Archive pour le 30 septembre, 2015

St. Jerome in His Study (1480), by Domenico Ghirlandaio.

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https://en.wikipedia.org/wiki/Jerome

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San Girolamo (o Gerolamo) Sacerdote e dottore della Chiesa – 30 settembre

http://www.santiebeati.it/dettaglio/24650

San Girolamo (o Gerolamo) Sacerdote e dottore della Chiesa

30 settembre

Stridone (confine tra Dalmazia e Pannonia), ca. 347 – Betlemme, 420

Fece studi e enciclopedici ma, portato all’ascetismo, si ritirò nel deserto presso Antiochia, vivendo in penitenza. Divenuto sacerdote a patto di conservare la propria indipendenza come monaco, iniziò un’intensa attività letteraria. A Roma collaborò con papa Damaso, e, alla sua morte, tornò a Gerusalemme dove partecipò a numerose controversie per la fede, fondando poco lontano dalla Chiesa della Natività, il monastero in cui morì. Di carattere focoso, soprattutto nei suoi scritti, non fu un mistico e provocò consensi o polemiche, fustigando vizi e ipocrisie. Scrittore infaticabile, grande erudito e ottimo traduttore, a lui si deve la Volgata in latino della Bibbia, a cui aggiunse dei commenti, ancora oggi importanti come quelli sui libri dei Profeti.

Patronato: Archeologi, Bibliotecari, Studiosi
Etimologia: Girolamo = di nome sacro, dal greco
Emblema: Cappello da cardinale, Leone

Martirologio Romano: Memoria di san Girolamo, sacerdote e dottore della Chiesa: nato in Dalmazia, nell’odierna Croazia, uomo di grande cultura letteraria, compì a Roma tutti gli studi e qui fu battezzato; rapito poi dal fascino di una vita di contemplazione, abbracciò la vita ascetica e, recatosi in Oriente, fu ordinato sacerdote. Tornato a Roma, divenne segretario di papa Damaso e, stabilitosi poi a Betlemme di Giuda, si ritirò a vita monastica. Fu dottore insigne nel tradurre e spiegare le Sacre Scritture e fu partecipe in modo mirabile delle varie necessità della Chiesa. Giunto infine a un’età avanzata, riposò in pace.
San Girolamo è un Padre della Chiesa che ha posto al centro della sua vita la Bibbia: l’ha tradotta nella lingua latina, l’ha commentata nelle sue opere, e soprattutto si è impegnato a viverla concretamente nella sua lunga esistenza terrena, nonostante il ben noto carattere difficile e focoso ricevuto dalla natura.
Girolamo nacque a Stridone verso il 347 da una famiglia cristiana, che gli assicurò un’accurata formazione, inviandolo anche a Roma a perfezionare i suoi studi. Da giovane sentì l’attrattiva della vita mondana (cfr Ep. 22,7), ma prevalse in lui il desiderio e l’interesse per la religione cristiana. Ricevuto il battesimo verso il 366, si orientò alla vita ascetica e, recatosi ad Aquileia, si inserì in un gruppo di ferventi cristiani, da lui definito quasi «un coro di beati» (Chron. Ad ann. 374) riunito attorno al Vescovo Valeriano. Partì poi per l’Oriente e visse da eremita nel deserto di Calcide, a sud di Aleppo (cfr Ep. 14,10), dedicandosi seriamente agli studi. Perfezionò la sua conoscenza del greco, iniziò lo studio dell’ebraico (cfr Ep. 125,12), trascrisse codici e opere patristiche (cfr Ep. 5,2). La meditazione, la solitudine, il contatto con la Parola di Dio fecero maturare la sua sensibilità cristiana. Sentì più pungente il peso dei trascorsi giovanili (cfr Ep. 22,7), e avvertì vivamente il contrasto tra mentalità pagana e vita cristiana: un contrasto reso celebre dalla drammatica e vivace « visione », della quale egli ci ha lasciato il racconto. In essa gli sembrò di essere flagellato al cospetto di Dio, perché «ciceroniano e non cristiano» (cfr Ep. 22,30).

Nel 382 si trasferì a Roma: qui il Papa Damaso, conoscendo la sua fama di asceta e la sua competenza di studioso, lo assunse come segretario e consigliere; lo incoraggiò a intraprendere una nuova traduzione latina dei testi biblici per motivi pastorali e culturali. Alcune persone dell’aristocrazia romana, soprattutto nobildonne come Paola, Marcella, Asella, Lea ed altre, desiderose di impegnarsi sulla via della perfezione cristiana e di approfondire la loro conoscenza della Parola di Dio, lo scelsero come loro guida spirituale e maestro nell’approccio metodico ai testi sacri. Queste nobildonne impararono anche il greco e l’ebraico.

