cf Mt 23,5-7). E in questa circostanza si siede, assumendo la posizione del rabbino che dà lezione, e dice loro le parole che difficilmente adesso possono comprendere, ma che non dimenticheranno: « Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti ». Se le ricorderanno così bene, che verranno riportate nei vangeli, con sfumature diverse, per altre sei volte: « Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato » (Mt 23,11-12). Fino a proporre se stesso come modello: « Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27).
o In questo episodio Gesù dà il suo insegnamento accompagnando le sue parole con un fatto a sorpresa, alla maniera dei profeti dell’antico testamento. Chiama un bambino, uno a caso tra quelli che gironzolavano lì attorno, e lo mette in mezzo al gruppo degli apostoli.
o Davanti a quel bambino si sentono imbarazzati e anche un po’ buffi quegli uomini fatti, che lentamente stanno prendendo coscienza della propria dignità e dei propri compiti. Ma il contrasto serve bene a Gesù per trasmettere un messaggio accompagnandolo con una immagine di particolare plasticità. Gesù, posando la sua mano sulla spalla di quel bambino, dice: « Se ci tenete tanto a diventare grandi agli occhi di Dio e a occupare i primi posti nel regno, dovete diventare come questo bambino ».
o Gesù non dice agli apostoli che devono ripercorrere all’indietro i loro anni: chiede a loro di cambiare dentro, di operare una conversione, di acquistare la mentalità senza calcoli dei bambini, di abbandonare quel desiderio di superare gli altri che li sta prendendo: non amare di farsi chiamare « rabbi », « padri » o « guide » (cf Mt 23,8-11), non voler vivere di ambizione, non cercare di mettersi a un gradino più alto rispetto agli altri…
o Il bambino è anche uno che dipende docilmente e spesso interamente dagli altri. Anche da questo punto di vista diventa un modello per i discepoli, perché essi nel loro rapporto con Dio devono acquistare questa dipendenza docile e spontanea, che li fa vivere lasciandosi condurre per mano da lui.
o Gesù conclude le sue parole dicendo che chi accoglie un bambino per amor suo accoglie lui in persona. Questo immedesimarsi di Gesù nel bambino, ribadisce ancora una volta l’efficacia del modello proposto: il bambino, proprio perché indifeso, docile e incapace di ambizione, diventa una bella immagine di Gesù: egli che pur essendo Dio si è fatto piccolo, umile, per incontrare l’uomo, affinché nessuno avesse paura di lui.
Attualizzare
* Qual è la persona più importante della nostra città? E di tutta l’Italia? E del mondo? Le risposte si sprecano. È la televisione che lo stabilisce, sono i giornali, le riviste. Sarà il sindaco, un dirigente industriale, un cantante famoso, un giocatore di calcio, una velina… Insomma, uno che conta secondo l’opinione pubblica.
* Qual è l’opinione di Gesù al riguardo? Chi è la persona più importante secondo lui? La risposta ci viene nel modo più chiaro dalla parola di Dio di quest’oggi.
* Siamo in Galilea, Gesù è in viaggio verso Gerusalemme. A Cafarnao si confida con gli apostoli. Li ha scelti lui come amici, li tratta da amici. Non può nascondere loro il termine della sua vita, l’atroce esperienza della croce, la sua Pasqua. Una prima volta Pietro si è ribellato alle parole di Gesù. Questa volta invece tace, come gli altri. Non capiscono. Eppure l’antico testamento è zeppo di citazioni che presentano il messia come un « servo sofferente ». La prima lettura, tratta dalla Sapienza, ne è un esempio. Si parla dell’ebreo giusto, la cui vita è di rimprovero per i malvagi. E allora congiurano di ucciderlo, e questa sua morte è una sfida a Dio, perché se davvero è giusto verrà a salvarlo.
* Gli apostoli non capiscono e discutono di tutt’altro. Essi aspettano che Gesù dia inizio al suo regno. Sono in viaggio verso Gerusalemme e lì si aspettano un ministero o qualcosa del genere. Il dialogo con Gesù ha qualcosa di buffo e di umiliante.
* Gesù domanda: « Di che cosa stavate discutendo per la strada? ». Gli apostoli tacciono, si vergognano. Perché discutevano tra loro chi fosse il più importante. Insomma, gli apostoli sono persone come noi, come la maggior parte della gente di ieri e di oggi. Di che cosa parliamo noi? Quali sono i nostri pensieri, i nostri progetti? Non assomigliamo forse e parecchio a ciò che scrive Giacomo: « Siete invidiosi, pieni di desideri e non riuscite a ottenere; combattete, uccidete e fate guerra! »?
* L’ambizione può essere un sentimento giusto e legittimo se ci mette in condizione di servire meglio i fratelli. Altrimenti è fonte di guai, di gelosia, di avidità (seconda lettura). Tanto più in un apostolo, in un vescovo, in un prete, in un cristiano. Le comunità cristiane lungo i secoli non hanno dato sempre buon esempio. Nella chiesa, chi occupa i primi posti deve lasciare ogni desiderio di grandezza, non deve usarla come trampolino di lancio per raggiungere posizioni di potere, contare di più e dominare sugli altri.