Dopo la morte di Papa Damaso, Girolamo lasciò Roma nel 385 e intraprese un pellegrinaggio, dapprima in Terra Santa, silenziosa testimone della vita terrena di Cristo, poi in Egitto, terra di elezione di molti monaci (cfr Contra Rufinum 3,22; Ep. 108,6-14). Nel 386 si fermò a Betlemme, dove, per la generosità della nobildonna Paola, furono costruiti un monastero maschile, uno femminile e un ospizio per i pellegrini che si recavano in Terra Santa, «pensando che Maria e Giuseppe non avevano trovato dove sostare» (Ep. 108,14). A Betlemme restò fino alla morte, continuando a svolgere un’intensa attività: commentò la Parola di Dio; difese la fede, opponendosi vigorosamente a varie eresie; esortò i monaci alla perfezione; insegnò la cultura classica e cristiana a giovani allievi; accolse con animo pastorale i pellegrini che visitavano la Terra Santa. Si spense nella sua cella, vicino alla grotta della Natività, il 30 settembre 419/420.

La preparazione letteraria e la vasta erudizione consentirono a Girolamo la revisione e la traduzione di molti testi biblici: un prezioso lavoro per la Chiesa latina e per la cultura occidentale. Sulla base dei testi originali in greco e in ebraico e grazie al confronto con precedenti versioni, egli attuò la revisione dei quattro Vangeli in lingua latina, poi del Salterio e di gran parte dell’Antico Testamento. Tenendo conto dell’originale ebraico e greco, dei Settanta, la classica versione greca dell’Antico Testamento risalente al tempo precristiano, e delle precedenti versioni latine, Girolamo, affiancato poi da altri collaboratori, poté offrire una traduzione migliore: essa costituisce la cosiddetta « Vulgata », il testo « ufficiale » della Chiesa latina, che è stato riconosciuto come tale dal Concilio di Trento e che, dopo la recente revisione, rimane il testo « ufficiale » della Chiesa di lingua latina. E’ interessante rilevare i criteri a cui il grande biblista si attenne nella sua opera di traduttore. Li rivela egli stesso quando afferma di rispettare perfino l’ordine delle parole delle Sacre Scritture, perché in esse, dice, « anche l’ordine delle parole è un mistero » (Ep. 57,5), cioè una rivelazione. Ribadisce inoltre la necessità di ricorrere ai testi originali: «Qualora sorgesse una discussione tra i Latini sul Nuovo Testamento, per le lezioni discordanti dei manoscritti, ricorriamo all’originale, cioè al testo greco, in cui è stato scritto il Nuovo Patto. Allo stesso modo per l’Antico Testamento, se vi sono divergenze tra i testi greci e latini, ci appelliamo al testo originale, l’ebraico; così tutto quello che scaturisce dalla sorgente, lo possiamo ritrovare nei ruscelli» (Ep. 106,2). Girolamo, inoltre, commentò anche parecchi testi biblici. Per lui i commentari devono offrire molteplici opinioni, «in modo che il lettore avveduto, dopo aver letto le diverse spiegazioni e dopo aver conosciuto molteplici pareri – da accettare o da respingere –, giudichi quale sia il più attendibile e, come un esperto cambiavalute, rifiuti la moneta falsa» (Contra Rufinum 1,16).

Confutò con energia e vivacità gli eretici che contestavano la tradizione e la fede della Chiesa. Dimostrò anche l’importanza e la validità della letteratura cristiana, divenuta una vera cultura ormai degna di essere messa confronto con quella classica: lo fece componendo il De viris illustribus, un’opera in cui Girolamo presenta le biografie di oltre un centinaio di autori cristiani. Scrisse pure biografie di monaci, illustrando accanto ad altri itinerari spirituali anche l’ideale monastico; inoltre tradusse varie opere di autori greci. Infine nell’importante Epistolario, un capolavoro della letteratura latina, Girolamo emerge con le sue caratteristiche di uomo colto, di asceta e di guida delle anime.

Che cosa possiamo imparare noi da San Girolamo? Mi sembra soprattutto questo: amare la Parola di Dio nella Sacra Scrittura. Dice San Girolamo: « Ignorare le Scritture è ignorare Cristo ». Perciò è importante che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura. Questo nostro dialogo con essa deve sempre avere due dimensioni: da una parte, dev’essere un dialogo realmente personale, perché Dio parla con ognuno di noi tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio ciascuno. Dobbiamo leggere la Sacra Scrittura non come parola del passato, ma come Parola di Dio che si rivolge anche a noi e cercare di capire che cosa il Signore voglia dire a noi. Ma per non cadere nell’individualismo dobbiamo tener presente che la Parola di Dio ci è data proprio per costruire comunione, per unirci nella verità nel nostro cammino verso Dio. Quindi essa, pur essendo sempre una Parola personale, è anche una Parola che costruisce comunità, che costruisce la Chiesa. Perciò dobbiamo leggerla in comunione con la Chiesa viva. Il luogo privilegiato della lettura e dell’ascolto della Parola di Dio è la liturgia, nella quale, celebrando la Parola e rendendo presente nel Sacramento il Corpo di Cristo, attualizziamo la Parola nella nostra vita e la rendiamo presente tra noi. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola di Dio trascende i tempi. Le opinioni umane vengono e vanno. Quanto è oggi modernissimo, domani sarà vecchissimo. La Parola di Dio, invece, è Parola di vita eterna, porta in sé l’eternità, ciò che vale per sempre. Portando in noi la Parola di Dio, portiamo dunque in noi l’eterno, la vita eterna.

E così concludo con una parola di San Girolamo a San Paolino di Nola. In essa il grande Esegeta esprime proprio questa realtà, che cioè nella Parola di Dio riceviamo l’eternità, la vita eterna. Dice San Girolamo: «Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità la cui consistenza persisterà anche nel cielo» (Ep. 53,10).

Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza generale 14 Novembre 2007)

 

Con quest’uomo intrattabile hanno un debito enorme la cultura e i cristiani di tutti i tempi. Ha litigato con sprovveduti, dotti, santi e peccatori; fu ammirato e detestato. Ma rimane un benefattore delle intelligenze e la Chiesa lo venera come uno dei suoi padri più grandi. Nato da famiglia ricca, riceve il battesimo a Roma, dove va a studiare. Studierà per tutta la vita, viaggiando dall’Europa all’Oriente con la sua biblioteca di classici antichi, sui quali si è formato. Nel 375, dopo una malattia, Gerolamo passa alla Bibbia, con passione crescente. Studia il greco ad Antiochia; poi, nella solitudine della Calcide (confini della Siria), si dedica all’ebraico. Riceve il sacerdozio ad Antiochia nel 379 e nel 382 è a Roma. Qui, papa Damaso I lo incarica di rivedere il testo di una diffusa versione latina della Scrittura, detta Itala, realizzata non sull’originale ebraico, bensì sulla versione greca detta dei Settanta. A Roma fa anche da guida spirituale a un gruppo di donne della nobiltà. E intanto scaglia attacchi durissimi a ecclesiastici indegni (un avido prelato riceve da lui il nome “Grasso Cappone”).
Alla morte di Damaso I (384), va in Palestina con la famiglia della nobile Paola. Vive in un monastero a Betlemme, scrivendo testi storici, dottrinali, educativi e corrispondendo con gli amici di Roma con immutata veemenza. Perché così è fatto. E poi perché, francamente, troppi ipocriti e furbi inquinano ora la Chiesa, dopo che l’imperatore Teodosio (ca. 346-395) ha fatto del cristianesimo la religione di Stato, penalizzando gli altri culti.
Intanto prosegue il lavoro sulla Bibbia secondo l’incarico di Damaso I. Ma, strada facendo, lo trasforma in un’impresa mai tentata. Sente che per avvicinare l’uomo alla Parola di Dio bisogna andare alla fonte. E così, per la prima volta, traduce direttamente in latino dall’originale ebraico i testi protocanonici dell’Antico Testamento. Lavora sulla pagina e anche sul terreno, come dirà: « Mi sono studiato di percorrere questa provincia (la Giudea) in compagnia di dotti ebrei ». Rivede poi il testo dei Vangeli sui manoscritti greci più antichi e altri libri del Nuovo Testamento. Gli ci vorrebbe più tempo per rifinire e perfezionare l’enorme lavoro. Ma, così come egli lo consegna ai cristiani, esso sarà accolto e usato da tutta la Chiesa: nella Bibbia di tutti, Vulgata, di cui le sue versioni e revisioni sono parte preponderante, la fede è presentata come nessuno aveva fatto prima dell’impetuoso Gerolamo.
E impetuoso rimane, continuando nelle polemiche dottrinali con l’irruenza di sempre, perfino con sant’Agostino, che invece gli risponde con grande amabilità. I suoi difetti restano, e la grandezza della sua opera pure. Gli ultimi suoi anni sono rattristati dalla morte di molti amici, e dal sacco di Roma compiuto da Alarico nel 410: un evento che angoscia la sua vecchiaia.