* Anche nella società « non si deve avere paura di piegarci per lavare i piedi del mondo. La chiesa deve giocare come serva, non come riserva del mondo. La chiesa non vuole mai fare il braccio di ferro con il mondo… perché se mena vanto della propria bravura, tristi tempi verranno » (mons. Tonino Bello). I cristiani « entrano nel mondo non con la forza delle armi, il prestigio della finanza o le macchinazioni della politica, ma con lo spirito di colui che è « venuto a servire »" (Gianfranco Ravasi). aPer questo sono tantissimi tra i cristiani coloro che a ogni livello si sono presentati al mondo come modelli di umiltà: papa Giovanni, papa Luciani, san Francesco, don Bosco, Piergiorgio Frassati, tanti altri cristiani anonimi che sono vissuti nella disponibilità, nella semplicità, senza ambizioni e calcoli.
* Chi è il più grande? Chi è il più importante? Nel passo parallelo di Matteo, Gesù prende un bambino, lo pone in mezzo e dice: « In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli » (Mt 18,3-5).
* Oggi i bambini sono vezzeggiati, coccolati, viziati, al centro delle attenzioni di nonni e di parenti. Al tempo di Gesù invece erano tra coloro che non contavano nulla nella società. Ma Gesù si identifica con loro: « Chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me ».
* Gesù nella sua vita non ha cercato per sé cariche pubbliche e posti di prestigio, né si è lasciato impressionare dai titoli onorifici di chi gli stava davanti, dalla loro esperienza, dagli anni e dai capelli bianchi: guardava ogni uomo negli occhi senza alcuna timidezza, gli leggeva sin nel fondo i pensieri e le intenzioni.
aNon si deve quindi confondere il dovere di diventare bambini e di farsi piccoli come un invito alla timidezza, a vivere da « imbranati », incapaci di responsabilità. Non si tratta di ridiventare o di rimanere bambini, di operare cioè un processo involutivo nella propria vita, ma di « diventare » bambini. Cioè di porsi questo obiettivo come oggetto di conquista, come un cammino di conversione verso un modo di vivere più vero, libero, meno complicato.
* Il bambino si fida, non teme « imbrogli », non fa calcoli, non si domanda se e quanto ci guadagnerà. La virtù della « prudenza » è invece un difetto proprio di chi ha già vissuto ed è diventato vecchio, di chi ha raggiunto l’immobilità della sapienza. aDiventare bambini è un invito a dimenticare quel che si è fatto e si è sofferto, non chiudersi in se stessi con risentimento o incupirsi per le amarezze trangugiate. Ogni giorno il bambino si apre con una disponibilità sempre fresca per le nuove esperienze.
* Farsi il cuore, la mente, gli occhi di un bambino diventa realmente una conquista; ed è vissuta indubbiamente in modo più consapevole e pieno proprio da chi più ha vissuto, si è donato, ha sofferto.
* Nella chiesa in ogni tempo i bambini hanno avuto accoglienza, rispetto, venerazione. Alcuni santi sociali si sono distinti proprio per aver dedicato l’intera loro vita ai piccoli. Talvolta qualcuno, anche tra i cristiani, guarda con sufficienza a chi come Gesù ama e si prende cura dei bambini. Invece proprio perché « piccoli », essi sono spesso indifesi, oggetto di strumentalizzazioni, incapaci di ribattere, di far riconoscere i propri diritti di persone. Non a caso il vangelo ci ricorda ancora oggi che chi tra noi accoglie i più piccoli è come se accogliesse lo stesso Gesù, equiparando questo servizio pastorale a quello dei predicatori del vangelo e dei profeti.
San Francesco o un ricco sceicco?
« Mi incontrai un giorno con una scuola media per un botta e risposta spontaneo che svelasse ciò che quegli adolescenti pensavano della vita, della fede, di tutto. Erano ragazzi e ragazze che nulla facevano per nascondere il loro culto del benessere. Forse erano figli di persone importanti. Il dialogo si avviò con difficoltà anche perché i ragazzi non sapevano cosa chiedere a un vescovo, per di più a un vescovo che stava sempre con i poveri, amava i poveri e anche lui se la passava da « povero Cristo ». Tentai allora di avviare un dialogo e a bruciapelo feci questa domanda: « Chi vorreste essere nella vita quando sarete grandi? ». In coro fecero il nome di una persona ricca e importante. Credendo di non essere stato capito formulai in altra maniera la domanda: « Ammettiamo che voi desideriate veramente la vostra felicità, la felicità dei figli di Dio: vorreste essere come san Francesco, che da ricco si fece povero? O come uno sceicco d’Arabia, che da povero diviene ricchissimo? ». E anche questa volta la risposta fu fulminea: « Lo sceicco »" (mons. Antonio Riboldi).
Fonte autorizzata : Umberto DE VANNA