Autore: Domenico Agasso 

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LA BIBBIA NELLA VITA DEL CRISTIANO

http://digilander.libero.it/rinnovamento/documenti/cate_009.htm

LA BIBBIA NELLA VITA DEL CRISTIANO

« Per conoscere la vera identità di Cristo, occorre che i cristiani, tornino con rinnovato interesse alla Bibbia » (Tertio millennio adveniente, 40).
Alla Bibbia non ci si può accostare con un qualsiasi tipo di lettura, magari quello adatto per un romanzo o per un trattato scientifico. E questo per diverse ragioni. La Bibbia non è stata scritta da un solo autore, ma è nata dalla vita millenaria di un popolo; e non è un solo libro, ma la biblioteca religiosa di quel popolo. In essa c’è dunque una molteplicità di voci e di esperienze, ed è inevitabile che a prima vista se ne ricavi una impressione di frammentarietà e persino di caos, di incoerenza e di contraddizioni, e che tutto ciò scoraggi dal proseguirne la lettura.
Se la Bibbia testimonia e attua l’incontro del Padre con i suoi figli (cf. Dei Verbum, 21), allora è necessario che conosciamo e percorriamo la stessa via su cui Dio ci viene incontro. La Chiesa, che ha il senso di Dio e dunque delle Scritture divine, propone un percorso: indica i passi giusti da fare; ricorda che esso è fatto di conoscenza, preghiera ed esperienza; suggerisce vie, forme, luoghi e modi privilegiati in cui questo incontro può avvenire.
Scopo dell’incontro con la Bibbia è rafforzare la fede, nutrire la preghiera. Dare luce alla vita dei credenti. Il conseguimento di questi obiettivi non è però automatico né istintivo: dipende dalla corretta comprensione del testo.
Il Padre incontra i suoi figli non per dare notizie sul passato, ma per annunciare qualcosa che li riguarda, che tratta di loro. È una logica intrinseca alla fede, per cui lo Spirito del Signore rende la sua parola contemporanea ad ogni uomo capace di interpellarlo.
In concreto questo processo interpretativo richiede dal lettore che si accosta alla Bibbia tre convinzioni:
non basta riconoscere la verità di un testo: occorre saperne verificare il significato e il valore per la vita; in altre parole, attualizzare è indispensabile;
ciò esige un accostamento tanto interessato, attento e appassionato, quanto aperto e leale nell’ascolto, senza pregiudizi ideologici;
per un credente il processo ermeneutico ha il suo compimento non nel puro sapere su Dio o sui valori, ma nel riconoscere che ciò che il testo comunica è una parola per lui oggi, da accogliere nella fede, comprendendola nel grande progetto di Dio grazie alla mediazione della Chiesa.
Per la fede l’incontro con la Bibbia non conduce solo a vedere dei frammenti su Dio, ma a vedere Dio in tutti i frammenti. Questa lettura della Bibbia viene chiamata lettura « spirituale » o cristiana », perché avviene nella luce dello Spirito del Signore morto e risorto, cioè nel nuovo contesto della storia della salvezza rivelato dalla Pasqua di Gesù.
L’esperienza ci dice che varie sono le vie con cui noi possiamo accostarci al testo sacro. Vi è la via personale e quella di gruppo, di un’intera comunità. Si possono distinguere diverse forme di accostamento: quelle all’interno di un’azione ecclesiale, come la liturgia e la catechesi, e quelle dirette, come la « lectio divina » e il gruppo biblico.
Quella liturgica è la lettura che la Chiesa nella storia millenaria non ha mai cessato un solo giorno di fare, con una frequenza almeno settimanale. È questa lettura che con più urgenza è necessario imparare a svolgere correttamente e fruttuosamente. La prima cosa da dire al riguardo è che, quando si legge la Bibbia nella liturgia non si studia, ma si prega, si nutrono la propria fede e la propria vita di discepoli del Signore. È celebrazione della parola di Dio. Lo studio dei testi biblici proclamati nella liturgia va dunque fatto prima, come preparazione, o dopo come approfondimento, perché la preghiera e la celebrazione liturgica siano più consapevoli e più ricche.
Complementare alla preghiera liturgica è la preghiera personale e, allo stesso modo, la lettura personale della Bibbia è complementare a quella liturgica, perché la prepara o perché la prolunga. Senza preghiera e senza lettura biblica personale la liturgia rischia di ridursi a rito formalistico, perché ci si presenta ad essa senza la conveniente ricchezza interiore.
L’antico metodo della lectio divina torna ad essere praticato da singoli, gruppi e famiglie religiose. La lectio divina è sorta nella vita monastica medioevale e guida alla lettura biblica personale in quattro successivi momenti: la lettura (lectio), la meditazione (meditatio), la preghiera (oratio), e la contemplazione (contemplazio).
Il testo deve essere letto e riletto in vista della sua comprensione e della familiarizzazione con il suo contenuto e i suoi protagonisti.

LECTIO: Eb 4, 12 – 13
« Infatti la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto. »
Con Paolo e Giovanni, l’Autore della Lettera agli Ebrei (su suggerimento di Lutero si ritiene si tratti di Apollo, il giudeo di Alessandria che fu convertito a Corinto: At 18,24-28; 1 Cor 1,12; 3,4-6 ecc.), è uno dei tre grandi teologi del N.T. Nella lettera agli Ebrei (una data anteriore al 70 viene ritenuta probabile dagli studiosi), si è di fronte ad una teologia nel suo farsi, si vede l’autore costruire la propria argomentazione sul significato della morte di Cristo. Due le linee forza di questo scritto: 1) il sacerdozio di Cristo; 2) la risposta pratica e serrata a chi sta per lasciare la fede cristiana. L’effetto del grande capitolo sulla fede (c.11), che culmina nell’esortazione di 12,1-2, è irresistibile. Ad individuare l’architettura letteraria di questo « discorso di esortazione », Albert Vanhoye ne ha tracciato una mappa minuziosa, simile ad una cattedrale gotica, in cui a ogni guglia corrisponde un’altra dal lato opposto, le cui navate sono sorrette da filari di colonne parallele, in cui la centralità dell’abside (Cristo) crea infinite simmetrie verticali ed orizzontali (Parola, Sacerdozio, Vita cristiana ecc. ).
La via della perfezione: nei primi 2 capitoli della lettera l’autore ha esposto i principi fondamentali del suo comprendere la persona e l’opera di Cristo. Ciò costituisce il fondamento della sua esposizione dell’efficacia perdurante della morte espiatrice di Gesù, che per i suoi lettori rappresenta il punto cruciale da capire. Ma prima di arrivare qui, nei cap. 3 e 4 egli spiega lo scopo della vita cristiana, che consiste nella partecipazione al compimento del disegno salvifico divino. Questi 2 capitoli allora da un lato offrono il contesto più ampio di che cosa significhi essere discepoli di Cristo, entro cui è sorto il problema dei destinatari dello scritto, dall’altro consentono di rendere più forte il rimprovero ai lettori, rimprovero che emerge fortissimo in 4,11-13 e sottintende che i lettori siano « soggetti a cadere nello stesso tipo di disubbidienza » degli israeliti nel deserto. Ma ciò rende solo più attinente l’argomento cristologico secondo il quale « Cristo è in grado di venire in aiuto a quelli che vengono tentati » (2,18). La Lettera è alle prese con un delicato problema pastorale: i lettori (molti esegeti ritengono si tratti di giudeo-cristiani o addirittura di sacerdoti ebrei convertiti al cristianesimo: At 6,7), non sono dei disubbidienti pervicaci e insolenti, ma hanno la coscienza turbata, sono pronti a chiedere aiuto altrove (comunità giudaica) per capire e vivere la loro fede. I capitoli 3° e 4° dunque mettono in primo piano l’efficacia della fede e della fedeltà, che si basa sulla Parola di Dio, definita viva, trasmessa prima dai Profeti e in ultimo dal Figlio di Dio. Essa è necessaria per entrare nel « riposo sabbatico del popolo di Dio » (4,9). È questa Parola che giudica i sentimenti del cuore umano nella sua ricerca del « riposo » divino. Il ricorso al Sal 95 nei cap. 3-4 mostra il popolo peregrinante nel deserto come il termine medio tra i giudei e i cristiani del tempo dell’autore. Ritornare alla pratica giudaica equivale a vivere come se la nuova alleanza non fosse ancora portata all’esistenza.
Ebrei non incomincia come una lettera, ma come una predica, appartiene dunque al genere del discorso, non a quello della lettera. In questa esortazione contro la mancanza di fede (3,7-4,14) si colloca il nostro passo sulla forza della Parola. Essa deve essere ascoltata, perché è conoscenza di Cristo stesso, il « fedele », colui che è « degno di fede » (2,17; 3,2). Tutti debbono dunque ascoltarla (lunga esortazione: 3,7-4,14).
Siamo, dice Gianfranco Ravasi a proposito di Ebrei, in presenza di un albero che è compatto nella sua radice-tronco-chioma, ma rivela infinite ramificazioni. Ci accontenteremo di selezionarne una soltanto: la radice della Parola divina, che il « nostro predicatore » continuamente fa emergere nei suoi tessuti di citazioni bibliche e che trova la sua formula proprio in queste espressioni di 4,12. Essa è la radice che permette di capire il tronco del discorso del nostro autore, Cristo, grandioso nel suo incedere sacerdotale, iniziatore e perfezionatore della fede. La Parola è il ponte tra l’umanità e Cristo. Questa parola vivente, efficace, è distinta dal Verbo di Dio di cui Ebrei afferma che giudica i pensieri e le intenzioni.

MEDITATIO:
La Parola di Dio
Dio si è rivelato attraverso la parola predicata o proclamata da uomini scelti da lui, e attraverso la parola scritta perché possa risuonare in ogni tempo come fosse la prima volta. Il cristiano alla mensa della vita si nutre della parola e del corpo di Cristo per entrare nella Bibbia, abitarvi, meditarla, pregarla.
Il credente quando legge la sacra Scrittura deve saper andare al di là delle parole che legge per concentrare l’attenzione su Dio Padre che gli sta parlando per mezzo del suo Figlio e nello Spirito Santo. Questo atteggiamento di fede fa della lettura cristiana della Bibbia un autentico dialogo spirituale.
Quando leggiamo o ascoltiamo la lettura dei libri sacri dobbiamo renderci conto che stiamo davvero ascoltando la Parola del Dio vivente. Se non prestiamo attenzione a questo aspetto del nostro contatto della Bibbia rischiamo di perderci o in uno studio o in una riflessione erudita sull’interpretazione dei testi biblici, collezionando molte conoscenze senza tuttavia alimentare la nostra fede.
La nostra lettura deve essere assidua e frequente perché « l’ignoranza delle Scritture è ignoranza del Cristo.

È viva ed efficace
La Parola è sempre provocazione, è spada, è pioggia fecondatrice, è rivelazione.
La misura della nostra autentica comprensione ed accettazione della Parola è visibile soprattutto nella forza di provocazione che genera spingendoci a scoprire ciò che manca, nella nostra vita, per essere veri cristiani.
Noi preferiremmo una Parola spenta, decorativa, oggetto semplicemente di studio e di possesso: una Parola che rimanga depositata in superficie. Invece è una Parola « viva, efficace ». È lei che ci studia! Noi siamo portati a esaminarla. Invece è lei che ci scruta.
Quando meditiamo la Parola a volte sembra che vogliamo cullarla per addormentarla, controllarla, tenerla a bada, renderla praticamente inoffensiva; ma non è lecito neutralizzare quella Parola che è « più tagliente di ogni spada a doppio taglio ».
Dobbiamo, invece che addormentarla, chiederle di svegliarci; permetterle di penetrare nelle profondità del nostro essere, « fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giuntura e delle midolla », consentirle di giudicare il nostro interno, esplorare i nostri limiti e le nostre miserie, mettere a nudo le nostre ipocrisie e contraddizioni, farci prendere coscienza delle nostre responsabilità.
La Parola non ci abbellisce, ma ci spoglia impietosamente; non possiamo servirci della Parola per camuffarci, essa, al contrario, ha il compito di metterci allo scoperto, di esporci.

ORATIO:
C. Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino.
T. La tua Parola – hai detto – è lampada ai miei passi e luce al mio sentiero.
C. Il seme seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi da frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta.
T. La tua Parola – hai detto – è seme che fruttifica quando il cuore è un terreno libero e buono.
C. Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca.
T. La tua Parola – hai detto – è come pioggia o neve che irrora e fa germogliare e non ritorna al Padre senza compiere quello per cui fu mandata.
C. Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio.
T. La tua Parola – hai detto – è spada affilata che penetra nel profondo e lacera per guarire.

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